domenica 8 maggio 2011

IL TRONO VOLANTE DI RE SALOMONE ED IL VOLO MAGICO DEL DEMONE ASMODEO


di Giuseppe Acerbi

Ho trattato del Trono Volante in riferimento alla Lingua Aviaria.  Ivi estendo l’argomento al fine di comprovare che è esistita una via spirituale templare parallela a quella ismailita.  Codesta duplice Via viene esemplificata dal poeta templare Wolfram (XII-XIII sec.) nel suo celebre poema cavalleresco (il Parzival, composto all’incirca fra il 1200 ed il 1210) mediante la raffigurazione dei due fratelli Parzival e Feirefiz, figli d’uno stesso padre ma di madre diversa.  E per questo, di carnagione chiara l’uno e scura l’altro.  Che un parallelismo fra le 2 Vie sia realmente esistito in sede storica e sul piano simbolico, entrambe rifacendosi alla sapienza salomonica di cui in un modo o nell’altro si sono dichiarate medievalmente eredi, è cosa che va data per scontato essendo un tema generale alla portata di chiunque.  Il mio compito semmai sarà quello d’analizzare in dettaglio, da un punto di vista comparativo, le tappe seguite dalle due confraternite nei loro rispettivi cammini verso la realizzazione interiore.  Vale a dire i varî gradi iniziatici di perfezionamento onde giungere alla meta finale, la quale in ogni sodalizio che si rispetti non può che rappresentare un’approssimazione verso l’Assoluto.  Per la via ismailita abbiamo a nostra disposizione il poema ornitomorfico di Attar, scritto in realtà in chiave sufica, ma sicuramente influenzato – come già a suo tempo ho altrove sommariamente spiegato – dalla corrente sapienziale di Avicenna; piú difficile, invece, è delineare i tratti precisi della via templare.  L’unico punto in comune fra di esse, base di partenza per la mia ricerca, è allora per forza di cose l’aspetto leggendario di Salomone.  Rammenterò che nel Manteqo ’t-teir di Farîd ud-Dîn ‘Attâr (XIII sec.?) il celebre sapiente ricorre indirettamente tramite l’Upupa, sottintendendo un celebre richiamo coranico legato alla Regina di Saba, a sua volta derivato da fonte haggadica; mentre nel piú o meno coevo Parzival di Von Eschenbach fra Re Salomone e i 2 fratellastri, figli dell’angioino Re Gahmuret (in cui acutamente l’Albrile ha intravisto una vaga allusione all’iranico Re Gayûmart) c’è in apparenza uno iato.  Lo iato è colmato tuttavia dalla constatazione che una delle 2 madri, Belakane, altri non è che la Regina di Saba; ovvero, la Bilquis-Makeda della tradizione islamica ed etiope.  Tanto che Feirefiz è stato identificato da G.Hancock ne Il mistero del Sacro Graal… (Cap.IV, pp. 80-4) all’erede che costei avrebbe avuto da Salomone, Menelik I.  Tra questi e gli uccelli iniziatici del poema persiano esiste un rapporto emblematico di fratellanza spirituale.  Si può addirittura affermare che la figura della non meno celebre regina venga posta dal cavaliere tedesco tardomedievale quale capostipite femminile della linea ismailita, ossia elevata ad immagine di certa sapienza esoterica islamica, sebbene l’esoterismo islamico non si limiti al solo ismailismo.  Ciò permette quindi d’equiparare Gahmuret – i.e. l’aureo Gayumart, appellativo pahlavico del Primo Uomo, dipinto nell’iconografia irano-islamica sulla Montagna Edenica – a Salomone, simbolo di naturale perfezione e dunque omologabile  a sua volta all’Adamo biblico.  Tanto piú che nella stessa tradizione neopersiana Salomone è sostituito talora da Jamšîd, l’antico Yima Kšaêta, var. di Gayumart.  Non a caso perciò al dire di Wolfram l’angioino vestiva l’oro dei grifoni, custodi dei tesori del Caucaso.  A dimostrazione della veridicità della summenzionata ipotesi troviamo un passo nell’opera di Von Eschenbach (i. 56) ove la stirpe fatata di Gahmuret, discesa da Mazadan e Feimurgan (antenato intermedio appare fra gli altri l’arturiano Utepandragun), viene esplicitamente ricondotta alla leggendaria Terdelaschoye.  In Feimurgan è riconoscibile Morgan-la Fée, nella



