sabato 26 novembre 2016

YAMA E LA LEGGENDA BIBLICA DEL PECCATO ORIGINALE







A.  Premessa: i dati



          Nella cultura hindu esiste, com’è noto, un mito paradisiaco parallelo a quello giudaico-cristiano.  Anzi, è possibile ritenere addirittura che il primo abbia in qualche modo influenzato il secondo, sicuramente tramite la cultura zoroastriana in funzione intermediatrice.  Almeno, a giudicare dall’etimo (1).  Non a caso il personaggio principale di entrambi i miti è un essere umano archetipico dal nome semplicemente di ‘Uomo’ (scr. Manu, ebr. 'Ādam), donde sembra derivato da una parte il concetto indoeuropeo d’onomastica (2) e dall’altra quello di umanità (3).  Sebbene non esista in India apparentemente nulla d’analogo alla leggenda di Adamo e del Peccato Originale, vi è pur tuttavia qualcosa che ad essa rassomiglia.  Proviamo a riassumere brevemente il tema biblico, al fine di analizzare strettamente i mitologhemi dei quali è composto e confrontare se per caso nell’induismo non appaia alcunché di lontanamente paragonabile; magari con l’aiuto della tradizione avestico-pahlavica, che è piú sentimentale di quella vedico-puranica e quindi piú prossima all’idea di peccato (4).

a)     Adamo è in origine un essere androginico, prima di generare dalla propria costola la propria compagna, Eva.
b)    Insieme a lei vive spensieratamente felice in uno spendido Giardino delle Delizie, l’Eden.
c)     Il Creatore concede ad essi tutti i frutti del ‘Giardino’, tranne uno, i pomi d’un misterioso albero.
d)    Presto però un turbamento penetra nel luogo del loro idillio: Eva è tentata dal Demonio in forma di serpente presso l’Albero del Bene e del Male, detto anche Albero della Conoscenza.
e)     Il Serpente Tentatore la induce a mangiar la famosa ‘Mela’, donde provengono tutti i mali annessi da allora in poi alla loro progenie.
f)       Dopodiché i due s’accorgono d’esser ignudi e si vanno a nascondere per la vergogna.
g)     Il Creatore, accortosi indirettamente del peccato di disobbedienza dal loro nuovo comportamento, li scaccia dall’Eden.

          Questi, sostanzialmente, i 7 punti fondamentali della leggenda cosmologica che compare nella ‘Genesi’ (5) riguardo la creazione umana.  Inutile aggiungere che molti sono i motivi similari dispersi in altre mitologie relativi alla condizione paradisiaca.  Per comprenderne le connessioni col tema biblico appena sommarizzato occorrerà analizzare punto per punto la vicenda, indipendentemente dalla trasgressione di cui sono accusati i Progenitori nella tradizione giudaico-cristiana e che da un punto di vista strettamente teologico renderebbe in apparenza troppo limitative le compararazioni possibili con altre tradizioni.  Invece, analizzando ogni punto in comune di altre tematiche pararadisiache con quelli sopra genericamente indicati, ci accorgeremo che si può ricostruire a grandi linee l’intero mito edenico del Peccato Originale cosí come esso doveva apparire in origine, al di là delle molteplici forme nelle quali esso si è via via separato e poi disperso.  La tecnica da noi adottata, lo palesiamo senza ritegno, l’abbiamo presa a prestito chiaramente dalla O’Flaherty (6).  La scrittrice newyorkese l’ha utilizzata per dare un senso compiuto all’intera mitologia shivaita.  Tutti i mitologhemi dei quali essa è foggiata presi separatamente dipingono un quadro molto vario, ma dispersivo, del nume.  Unitamente, mostrano una logica consequenziale piuttosto stretta, quasi si trattasse di pagine dimenticate d’un antico e bellissimo mito dispersosi nei meandri del fiume del tempo.  Per unire tutti i mitologhemi disponibili bisogna raccoglierli da fonti varie in forma critica, non solamente da un testo; altrimenti ci limiteremmo a stabilire la storia del mito da noi considerato solamente in rapporto a quel dato testo.  Qui non si tratta infatti di creare la versione teoricamente completa d’un testo, in base a tutti i manoscritti reperibili, come potrebbe avvenire col Mahābhārata o la Bibbia.  A tal compito sono già preposti studiosi di paleografia, filologi, critici letterarî, linguisti, traduttori e storici della letteratura.  Al contrario, ivi si vuole estendere il mito a tutti i paralleli possibili, non per far gratuitamente della mitologia comparata; ma ad un fine molto più elevato, di modo che si possa trovare il bandolo della matassa e comprendere appieno il significato intimo dell’intera leggenda.  Stabilito il metodo, passiamo all’analisi diretta dei punti indicati.  





