domenica 17 marzo 2013

LA VACUITÀ NELLA PITTURA BUDDHISTA DI SCUOLA CH'AN, DAI SUNG AGLI YÜAN







       Nella pittura paesaggistica cinese che andava dai T’ang ai Sung, già trattata (1), vigeva in genere la constatazione di tipo pre-iniziatico che la Bruma avvolgesse maternamente il Tutto e la Dualità fosse soltanto apparente, frutto delle vicendevoli alternanze del dominio dello Yin e dello Yang.  Essa in senso stretto era il frutto chiaramente di un’influenza taoista, sebbene tal arte fosse praticata anche dai buddhisti, i quali identificavano il Tao (la Via) alla Çûnyatâ (la Vacuità).  Da notare che lo Çûnya (il Vuoto) in ambito hindu ha sempre rappresentato il numero zero, emblema del Brahman (2).  L’India d’altronde, che del buddhismo è stata la culla in quanto elemento spurio dell’induismo, pur concependo la Dualità come qualcosa di per sé irreale (3) l’ha affrontata post-iniziaticamente quale Mostro da debellare; ovvero quale Avversario per eccellenza da annientare, al fine di poter riottenere la visione unificante originaria.  Fra queste due diverse visioni, è il caso d’ammettere, c’è di mezzo la Caduta e la Cacciata dall’Eden, che in termini cosmologici generali – fatte le debite proporzioni fra il Vicino ed il Medio Oriente – può essere collocata alla fine del IV Ciclo Avatarico.  Ossia, detto in termini cosmografici, fra la fine del Ciclo Sud-orientale (melanesiano-micronesiano) e l’inizio di quello Sudeano (austronesiano), di cui la cultura indiana piú antica è da considerare erede attraverso certo shivaismo.  Dallo shivaismo codeste istanze post-paradisiache sono state trasmesse al buddhismo mahayanico.  Ecco perché talvolta nella pittura cinese d’Ep. Ming, palesemente influenzata dall’arte ch’an piú che non da quella taoista (cfr. certa paesaggistica del confuciano Shen Chou), sarà un luogo paradisiaco leggendario, il T’ao-yüan, a funger da soggetto espressivo.  Siffatto richiamo paradisiaco non era invece presente nella pittura taoista, che non ne necessitava, poiché si rifaceva a due cicli entrambi anteriori a ciò che biblicamente chiamasi la ‘Caduta’ (4): da un lato il Ciclo Nord-orientale (paleoasiatico), in termini indiani equivalente al Ciclo della Tartaruga, la quale oltre ad esser la semiforma zoomorfa del Kûrma Avatâra era uno degli emblemi attribuiti al cinese P’an-ku; dall’altro il Ciclo Orientale (quello polinesiano), paragonabile al Ciclo del Verro (5), attribuito al Varâha 