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Terdelaschoye la Terre-de-la Joie, l’Eden, evidentemente; sebbene l’A. inverta i due nomi, forse volutamente.   Che è d’altronde Herzeloyde, la madre “pura da falsità” di Parzival, se non un’ennesima personificazione?  In tal caso di certa sapienza esoterica cristiana, anch’essa come quella corrispondente islamica, di chiara derivazione salomonica.  Si potrebbe aggiungere che nemmeno il templarismo esaurisce infatti l’esoterismo cristiano.  Codeste dentificazioni chiariscono comunque sufficientemente il quadro al fine di poter scoprire un altro importante tassello del mosaico, che ora comincia meglio a delinearsi.  Se Salomone rappresenta come ho postulato il punto di contatto fra i guardiani cristiani e musulmani del suo tempio (templari ed ismailiti), ossia metaforicamente fra Parzival ed il piú anziano Feirefiz, sarà d’uopo esaminare il folclore letterario ed iconografico che lo riguarda in ambito ebraico ed islamico.  Forse sarà possibile trovare la risoluzione del problema.  Purtroppo nella Bibbia (1 Re- vii. 6) vi è solo un vago cenno al Trono come luogo di Giustizia.  Le raffigurazioni plastiche che lo ritraggono, maggiormente significative d’altronde rispetto alle equivalermi del testo biblico, si dividono in 2 categorie generali: immagini rispecchianti un simbolismo esagonale (islamiche) oppure duodenario (cristiane).  Nelle prime il Trono ha appunto forma esagonale e compare in alto il Sîmorgh, o l’Aquila, quand’è Volante.  In questo caso è affiancata l’Upupa.  Si può intravedere nei due emblemi ornitomorfici o nei due troni – con e senza ali – un doppio riferimento alla Maestria e alla Gran Maestria, vale a dire al duplice Paradiso, Celeste e Terrestre.  Ciò testimonia la stretta relazione fra i due uccelli anche al di fuori del mondo coranico, come mostra il folclore ebraico.  Tant’è che qualcuno riconosce nell’uccello salomonico del T.Sheni un’upupa crestata, anziché un gallo rosso.  Nelle Legends of the Bible, raccolte da L.Ginzberg, si narra del resto della grande Aquila Bianca sulle cui ali Salomone avrebbe solcato i cieli sopra Israele. Altri (E.Frankel, The Classic Tales: 4,000 Years of Jewish Lore) racconta che una volta mentre il monarca vagava in cielo sul gigantesco uccello ebbe un colpo di sole, ma delle upupe lo protessero.  Riconoscente egli cercò di sdebitarsi assegnando al Re delle Upupe una corona d’oro, che fu poi costretto per via dei cacciatori a tramutare in corona di piume, la cresta di cui va ora fiero il volatile.  Le immagini cristiane col Trono fiancheggiato a scalinata da 12 Leoni solari, di valenza zodiacale (cfr. Poynter), ritraggono Salomone alle prese colla Regina di Saba.  Altre raffigurazioni del Trono, non tradizionali, sono invece esclusivamente opera di fantasia. Ad ogni modo, 4 Segni sono particolarmente associati al sovrano fra il Tempio e la Reggia: il Toro, il Leone, l’Angelo e l’Aquila.  Il rimando indiscutibile è al Tetramorfo di Ezechiele, successivamente riproposto dagli Evangelisti.  La differenza fra simbolismo esagonale e duodenario, se ne deduce, sembra semplicemente riguardare il carattere delle rappresentazioni, ontologico nel primo caso e cosmologico nel secondo.  L’Islam pare privilegiare le une, la cristianità le altre.  Per questo è cosí difficile tracciare uno schema della via templare.  Il che non implica la sua inesistenza.



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Le 2 Vie parallele

Tornando a Wolfram, bisogna innanzitutto tener conto della primogenitura di Feirefiz rispetto a Parsifal.  Non è un fattore secondario.  Se Feirefiz fosse semplicemente un simbolo della cavalleria ismailita, non vi sarebbe ragione valida per la sua maggiore anzianità.  I fratelli, coerentemente, sarebbero due gemelli.  L’Islam, d’altra parte, non ha preceduto il Cristianesimo.  Nell’iniziazione ismailita, indirettamente deducibile attraverso una serie di scritti trasversali al mondo arabo-persiano che va da Avicenna ad Attar, si può constatare come la vicenda iniziatica parta dall’emblema tipico del Salomone coranico, l’Upupa, per giungere mediante un volo oltremondano suddiviso in 7 tappe fondamentali sino ai confini del Vuoto, simboleggiato nella letteratura neopersiana dal Castello del Re degli Uccelli, il Simorgh.  Non a caso l’Upupa in Qûr.- xxviii. 22-3 è associata alla Regina di Saba, quasi per  tracciare segretamente un legame fra il culto etiope precristiano dell’Arca dell’Alleanza e quello islamico del Trono di Salomone.  Visto che il Simorgh, cioè l’Aquila Reale, incarnava in origine Salomone stesso a mo’ di Zeus nel folclore ebraico; e gli Uccelli ( in origine probabilmente 12 anziché 30 ) non eran altro che un contrassegno di discendenza noaica dei Soli archetipali dello Zodiaco, ai quali venivano associati gli Angeli nella tradizione giudaico-cristiana ed islamica, anziché gli Dei dei culti pagani.  Operativamente è probabile si trattasse di livelli varî di contemplazione interiore.  Coloro che ingenuamente pretendono d’esaurire la tematica graaliana spiegandola quale mera eredità d’un celtismo rinnovato in chiave di monachesimo cistercense commettono un grave errore di sottovalutazione.  Benché tarda, la letteratura tedesca tardomedievale spiega in maniera precisa tal punto.  L’approssimazione al Graal è in realtà duplice.  Da un lato vi è l’Arca dell’Alleanza (contrassegnata dalla Colomba, richiamo ineludibile all’Arca di Noè) a costituire la meta realizzativa, dall’altro il Sacro Calice contenente la Bevanda d’Immortalità.  Che i cristiani identificano al Sangue di Cristo, gli zoroastriani all’Haoma e gli indú al Soma, tutti aventi peraltro un riferimento lunare all’asterismo d’Orione.  Non c’è conflitto fra le due interpretazioni e nemmeno fra le loro applicazioni secondarie, giacché sia l’Arca che il Calice possono fungere da doppio ricettacolo, maschile (cielo-seme) e femminile (terra-ventre).  Entrambi i sêmeia offrono infatti un rimando tanto al macrocosmo quanto al microcosmo, in rapporto vicendevole al sole ed al cuore.  In Wolfram e nel suo continuatore Albrecht è chiaramente il primo tipo di simbologia (salomonica) a prevalere, a differenza che in De Boron, Chretién e gli altri provenzali.  Questi ultimi sono viceversa soggiogati dalla visione cristica.  Ciò indica che, indipendentemente da ogni riduttiva cronologia storicistica delle opere letterarie di genere graaliano, è stata l’Arca (Solare) del Prete Gianni a fungere da prototipo della Coppa (Lunare) del Re Pescatore.  Sebbene alla Coppa – specialmente la Coppa raddoppiata, equivalente al Sigillo di Salomone – sia inerente un riferimento shamanico-titanico piú vetusto, tant’è che è attribuita a Seth nella Queste; per cui è da ritenere che la versione sethita del Graal come Celeste Calice (il Cielo quale contenitore calendariale dei 7 Soli) abbia anticipato in Età Argentea quella del Graal come noaica Arca Zodiacale (raffigurazione dei 13 Soli = 12+1), propria dell’Età Bronzea.  Si può anzi supporre una fase ancor precedente alle 3 