B.  Analisi della leggenda




1.  L’ANDROGINIA ADAMICA


          La storia dello sdoppiamento del primo Adamo nella coppia di Adamo ed Eva, che avviene in Gen.- ii. 21-2, implica necessariamente l’androginia primaria di Adamo (7), come del resto attestato in Talmud Ketubot 18, Rashi.   Androginia che difatti troviamo anche in Iran colla coppia avestica Yima-Yimak, nata primordialmente dall’Albero Alchemico (8).  Lo stesso può dirsi per i loro equivalenti hindu Yama e Yamī (x. 10, 1-14), i <Figli del Sole> (Vivasvat, ivi chiamato Gandharva), presso i quali la cosa è sottolineata dal fatto che in sanscrito la voce yama significa appunto ‘gemello’; benché nell’inno in questione il fratello-gemello cerchi con scrupolo morale di sottrarsi all’incesto cosmogonico colla scusa della rettitudine (vv. 1-4), ma è lei che con desiderio tutto femmineo lo spinge all’atto sessuale (vs. 5), asserendo che il dio Tvaṣar (il Creatore, il Demiurgo) li ha fatti marito e moglie quand’erano ancora nell’utero.  Yama allora subito obietta esprimendosi con queste sibilline parole (vs.6): “Chi conosce quel primo giorno? chi lo ha visto? chi può dare qui notizie di esso?”  Dopodiché, sempre allo stesso verso, egli l’accusa di lussuria, ma lei ribatte calma (vs.7): “A me Yamī è venuto desiderio di Yama, di giacere assieme in uno stesso letto.  Come moglie al marito, che io gli possa concedere il corpo; possiamo noi due rompere, come (rompere) due ruote di carro (9).”  Al vs.8 Yama la respinge per la seconda volta, ma Yamī  insiste indicando Cielo e Terra come fratelli eppure nel contempo sposi.  Per questo si dichiara al vs.9 disposta volentieri a subire incesto.  Yama comunque non la vuole (vs.10): “…cerca …un altro sposo diverso da me.”  E fa un ultimo tentativo: “Che fratello può esser mai, se non c’è protezione (da parte sua)?  Che sorella sarà mai, se la distruzione può venire?  Costrettavi dal desiderio vado sussurrando tutto questo; unisciti col tuo corpo al mio corpo.”  Nulla da fare, il fratello non ci sta (vs.12): “Non voglio unire il mio corpo al tuo corpo, chiamano scellerato chi s’accosta alla sorella.  Con un altro da me soddisfa le tue voglie; tuo fratello… non desidera questo.”   La sorella, dunque, lo accusa di viltà, di mancanza d’animo e di cuore (vs.13), cosa cui il fratello replica seccamente: “Un altro (abbraccia tu), o Yamī, un altro abbracci te, come la liana l’albero…”  Giustamente, fa notare il Papesso (10), il testo si contraddice laddove si riferisce ad altri rispetto alla prima coppia umana.  Ma è chiaro che questa è una coppia cosmogonica, non una coppia in senso naturalistico.  Basta pensare al significato del nome Adamo, ossia ‘Uomo’; significato che è poi il medesimo del nome Manu, alter-ego di Yama (11).
          Passando all’etimo del nome Yama – l’abbiamo rilevato in altri nostri scritti (12) – è lo stesso del norr. Ymir, pure costui un essere androginico; o del lat. Iānus, che al femminile dà Iāna (13).  Persino nel caso della coppia tardo-iranica Mašya-Mašyanē abbiamo a che fare con una perfetta complementarietà del maschio e della femmina mitici, secondo quanto suggerisce l’onomastica pahlavica.  Tutto ciò ci suggerisce che tanto la coppia induista Manu-Parśu (lett. ‘Costola’) quanto la coppia ebraica dam-Hawwā (var. Héva) rappresentano un doppione delle altre coppie succitate.  E non importa che la prima appartenga alla letteratura indoeuropea (sarebbe meglio, secondo noi, riportare in auge il vecchio termine ‘jafetica’) e la seconda a quella giudaico-cristiana, cioè semitica.  Appare evidente che vi è stato un prestito dall’India alla Palestina, probabilmente attraverso Abramo e la Sumeria, insomma per via camitica (14).  Usando i giusti termini, cioè i termini tradizionali (biblici), si capisce benissimo perché vi siano stati dei prestiti fra culture affini (camitiche, semitiche e jafetiche).



