sabato 21 marzo 2015

ORIENTE E OCCIDENTE NEL PENSIERO DI JULIUS EVOLA





                   In un piacevole saggio in 2 paragrafi contenuto in un suo libro del periodo senile (1) Evola afferma di contro a Guénon che “storicamente la civiltà tradizionale non la si possa dire né orientale né occidentale”.  E premette a tale affermazione che Guénon nei suoi libri Orient et Occident e La crise du monde moderne (2) aveva in mente “una morfologia della civiltà”.  A questo riguardo ciò che “Guénon aveva in vista era l’Oriente come esempio di una civiltà «tradizionale», ossia di una civiltà in cui tutti gli aspetti principali  dell’esistenza hanno un orientamento dall’alto verso l’alto.  Soprattutto l’India, in parte il mondo dell’Islam, di ciò ci hanno offerto un esempio precipuo fino a tempi recenti.”  Fa presente però che in tal modo si contrappone esclusivamente l’Occidente moderno, non l’Occidente greco-romano portato all’azione e neppure quello cristiano dedito alla vita contemplativa.  E giustamente asserisce che pure “l’Europa medievale del Sacro Romano Impero, l’ecumene medievale europeo (3) è stato «tradizionale», come lo fu la romanità, già centro di gravità e forza organizzatrice dell’Occidente.”   Nel contempo obietta comunque che “l’orientamento tradizionale nelle forme di una civiltà globale ha sussistito più a lungo, ed ha presentato espressioni più complete, in Oriente.”  E conclude questo ragionamento in maniera previdente (anche perché è nato dopo Guénon ed ha vissuto fin quasi alla metà degli Anni Settanta), quasi parafrasando Mircea Eliade, ossia ipotizzando la possibilità che “ben presto in Asia tutto si riduca a forme residuali popolari involute e opache, simili a quelle che, del resto, ancor oggi – il riferimento è al tempo di stesura del saggio – sono rilevabili in qualche zona «sottosviluppata» europea, specie nel Sud, con una religiosità tradizionale mista a superstizioni e con un tenace attaccamento ai costumi di una vita non «modernizzata» e abbastanza arcaica (lui la definisce “primitiva, ma ci sembra un termine un po’ esagerato).”
                   Fin qui tutto bene, l’autore è assolutamente condivisibile, diciamo che va oltre il guénonianismo.  Sennonché poi finisce per invischiarsi in un ragionamento fallace, apparentando l’Europa alle civiltà indoeuropee (4), che in realtà – come lui stesso dichiara – sono in parte orientali, in parte occidentali.  Basta pensare che persino la stirpe norrenica, da taluno considerata a torto alla base dell’originaria razza europoide (il termine è però scorretto, poiché una razza del genere non è mai esistita, semmai sarebbe lecito parlare di ceppo caucasoide), tramanda nelle proprie tradizioni di essere giunta nelle plaghe nordiche da Asía (5).  Questo apparentamento serve ad Evola per evidenziare le lacune nell’antitesi fra Oriente ed Occidente, ma è chiaro che non si può prender in considerazione un’epoca in cui l’Asia e l’Europa ancora non esistevano e neppure gli stati territoriali.  Una contrapposizione ad ogni modo ha preso avvio fin dall’Antichità, poiché la civiltà greco-romana ha mostrato da un certo momento in poi (escludendo la sua nascita, che ha tratti nettamente arcaici sia