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Avatâra.  Questi due cicli, nella cosmologia indd appartenenti all’Età Paradisiaca (o Aurea che dir si voglia), costituiscono la lontana base preistorica di quel che in età post-neolitica è stato definito ‘taoismo’.  La dottrina taoista si rifà infatti ad una precedente ontologia dai tratti shamanici, chiamata wuismo, dal termine wu (designante la shamana in epoca arcaica); ove erano le femmine piuttosto che i maschî a dominare la scena, come è accaduto in parte nel taoismo medesimo (6).   
       Ci ricorda lo Speiser (7) fra le 3 scuole d’importazione indiana ma di revisione cinese del buddhismo (IV-VI sec. d.C.) era comunque soprattutto la filo-taoista Scuola di Meditazione (ch’an deriva dal scr. dhyana = “meditazione”, anche se imprecisamente alcuni come il Luk lo hanno tradotto con “mente”) che piú s’approssimava alla mentalità propria della Cina, rispetto alla Scuola di Amida ed alla T’ien-t’ai.  Giacché si rifceva, in modo esplicito, all’antica dottrina del Tao e la riplasmava ad uso del nuovo modello importato affinché non apparisse come improprio al suolo cinese e venisse per tal ragione rigettato.  Fra il VII ed il IX sec. è avvenuta cosí la penetrazione della neo-dottrina ed il buddhismo ha cominciato seppur faticosamente la sua ascesa, pur essendo a quel tempo assai osteggiato a causa della sua inevitabile antisocialità (monachesimo, celibato), in contrasto peraltro colle tradizioni confuciane.  La Scuola Ch’an (cfr. lo splendido ritratto d’un maestro da parte di Shih K’o, X sec.)(8), a differenza delle altre, oltre ad avviare rapidamente all’Illuminazione senza troppi passaggi intermedî ebbe il merito di rivolgersi infatti anche a chi era coniugato e non osservava perciò strettamente i precetti buddhisti, facendo a meno oltretutto di conventi e scritture.  Di qui la scarsa simpatia da parte del Ch’an e del suo equivalente giapponese, lo Zen, per ogni forma letteraria.  Anche se poi in definitiva, contrariamente ai presupposti, i maestri di codeste scuole non han fatto mancare ai loro discepoli scritti d’impostazione ch’an e zen. 



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L’apogeo del ch’an fra i Sung Settentrionali e Meridionali

       È riconosciuto in genere che l’XI sec., sotto i Sung del Nord, sia stato il momento di maggior livello dell’intera storia della pittura cinese.  È in tale secolo che s’è sviluppata tra l’altro la tecnica semi-calligrafica della raffigurazione monocroma del mo chou (bambú, lett. ‘bambú ad inchiostro’), pianta la quale col vuoto interno della sua canna simboleggiava apertamente la Çûnyatâ.  Il maggior maestro in proposito, a detta del collega  Su Shih (XI-XII sec.), fu Wên T’ung (XI).  Sebbene la tradizione attribuisse al grande Wu (VIII sec.) o alla Dama Li (X sec.) l’invenzione del tema.  Di quest’ultima si vociferava che avesse cercato d’imitare le ombre della pianta provocate di notte dalla luna.
       L’osservazione del bambú, a parte Wen T’ung che si dedicò esclusivamente a questo genere di pittura, divenne un classico tema di meditazione non meno dei paesaggî e delle altre bellezze naturali.  C’informa del resto Su Shih, nei suoi scritti, che il maestro Wen  quando dipingeva il bambú era talmente immerso nella disciplina pittorica da dimenticare anche il proprio ego.  E s’identificava totalmente coll’oggetto della sua arte, in tal caso la pianta, di cui realizzava un modello dapprima nella sua mente, poi procedendo con pochi tocchi di pennello sicuri ed esperti.  Gesto tipico dell’artista che traeva la sua vocazione non da un’ispirazione mondana, bensí da un fuoco di celeste natura, quel che in Occidente chiamiamo furore dionisiaco.
       Altro tema favorito era il susino in fiore, considerato idoneo a determinare la cd. “illuminazione del chiaro di luna”.  Questo tipo di samâdhi veniva ottenuto, per grazia visiva, contemplando l’ombra proiettata dal susino fiorito o dal bambú su una finestra illuminata fungente da schermo.  Allo scopo vi era chi come il venerabile pittore ch’an Hua Kuan Jên (XII sec.) faceva trasportare il suo letto in giardino durante le notti di luna, declamando in seguito versi criptici che pigliavano presto forma attraverso la pittura, capace di ricreare sulla seta o sulla carta prima dell’alba l’atmosfera suggestiva del chiarore lunare.



