di Giuseppe Acerbi
L’idea che esista la vita al di là dell’orbe
terracqueo è sostenuta in primo luogo – anche se non proprio apertamente –
dalla scienza, la quale detiene un punto di vista cosmologico eccentrico. In realtà costituisce un abuso linguistico
definire ‘cosmologia’ l’estensione attuale delle conoscenze astronomiche a
livello telescopico e l’insieme delle leggi astrofisiche, in pratica lo studio
macroscopico dell’indefinito; come lo sarebbe, di pari passo, considerare
problemi cosmologici lo studio microscopico delle cellule o delle
molecole. L’indefinito non corrisponde
all’Infinito se non per analogia, giacché si trova su un diverso piano: quello
materiale anziché spirituale, divisi oltretutto da un piano intermedio (il
macrocosmo), non a caso chiamato astrale od astratto. L’Infinito infatti è un concetto numerico-metafisico
con risvolti cosmologici (numerus a
nûmine), insomma qualitativo, non geometrico-spaziale o quantitativo-matematico;
dal momento che vi è un rapporto non solo linguistico ma strettamente culturale,
in latino, fra i numeri e i nûmina. Seppure nel macrocosmo i numeri possano
essere utilizzati, naturalmente, a scopi inferiori e cioè quantitativi. Altrettanto potremmo dire della relazione
analogica fra il microscopico e l’infinitesimale, mediatamente separati fra di
loro dal microcosmo.
Il punto di vista della scienza è che una
reazione chimica abbia principiato la vita.
Tale reazione, in base a codesta ottica, sarebbe d’ascrivere allo spazio
extra-terrestre. Insomma, questa
reazione potrebbe essere avvenuta altre volte, qui od altrove. Quale reazione chimica? La scienza ha scoperto ultimamente come
inventare le cellule dalla semplice materia?
Non risulta. La vita l’ha
solamente descritta in termini biologici, tant’è che per clonare necessita
forzatamente di cellule vive. In altre
parole, le
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conoscenze scientifiche sono in grado di permetterci di sostituire ad un processo naturale uno artificiale, ma niente di piú. Un po’ come si fa coll’aceto o il tamari: è possibile produrli sinteticamente, però non son buoni come gli equivalenti naturali. In un mondo confusamente dominato dalla borghesia l’artificialità (dal lat. artifex = ‘artefice, artigiano, tecnico, fabbro’) di quel tipo di umanità appartenente alla sottospecie hômo faber non poteva che essere la caratteristica dominante! Curioso che i Romani con una significativa premonizione chiamassero fabbrica non solo l’edificio ove gli artigiani lavoravano (la moderna fabbrica) e quindi il loro prodotto artigianale, ma anche l’artificio, la frode, l’inganno. L’invenzione d’una cellula viva rimane comunque, letteralmente, un’utopia.
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conoscenze scientifiche sono in grado di permetterci di sostituire ad un processo naturale uno artificiale, ma niente di piú. Un po’ come si fa coll’aceto o il tamari: è possibile produrli sinteticamente, però non son buoni come gli equivalenti naturali. In un mondo confusamente dominato dalla borghesia l’artificialità (dal lat. artifex = ‘artefice, artigiano, tecnico, fabbro’) di quel tipo di umanità appartenente alla sottospecie hômo faber non poteva che essere la caratteristica dominante! Curioso che i Romani con una significativa premonizione chiamassero fabbrica non solo l’edificio ove gli artigiani lavoravano (la moderna fabbrica) e quindi il loro prodotto artigianale, ma anche l’artificio, la frode, l’inganno. L’invenzione d’una cellula viva rimane comunque, letteralmente, un’utopia.
Soltanto è permessa allo scientismo
contemporaneo (la vera scienza è altra cosa, come mostra il lat. scio =
‘sapere’, connesso nell’etimo per una via non facilmente individuabile
all’ingl. sky = ‘cielo’)(1) la creazione piú o meno nascosta di
esseri mostruosi in laboratorio, che i bene informati dicono inaccessibili ad
occhio umano, almeno ai non-addetti-ai lavori.