2.  IL GIARDINO EDENICO

      La nascita di Adamo (ii. 7), a ben guardare, precede la creazione del Giardino (vs.8); cosí come la vita di Adamo nell’Eden vero e proprio (vv. 15-20) precede la nascita di Eva (vs.23), che è quasi strettamente legata all’entrata in scena del Serpente (iii. 1).  Quando entra in scena quest’ultimo si ha l’impressione di trovarsi già in un ambiente paradisiaco modificato.  Da punto di vista ontologico la monogenesi di Adamo indica che Adamo è tutt’uno con Dio al principio, tant’è che ne è fatto a perfetta somiglianza.  Di questa vita primordiale poco o nulla è scritto nel testo, se non che “Dio fece crescere dalla terra ogni albero desiderabile a vedersi e buono da cibo” (ii. 9); insomma, per dirla colle parole dei nostri giorni, la natura appariva rigogliosa e la terra produceva frutta e verdura senza bisogno di stimolarla con mezzi artificiali.  Ovviamente, il fatto ha un significato criptico, poiché l’abbondanza di nutrimento allude allo stato spirituale dell’uomo delle origini di piena consapevolezza di sé.  Non solo, la mancanza di cenni ad ogni forma di produzione umana di cibo, orticola o pastorale che fosse, implica che l’uomo in quell’illud tempus non ne necessitava neanche da un punto di vista mentale.  In quanto l’ego non la faceva ancora da padrone e tutti i propositi del vivere erano indirizzati esclusivamente alla conoscenza dell’Albero della Vita nel mezzo del Giardino delle Delizie.  L’uomo era solito guardare verso l’alto e non si sentiva estraneo alla vita universale, di cui rappresentava in certo senso la gemma piú splendida; ma, nel contempo, non ne andava eccessivamente orgoglioso.  Quantunque, contrariamente ad altre tradizioni, ad es. quella sumerica (15), la tradizione ebraica assegni direttamente al’Uomo (Adamo) il compito di stabilire il giusto nome alle cose.  Implicite dunque le allusioni di tipo ermeneutico, che ritroviamo mutatis mutandis nella filosofia greca, vale a dire nel Cratilo di Platone.  E al pari di un dio Adamo applica beatamente il nome agli animali (vs.20), ma nessuno lo aiuta e lo gratifica, per cui si sente solo.  Per la verità pure cotale sensazione ci rimanda ad un atteggiamento divino, quello del Dio Supremo che ha bisogno di creare (16).  Ed ex-nihilo emana la Creazione sotto forma d’ideale figlia-compagna, cosa che avviene difatti nel mito adamico originario, il mito indiano.   Dove Parśu è figlia, prima che sposa, di Manu.  Dato che nel giudeo-cristianesimo la dualità fa capolino fra Creatore e creatura, la femmina non proviene direttamente da Dio, bensí dall’Uomo per intermediazione maschile.  Nella leggenda di Manu, invece, i medesimi presupposti non consistono.  Manu è l’Uomo-dio dei primordî, l’aggiunta del Matsyāvatāra è soltanto una replica vishnuita.  Il Veda originario (17) non lo contempla, dato che il Pesce (non l’Uomo-pesce) è un’immagine di Brahmā, il Creatore.  Ed il Pesce è colto direttamente col vaso sacrificale, s’intende col cuore umano.  Come a dire che c’è perfetta identificazione fra l’uno e l’altro, fra Manu e Brahmā.  L’identificazione fra Yahweh-Elohīm ed Adamo non compare invece mai apertamente nel testo biblico, per quanto il vs. v. 1, ed anche quello successivo, l’adombrino chiaramente.  Soltanto la Cabala la postula chiaramente; ma in questo caso la fisionomia adamica muta iconologicamente, passando da 1 a 4 Teste (18).  Come quelle, non a caso, di Brahma e Giano. 