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       Invece con i Sung del Sud prevalsero l’accademismo ed il classicismo, affievolendosi la spinta morale e la vocazione individuale, ma ciò permise almeno di tener vivo il mestiere.  Come sempre accade in epoche di decadenza, vennero meno le ambizioni estetiche, cosicché le opere d’arte diminuirono di valore.  E trionfarono per contro il virtuosismo tecnico ed il decorativismo.  Stilisticamente i soggetti delle composizioni si ridussero all’essenzialità, con appesantimento della linea ed oscuramento del colore.  Hang-chou (9), la cui bellezza e magnificenza è stata esaltata anche da M.Polo, divenne un centro frequentato da maestri del Per.Sung Settentrionale (Li Ti, Ma Fên).  Del primo abbiamo già parlato trattando della pittura taoista (10).  Il secondo (I metà del XII sec.) è il primo rappresentante della grande Famiglia Ma – donde proverranno nel secolo successivo Ma Yüan e Ma Li – ed è reputato l’autore de Le cento oche selvatiche (11), un’opera straordinaria in inchiostro su carta, la cui autenticità è però messa in dubbio.  Oggi il rotolo vierne attribuito, di preferenza, ai Sung Meridionali.  Il volo degli uccelli, naturalmente, si disperde nella nebbia come accadeva coi pittori precedenti.  Colla differenza che qua, al di sotto dei volatili, campeggiano degli esili bambú emergenti dall’acqua ad insegnarci che è dalla Vacuità e non dal Tao che principia il Tutto (12).
       È in tale momento storico che fioriscono gli apporti della Scuola Ch’an nella propria rielaborazione in chiave buddhistica della scuola pittorica taoista, benché introdotta dal punto di vista dottrinale fin dal VI sec. dal monaco Bodhidharma.  Prendendo spunto dalla dottrina taoista, quella buddhista insegnava che ogni aspetto del cosmo, anche minuscolo, era indirettamente collegato colla natura buddhica ossia colla contemplazione interiore del Buddha.  Onde il favorire un’intensa meditazione finiva per propiziare l’intervento di quell’intuizione fulminea che portava alla Bodhi (Illuminazione) od alla Mahâbodhi (Grande Illuminazione).  Qualcosa insomma d’assai diverso rispetto alla placida visione wuistico-taoista tipica della Cina tradizionale, od alla serena contemplazione di tipo yogico-shamanico propria dell’induismo.  Con tale metodo la mente non s’eclissava pian piano, furtivamente, per 



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rapimento trascendentale; ma improvvisamente, folgorata quasi per corto circuito.  Erano cambiati i tempi!  Era cosí che il pittore dell’epoca s’immedesimava nell’oggetto della sua pittura, in modo da porre la propria anima all’unisono coi ritmi cosmici; conscio che la buddhità – ossia l’essenza universale – era un quid appartenente a tutti gli esseri, agli uomini come agli animali o ad ogni altro ente naturale.  Compito del maestro-artista diveniva pertanto il riverbero nel mondo umano a scopo illuminante del dinamismo spirituale intrinseco ad ogni cosa,  affinché scattasse la molla nell’osservatore dell’identità assoluta tra sé e l’altro-da-sé.  Nel mondo corrotto dei tempi ultimi l’altro-da-sé aveva adempiuto una funzione d’alienazione, per cui l’ego si era chiuso illusoriamente in una roccaforte; roccaforte che poteva esser presto smantellata riponendosi all’unisono col cosmo, a patto di poter intendere nella maniera giusta il senso di quel che circondava gli esseri.
       Considerato superficialmente nella sua incostante fenomenicità, il naturale vela le sue potenzialità espressive.  Soprattutto appunto in tempi che sono lontani dall’origine paradisiaca.  Di qui il passaggio scontato dall’ottica ancestrale taoista a quella piú problematica di carattere buddhista.  Il taoismo non necessitava d’un brusco risveglio, bensí d’un semplice riassoggettamento alla logica universale dello Yin e dello Yang, passaggio che avveniva tramite l’occultamento parziale degli enti attraverso la Bruma quale immagine della Via.  Mentre, il risveglio che l’appercezione improvvisa della vacuità del tutto produceva buddhisticamente in chi meditava sul disegno ad inchiostro di china, presentava un aspetto lampeggiante.  Non era piú la natura grossolana degli esseri a contare, ma semmai la loro capacità vibrazionale denudata agli occhi dello spettatore, che ad essa giungeva tramite l’acuta sensibilità e le doti intuitive dell’artista propositore del tema.  Proprio per questo lo stile pittorico divenne essenziale, essendo atto a produrre la visione balenante in poche pennellate, e la policromia si ridusse per lo piú alla monocromia.
       Il paesaggio assunse in tal modo, rispetto a prima, tratti marcatamente soggettivi.  Mu Ch’i e Liang K’ai furono i due artisti del 