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nel caso dell’Ellade omerica e pre-omerica, sia nel caso della prisca romanità) tendenze verso l’immanenza che hanno dato come situazione finale quella desacralizzazione che oggi ritroviamo dappertutto ed in ogni settore della vita e che ha contaminato in tal senso – sicuramente ad un fine apocalittico-provvidenziale, ma le conseguenze saranno pagate comunque – l’intero pianeta.  Questa contrapposizione non riguarda le differenze fra civiltà arie ed anarie, come vorrebbe Evola, od almeno non soltanto quelle.  E per complicare il quadro, di per sé già abbastanza confuso, il Nostro tira in ballo il Buddhismo, che ritiene indoeuropeo nelle origini e quindi assimilabile allo spirito europeo antico, votato ad una visione attiva della vita.  Mentre il Cristianesimo sarebbe semita e quindi connesso ad una visone contemplativa, di tipo orientale.   Per quanto concerne il Cristianesimo il discorso sarà affrontato piú avanti e sarà l’autore medesimo a venirci in aiuto, contraddicendosi un poco.
                   Inutile insistere sul fatto che non condividiamo tal modo di procedere intellettualmente, benché il ragionamento non sia del tutto errato.  Vi sono sicuramente aspetti cultuali che, come ha dimostrato Dumézil (6), avvicinano gli Sciti (o meglio gli Shaka, loro prossimi in spazi maggiormente orientali, donde discende Siddharta), ai Celti; mentre, per contro, il Nazarenismo in cui rientra il Cristianesimo nascente ha parecchio in comune col Vishnusimo.  Tanto che qualcuno ha ipotizzato un interscambio fra le due fedi, gli studiosi occidentali parlando di prestiti all’India e quelli indiani di prestito ad Israele.  Il problema non è ad ogni modo etnico, quantunque si possano ravvisare elementi etnici in siffatte somiglianze piú che non fattori diffusionistici, la mobilità dei quali è peraltro sempre difficile da dimostrare.  Però non è detto che gli Sciti e gli Shaka appartengano al gruppo iranico, potrebbero al contrario appartenere a quello turanico siccome popoli delle steppe; a meno di sostenere, come facciamo noi da qualche tempo, che i due ceppi siano invero commisti tanto in Asia quanto in Europa.  Ciò cambierebbe la realtà delle cose?  No, perché la commistione si riferisce a quei tempi preistorici dei quali abbiamo già detto, tempi insomma che non rientrano nella contrapposizione tardiva fra Oriente e Occidente.  È stato l’Occidente ad abbandonare le proprie tradizioni per primo in sede storica.  Non l’Oriente, che al massimo si è adeguato alla fine, non potendone piú far a meno per cause politico-sociali e strategico-militari.  Il proverbio Ex Oriente lux, ex Occidente dux, che lo scrittore siciliano ha provato senza riuscirvi a riportare alla sua formulazione originaria non è da respingere, essendo la testimonianza d’un dato di fatto.  All’Occidente preme conquistare, all’Oriente contemplare, ancor oggi è cosí in sostanza.  Che esistessero eserciti e guerre pure in Oriente, nonché santi e meditazioni anche in Occidente, è 

 


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mistificante asserirlo oltreché banale aggiungerlo.  Non è questo il punto.
                   Quando invece passa a criticare la teologia cristiana moderna, facente leva agostinianamente sull’Incarnazione di Cristo come irruzione aciclica nella storia dell’Oltremondano rispetto alle salvazioni pre-cristiane,
accusate d’essere intramondane per via della loro ciclicità, va perfettamente a segno ed ha ragione da vendere.  Fa inoltre lucidamente notare che la ciclicità, tanto in Oriente quanto in Occidente, propone un doppio significato: l’uno è relativo al temporale ed al secolare, ma l’altro corrisponde al fluire platonico quale “immagine mobile dell’eternità”.  Il distacco eccessivo dalla Natura propiziato dal Cristianesimo, argomenta saggiamente, ha prodotto una sconsacrazione di essa ed una negazione progressiva dell’Ordine Cosmico quale forma riflessa dell’Invisibile.  Concezione che per contro era propria del mondo indoeuropeo (7).  Vedi, ad es., nel Veda – o nell’Avesta (8) – l’esaltazione innica ed evocatoria delle forze divine agenti nell’universo.  Ed osserva ancora il Nostro come la controparte di tale mentalità, percepente nella Natura un solo insieme di fenomeni, non sia che una spiritualità astratta quale è propria della teologia cristiana, il cui carattere appare soggettivo anziché oggettivo.  Storicamente qui Evola dice il vero, i presupposti soggettivistici di tale cambiamento essendo stati posti visibilmente fin dagli ultimi momenti della paganitas, secondo quanto attestano del resto studiosi del cristianesimo quali Simonetti (9).  Se indaghiamo piú a fondo, scopriamo che il mondo cristiano delle origini aveva un legame colla romanità persino sul piano cosmologico; si pensi alla suddivisione in 3 categorie delle creature post-adamitiche nella letteratura alessandrina del III sec. (Origene): Angeli, Uomini e Demoni (10).  La triplicità in apparenza fa appello al Trimundio (Cielo, Terra, Inferi), ma non meno che nel mondo pagano delinea la serie di generazioni umane – od animiche, se preferiamo – susseguenti alle genti dei tempi paradisiaci.  Scrive Simonetti (11) in proposito, commentando I Principia di Origene (c. 185-253), giuntici completi soltanto nella trad.lat. di Rufino: “Nei primi due libri Origene… propone la dottrina platonica, che in seguito avrebbe provocato la sua condanna, della preesistenza delle anime rispetto ai corpi: Dio all’inizio ha creato un complesso di creature razionali, tutte ugualmente libere e perfette”.  In rapporto all’utilizzo buono e meno buono della libertà, le creature si sono poi suddivise nelle tre suddette classi, le quali a seguito di varie punizioni purificatrici (nel caso degli Angeli l’unica punizione è la separazione da Dio) riottengono anch’esse lo stato originario.  Nel libro IV spiega addirittura il senso celato delle Scritture, che va oltre la lettera, a dimostrazione che i legami col passato non erano stati del tutto recisi.  Certo, l’accusa di eresia prova che il 