3.     Il FRUTTO PROIBITO



      L’astuzia del Serpente e la leggerezza della Donna fanno in modo che l’Uomo non si accontenti di vivere nella spensieratezza del Giardino, ma che vogliano conoscere i misteri divini e in particolare il mistero della Conoscenza.  Di qui la fame di voler gustare il “frutto proibito”, la ‘Mela’ cresciuta nell’Albero situato al ‘Centro’ del Giardino.  Che è questa Mela se non il Mondo medesimo, basato sul Divenire?  L’Asse di Mezzo – l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male – ne è il perno, il tronco; ma la ‘Mela’, cioè il Mondo stesso, ne è il frutto.  Di qui la moltiplicazione particolare che ne fa Milton nei cd. ‘Alberi della Scienza’, scalati i quali i Progenitori ormai al di fuori dell’Eden (nell’ambito del Paradise Lost) ottengono soltanto cenere.  Perché la scienza ha solo valore pratico, reca lavoro, ma è vuota di contenuti ideali.   Impossibile andare oltre nell’analisi di questo tema, perché l’uomo ne è tuttora avviluppato, anzi sempre maggiormente.  La ‘Mela’ di Eva non è diversa da quella di Afrodite di classica memoria, a dimostrazione che una diversa interpretazione del frutto proibito (la vulva della donna) non si discosta di molto dall’altra.  Sempre e comunque vi è un limite, sorpassato il quale si scatenano contese e mali a non finire, poiché si tratta in ogni caso del passaggio dall’universale all’individuale.  Annche la ‘Mela’ di Biancaneve rientra nel novero dei miti della Conoscenza.  La ‘Mela’ <mezza avvelenata> è sempre il Mondo, fatto di Bene e di Male, che una volta incontrato nelle sue sfaccettature prima ignote, produce problemi a non finire, praticamente irrisolvibili.



4.     LA TENTAZIONE DA PARTE DEL SERPENTE


      Vi è una differenza fra il Serpente dell’Eden e il Dragone apocalittico.  Il primo spinge i Progenitori alla Dualità, ma una Dualità che è un semplice venir meno del senso dell’Unità Divina o meglio della Non-dualità; mentre il Dragone è foriero di Dualismo, non riconciliabile in nessun modo coll’Unità Divina.  Ciò che spinge la Donna a gustare del frutto proibito e poi a darne assaggio all’Uomo è una sete di conoscenza: aprirete gli occhi, è detto in iii. 5; e gli occhi si aprirono, si aggiunge in iii. 7, ma seppero allora di essere nudi.  Questa è la conoscenza infatti che si apre ai loro occhi, la conoscenza del dettaglio, dell’inessenziale.  La Serpe, colle sue spire, implica la nozione di dualità in tutte le sue forme (bene-male, giorno-notte, cielo-terra ecc.).  Una volta introdotta questa nozione nell’animo, non ce ne si può piú liberare.  Nascono in tal modo le paure, come si deduce dal fatto che la primma coppia umana abbia paura dei passi di Yahweh e si nasconda, dopodiché essa cela le proprie pudenda con foglie di fico.  In ciò si nota chiaramente come la tentazione e la corruzione siano praticamente la medesima cosa.  La perdita dell’ingenuità è la perdita irrimediabile della consistenza d’animo.