Anche questo fa parte, in certo senso, di quell’artificialità di cui
parlavasi sopra. Da dove proviene la
vita? Da una reazione? Ma chi l’ha stabilito? L’esistenza non è un esclusivo fatto fisico. Gli antichi lo sapevano, per questo non
spingevano eccessivamente la loro indagine nel suddetto campo. Solo quanto serviva all’esistenza materiale e
nulla piú. Per rendere maggiormente
chiaro il problema sarà utile citare un passo d’un poema turco, che potrebbe essere
annoverato tra gli esempî di quel che l’Albrile (2) designava una volta come
“cristianesimo armeno”.
Dei monaci vivono in un monastero che si
narra sia stato fondato nientemeno che dal patriarca Noè, sbarcato sull’Ararat
ai
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tempi del Diluvio. Dentro al monastero vi è un maestro corrotto, dedito all’uso illecito delle cose sacre; ed un altro reale, il quale però è solamente un ospite venuto da chissadove e privo di qualsiasi forma di possedimento. Non ha neppure dei cenci per vestirsi. Pian piano Mirdad, il Vero Maestro, sottrae spiritualmente i monaci all’influenza nefasta del Decano, vale a dire il Falso Maestro. Questi si chiama Shamadam. Un giorno tuttavia uno dei monaci appare molto triste: gli è morto il padre, incornato da un toro. Il Maestro cerca di consolarlo, poiché tutto ciò che ci capita secondo la sua Parola è in realtà voluto da noi a scopo di perfezionamento interiore. Allora il monaco, di nome Himbal, gli domanda: –Tu che sai tante cose, dimmi dove ora è mio padre!– Il Maestro sorride e risponde: –E tu dove sei?– Indispettito, il monaco risponde: –Sono qui, non mi vedi?– Mirdad spiega: –Coi piedi sei qui dinanzi a me, lo vedo. Ma con la testa dove sei?– Himbal rimane ammutolito, non comprende. Allora continua il Maestro: –Noi coi piedi apparteniamo a questo mondo, ma non col capo. Tuo padre è dove sei ora tu coi tuoi pensieri (3).
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tempi del Diluvio. Dentro al monastero vi è un maestro corrotto, dedito all’uso illecito delle cose sacre; ed un altro reale, il quale però è solamente un ospite venuto da chissadove e privo di qualsiasi forma di possedimento. Non ha neppure dei cenci per vestirsi. Pian piano Mirdad, il Vero Maestro, sottrae spiritualmente i monaci all’influenza nefasta del Decano, vale a dire il Falso Maestro. Questi si chiama Shamadam. Un giorno tuttavia uno dei monaci appare molto triste: gli è morto il padre, incornato da un toro. Il Maestro cerca di consolarlo, poiché tutto ciò che ci capita secondo la sua Parola è in realtà voluto da noi a scopo di perfezionamento interiore. Allora il monaco, di nome Himbal, gli domanda: –Tu che sai tante cose, dimmi dove ora è mio padre!– Il Maestro sorride e risponde: –E tu dove sei?– Indispettito, il monaco risponde: –Sono qui, non mi vedi?– Mirdad spiega: –Coi piedi sei qui dinanzi a me, lo vedo. Ma con la testa dove sei?– Himbal rimane ammutolito, non comprende. Allora continua il Maestro: –Noi coi piedi apparteniamo a questo mondo, ma non col capo. Tuo padre è dove sei ora tu coi tuoi pensieri (3).
È infatti allo spazio interiore od intimo
che appartengono i morti, non allo spazio esteriore, dove le salme vanno presto
in decomposizione biochimico-fisica. Nel
linguaggio sacrale lo spazio rappresenta un simbolo, come tanti altri. Il Regno dei Cieli, ci spiega reconditamente
l’Êvangelium, è dentro di noi.