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Cristianesimo era indirizzato altrove, dando quindi indirettamente ragione ad Evola.          
                   Particolarmente valido è inoltre quanto Evola dichiara (12), a difesa dell’Oriente contro le critiche occidentali da parte cattolica, riguardo la molteplicità delle forme spirituali orientali; non limitate all’India, poiché “l’Oriente non comincia e finisce con l’India”, la quale peraltro presenta aspetti cultuali variegati.  Piú oltre l’autore ritorna a prender in considerazione le forme contemplative del pensiero indiano, che designa impropriamente come “evasionistiche”; e a sopravvalutare quelle legate all’azione, che ovviamente caratterizzano precipuamente e positivamente l’Occidente, a parte la degenerazione moderna.  Appare un po’ superficiale in questo.  Resta comunque indiscutibile la critica alla teologia cattolica, che mettendo l’Incarnazione in un posto che non le spetta si pone in realtà al di fuori degli schemi ciclici vetero-testamentari.  Evola per la verità sulla scia di Eliade non considera ciclica la tradizione giudaico-cristiana, e proprio per questo le si oppone, ma in ciò sbaglia; accetta tutt’al piú una distinzione fra cristianesimo delle origini e cattolicesimo, schierandosi incoerentemente a favore del secondo, giacché lo ritiene paganizzato e come tale “rettificato”.  Le cose stanno tuttavia all’opposto, secondo quanto mostra l’antica formula liturgica ‘negli eoni degli eoni’, che a giudizio di Heiler (13) precedeva in greco quella latina posteriore secolarizzata (‘nei secoli dei secoli’).    
                   Il secondo paragrafo del saggio non lo commentiamo, dal momento che siamo totalmente d’accordo con Evola nella sua critica a certo teismo cattolico colla pretesa di porsi come il non plus-ultra della prossimità al Divino e nella difesa conseguente delle dottrine orientali.  Questo paragrafo è una delle cose migliori dell’autore.  Raramente ha raggiunto una lucidità di giudizio come quella dimostrata in questi frangenti.  Peccato che, per stimolarlo a tanto, ci sia voluto proprio quel cattolicesimo nei cui confronti ha sempre mostrato un atteggiamento ambiguo, ora favorevole ora no!  Siamo convinti da parte nostra, pur senza quel riscontro oggettivo che potrebbe aver avuto la nostra tesi soltanto se egli fosse ancora vivo oppure fosse analizzata da parte di qualcuno che lo ha conosciuto bene in vita (indipendentemente dalla proprie idee personali), che l’autore sia stato influenzato negativamente e condizionato alquanto dal ventennio fascista.  Poiché alla fine del periodo giovanile, il primo vero grande interesse non è stato il paganesimo greco-romano – verso il quale aveva simpatia ma non eccessivamente, a quanto si rileva dai documenti filosofici – e nemmeno lo gnosticismo, dal quale era visibilmente attratto; ma, piuttosto, le dottrine orientali.  Specialmente, a giudicare dagli scritti, il Taoismo 