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indicate relativa all’Età Aurea, in cui la Coppa fungeva da semplice contrassegno uranico-paradisiaco, senza riferimenti solar-planetarî o solar-zodiacali.  Vedi in tal senso la Coppa dell’Abbondanza di Bran o l’equipollente Vaso della Saggezza di Brahmâ.  Se nei primi testi graaliani prevale la Coppa in senso lunar-zodiacale, non è perché sia originaria; ma, per il fatto che si rifà all’inizio dell’Età Ferrea.  In quest’epoca, appena trascorsa (è terminata nel 2000 d.C.), la Coppa ci riporta all’Avallon, la Terra degli Arî; che non è quella Iperborea, bensí un Nord generico, seppure per trasposizione possa riferirsi al Paradiso Terrestre.  Ecco la ragione per cui solo le ultime 2 fasi del ciclo sono ricordate dal tema graalico.  I Celti stessi – anche per ragioni etniche – si richiamavano in tal guisa ad una doppia Terra di Giovinezza, una occidentale (noaico-atlantidea) e l’altra nordica (nimrodico-avallonica).  Insomma, le piú prossime ai tempi ultimi.  Non perché non ve ne fossero state altre.



La Via Templare e i Misteri Graalici

Orbene, se la supposizione della presenza in campo rosacruciano-templare d’un analogo iter a quello sufico-ismailita è giusta, sarà necessario rinvenire nel mondo giudaico-cristiano un percorso spirituale di tipo gnostico-cabalistico equivalente a quello islamico.  Tale cammino effettivamente esiste, almeno in teoria, anche se non è mai stato preso in considerazione allo scopo.  Per imbatterci in esso dobbiamo rifarci alle leggende popolari su Salomone.  Una di queste narra, secondo quant’è confermato dall’iconografia miniata del Trono Volante, che il sapiente sovrano era capace di volare sul suo tappeto di seta verde tenendo i Demoni a destra e gli Uomini a sinistra oltreché gli Uccelli al di sopra a mo’ di baldacchino.  Ciò è una chiara allusione alla Triplice Via iniziatica: la Via di Destra (dei Demoni, cioè gli Antenati), la Via di Centro (degli Uccelli, insomma gli Angeli o per meglio dire degli Eroi), la Via di Sinistra (degli Uomini, in senso comune).  Secondo una diversa leggenda tratta da una fonte testuale recente, ossia un midrâš perduto, v’è qualcosa di ancor piú concreto al riguardo.  Egli affidò un giorno ad Asmodeo il compito di discendere agl’Inferi, affinché glieli potesse al ritorno sommariamente descrivere.  Guardacaso l’iter benché solitario, con allusione evidente col singolo iniziando, si compie in 7 distinti tratti.  Proprio come avviene in Attar per i seguaci dell’Upupa.  Ciò è implicito nella storia dell’Uomo Bicipite tratto fuori dalla Terra, che genera 7 figli ed altro non è ontologicamente se non il Rebis alchemico, la cui androginia corrisponde a quella originaria d’Adamo.  Si può allora definire questo d’Asmodeo un Volo Shamanico, non meno del Volo Magico dell’Upupa.  Dando quindi per scontata l’affinità delle 2 Vie in questione, non occorre un raffronto tappa per tappa, che sarebbero ad ogni modo analoghe ma non omologhe.  Qualcuno potrebbe obiettare che anche dopo aver dimostrato l’affinità fra le 2 Vie considerate, non si sarà ipso facto provato che codesta via giudaica sia stata praticata nell’Occidente cristiano.  In fondo, potrebbe semplicemente essersi trattato d’un parallelo cosmologico.  Il che tuttavia è da escludere.  La storia 



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del demone dimostra apertamente che non abbiamo a che fare con una descrizione creativa, cioè di carattere cosmogonico-discendente; è una storia perfettiva, ossia di carattere ascendente-realizzativo. L’esatto parallelismo fra la catabasi asmodea e l’itinerario ornitomorfico è dimostrato dal fatto che Asmodeo non percorre 7 gironi infernali, ma non meno dei 30 Uccelli ascende ad una meta superiore, il Bicipite essendo un’immagine dell’Androgine Primevo preso ad immagine del Macrantropo.  Ciò chiarito, rimane da smentire un’ultima obiezione.  Le tappe della discesa infernale e della risalita terrena o celeste da parte del Capo dei Demoni, assimilabile a Lucifero, in che modo possono essere attribuite ai Templari?  Quali prove esistono di codesta pretesa attribuzione?  La risposta adeguata è la seguente: esattamente come quelle tracciate dall’Uccello-guida (Anima-guida) verso il Re degli Uccelli (Signore delle Anime od Anima Universale) vengono attribuite agl’Ismailiti.  Nel caso dei Templari non è la letteratura medievale neocristiana (graaliana) a dirimere il problema, poiché questa non contiene riferimenti espliciti di tipo iniziatico al di là delle descrizioni formali delle apparizioni varie nel Castello del Graal o del chiaro simbolismo alchemico dei colori delle vesti dei protagonisti.  Vi è comunque un indizio della presenza del suddetto arcidemone a Rennes-le Château nella Chiesa della Maddalena, portata al centro dell’attenzione dall’avventurosa vita del curato De Saunière e dagli studî successivi al riguardo, benché alcuni assurdamente lo neghino.  Asmodeo proprio in tale chiesa, chiaramente associata ai Templari ed al Graal,  figura scolpito alla base d’una colonna all’ingresso del tempio. Ed è vestito di rosso come l’adamantino Fuoco (ebr. Šamir = Diamante) di cui è trasmettitore all’iniziando e che secondo una leggenda fu costretto a fornire per primo a Salomone.  Una variante fa discendere lo Shamir al sovrano dal Paradiso per mezzo dell’Aquila.  Non a caso il Graal è detto esser stato inciso nel diamante incastonato sulla fronte di Lucifero! Evidentemente in siffatto complesso architettonico Asmodeo ha la parte rappresentata dall’Apprendista (Hiram Abiff) nella Cappella di Rosslyn, visto che una tradizione ebraica gli attribuisce la costruzione del Tempio di Salomone ed un’altra identifica il talmudico Ašmedai (bibl. Asmodai) – secondo il Ringgren dal vr. šâmad = distruggere – al monarca.  Nello Zohâr è il maestro di Salomone, mentre il Midrâš Šir ha-Šîrîm ( Comm. al C. d.C. ) l’equipara al padre Šamdon, cioè Samaele.  In altre parole Hiram-Asmodeo altri non è che il Demiurgo in funzione edificante e come tale costituisce l’Essenza insita in Salomone medesimo, il cui Trono Volante rimanda al Trono Divino.  Di piú, Asmodeo è l’iniziato stesso che guidato dalla sua potenziale maestria interiore percorre le tappe – anche in tal caso 7, s’è visto – per giungere a quell’autoperfezionamento che lo tramuterà alfine in Maestro Supremo del Tempio.  Si possono in definitiva concepire entrambe le figure quali sdoppiamenti funzionali, a carattere mistagogico, di Salomone stesso.  D’altronde il simbolismo assiale della Colonna allude nel macrocosmo al Polo Artico, proprio come il Monte Kâf, che secondo una leggenda poteva esser raggiunto unicamente con l’Anello di Salomone, su cui era inciso il sacro sigillo; e nel microcosmo alla colonna vertebrale, al cui interno muovonsi reconditamente le energie che alchemicamente sublimate conducono alla realizzazione spirituale.  Non per niente l’Apprentice Column di Rosslyn è identificata a Boaz (Forza), la colonna di sinistra del Tempio di Salomone, emblema della Potenza Divina.  Metodologicamente la Via descritta da 