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XIII sec. che maggiormente di altri incarnarono  il suddetto ideale.  Entrambi si ritirarono in un monastero presso Hang-chou.  Del primo rimangono i Sei kaki, su carta, di stile iper-naturalistico (13); le Peonie (14), in inchiostro cromatico su seta, e lo stupendo Monaco in meditazione (15).  Tutte le opere sono state conservate in Giappone, dove hanno esercitato una notevole influenza sulla pittura autoctona.  Le composizioni di Mu-ch’i presentano un centro d’irradiazione avente un significato contemplativo nel senso sopra rilevato.  A partire dallo stesso sfumano tutte le altre pennellate d’inchiostro.  La dimensione in cui rientra ciò che è oggetto di raffigurazione supera l’ambito propriamente materiale, funge da invito palese al raccoglimento interiore.  Tale l’evidenza della bellezza da esso propagata, che lo spettatore si ritrova subitamente in un mondo ideale di purezza incontaminata, dove ogni cosa rivela i suoi altrimenti insondabili segreti.  Oltrepassata in codesto modo la soglia dell’ordinaria percezione, tutto appare in una chiarezza e semplicità allucinante.  Ecco la funzione dell’ispirazione artistica presso i maestri ch’an!  Liang K’ai è autore del magnifico ritratto posteriormente di fianco del poeta Li T’ai-po e di quello di lieve profilo d’un maestro ch’an (16).  Altre opere gli sono attribuite, ma paiono il frutto d’imitazioni posteriori.       



Pittura letteraria e crisi dei valori spirituali in Epoca Yüan

       A partire dalla II metà del XIII sec., coll’avvento della Din. Yüan (1260-1368) incominciò una fase di regresso dell’arte pittorica in Cina, che si sarebbe di seguito acuita colla Din. Ming (1368-1644) per culminare coi Ch’ing (1644-1912).   La Cina in questo periodo rimase sottomessa all’esercito mongolo e si creò in tal modo una situazione storica – benché piú breve – simile a quella verificatasi nel X sec. colle Cinque Dinastie.  La distruzione inevitabile delle scuole artistiche spinse però gli artisti ad adottare stili maggiormente personalistici.  In maggior 



