venerdì 1 febbraio 2013

LA BRUMA E IL TAO




Tecnica paesaggistica della pittura cinese dai T’ang ai Sung

  


       La maestria indicibile dei pittori cinesi su seta, carta o muro è risaputa.  Da tale tecnica, utilizzata molte volte col semplice chiaroscuro annullando il colore, ha preso avvio anche la pittura a china giapponese su carta di riso, seppure assai piú tarda.  Entrambe basavansi sul presupposto che l’opera d’arte non dovesse rappresentare i particolari, ma piuttosto l’essenziale.  Onde pochi tratti fondamentali di pennello – immagine del principio sovrintendente alla dualità cosmica – eran sufficienti alla resa del soggetto, che veniva cosí ad esprimere l’universalità dell’animo umano anziché una situazione contingente.  Il realismo tipico del mondo cinese quale appare a prima vista è naturalmente tutto il contrario dell’idealismo metempirico di cui è sempre stato assetato palesemente il mondo indiano. Ciononostante il risultato finale, al di là dell’apparente contrasto fra naturalismo ed antinaturalismo che esibiscono formalmente queste due tradizioni, è sovente il medesimo.  Vale a dire il prodotto artistico taoista, benché s’avvalga d’un metodo diversissimo per quanto assai efficace d’approccio al Divino, alla fin dei conti raggiunge la stessa meta trascendente dell’opera d’arte indú.  Il cammino per arrivare all’obiettivo finale però, come appena rilevato, è opposto.  Nel senso che gli indú artisticamente parlando da un lato alterano volutamente le caratteristiche naturali, eprimendone la potenza nascosta attraverso una moltiplicazione somatica di teste ed arti animali ed umani; dall’altro dipingono la natura con colori molto vivaci ma vacui reputandola viziosa, frutto di un’illusione cosmica, la cd. Mâyâ.  Anche se bisogna distinguere fra le concezioni delle varie scuole sapienziali.  Sommariamente si può dire che per gli shivaiti la Maya sia per cosí dire la nebbia fantasmagorica di colori che vela la Tenebra Divina.  Viceversa per i vishnuiti, che la concepiscono quale Tenebra occultante la Luce.  In ambiente cinese, distintamente dall’una e dall’altra concezione – in ciò mostrandosi piú prosimi alla visione paradisiaca originaria – i taoisti evidenziavano un atteggiamento intimo di minor dualità rispetto ad entrambe le correnti spirituali indiane.  Poiché non percepivano il sostrato naturale come demonico, né in riferimento al simbolismo notturno né a quello diurno, pur considerandolo a loro modo essi medesimi un velo.  Un velo tuttavia che si situava al di là del conflitto fra Luce e Tenebre o di ciò che in termini cinesi potremmo chiamare lo Yin e lo Yang, cioè insomma della dualità cosmica apparente.



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       Il pensiero taoista non faceva troppo leva infatti su ciò che in termini islamici chiamasi l’Unità Divina (ar.al-TawhTd) e che la Cina definiva invece ‘Soffio Creatore’, identificato al Sole (cin.Hi)(1), dato che concepiva oltre a questo un assoluto al di là del manifesto e dell’immanifesto.  Ossia il cd. T’ai-i (lett. ‘Grande Unità’), appellativo riferito alla Stella Polare intesa quale vetta del mitico K’un-lun, la Montagna Cosmica sulla cui cima dimorava la Regina Madre d’Occidente; lassú costei, dai denti affilati di tigre e selvaggia coda di leopardo, regolava il Li e il Wu Ts’an (cioè, crediamo, le 2 Orse)(2.  Non meno del pensiero buddhista quello taoista distingueva concettualmente tale “Unità Suprema” dallo “Zero Metafisico”, in codesto ambito noto come Tao (lett. Via).
       Detto pensiero perciò, influenzando l’antica tecnica pittorica cinese, ha prodotto ritratti paesaggistici che della Bruma han fatto il rimando simbolico essenziale della rappresentazione artistica.  Tramite le straordinarie pennellate dei pittori taoisti tutti i contorni delle cose, alberi uccelli bufali esseri umani padiglioni corsi d’acqua cascate valli anfratti o montagne, sfumano inesorabilmente nella nebbia.  E l’esito finale non è un effettistico richiamo alla vacuità di tutto, né ci si trova di fronte ad una magica ambientazione tanto appariscente quanto illusoria, quasi si possa trattare della versione estremo orientale della cd. ‘nebbia di Morgana’.  No, il paesaggio cinese è trasparente nella nebbia; la quale non avvolge il tutto per vanificarlo, ma per trascenderlo nell’Infinito.  La Bruma onniavvolgente è un’immagine impalpabile dell’Eterno, l’equivalente insomma del Brahman indú; e le cose cosí avvolte al modo paleosiberiano appaiono enti partecipanti all’unisono della conoscenza, della bellezza e della potenza universale.  Questa è una maniera ancestrale d’intendere, sebbene l’ancestralità in gioco non sia quella epidermica paletnologica, evidenziante una visione grossolana della vita animale e vegetale.  Ivi abbiamo a che fare con un’arcaicità inarrivabile nel sentire ciò che esula dal dato di fatto, oltremodo profonda nel percepire l’impercettibile, delicata nell’osservare la struttura intima del naturale.  Onde il contorno siccome informale viene posto al di sopra dell’oggetto, trasformando questo soggettivamente – particolarmente gli esseri umani – in contorno.  Non tuttavia come ha fatto l’arte cd. informale contemporanea, che in quanto erede dell’Impressionismo e dell’Espressionismo ha finito per determinare una frammentazione colorifica della nostra visuale artistica simile a quella dei cumuli d’immondizie o alle percezioni alterate sotto influenze di droghe.
       Il mondo della pittura taoista è uno spazio ancora numinoso, gravido di potenzialità inespresse, uno spazio che gravita attorno ad una centralità invisibile di cui è manifestazione.  Il pennello del pittore la simboleggia.  Ma la seta o l’altro materiale su cui le pennellate si posano individua sul piano simbolico qualcosa che va oltre anche