5.     IL PECCATO ORIGINALE


      Il Peccato Orignale viene considerato un peccato di disobbedienza a Dio.  Ma qual è veramente la disobbedienza a ragionar profondo?  L’aver gustato il frutto proibito?  Chiaro che ci troviamo di fronte ad una grande metafora umana: ma quale?  Nell’Avesta esiste il cd. ‘Peccato di Yima’, il quale benché stigmatizzato dagli zoroastriani in tempi tardi, doveva essere in origine la prerogativa principale del personaggio.  Ora di che è accusato Yima?  …esattamente di aver adorato sé stesso.  Se noi pendiamo tale affermazione cum grano salis, ne possiamo dedurre che in principio l’Uomo faceva della propria adorazione il suo vessillo.   Come si può conciliare ciò colla parabola della disobbedienza biblica?   Si può, ma evidentemente la cosa si deve intendere in un senso particolare.  Non come chiusura nell’ego, ma al contrario come apertura verso la propria natura spirituale immortalante.  Sicché la perdita di tale apertura ha determinato una caduta profonda, la Caduta appunto di cui parla la Bibbia.  Onde si può immaginare che la disobbedienza in realtà sia la misconoscenza, intervenuta ad un certo punto della vicenda umana, della propria natura.



6.     LA COPPIA, IGNUDA, SI VERGOGNA DI SÉ




      Il pudore fa parte dell’abito mentale d’ogni coppia timorta di Dio, ma in origine le cose non dovettero stare a questo modo.  Il senso di disagio che coglie i Progenitori allorché hanno disobbedito alla Divinità – evidentemente si trattava d’un comando implicito allla propria natura, fuor di metafora – è tale che provano vergogna quando Yahweh si palesa loro di nuovo.  Questo palesarsi ha luogo dietro contemplazione, non si può prender il racconto troppo alla lettera; contemplazione che era venuta meno quando la volontà li aveva spinti all’azione e all’allontanamento dal precetto di obbedienza, fino a che si rendono conto di quel che hanno fatto.  La coscienza dell’esssere venuti meno alla loro natura profonda li scoragggia, ponendoli in una condizione di sofferenza intima, sofferenza che ci è stata tramessa e che viviamo ancor oggi noi popoli civilizzati.




7.     CACCIATA DAL PARADISO

      La ‘Lama Fiammeggiante’ dei Cherubini (angeli concepiti dagli ebrei sotto forma di tori alati), di cui si tratta in Gen.- iii. 24, allude senz’altro sul piano cosmologico alla costellazione del Toro; che all’inizio del quarto ed ultimo ciclo edenico (19) signoreggiava il Punto Vernale.  Infatti, “ruotava continuamente per custodire la via dell’albero della vita”.  Il Toro, naturalmente, è collegato alla Torāh; la ‘Legge’, il Dharma in termini sanscriti.   Simultaneamente al Polo Artico stava l’asterismo del Dragone (= il Serpente), causa simbolica della Caduta; al Polo Antartico era invece collocato in parallelo Canopo (= il Vaso), la cui presenza nei cieli non traspare tuttavia dalla leggenda biblica, se non in un caso: nell’iconografia, in un manoscritto italiano del XV riportato dal Neumann (20).  L'autore suggerisce una comparazione, d'altronde, colla conca battesimale in quanto fonte dell'Acqua di Vita o persino colla Madonna intesa appunto quale Vaso di Grazia.  Nel racconto vedico, viceversa, potrebbe esser presente se in tal modo interpretiamo il recipiente sempre piú vasto nel quale Manu è costretto a riporre il Pesce Avatarico (21). 




C.  Conclusione: riflessioni finali
  

      Ora possiamo ricostruire per bene il mito edenico nei termini seguenti.  L’Uomo in principio era androginico, non soggetto ad alcuna forma di dualità.  Coglieva direttamente nel riflesso del proprio cuore la Divnità, cui s’identificava.  Vivendo sulla Terra come in un Giardino di Delizie non gli mancava nulla, ma ecco che si approsssima alla sua mente il desiderio di essere qualcosa di diverso da sé, vale a dire di conoscere il mondo in dettaglio.  Il che lo porta a contrapporsi alla Divinità e a sperimentare la realtà.  Questo è l’inizio d’ogni conoscenza. Ma la scienza mondana è un frutto proibito, denso di valori negativi.
     Il frutto della contrapposizione a Dio ha come conseguenza una contrapposizione fra Sé e il Mondo, donde origineranno tutti i mali umani.  L’Uomo comincia ad autocommiserarsi anziché gloriarsi di Sé, dimenticando il valore fondamentale del proprio cuore.  Questo l’errore fondamentale, donde nasceranno il timor religioso ma anche le paure varie.  A cominciare dalla vergogna per la sua nudità.  Il Re ha perso lo Scettro e presto perderà pure la Corona.  L’Uscita dal Paradiso, cacciata o meno che sia, ne è la tragica consegenza.