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parte essi rifiutarono ogni forma di collaborazione coll’invasore e si ritirarono in solitudine, nostalgicamente ispirandosi all’arte luminosa d’Ep. T’ang.  Qui nacque la cd. wên-jên hua (‘pittura dei letterati’), divenuta poi un modello per tutti i secoli successivi sia in Cina che in Giappone.  La pittura letteraria perse il senso di trascendenza ed assunse toni naturalistici sempre piú accentuati man mano che si giungeva all’epoca moderna e contemporanea.  Come insegna l’Argentieri (17) la spiritualità di cui era connaturata la pittura precedente lasciò il posto alla semplice poeticità, la suggestività subentrò al senso di comunione colla natura, l’ecletticità dei generi sostituí la visione contemplativa.  Pur tuttavia s’adottarono nuove soluzioni tecniche e compositive, che arricchivano il panorama artistico e lo rendevano piú variegato, l’ambito generale in cui la pittura si muoveva rimanendo però quello classico.  Una pittura di stile letterario non poteva che essere un’espressione mediata, estranea ad ogni spontaneità e novità reale.  Le nuove soluzioni adottate perciò, inevitabilmente, rappresentavano accorgimenti manieristici.
       Tra i nomi piú illustri del periodo l’unico a distaccarsi dall’accademismo imperante del suo tempo fu Ch’ien Hsüan (XIII sec.), famoso pittore di fiori ed uccelli.  Di lui si conservano lo Scoiattolo sul ramo di pesco (18) e Primo autunno (19), due composizioni su carta in inchiostro policromatico.  Quest’ultima opera si distingue da ogni altra di qualsivoglia autore per l’attenzione riservata alla vita brulicante d’uno stagno, ove delle cavallette fan pendant con libellule, rane, farfalle ed altri insetti in un insieme di colori tenue ed assai suggestivo.  Non si tratta, ovviamente, di naturalismo ma piuttosto di sacralizzazione della natura anche nei suoi aspetti meno prossimi all’uomo.  Altri 2 pittori sono da segnalare per la loro vitalità: Chao Mêng-fu (XIII-XIV sec.) e Kao K’o Kung (id.).  L’uno era dedito a raffigurazioni equine alla maniera t’ang (vedi Cavalli al guado)(20), rispecchiando un rinnovato interesse per la vita nomade centrasiatica, evidentemente ispirato all’invasione mongola.  Fu naturalmente criticato per il suo collaborazionismo, essendo stato assunto quale funzionario 



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del nuovo impero.  In una composizione in inchiostro su seta il soggetto rappresenta addirittura la Partenza di Wên Chi ( nobile signora rapita dagli unni ) dall’accampamento nomade (21).  L’altro, riprendendo lo stile sung-settentrionale, s’ispirò a Mi Fei.  Vedi ad es. il già analizzato Montagna dopo la pioggia (22).  Una composizione isolata d’un maestro anonimo del Per. Yuan, La riva d’un lago in inverno (23), sembrerebbe invece rifarsi in parte alle Cento oche di Ma Fen (24).  Benché ispirato allo stile sung-meridionale, potrebbe essere opera dello stesso Kao, il quale visse per parecchio tempo in ambiente lacustre ed era attratto taoisticamente dai paesaggî, infondendo tuttavia in questi atteggiamenti piú sentimentaleggianti ed umani.
       Oltre ai nomi citati altri 4 artisti sono da annoverare, non fosse che per l’influenza da loro esercitata sui successori: Huang Kung-wang, Wu Chên, Ni Tsan e Wang Mêng; vissuti i primi due fra la fine del XIII sec. e la prima metà del XIV, gli altri due interamente nel XIV.  Al pazzo taoista Huang, tipico autore wên-jên, viene attribuito Il villaggio montano (25); un dipinto del 1342 in inchiostro su carta in cui si notano un’assenza quasi modernistica della prospettiva aerea e degli effetti chiaroscurali che, a giudizio del Willetts, ricordano da presso la paesaggistica tardo-impressionistica del provenzale Cézanne nonché quella espressionistica (priva di particolari) dell’olandese Mondrian.  Altrettanto può dirsi dei paesaggî di Wu, ove però a differenza le linee distintive del disegno paiono eclissarsi (26).  Wu Chen, assieme a Ni Tsan e ad alcuni altri altri pittori «calligrafici» (Wên T’ung, Yang Wu-chiu, Li K’an, Ku An, Kuan Tao-shêng, e P’u-Ming) (27), fu inoltre tra i maggiori compositori di mo chu (28), i quali miscelarono esteticamente pittura e calligrafia.  davvero splendido, del resto, è il suo Ciuffo di bambú (29).  L’opera sua maggiore è comunque secondo l’Argentieri Il piacere del pescatore, tema sicuramente ripreso da Il pescatore eremita di Ma Yuan (30), ove un remo sembra fungere da stampella al vecchio addormentato su di essa.  Ni Tsan, molto stimato stilisticamente al suo tempo, ritraeva invece paesaggî ideali piuttosto sfumati (31).  Di Wang Meng rimane Case con tetti di paglia sul 



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Monte T’ai (32), in inchiostro policromo su seta, composizione che già prelude a pitture dei tempi successivi.  In un laghetto formato da una scoscesa cascata si specchiano i due alberi alla base del dipinto, l’architettura umana perfettamente integrandosi colla rupe prolungante l’effetto di slancio verso l’alto provocato dagli alberi; ma il monte giace quasi incassato nel terreno, avendo forma atipicamente quadrangolare anziché conica. 