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ed il Tantrismo.  La cosa è abbastanza curiosa, vista la sua <indifferenza> (a nostro parere piú ostentata che reale>) per il mondo femminile.  Giacché Taoismo e Tantrismo sono le due forme di shaktismo, sostanzialmente, presenti in Cina ed in India.  Ciò tradisce nel nostro personaggio una sopita vocazione ascetico-sacerdotale, come d’altronde lui ha spesso ammesso, sia pure in sordina.
                   Il problema del Cristianesimo è stato trattato ulteriormente da Evola in un art. intitolato Cristo e noi (14), il cui titolo era tratto da un libro omonimo di A.Tilgher (del 1934).  Evola elogia il Tilgher per le sue doti critiche d’intelligente divulgatore, ma nel contempo lo biasima per essersi fissato sugli aspetti etico-sociali anziché su quelli metafisico-rituali.  Lo rimprovera inoltre di concepire nel cristianesimo una sorta di socialismo mistico a base di <redenzione collettiva> e di amore, questo giudizio a suo parere valendo al massimo per il cristianesimo primitivo e per il protestantesimo piú che non per il cattolicesimo.  Abbiamo già detto sopra come la pensiamo in proposito.  Il filosofo sottolinea ancora la rilevanza del Cristo portatore di spada di fronte al al Cristo apostolo dell’amore e spiega come nelle Scritture si faccia menzione di eserciti e gerarchie celesti, oltre a proclamare che il Regnum cercato dai fedeli non è di ‘Questo Mondo’.  Elogia pure Tilgher per le parole cristalline colle quali, mostrando doti non comuni di penetrazione intellettuale, discute dei principî-cardini del Buddhhismo.  Condivide pure il fatto che l’opposizione fra buddhismo e cristianesimo sia reale, sebbene indichi certe premesse comuni: ad es., la brama tenuta a distanza da certe scuole buddhiste non è lontana dalla cupiditas stigmatizzata dalla Scolastica tardo-medievale.  Osteggia invece il Tilgher nella pretesa di porre la redenzione cristiana quale alternativa al mito greco dell’eterno ritorno.  Ovviamente, il riferimento è al senso di colpa, che per i Greci torna come una nemesi; mentre i cristiani lo superano per quanto sia possibile cercando di convertire il male in bene.  Evola parla della concezione ciclico-deterministica come d’un fenomeno tardo, di tipo ellenistico, il che è vero solo in parte; la contrapposizione di tale concezione coll’ideale olimpico non è del tutto corretta, perché il mito eroico rientra nella visione ciclica, non si situa al di fuori di essa.  Ciò non significa che la redenzione in senso cristiano lo superi, semmai si può dire che costituisca un riadattamento dello stesso mito (non a caso il cristianesimo adora un Deus Pater, che non si differenzia del tutto dallo Zeus Pater o dallo Iuppiter dell’Antichità Greco-Romana) a tempi non piú eroici. 
                   Dopo aver criticato Nietzsche per la sua incomprensione verso i valori ascetici, che rappresentano non meno dell’azione un tentativo di 



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superamento della comune individualità, il Nostro passa a sentenziare sull’amore come libero dono di chi sovrabbonda di vita e non di chi è insufficiente a sé stesso.  In questo caso, però, stando alle parole evoliane si sfiora la retorica.  L’amore ci pare uno slancio naturale, proprio a tutte le creature (agli animali compresi, non soltanto ai <superuomini>), per raggiungere quel quid trascendente al di là di sé e della mondanità operante in noi che rende la vita degna d’esser vissuta; vissuta, cioè, nel piú alto grado dell’essere.  Evola, ovviamente, direbbe il contrario; perché nella sua ottica, dimenticando che Gesú era d’origine regale, il cristianesimo è nato come una ‘religione per i diseredati’.  Tutto ciò che riguarda l’amore per lui è ‘comunismo bianco’, ‘socialismo mistico’.  Non rendendosi conto che in quella maniera il Tilgher cercava sia pura inconsapevolmente una via di fuga dal fascismo, o forse proprio per questo, Evola deride l’ideale cristiano da quegli espresso accusando il filosofo dell’attivismo e del <pragmatismo trascendentale> – come lui lo definisce – d’esser caduto in un momento di depressione; nonché d’aver messo da parte, senza giusto motivo, tutto l’armamentario teologico-dogmatico, rituale ed ascetico-sacerdotale.  Unicamente per mezzo di questo, se non l’avesse fatto, si sarebbe trovato in posizione migliore per discutere.  Conclude alfine spiegando tuttavia che l’esigenza ripresa da J.Brenda da parte del filosofo di andare al di là delle ideologie secolarizzate e degli antagonismi pluralistici è assolutamente corretta, giacché lo spirito tende davvero all’universalità.  Ed a questo riguardo cita una frase di Mussolini a proposito di ‘civiltà nuova’, peraltro condivisibile persino oggi, ossia che la civiltà deve tornare universale, se non vuole perire.  L’errore, a suo giudizio, starebbe nell’identificare codesta “universalità con la promiscuità propria ai principii… dell’amore e dell’abbandono (15).”  Quanto accaduto dopo la stesura e la pubblicazione di quest’articolo testimonia il ridimensionamento dell’ideale fascista e di quello evoliano.  Ancor oggi si vede come a livello politico la propensione ed i continui ricorsi da parte della civiltà europea e delle sue propaggini etno-culturali a guerre e cambiamenti radicali di regime qua e là non porti a nulla se non ad un’ulteriore confusione generale.  In Occidente, si voglia o no, restano oggigiorno unicamente i valori cristiani – sia pure ormai sfaldati – a tener un poco in piedi per davvero il nostro mondo.  Circa l’Oriente per quel che concerne il passato, almeno in tempi medievali, a livello culturale sono stati solamente il buddhismo prima (espandendosi in Asia Centrale, nonché in Estremo Oriente) e l’islamismo dopo (unificando l’Asia Occidentale e la zona meridionale del Mediterraneo) ad aver fornito un tentativo valido d’ecumenizzazione.  Meno il cristianesimo orientale ed il giudaismo, l’uno mediante la diffusione in Asia Settentrionale del credo ortodosso e l’altro 