Note

1.          Cfr. L.B.G. Tilak, Orione. A proposito dell’antichità dei Veda- Ecig, Genova 1991, Prem. del T., p.15.  
2.          Il termine Manu designa metonimicamente l’umanità primeva, ma si pone in diretto collegamento colla voce sanscrita manuya; la quale è invece riferita generalmente all’umanità decaduta, tipica del Kaliyuga, l’arco di millennî con cui si chiude il ciclo manvantararico (lett. ‘periodo di Manu’).  Rispetto ad esso  il scr. nām-a (‘nome’) cosí come il lat. nōm-en (id.) ed gr. o-nom-a (id.), ha base filologica pressoché inversa – *nam < man  – cioè equivalente per la mentalità arcaica.   Probabilmente i nomi, umani e non, sono dunque stati concepiti nella cultura indoeuropea (sarebbe meglio biblicamente dire ‘jafetica’) come un’imitazione di quello dell’Uomo per eccellenza.
3.          Anche l’ebr. ādām significa ‘uomo’.   E il sostantivo è correlato, sicuramente, al lat. hōmo; dato che nell’un caso e nell’altro i termini sono apparentati a parole significanti ‘terra’, o meglio  terra umida.  Vedi l’ebr. dam (‘argilla, terra rossa’), nel senso di terra impastata con l’acqua; o, se vogliamo, con la saliva  (= acque celesti) del dio uranico primevo.  In greco si ha parimenti dām-os/ dēm-os (‘terra, popolo’, ossia l’insieme degli eseri umani, con riferimento particolare alla Quarta Età ciclica), una voce che pare quasi – desinenza a parte – l’abbreviazione di Dē-mēter. Il concetto arcaico di Dē, donde sorge durante l’Epoca Ferrea la figura numinosa di Dē-mēter ovvero la Terra Madre personificata, deriva d’altronde da quello prisco ed aureo di Γή (egiz. Geb); una figura androginica identificabile all’Oca Primigenia che cova l’Uovo del Mondo, da cui secondo gli orfici nasce Eros Protogeno.  In altre parole Ουρανίa, la Dea del Cielo e dell’Armonia Celeste, appunto quell’Afrodite che secondo una variante del mito greco sarebbe stata generata dal ‘Fallo’ di Urano caduto (insomma penetrato, a mo’ di Axis Mundi ) in ‘Acque’ che potremmo comodamente definire ‘Celesti’.  Per le implicazioni del simbolo fallico in questione cfr. G.Acerbi, Il Re Pescatore, sovrano universale delle Acque, nella letteratura indoeuropea. Paralleli fra Bran e Brahma, nonché Varuna e UranoAlle Pendici del Monte Meru (blog, 22-07-07), pp. 1-14.
Egualmente in latino troviamo lo strano aggettivo humānus, il quale non deriva da hōmo, secondo quanto in genere si sostiene, bensí da humus (‘terra umida’) nell’accezione di ‘terreno, umano,’.  Altrimenti sarebbe homānus, oppure avrebbe la vocale lunga anziché breve.  Ed è oltremodo significativo che il dio erotico indiano Kāma, sposo di Revā (avente per cavalcatura l’Oca non meno d’Afrodite), abbia etimo grossomodo apparentato – *km = *hm – a quello del lat. humus/ homo.  Kama non è che un antico dio uranico-solare, al modo del latino Cupido.  Provoca le nascite degli esseri con le proprie 5 emblematiche frecce, usate come raggî, non essendo altro che il Cielo personificato in senso erotico-volitivo.  Per questo la Terra e l’Uomo, inteso in quanto mediatore tra i due opposti alla maniera della Grande Triade cinese, hanno etimo correlato in latino.  In greco Cupido era denominato Hímeros, voce che evidentemente rientra nel giro dell’etimologia indicata, dato che il pref. *him- (cfr. con l’a.at. him-mel = ‘cielo’) rimanda all’idea d’un ardore (eros) celeste-creativo.  Nella lingua greca rimane ancora, a testimonianza dell’esistenza d’un vocabolo femminile ctonicamente contrapposto, lo stato in luogo kamaí (‘a terra’).