                                                                                       Giuseppe Acerbi



Note 

(1)             G.Acerbi,  La Bruma e il Tao. Tecnica paesaggistica della pittura cinese dai T'ang ai Sung- Alle pendici del Meru (31-01-13), su questo stesso blog.
(2)             Id.,  Metafisica dello Zero- Alle pendici del Meru (6-10-06); purtroppo cancellato inopportunamente dal blog, ma sarà riproposto in vers.integr. (invano fornita a ‘Heliodromos’) prossimamente. 
(3)             Almeno, nelAdvaitavâda Vedânta di tipo çankariano.
(4)             Indianamente corrispondente alla fine del Satya Yuga.
(5)             Siffatti cicli non sono enumerati solamente nella tradizione indd, ma vengono elencati  anche nelle tradizioni oceaniane; e, sotto diverso aspetto (vedi sequenza dei Nove Imperatori, ai quali manca l’ultimo per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare qui), persino in quella taoista.   Gli Avatâra non vengono venerati nel buddhismo, avendo i Bodhisattva – seppur assai pid numerosi – idealmente preso il loro posto; tuttavia, pure i buddhisti si rifanno cosmologicamente al Caturyuga.
(6)             Rifacendoci alla ‘Genesi’, potremmo interpretare il wuismo originario del Ciclo del Verro – senza per questo uscir dal seminato, visto che il tema edenico vetero-testamentario pare d’origine indo-iranica anziché semitica – in rifermento agli Evaiti. (N.B.-  Usiamo la voce ‘Genesi’ al femminile, derivando questa dal greco e non dall’ebraico, come certa erudizione accademica contemporanea vorrebbe far credere.  Perché altrimenti di questo passo dovremmo chiamare il Gange la Gange e via dicendo, dato che in sanscrito i nomi dei 



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 fiumi sono tutti femminili.  Pure in tal caso, infatti, il nome italiano deriva dal latino e non dal sanscrito…)
(7)             W.Speiser, Cina- Il Saggiatore, Milano 1960 (ed.or. China. Geist und gesellschaft- Holle V., Baden-baden 1959), Cap.V, § 7 (nn.numm.), p.134-5.
(8)             On line.
(9)             Questa città è stata nel XIII sec. la capitale della Din.Sung Merid. (la vecchia capitale nel X sec. dei Sung Sett. era Pien, attuale K’ai-feng), così come oggi lo è del Chekiang, una delle 5 province meridionali della Cina.  Meraviglia del posto è il non dustante Lago Occidentale, attorno cui sono dislocati numerosi templi antichi.  Tale lago, insieme ad altri fattori geografici, ne fa tuttora il principale centro turistico del Paese.
(10)         Ibîd. come alla 1.
(11)         W.Willets, Origini dell’arte cinese, dalla ceramica neolitica all’architettura moderna- Silvana, Milano ? (ed.or. Chinese Art, I ed. Penguin B., Harmondsworth [Middl.], 1958; II ed.riv. Thames & Hudson, Londra 1958), Cap.VII, p.340, tav.194.
(12)         Cfr. collo Hén-tò-Pân dei Greci.
(13)         Will., op.cit., p.328, tav.col. 52.
(14)         Op.cit., p.341, tav.196. 
(15)         G.Argentieri ( a c. di), Pittori cinesi- Mondadori, Milano 1967, p.55, ill.18.  Anche in questo secondo art. confessiamo d’esserci appoggiati a questo testo, principalmente, per la parte storica e documentativa dell’articolo.
(16)         Will., cit.,  p.338, tavv.  189-90.
(17)         Arg., op.cit., p.124.
(18)         Will., cit., p.340, tav.195.
(19)         Cit.., pp. 326-7, tav.col. 50.
(20)         Arg., cit., pp .98, ill.31 e 101, ill.32.
(21)         Will., cit., p.358, tav.221.
(22)         Ibîd. come alla 1, n.10.
(23)         Arg., cit., p.81, ill.col. 27.  Nell’ambito di tal composizione una coppia di oche selvatiche sosta accanto a due alberi spoglT, su uno dei quali sono sospese alcune gazze.  In mezzo agli alberi nudi si staglia, per un contrasto sicuramente voluto, un sempreverde.  Altri volatili sono appollaiati su un isolotto, mentre un volo d’uccelli s’avvicina in un cielo nebbioso soffuso di vaga e spenta luce crepuscolare; che tende a confondere tutte le sagome naturali in un chiaroscuro suggerente una sottile dimensione di vacuità, con un effetto