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Attar, forse per influenza sufica, si presenta invero come ermetica piuttosto che alchemica (il Grado VII è rappresentato da Saturno, la Settima Valle corrispondendo al Settimo Cielo, sede dell’Annientamento) ed è piú arcaica; giacché fa riferimento al Solstizio Invernale, in altre parole al Ciclo Argenteo. Viceversa dicasi per quella asmodea, ove al modo che nel tantrismo indiano è il luminare diurno a dominare, dato che si ha in essa visibilmente un piú recente rimando al Solstizio Estivo, cioè al Ciclo Ferreo.  Non per niente la veste di Galahad od alternativamente di Parzival, cosí come quella del Re Pescatore, è rossa.  Il che non deve esser inteso solo sul piano teorico, poiché trattasi d’una chiara allusione operativa di carattere alchemico.  Si deve infatti presumere che i 2 metodi, ermetico ed alchemico, fossero in rapporto a 2 alternativi tipi di gnosi: una ascetica e l’altra libertina.  E che fossero interscambiabili, poiché in sostanza rappresentano la Via di Destra ( dei Demoni ) e la Via di Sinistra ( degli Uomini ), in rapporto a Salomone.  Tant’è che i Fedeli d’Amore, dei quali l’Alighieri è stato il Sommo Maestro, a differenza dei Templari e similmente agl’Ismailiti praticavano la prima.    Il metodo eleusino – nei Misteri Maggiori s’indossava veste rossa, leonina, onde celebrare il Trionfo della Luce – era invece analogo a quello templare.  Di qui la veste rosso-alchemica del’Cavaliere Rosso’, sebbene Parzival letterariamente sia divenuto tale solo dopo aver annientato Ither ed aver indossato la sua solare armatura, nonché la Croce Rossa sul petto della veste templare.  Per allusione al sangue cristico, stillante dal Sacro Cuore, capace di lenire ogni ferita.  Sarà il templare Von Eschenbach a delucidare il ruolo avuto dalla sua confraternita d’appartenenza nei Misteri Graalici, un ruolo che dopo di lui non si può piú far finta d’ignorare, a meno di prevenzione.  Nella degenerazione successiva che condurrà dal Templarismo alla Massoneria, stando alle Proofs… di J.Robinson, s’intravedono ciononostante ancora un po’ le 7 tappe sopra ipotizzate sotto forma di gradi iniziatici ( ancor oggi praticati in egual numero da certi rami massonici ); se è vero che – come c’informa l’autore nel suo pamphlet scritto per denunciare la famosa cospirazione contro il Trono e l’Altare attuata da parte dell’Ordine degl’Illuminati – la Massoneria disponeva prima del XVIII sec. d’altri 4 gradi intermedî oltre ai 3 odierni.  Per non parlare di riti e simboli innumerevoli andati purtroppo perduti a causa dell’incuria dei tempi moderni.  Uno di questi, come ho provato in altra sede, quantunque caduto nell’oblio si richiamava in maniera esplicita ad un Asino Tripode ed Unicorne analogo a quello della mitologia iranica.  A dimostrazione che fra Giudaismo e Zoroastrismo è esistita una comunanza d’idee sfociata tardivamente nella simbologia gnostico-rosicruciana.  Parallelamente alla fusione avestico-coranica confluita nell’Ismailismo.  Dai Rosacroce è stata trasmessa ai Templari e via di seguito, secondo quanto spiegato.



Illustrazioni



1.  Il poeta franco-bavarese Wolfram, di Eschenbach (miniatura medievale ted., dett., Manesse Ms., Bad.-Würt., Heidelberg, XIV sec.).





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  2.  Feirefiz e Parsifal, i due fratellastri figli di Gahmuret (m.med.ted, Ms.Cgm 19, fol.49v, Biblioteca Statale, Baviera, Monaco).


3.  Id. (D.Lauber, min.med.ted., Cod.Pal.germ. 339, Alsazia [Fr.], Huguenau, XV sec.).


4.  Parsifal, esemplificazione del cavaliere templare (.J.Delville, disegno a carboncino, collezione privata, 1890).


5.  Feirefiz, prototipo del cavaliere ismailita (I.Wegerl, pitt.cont., USA., F.Francisco).


6Il leggendario Trono Volante di Salomone, di forma esagonale, cui prestava obbedienza l’intero mondo (miniatura islamica, ?).


Id. (K.Raj, min.isl., Rajasthan, India, XX sec.).