4.          Ciò è esattamente il contrario di quanto ebbe a dimostrare il Gnoli in suo art. (G.Gnoli, Note su Yasht xxxx- S.M.S.R., Roma 19xx, pp. xxx-xx ).  Non che il Gnoli avesse torto, certamente.  L’antica Persia era piú vicina all’antica India che all’antico Israele, però rispetto al modo di pensare indiano quello iranico antico presentava indubbiamente alcuni aspetti sia pur minoritarî  maggiormente prossimi alla mentalità ebraica.
5.          Utlizziamo il femminile in relazione al gr. génesis, che è appunto un sostantivo femminile.  Che importa se il termine equivalente giudaico è  maschile?
6.          Il riferimento ovvio è a D. O’Flaherty, Śiva: The Erotic Ascetic- Oxford-N.York-Toronto-Melbourne 1981. 
7.          Tant’è che in un passo (v. 1-2) c’è un’apparente incongruenza, benché mascherata dalla traduzione: “Nel giorno che Dio creò Adamo lo fece a somiglianza di Dio.  Li creò maschio e femmina.”  Si nota uno strano uso del plurale, visto che il riferimento precedente è al singolare; nel passo si parla solo di Adamo, non della coppia.  Trattasi d’un passo conclusivo nel quale si riassume a mo’ di epigrafe l’esito della creazione umana paradisiaca, descritta nei precedenti 4 capitoli.   Il Dio Supremo d’altronde, in ogni tradizione che si rispetti si situa al di là degli opposti e complementari.  Che ragione vi sarebbe di paragonare la Divinità ad Adamo se questi fosse ivi concepito come un semplice maschio, ossia come uno dei due opposti della coppia cosmogonica?  Se è fatto a somiglianza di Dio e non del Diavolo è insomma un intero, non una metà, come credono scioccamente certuni confondendo Dio col Creatore (Demiurgo).  Cfr. in proposito il comm. della Bibbia Cei.  Noi abbiamo utilizzato la versione del 1973.  
8.          G.Acerbi, La simbologia fitomorfica: l’orticoltura nel mito delle origini – V.d.T. ( gen.-mar./ apr.-giu. ’93 ), A.XXIII, NN. 89-90,  Palermo 1993, pp. 25-38 e 78-90  (il nucleo orinario era stato inviato a Il Giornale della Natura di Milano, ma era rimasto inedito per l’eccesiva lunghezza).
9.          Per la traduzione ci siamo serviti in tutto l’articolo di V.Papesso (a c. di), Inni del Ṛgveda- Ubaldini, Roma 1979 (I ed. Zanichelli, Bologna 1929 e ‘31, 2 tt.).  L’espressione verbale vi vṛh non ci pare però sia tradotta bene dal traduttore italiano, avendo fatto meglio altri (H.H. Wilson, Ṛgveda Saṁhita- Nag P., Delhi 1978, Vol.VI, p.28) che traduce cosí l’ultima parte del verso: ”…let us exert ourselves (‘sfrorzarci’) in union like the two wheels of a waggon.”  La frase implica uno sforzo morale, al di là delle convenzioni, ma è chiaro che si tratta di un’attribuzione sacerdotale postuma; in tempi primordiali non esistevano né MitraVarua (citati al vs.6), né scrupoli morali, essendo l’Esistenza medesima (la Divinità-in-Sé, ovvero il Desiderio di esistere come insegna il Ṛgveda) a spingere innocentemente al coito i primi esseri umani.
10.          Pap., op.cit., p.186.
11.          A nostro giudizio il doppio nome del ‘Primo Uomo’, che ritroviamo da piú parti, allude ad una doppia provenienza tradizionale; da un lato la tradizione aria (Yama), dall’altra quella anaria, in particolare quella turanica (Manu).
12.          Ac., Il Re P., p.12, n.8.