Quindi affermando che la vita viene dall’alto s’intende dire che
proviene dall’interius (comp. di inter = ‘nello spazio di mezzo,
entro, fra’), anzi dall’intimum (sup.
di inter, in riferimento alla parte suprema di spazio), non già dalla
materia; la quale, pure, secondo l’etimologia stessa ne è madre. Visto che, come insegna l’induismo, la
Materia è un’immagine della Potenza (Śakti)
della Divinità. Al modo in cui il seme
genera il frutto e la buccia, insegnavano i Padri della
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Chiesa, pur non essendo né il frutto né la buccia. La ragione della fruttificazione è nel seme, non si può trovar ragione di essa nella scorza o nel frutto medesimo, a meno d’intendere quest’ultimo come un tutto unico.
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Chiesa, pur non essendo né il frutto né la buccia. La ragione della fruttificazione è nel seme, non si può trovar ragione di essa nella scorza o nel frutto medesimo, a meno d’intendere quest’ultimo come un tutto unico.
Affermare che la vita si sia originata da
sé nell’ambito di miliardi di galassie, o delle semplici stelle secondo il
modello antico, è una contraddizione in termini. Sarebbe come pensare che abbia potuto aver
origine dagl’indefiniti punti scuri delle piastrelle del pavimento della nostra
cucina. Che senso avrebbe
un’affermazione del genere? No, non può
essere. La vita è un fatto psichico e
prima ancora spirituale. L’Esistenza è
l’Essere Divino, la Divinità. Non
bisogna confondere la vita e l’esistenza materiale con la Vita e l’Esistenza tout
court, che sono più ampie e trascendono il mondo fenomenico e
transeunte. Anche il mondo psichico è in
divenire, ma più lentamente, avendo una consistenza e quindi una durata
maggiore sul piano cosmico. La creazione
d’un tavolo esige minor tempo della creazione della Tavola Zodiacale, perciò
anche la distruzione relativa avviene con un diverso lasso di tempo. La Creazione è l’intero mondo, ordinato
secondo un Piano Divino, cui sogliamo affibbiare l’appellativo di
Provvidenza. Non può esser concepita
come una scintilla casuale fra materiali inerti, concetto peraltro che parrebbe la profanazione di un’idea gnostica tardo-antica di tutt’altra portata. Del resto il caso cosí come lo concepisce la
scienza, che lo riduce a delle mere probabilità senza causa (eppure ‘casuale’ nella
nostra lingua è l’anagramma di ‘causale’!), è pura fantasia immaginativa. Il Caso vero per gli antichi non era che il
Destino, il Fato in senso ovviamente limitativo, ma vi era un Fato che
oltrepassava la Potenza di Padre Zeus, cioè mutatis mutandis il Dio Padre dei
cristiani. La verità è un’altra,
assolutamente opposta, secondo
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quanto insegna l’etimologia: Câsus a Caelo cecidit.
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quanto insegna l’etimologia: Câsus a Caelo cecidit.
Se la Vita non è cosa soltanto mondana,
ciò significa che l’Esistenza si è automanifestata, dando luogo a miriadi di
esseri contingenti. Gli enti, per
l’appunto. Ma l’Esistenza, aldilà delle
distraenti illusioni cosmiche, è sostanzialmente una ed una sola. Morendo torniamo perciò a quell’Essere che è
unico siccome non possiede alcuna forma di dualità né di dualismo, di
contrapposizione; ad esso siamo sempre appartenuti, apparteniamo tuttora e
sempre apparterremo in futuro.
L’Eternità è tridimensionale, come le Tre Moire o le omologhe Śakti della
Trimûrti hindu.
Già qui il problema della vita
extra-terrestre sarebbe risolto, tuttavia la questione implica altre faccende,
meno importanti sul piano dialettico ma piú su quello pratico, e pertanto
proveremo a risolverle in altra sede.