8.  Id. (min.isl., ?).


9.  Salomone, sul Trono, accoglie la Regina di Saba (pittura moderna, E.J. Poynter, 1890).


10.  Il demone Asmodeo (scultura in terracotta,  dett., Chiesa della Maddalena, Rennes-le-Chateau, Francia, XIX sec.).


11.  Re Gahmuret a cavallo (m.med.ted, Man.Ms., Heidelberg, XIV sec.).

12.  Id. (Laub., min.med.ted., Cod.Pal.germ. 339, Huguenau, XV sec.).

13.  La Corte di Re Gayûmart, Primo Uomo, sulla Montagna Paradisiaca (S.Mohammed, min.isl., Per. Safavide, Persia, 1530, M.M. d’A., N.Y.).

14.  Il Graal come Arca (bassor., sinagoga, Cafarnao, II-II sec. d.C.).

15.  Il Graal come Coppa (W.Pogàny, Titurel and the Grail, ill.cont., N.York 1912).

16.  Equivalenza del Rebis alchemico coll’Aquila (dis., ms. del Cod.Rh. 72 , Bibl.Centr., Zurigo).


Fonti

1.       On line (David F. Tinsley, col.); J.Campbell, Creative Mythology-  P.III, Cap.7, § 3, p.431, fig. 51 (bn).

2.      On line (Metahistory.org, Grail Magic Vs. the Paternal Lie).

3.      On line (Wikipedia in tedesco, s.v. Feirefiz).

4.      On line.

5.      On line (Ingo Wegerl at Harvey’s).

6.      On line.

7.      On line.

8.      On line.

9.      On line.

10.  On line.

11.  On line (D.F. T.).

12.     On line (D.F. T.).

13.     On line.

14.     On line (Focus.it).

15.     On line (Holy Grail Texts,  Images, Basic Infiormation.htm ).

16.     On line (Il linguaggio dell’Alchimia). 



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Fig. 2

 Fig.3

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Fig.5

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Fig.8

Fig.9

Fig.10

Fig.11

Fig.12

Fig.13

Fig.14

Fig.15


martedì 3 maggio 2011

LA LINGUA DEGLI UCCELLI



Il messaggio segreto
dall’Avesta al Nibelungenlied


di Giuseppe Acerbi
      
Oltre ai tre fattori fondamentali da me esaminati nel mio prec.art. sul Sîmorgh (Hera, A.X, N°112, mag.’09) – in realtà sintesi da me riveduta di 2 artt. distinti inviati alla Rivista nell’inverno 2009 ed unificati dal caporedattore M.Bonasorte – sulla scorta del Bausani (uno metafisico d’origine ebraico-islamica, un secondo cosmologico di provenienza vedica ed un terzo allegorico di matrice avestica), andrebbero inclusi nella saga ornitomorfica di Attar anche altri tre temi che l’eminente professore non sembra abbia tenuto nel giusto conto nell’analisi letteraria di tale poema didattico neopersiano: il motivo itinerario, la montagna sacra ed il linguaggio aviario; i quali non rientrano propriamente né nelle dottrine gnostiche, né nella cosmogonia indiana e nemmeno nell’epopea iranica.  Il primo ed il secondo motivo sono stati trattati a parte, unitamente, in altra sede.  Circa il terzo, di cui qui mi occupo, pur ribadendo che poco c’entra colla regalità iranica già considerata nel suddetto art., devo innanzitutto sottolineare che un testo cosmogonico pahlavico si riferisce all’intera Avesta come ad una composizione scritta nella lingua degli uccelli, in altre parole attraverso lettere e simboli che nella loro poetica ritmicità e trasparenza emblematica fungono per i mazdei da messaggeri interiori della Divinità.   Nel P. Bd.- xiv. 16 è dichiarato a questo proposito che il Karshipta, altrove considerato il Signore degli Uccelli, “sapeva pronunciar (bene) le parole”.  Fu tale mitico volatile, var. del Sênô-mûrûv (o Sîmorgh), che portò difatti a Yima nel paradisiaco “Recinto” (Vâra) – secondo quanto è narrato in Vd.- ii. 42 – la Rivelazione (lett. la Legge: pah.Daêna, pa.Damma, scr.Dharma).  E poi la fece liberamente circolare.  Ecco la ragione per cui l’Avesta è stata scritta nel linguaggio degli uccelli, vale a dire nel divino idioma.  Ciò però è ben distinto dal fattore regale firdusiano già menzionato, che caratterizza il Simorgh in quanto protettore dinastico e genio locale della regione del Sîstân (Sakasthana), antica terra scitica.  La funzione di rivelatore e patrono della lingua divina, o segreta, s’addiziona al tema simorghiano specifico senza mai confondersi con questo in tutta la storia della letteratura persiana.  Semmai, si potrebbe dire che il riferimento al linguaggio aviario partecipi ad una specie di koiné indoeuropea di cui fan parte oltre alla tradizione iranica pure la tradizione germanica e quella slava.  Le altre culture indoeuropee, da quanto ci risulta, ne paiono esenti o quasi ad eccezione della greca, anche se tradiscono qua e là una concezione analoga nella tematica maggiormente generica dell’apprendimento fiabesco del linguaggio degli animali.  Viceversa ne sono informate, non si sa bene per quale via impostando la questione in senso diffusionista, la tradizione ebraica ed indirettamente quella islamica.  A meno d’intendere una comune eredità jafeto-semito-camitica, che sarebbe cosa piú logica, anche se passata di moda.  In India, benché il tema non sia presente apertamente se non nel folclore (ad es. in certi passi del Kathâsaritsâgara kashmiro di Somadeva Bhatta, XI sec.), troviamo un inno vedico (R.V.- x. 144. 3-4) nel quale si dichiara che fu Suparna – il figlio dell’Aquila (Ҫyena) ossia verosimilmente del Garutmat, prototipo solare vedico del Garuda (pa.Garula) epico-puranico – a rubare il Soma in principio dal Paradiso di Indra; ove era collocato il Pârijâta, grande albero corallino sorto dal Rimestamento dell’Oceano alla fine del II Ciclo Avatarico.  Ciò ricorda almeno parzialmente – benché a rovescio – l’impresa paradisiaca del Karshipta, l’omologo avestico del Simorgh. Vide suprâ.  In parte invece la leggenda, allorché viene ripresa nel Mhbh- Âdip.- xxxiii, si rifà al mitema della Sacra Penna analogamente a quello contenuto attraverso episodî varî nello Shâh Nâmah.  Narra infatti il passo testé citato che Garuda, dopo aver rubato l’Amrita (=Soma) ed esser stato scelto da Vishnu quale veicolo nonché ad emblema della bandiera del suo  carro, fu colpito dal Vajra di Indra e lasciò allora cadere a terra una piuma bellissima capace d‘infondere beatitudine a chi entrava in contatto con essa.  Il Devarâja indú, pieno d’ammirazione, venne subito dopo a patto con lui.  Cosí come il linguaggio aviario, anche il motivo itinerario e quello montano, non sono temi esclusivamente persiani né specificamente islamici.  Li ritroviamo del pari in India, in relazione al Garuda, assommando i dati dell’epica (Mhbh.- Âdip.- xxix-xxxiv) a quelli del folclore (Pañc.- i. xii; iii. 2; Kathâs.- ii. 9); benché in questo caso presentino una fisionomia piú generica, senza il riferimento sufico alle Sette Valli.  Un ulteriore doppione del medesimo motivo mitico è rintracciabile persino in Mesopotamia, dove un essere alato (, veicolo del dio delle piogge Ea) – al pari del Garuda raffigurato  semiantropomorfico nei sigilli sumero-accadici e connesso colle tempeste (vedi mito di Adapa) – figura diversamente quale ladro della Tavola del Destino.  Per non parlare di Etana, il re-pastore che in un mito accadico cavalca l’Aquila onde poter attraversare in volo le Sette Porte del Cielo ed ottenere la Pianta dell’Immortalità, situata presso la grande dea Içtar.  Ciò testimonia che non meno della Lingua degli Uccelli, variante specifica di quella piú generale Lingua degli Animali di cui si favoleggia nella tradizione islamica medesima od in quella indiana ed in altre (ad es. la mesopotamica attraverso il personaggio di Enkidu, vedi Epopea di Ghilgamêç), anche la cerca del Re degli Uccelli – a sua volta episodio peculiare della questua paradisiaca – ha un’origine non solo preislamica ma addirittura preiranica; poiché rientra, visibilmente, nell’ambito di quella cultura appartenente geograficamente alla vasta ecumene eurasiatica. 