13.          Vi è chi considera questo nome non originario della mitologia di Giano presso gli antichi Latini, però i suoi corrispondenti indoeuropei dimostrano il contrario.  Intendere esclusivamente il nume in riferimento a due immagimi maschili imberbi o barbute ed equivalenti è un nonsense, a meno d’intenderli come ‘gemelli’.  La radice dei due termini è la medesima, benché la base primaria sia il vr. īre (scr. i).  Giano, in quanto signore degli inizi, per forza di cose dovette essere un dio androgino.  Questa non-dualità originaria si è esplicata in seguito in varie applicazioni, dai solstizî (ovvero l’arco ascendente e discendente dell’anno, che nei primordi in rapporto all’Artide dovettero significare luce e tenebre) alla gemellarità, dalla coppia erotica (scr. mithuna, indicatrice del Segno dei Gemelli) a quella dei due luminari celesti (Sole-Luna) ecc.  Quindi, ragionare partendo dai dati storici reperiti della tradizione romana archeologicamente falserebbe la nostra prospettiva.  Perché, di questo passo, dovremmo in parallelo trasformare Brah in un dio medievale induista, non compaarendo icone prima d’una certa epoca.  Non bisogna dimenticare che fino ad un certo periodo infatti la Tradizione era essenzialmente orale ed anche dopo la stesura delle Scritture (fra i Latini fra l’altro non vi sono erano Scritture a parte i Libri Sibillini e siamo quindi costretti ad affidarci ai letterati, che sicuramente hanno un po’ deformato il quadro dei dati sacrali) l’esegesi dei testi passa sempre per delle scuole interpretative, a meno di conoscere la ‘Lingua degli Uccelli’, che è riservata ai soli iniziati.
14.          Come il mitologhema possa esser giunto nel Paese di Sumer è presto detto.  I Sumeri narravano di provenire geograficamente dal Dilmūn, un’isola od arcipelago cosparso in qualche zona del sottostante Oceano Indiano.  Questa sede è forse identificabile allo Dvārakā di cui favoleggaiano leggendariamente le tradizioni krishnaite, o per lo meno apparentabile ad esso cosmologicamente; ebbene, da quella plaga oceanica paiono discese le antiche genti vallinde, strettamente affini culturalmente alle genti sumeriche.  Anche da un punto di vista etnico entrambe parrebbero rientrare in quell’alveo camitico che – come illustrato da Padre Heras all’inizio degli Anni Cinquanta – lambiva ad ovest Paleo-iberi, Proto-celti, Pelasgi, Cretesi, Proto-libici, Paleo-egizî e Paleo-nilotici; mentre, ad est, Paleo-etiopici, Sumeri, Elamiti e Paleodravici.
15.        Cfr. G.Acerbi, Gli Dei e i Mondi: aspetti ciclici della teogonia mesopotamica –Atopon on line (Vol.VI) 2004.
16.        Cfr. G.Acerbi, La leggenda del Cervo, del Cacciatore e della Cerbiatta…- V.d.T. (lug.-set. ’91), A.XXI, N°83,  Palermo 1992, pp. 147-58.
17.        Cfr. lo Śat.B.- xxxxxx
18.      Nella Cabala si distingue un 'Ādam ha-Rishon (Adamo come 'Primo’', cioè Terreno) da un 'Ādām ha-Ḳadmoni (ossia ‘Primordiale’, il che è come dire Celeste, gr. Οὐράντος  Aνθρωπος).  Cfr. Num.R.- x.  È solamente quest’ultimo, archetipo divino dell’uomo, ad esser descritto come tetracefalo.


19.          La sequenza del passaggio vernale nell’Età Edenica (Aurea) è infatti: Leone, Scorpione, Aquario, Toro.
20.          E.Neumann, The Great Mother…- Princeton Univ., Princeton 1974 (I ed. 1955), tav. a p.169.  
21.          Rammentiamo che il simbolismo avatarico è per sua natura interamente di carattere polare.  Il Matsya ha a che fare col primo periodo avatarico, non col quarto; ma è chiaro che il Diluvio connesso a codesta figura rappresenta il passaggio, polarmente parlando dalla Lyra (Vega) al Dragone ed all’opposto dal Cane Maggiore (Sirio) a Canopo.


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