Note
(1)
Il
vr.lat. scio (letto una volta in maniera gutturale, alla tedesca) è da
rapportare inoltre filologicamente al got. sôkjan (‘cercare’), a.sass. sôkian
(id.), a.nord. sǿkia (id.), a.ingl. sêcan (id.),
ingl. seek (id.). Da
ciò si deduce che la scienza era in origine ricerca in senso eminentemente
astrale, per quanto la si possa intendere in quanto designante l’intero sapere
umano in modo più elevato (ontologico) o meno (materiale). Circa l’ingl. sky va aggiunto che il
termine risulta collegato, a sua volta, pure col gr. σκíα (‘ombra’) – ne è d’altronde l’anagramma sul piano fonetico –
e il scr. chayâ (id.). Da
notare ancora che il s.f. σκíα si
collega in greco al vr.ser. σκέπω
(‘coprire, ricoprire’), ep. σκεπάω;
mentre in sanscrito il s.f. chayâ é apparentato all’a.m. kâla (‘scuro;
nero, blu’), donde il lat. caeles (‘celeste; azzurro, divino’)/ var.
caelestis/ coelestis (id.) o
6
câlîgo (‘oscurità, tenebra; caligine, nerezza, velo’) ed il gr. kelainós (‘nero’). Per molto tempo prima d’un famoso art. di Jean Prziluski si è pensato che nell’antica lingua indiana il s.m. kâla (‘tempo’) non fosse connesso linguisticamente all’a.m. kâla, onde si faceva derivare erroneamente la prima voce dal sanscrito (od antico indiano, la lingua dell’induismo) e la seconda dal pali (o medio indiano, la lingua del buddismo); in effetti, il senso di ‘cielo’ s’è perduto nell’idioma hindu, ma a riprova della giustezza dell’etimo sopra riportato esiste un termine che, all’opposto, indica la terra (khala). Il che ci autorizza a rapportare il scr. kâla (‘tempo’) al lat. caelum/ coelum (‘cielo’).
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câlîgo (‘oscurità, tenebra; caligine, nerezza, velo’) ed il gr. kelainós (‘nero’). Per molto tempo prima d’un famoso art. di Jean Prziluski si è pensato che nell’antica lingua indiana il s.m. kâla (‘tempo’) non fosse connesso linguisticamente all’a.m. kâla, onde si faceva derivare erroneamente la prima voce dal sanscrito (od antico indiano, la lingua dell’induismo) e la seconda dal pali (o medio indiano, la lingua del buddismo); in effetti, il senso di ‘cielo’ s’è perduto nell’idioma hindu, ma a riprova della giustezza dell’etimo sopra riportato esiste un termine che, all’opposto, indica la terra (khala). Il che ci autorizza a rapportare il scr. kâla (‘tempo’) al lat. caelum/ coelum (‘cielo’).
(2)
Il
dott. E.Albrile (com.or.) era del parere che uno studioso quale Gurdjeff
avesse utilizzato fonti appunto di tale provenienza e personalmente concordiamo
con lui, sebbene altri studiosi siano scettici in proposito alla persistenza
d’un possibile ramo armeno. Nel Poema
di Mirdad. Un faro ed un porto (pubblicato a Roma dalle Mediterranee
nel 1977, ed.or. 1962), di M.Naimy, non si fa ad ogni modo alcuna menzione
d’altri profeti se non del padre di Cam, Sem e Jafet; ne vi sono riferimenti
storici o contenutistici, sia pur indiretti, a qualsivoglia testo o tradizione
religiosa successiva a Noè.
(3)
Le
frasi riportate sono un nostro libero adattamento del testo.
Questo art. era stato pubblicato dapprincipio il 19-01-06 su un blog intitolato ALLE PENDICI DEL MERU, che costituiva la prefigurazione di quello attuale (ALLE PENDICI DEL MONTE MERU). Rispetto a quella prima versione è stato soltanto riveduto e corretto, specie la parte iniziale, con aggiunta dell'impaginazione e, fra non molto, anche di qualche illustrazione.
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