La Lingua Aviaria nelle altre tradizioni indoeuropee
La Lingua degli Uccelli è presente, come suddetto, anche nella tradizione russa ed in quella greca, nonché nella cultura germanica.  Nella prima, però, come in India compare ormai solamente in ambito folclorico.  Cfr. la fiaba di Afanasjev intitolata Il linguaggio degli uccelli, la quale narra del figlio d’un mercante capace d’intendere la lingua d’un usignolo in una gabbia.  L’uccellino pronostica il futuro sviluppo delle cose, ossia che il padre dovrà un giorno servire il figlio; in una variante il fanciullino ha nome Ivàn, tipico appellativo dell’iniziato per antonomasia in quell’ambito.  Amareggiato, il mercante assieme alla moglie si disfa una notte del bambino seienne ponendolo su una barchetta alla volta dell’ignoto.  In altomare, mentr’intanto l’usignolo è volato via dalla gabbia andandosi a posare sulla spalla dello sventurato infante, il ragazzino viene raccolto da un marinaio; che lo proteggerà a mo’ di secondo padre, fino a permettergli di raggiungere la meta finale, in quanto il piccolo riuscirà a risolvere un fastidioso dilemma beffardamente proposto dal sovrano d’un certo paese.  Una famigliola di tre corvi, formata da padre e madre col corvicino, è solita infatti disturbare di continuo gracchiando dinanzi alle finestre della reggia.  Chi non arriva alla soluzione del dilemma, come di consueto nelle fiabe, viene punito colla morte; ma il figlio del mercante riesce nell’intento, dato che conosce la lingua degli uccelli, trovando la soluzione.  E spiega al re che i due corvi domandano lui il seguente quesito: il corvicino deve seguire il padre o la madre?  – Il padre  – risponde il re.  È evidente che la questione dei Tre Corvi, al di là della formula apparentemente semplicistica della fiaba citata, concerne piú in profondità quel che in Cina è nota come “Grande Triade” (Cielo, Terra, Uomo).  Non a caso  nell’iconografia cinese si ha una simile troica di corvi al servizio della Regina Madre d’Occidente ed in alternativa al Corvo, o all’Uccello Rosso ( Solare ), a Tre Gambe.  Il Corvo è il Cielo, la Corva è la Terra e il Corvicino è l’Uomo in senso aureo-regale quale mediatore degli opposti.  Cosí riformulata, si comprende la vera ragione del dilemma, sibillinamente risolto additando il Cielo quale via da seguire per l’Uomo Vero.  Parola di re.  E alfine, realizzandosi la premonizione dell’usignolo, il mercante dopo la morte della moglie andrà ramingo per il mondo finendo per ritirarsi presso la corte dello stesso sovrano; la cui figlia a sua insaputa è in predicato d’andar a nozze con suo figlio, che sarà quindi costretto a servire sotto ignorate spoglie, essendo questi sul punto di diventare principe.  Esotericamente parlando, il mercante rappresenta l’origine profana del protagonista della storia, mentre la condizione di fanciullino di  costui allude al neofita; il marinaio costituisce, chiaramente, il suo iniziatore ovvero colui che l’induce a veleggiare “sul mare delle proprie passioni” ed il re il maestro che interiormente lo conduce alla realizzazione della Grande Opera.  Giacché i Tre Corvi – parlando fuor di metafora – non son altro che lo Zolfo alchemico, il Mercurio ed il Sale, vale a dire quel che teologicamente si trova espresso nel ternario medievale Deus, Nâtûra, Homô.  Nella tradizione norrenica (Sn., Ynglinga Saga- xviii) si parla d’un sapiente sovrano (certo Dagr), figlio di Diggvi, della stirpe degli Ynglingar.  È scritto apertamente nel testo che Re Dagr il Saggio era cosí lungimirante “che intendeva il linguaggio degli uccelli”, disponendo d’un passero il quale volava qua e là e lo rendeva edotto su quanto avveniva nel mondo.  La rinomata scandinavista Chiesa Isnardi paragona codesta facoltà sapienziale a quella piú celebre di Odhinn, nume avente oltre alla capacità di tramutarsi lui stesso in uccello od altri animali il potere di sguinzagliare in giro i suoi corvi Huginn (Pensiero) e Muninn (Memoria).  Ogni sera i due uccelli riferivano quanto avevano scorto nel loro quotidiano volo mondano.  L’Isnardi sottolinea che pure il nipote in linea materna di Rigr (incarnazione del dio delle origini Heimdallr), ossia il giovane Konr, deteneva la medesima prerogativa degli altri due.  Un quarto conoscitore dell’idioma dei volatili in ambito norrenico è il Principe Sigurdhr (Sigfried), di cui narrasi nella Snorra Edda (ii. 6) una vicenda apparentemente raccapricciante.  È la fatidica storia della maledizione legata all’oro dei Nibelungi, ripresa poi nel Nibelungenlied e riciclata tardivamente da Wagner nella saga musicale dedicata all’Oro del Reno.  I Nibelungi sono i discendenti dei Nani o se vogliamo degli Elfi, quelle creature ancestrali unitamente identificate nel folclore islandese (isl. huldufolk = gente nascosta) agli occulti “figli di Adamo” precainiti.  Il protagonista capirà i discorsi degli uccelli solo dopo aver annientato il custode dell’oro maledetto in forma di serpe (poi drago).  La storia in dettaglio dei fatti esula dal nostro interesse in questo momento.  Rimane solamente da aggiungere quel che già la menzionata filologa ha posto a suggello del suo commento sul tema.  Ovvero che il volatile incarna la possibilità di comunicazione fra cielo e terra.  Dal momento che nella concezione degli antichi “l’uccello vede molti mondi e sente le voci della fama, attinge altezze inaccessibili all’uomo apprendendo le decisioni degli dèi.  Cosí conosce i destini e i segreti delle cose, può riportare le voci della fama e rivelare i messaggi divini.”  Apprendere il linguaggio degli uccelli significa dunque raggiungere quella sfera celestiale “cui si giunge dopo la liberazione dai fardelli terreni”.  Impossibile superare l’intuito femminile…, ma per capire veramente il significato dell’Oro, invano tenuto celato all’Eroe, occorre ancora una volta rifarsi all’Opus Magnum Alchŷmicum. Pochi sono i riferimenti in Grecia al motivo in questione.  Un primo cenno lo troviamo nella storia degli Argonauti, dato che la nave Argo avendo avuto da Hera il dono della parola per via del legno di quercia di Dodona in essa incorporato, comprendeva il linguaggio aviario.  Molti sono d’altronde i rimandi astrali nella storia della cerca del Vello d’Oro, secondo quanto fu intuito per primo da Newton, a partire dal celeste Ariete con cui Frisso era fuggito nella Colchide (Caucaso) per non esser sacrificato.  Si può anzi legittimamente affermare che la nave Argo alluda all’asterismo di Arcônâvis, sul bordo della Via Lattea presso Sirio, dopo la mitica impresa essendo stata posta da Athena fra le costellazioni; cosí come le Plegadi, o Simplegadi, corrispondono evidentemente alle Pleiadi ed il costruttore Argo a Sirio.  Trattasi, insomma, d’un mito precessionale riguardante il passaggio del Punto Vernale dal Toro  (o meglio, dalle lunari Pleiadi) al solare Ariete.  Un secondo cenno al simbolismo ornitomorfico è reperibile in  relazione a Melampo, che non meno di Tiresia e Cassandra ebbe il dono della divinazione dopo aver avuto “le orecchie leccate da serpi”.  Antica espressione metaforica a significare che i veggenti coltivavano le conoscenze cicliche, di carattere cosmologico.  Codesto Melampo (lett. “dai piedi scuri” ) è figlio di Minia e nipote di Creteo (var. di Sisifo quale sposo di Tiro, la madre eponima dei Tirreni), che assieme a Salmoneo e ad Atamante costituisce una terna titanica di eolidi pre-ellenici.  Minia, a sua volta var. di Eolo, ci conduce ai Minî, vale a dire secondo Pausania ai Pelasgi.  Melampo è personaggio davvero interessante, visto che è considerato il primo mortale cui è stato concesso il potere divinatorio, oltreché la capacità di praticare l’arte medica e la costruzione dei templi.  A questo riguardo bisogna sapere che gli Egizî erano chiamati “Melampodi”, giacché similmente ad altri popoli come i Medi, erano d’origine camitica e quindi affini ai Minî.  Tutti gli Argonauti, in altre parole, appartenevano alla stirpe pelasgica ( i greci anellenici ) ed il loro capo Giasone – monosándalos per antonomasia – va annoverato similmente ad Edipo e ad altri analoghi “zoppi” fra le incarnazioni mitiche della figura dell’iniziato.