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attraverso la costruzione dell’impero khazaro.  Zoroastrismo ed induismo anche nel periodo di maggior espansione, dal canto loro, non erano adatti allo scopo essendo religioni etniche.   Dell’Oriente odierno non è facile dire.  L’India si è da poco coalizzata economicamente colla Cina, oltreché la Russia, il Brasile ed il Sudafrica. Il futuro appare, perciò, imprevedibile.

                                                               Giuseppe Acerbi






Note

(1)                J.Evola, L’Arco e la Clava- V.Scheiwiller (all’insegna del Pesce D’oro), Milano 1971, Cap.XV, §I, p.176.

(2)                Il pimo libro è stato pubblicato dalla Payot (Parigi 1924) e ripreso nella nostra lingua da Studi Tradizionali (Torino 1965), il secondo è uscito invece per le Editions Bossard (Parigi 1927) ed è stato tradotto prima da Hoepli (Milano 1937), poi da Dell’Ascia in 2° ediz. (Roma 1953) e infine dalle Mediterranee (Roma 1972).

(3)                Non per cavillare a vanvera osserviamo che il termine ‘ecumene’, derivato dal greco, è maschile in latino ma femminile in italiano.

(4)                Ev., op.cit., pp. 178-9.

(5)                Il nome viene popolarmente interpretato come un riferimento all’Asia, ma gli studiosi non accettano codesta interpretazione, facendo di tale terra semplicemente quella mitica degli Asi.  Personalmente, tuttavia, concordiamo coll’interpretazione popolare, gli Asi (Esir) non essendo che l’equivalente degli Ahura iranici e degli Asura indiani.

(6)                G.Dumézil, Storie degli Sciti- Rizzoli, Milano 1980 (ed.or. Romans de Scythie et d’alentour- Payot, Parigi 1978), passim.

(7)                Ev., op.cit., pp. 180 e 184.



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(8)                Ci pare opportuno far menzione dell’antico testo iranico, dal momento che Evola tende a considerare l’Iran una civiltà prettamente guerriera, onde dimostrare la non veridicità dell’antitesi guénoniana.  L’Impero Achemenide (VII-IV sec. a.C.), di fede zoroastriana, precede di 3 secoli quello buddhista instaurato dapprima dai Maurya e successivamente dagli Shunga (IV-III sec. a.C.), ma nonostante le indubbie influenze alessandrine su quest’ultimo ciò indica che le differenze fra Iran ed India al tempo non erano cosí grandi.  Forti differenziazioni sono intervenute più tardi, dopo l’islamizzazione.  D’altronde gl’imperi, e non esclusivamente in codesto ambito medio-orientale, sono il frutto del dominio ario-borghese; non di quello anario-aristocratico, poggiantesi arcaicamente sulla regalità.  Gl’imperi sono compagini statali accentratrici dei poteri, che puntano sulla costruzione di nuove strade e sull’abbattimento di barriere doganali oltreché militari, onde favorire i commerci.  L’Impero Romano tardo-cristiano docet in tal senso. La vera aristocrazia tendeva, invece, alla regalità.

(9)                M.Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina- Sansoni/ Accademia, Firenze 1969, P.P., primi capitoli passim.

(10)               Sim., op.cit., Cap.VIII, §5, p.115.

(11)               Op.cit.

(12)               Ev., op.cit., pp. 183-4.

(13)               F.Heiler, Erscheinungsformen und Wesen der Religion- Jaca Book, Milano 1985 (ed.or. W.Kohlhammer, Stoccarda 1961), Cap.qua., p.170.

(14)               L’art. risale al 2 maggio 1934 e fu pubblicato nella pag.spec. di Regime Fascista, la rivista diretta dall’autore; mentre la ripubblicazione antologica in Diorama filosofico (Vol.I, 1934-5, a c. di M.Tarchi, pp. 60-2) per le Ed.Europa di Roma è del 1974, l’anno della scomparsa dello scrittore.   

(15)               Ev., art.cit., p.62.