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rispecchiante quello della bruma nella pittura taoista.
(24)         Vide  n.11.
(25)         Will., cit., p.359, tav.223.
(26)         Arg.,cit., p.88, ill.27.
(27)         Il genere proviene dalle rappresentazioni pittoriche buddhiste di Avalokiteçvara aliâs Kuan-Yin, dalle quali una volta estratto ha finito per diventare un genere a sé stante.  Il ‘bambd ad inchiostro’ del periodo sung-meridionale (XII-XIII sec.) e yüan (XIII-XIV sec.) sarebbe nato, secondo i testi, dal ‘bambú a contorno’ d’epoca t’ang (VII-X sec.) e sung-settentrionale (X-XII sec.).  Precoci rappresentanti del bambú a contorno furono al dire del Willets Li P’o (X sec.), Huang Ch’üan (X-XI sec.), Ts’ui Po (XI sec.) e Wu Yüan-yü (id.).  Il pittore di bambú Wen T’ung – attivo nella seconda metà dell’XI sec. – è ad ogni modo ritenuto il vero iniziatore di questo modello di pittura (Will., cit., pp. 342-3, tavv.197-8), prima ricorrente soltanto in composizioni isolate da parte dei pittori minori succitati durante il X sec. e la prima metà del successivo.  A seguire l’altrimenti pittore dei susini in fioreYang Wu-chiu, operante nella prima metà del XII (ibîd., p.343, tav.199).  Appartengono al mo chu, altresì, i 4 grandi maestri d’epoca yüan: Li K’an (XIII-XIV sec.), il maggiore tra costoro (ib., p.244, tav.200); Ku An (XIV sec.), pid formale e prosaico; nonché gli eccentrici Wu Chen (XIII-IV sec.) e Ni Tsan (XIV sec.).  Una variante particolare di tal tipo di composizioni è rappresentato dal Bambú nel vento, tema interpretato in ottica cinese come la capacità da parte degli autoctoni di resistere alla bufera dell’inavsione mongola; è stato affrontato da Wu Chen (p.348, tav.205) e Ku An (p.349, tav.206), ma sfruttato ancor  meglio da P’u-Ming (Arg., cit., p.83, ill.26).
(28)         Cit., p.71, ill.col. 23.
(29)         Will., cit.,  p.346, tav.202.
(30)         Cit., p.356, tav.219.
(31)         P.359, tav.224; inoltre Arg., cit., p.89, ill.28.
(32)         Will., p.360, ta.226.