La Lingua Aviaria nella tradizione ebraica ed in quella islamica
Nella Bibbia Salomone (vissuto nel X sec. a.C.) viene tratteggiato quale unico fra i sapienti del tempo in tutta la terra, ma il grande sovrano non compare mai quale conoscitore della lingua degli uccelli.  Tutto quel che riguarda il regno del potente monarca israelita è narrato nei primi 11 capitoli del I L. dei Re, ma essi trattano soprattutto l’edificazione del Tempio con l’aiuto d’uno speciale architetto, Hiram di Tiro, il “figlio della vedova”.  Il decimo è dedicato all’incontro colla Regina di Saba, però si limita agli aspetti storico-formali dell’avvenimento.  In certi passi talmudici (Exod.R.- xxx. 16; Pesikta- 45 b), cosí come in G.Flavio (Ant.- viii. 2, 5), si fa cenno alla capacità salomonica di dominare i démoni; tuttavia quant’è asserito nel Corano ossia il fatto che il figlio di Davide conoscesse anche il linguaggio dei volatili è riportato esclusivamente nel T.Ҫeni, già a suo tempo descritto.  Salomone figura peraltro nella tradizione islamica quale novello Adamo, essendo sinonimo dell’Uomo nella sua naturale perfezione.  Onde viene identificato nella letteratura neopersiana a Jamshîd, il primo uomo della tradizione iranica.  E parimenti a questi e all’erede di costui Kai Kâvus è ritratto nell’atto di volare col trono trascinato per l’aere da 4 aquile, il che indica in lui il raggiungimento d’una coscienza eterica capace di dominare i 4 Elementi.  La normale interpretazione che scorge in ciò solo eccessivo orgoglio, Jamshid essendo non a caso accusato al modo d’Adamo del Grande Peccato delle origini, è troppo riduttiva.  Piuttosto dovremmo identificare tale Trono al Trono Divino e le 4 Aquile al Tetragramma,  visto che in codesto senso Salomone equivale altresì al candido Âdam admon (‘Uomo Primordiale’) della Kabbalâh, a sua volta terrestre emanazione della polvere proveniente dalle Quattro Direzioni.

 Illustrazioni


1.  Ritratto di Attâr, il poeta della questua ornitomorfica (S.H. Mirzâ, miniatura persiana, dett., Majâlis al-‘Ushshâq, Biblioteca Bodleian, Oxford, Periodo Timuride, XVI sec.).



2.  ll Garuda, equivalente indiano del Karshipt, veicolo spirituale degli yogî (pittura râjput, B.N. filtr., Scuola ngrâ, Râjputâna, India, XIX sec.).



3.  Il Garudha della tradizione iranica, protettore della dea-madre Anâhitâ, paredra acqueo-fluviale di Ahura (piatto arg. parz.dor., art.iran., dett., Museo dell’Ermitage, S.Pietroburgo, Ep.T.Sas.).



4.  Vâragn, il messaggero aquilino di Verethragna (Vahagn), equivalente persiano di Vritrahan (Indra, dio della pioggia) (vaso arg. parz.dor., art.iran., dett., Mus. dell’E., S.P., Ep.Sas., V-VI sec. d.C.)



5.  Il Khyun-khra, equivalente lamaistico-tibetano del Garuda, forma alata di Vajrapâni (il Possessore del Vajra, cioè Indra) (statuetta bronzea dorata, Tibet, Per. Mediev.).



6.  Il dio-uccello , veicolo di Ea, signore delle acque  (incisione in pietra, cilindro accadico, dett., Museo del Louvre, Parigi2500-2000 a.C. c.,).



7.  Il volo di Etana sul dorso dell’Aquila, re degli uccelli, in cerca della Pianta dell’Immortalità (id., Museo di Berlino).



8.  Il giovane Ivan, conoscitore russo della “lingua degli uccelli” (dis.cont., dett.).



9.  I Tre Corvi della fiaba di Afanasjev (dis.cont.).



10.  Odhinn, col magico cappello a tre punte e la visione monoculare, affiancato dai due corvi Huginn e Muninn (miniatura islandese, XVIII sec.).



11.  I Due uccelli di Odino, simbolo del doppio aspetto del Divenire, informavano il nume sugli eventi mondani (casco, dett., tomba I di Vendel, Museo Nazionale, Stoccolma, dat.inc.).



12.  Sigfrido apprende la “lingua degli uccelli” nella mitologia germanica dopo che il “sangue del rettile” ucciso lo lambisce (C.Dausch, scultura tedesca, Brema, in situ, XIX sec.)


13.  Salomone – esperto di “lingua aviaria” – colla sua triplice schiera di genî, uomini ed uccelli (S.H. Mirzâ, min.pers., dett., Maj. al-‘Ush., Bibl.Bodl. [Ous.Add. 24, fol. 127 b], Oxford, XVI sec.).

14.  Il Trono Volante di Salomone sorretto dai Cherubini, dai Jinn e dagli Uccelli, fra i quali l’Upupa e il Simurgh (Aquila) (Anon., disegno persiano ad inchiostro, coll.priv., Berlino, XVI sec.).



15.  Il Trono Volante di Kai Kâvus (var.) trainato da 4 Aquile, come quelli dell’avo Jamshid e di Re Salomone (Anon., min.pers., dett., Museo Metropolitano d’Arte, N.York, XVI sec.).



16.  Gli animali a concilio (Anon., miniatura araba, dett., Kalîla wa Dimnah, Bibl.Bodl. [P.4000, fol. 97 b], Oxford, XIV sec.).



17.  Id. (id., folio 75).



18.  Id. (Anon., min.ar., dett., Anwâr-i-Suhaylî [Add.18579, fol.146],  Museo Britannico, Londra, XVII sec.).


Fonti

1.     T.W. Arnold, Painting in Islam- Dover P., N.Y. 1965, pp. 124-5 ,tav.XLVI.

2.     S.L. Nagar, Garuda in Indian art and Literature- Book India, N.Delhi 1992, p.160, fig.37 (con tripl.eff.: spirale, tessitura, luce )

3.     T.W. V.Lukonin, Iran II. Dai Seucidi ai Sasanidi- Nagel, Roma-Ginevra-Parigi-Monaco di Bav. 1976, p.177, ill.195.

4.    Luk., op.cit., p.176, ill.194.

5.    K. Gordon, The Iconography of Tibetan Lamaism- Munshiram M., N.Delhi 1978,  di fr. a p.95 ( in basso ).

6.    A.Parrot, Gli Assiri- Rizzoli, Milano 1981, p.289, fig.361.

7.    T.H. Gaster, Le storie più antiche del mondo- Einaudi, Torino 1960.

8.    On line.

9.    On line.

10.   On line.

11.      C.A. Mastrelli, La religione degli antichi Germani, Cap.II, § 3, p.472, fig.n.num. apud STORIA DELLE RELIGIONI- Utet, Torino 1971, Vol.II.

12.      On line.

13.      Arn., op.cit., a fr. di p.110, tav.XXXIII.

14.      L.Binyon et al., Persian Painting…- Dover, N.York 1971, pp. 150-1, tav.XCIII-A.

15.      On line.

16.      Arn., pp. 144-5, tav.LXIII.a.

17.      Bin., op.cit., pp. 27-8, tav.III a.

18.      Arn., pp. 144-5, tav.LXIII.b.


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