Illustrazioni


1.  Il leggendario T’ao-yüan (Shen Chou, pittura paesaggistica, dett., Coll.Dubosc, Lugano, Ep.Ming).


2.  Idem (id. ).

3.  Maestro ch’an con gatto (Shih K’o, ritratto, X sec.).

4.  Bambú (Wên T’ung, inch. su carta, Mus.Naz. del Pal., Taichung, Taiwan, XI sec.).
5.  Le cento oche selvatiche (Ma Fên, inch. su carta, Acc. delle Arti, Honolulu, XII sec.).
6.  Ascoltando il vento sotto i pini (Ma Li, XIII sec.).
7.  Il maestro ch’an Wu-chun (Anonimo, ritr., XIII sec.).
8.  Monaco buddhista in meditazione (Mu Ch’i, ritratto, Coll.Iwas., Tokyo, XIII sec.).
9.  Sei kaki (Mu Ch’i, dett., inch. e col. su carta, Daitoku-ji, Kyoto, XIII sec.).
10.  Peonie (Mu Ch’i, inch. su seta, Daitoku-ji, Kyoto, XIII sec.).
11.  Ritratto (di profilo) del poeta Li T’ai-po (Liang K’ai, inch. su carta, Mus.Naz., Tokyo, XIII sec.).
12.  Scoiattolo sul ramo di pesco  (Ch’ien Hsüan, inc. e col. su carta, Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIII sec.).
13.  Primo autunno  (Ch’ien Hsüan, inc. e col. su carta, dett., Ist. di Arti, Detroit, XIII sec.).
14.  Cavalli al guado (Chao Mêng-fu,dett., dett., Lib.Gall. d’Arte, Washington, XIII-IV sec.).
15.  Partenza di Wên Chi dall’accampamento nomade (Chao Mêng-fu, inch. su seta, Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIII-IV sec.).
16.  La riva d’un lago in inverno (Anon., coll.ign., Per. Yüan).
17.  Villaggio montano (Huang Kung-wang, inch. su carta, Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIV sec. )
18.   Il pescatore eremita (Wu Chên, inch. su carta, XIV sec ).
19.  Ciuffo di bambú (Id., inc. su seta, Mus.Brit., Londra, XIV sec ).
20. Bambú al vento (Ku An, inc. su seta, Mus.Brit., Londra, XIV sec.).
21.  Bambú (Li K’an, dett., Nels.Gall. of Art, Kansas C., XIV sec.).
22.  Paesaggio (Ni Tsan, inch. su carta, Lib.Gall. d’Arte, Washington, XIV sec ).
23.  Case con tetti di paglia sul Monte T’ai (Wang Mêng, inch. e col. su carta, Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIV sec ).


Fonti
 
1.       G.Argentieri, Pittori cinesi- Mondatori, Milano 1967, p.115, ill. 36,
2.       Ibîd., p.119, ill.37.
3.       On line.
4.       Willets, Origini dell’arte cinese, p.343, ill..207.
5.       Ibîd., p.340, ill.194.
6.       On line.
7.       On line. 
8.       Arg., p.55, ill.18. 
9.       Will., p.328, tav.52.
10.     Ibîd., p.341, ill.196.
11.     Arg., p.34, ill.11. 
12.     Ibid., p.340, ill.195.
13.      Ib., p.326, tav.50.
14.      Arg., p.101, ill.32. 
15.      Will., p.358, ill.221.
16.      Arg., p.81, tav.27. 
17.      Will., p.359, ill.223.
18.      On line.
19.      Will., p.346, ill.202.
20.      Ibîd., p.349, ill.206.
21.      Arg., p.69, tav.22. 
22.      Will., p.359, ill.224.
23.       Ibîd., p.360, ill.226.
 

 Fig.1

 Fig.2

 Fig.3

 Fig.4

 Fig.5

 Fig.6

 Fig.7

 Fig.8

 Fig.9

 Fig.10

Fig.11

 Fig.12

 Fig.13

 Fig.14

 Fig.15

 Fig.16

 Fig.17

 Fig.18

 Fig.19

 Fig.20

 Fig.21

 Fig.22

Fig.23 

1 commento:

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