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quell’Uno (I), prodotto dal Tao, cui accennano i testi (3).  Errato identificare dunque il Tao al Principio Primo, come additava una volta M.Granet e sulla sua scia anche J.Evola, visto che gli antichi testi taoisti tendevano ad associare il Tao non all’I bensR al T’ai-i.  È semmai la (‘Virtú’) per la sua funzione dinamica a simboleggiare in potenza il solare ruolo del Soffio Creatore, quel che gl’indiani indicano cioè come Vâc o Parola Creatrice.  Infatti, il Tao è effigiato non per nulla da un Cerchio ove il Centro non è indicato; un po’ come avviene seppure con modalità differente nella sgargiante pittura indiana, in cui quale variante concettuale troviamo la tecnica del cd. ‘volo ad uccello’, secondo la quale il  centro è dovunque.  Tale tecnica è utilizzata tuttavia anche in Cina, sebbene alternata ad altri 2 punti di vista differenti.
       Ad esser precisi, dunque, il Tao non è la Via che conduce all’Immortalità bensí l’Immortalità stessa; ovverosia quella “bruma cristallina” di cui è ripieno l’intero Universo, dantescamente concepita quale Luce od Amore, donde dipendono il “Sole” (il Creatore) e le “altre stelle” (la Creazione).  La tradizione cinese si mostra maggiormente fredda ed intellettuale ed a differenza di altre impiega scarsamente il simbolismo della Luce e delle Tenebre.  Lo Yang e lo Yin oltreché il Chiaro e l’Oscuro, anche graficamente sono la Montagna () e la Valle (Ñ).  Se si usa il termine “Via” è solamente in senso metonimico, il fine valendo per il mezzo.   Per questo sul piano pittorico gli esseri umani sono indicati generalmente in cammino, anziché in posizione statica.  Poiché il moto è l’elemento-base della vita cosmica, ma muovendosi ci si disperde come in una foresta.   Di qui il ritorno allora, similmente questa volta all’India e ad altre contrade, all’idea della foresta come Divenire o Samsâra, che la presenza mediatrice dell’Uomo Vero ( Chên Jên) o Spirituale (Shen-jên) taoista ristabilizza paradisiacamente in senso rispettivamente primordiale o supremo.  Poiché si allude, in tal caso, ad un trapasso intimo dall’illusione alla consapevolezza.  Anche i discorsi umani svolgono d’altronde un’azione dispersiva, contraria alla Tê originaria, che era fatta di silenzio creativo.  Ecco perché Lao-tsû dichiara nell’ultimo capitolo dell’opera che gli è attribuita: “Le parole vere non sono belle,/ le parole belle non sono vere.” 



Viaggio incantato nella paesaggistica taoista

       Analizzando storicamente gli sviluppi della tecnica pittorica taoista, osserviamo che è solo a partire dai T’ang (618-907 d.C.) che si rintracciano in Cina le prime grandi 



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manifestazioni di genere paesaggistico.  La scuola settentrionale – piú realistica nel tratto – viene fondata da Li Ssu-hsün e dal figlio Li Chao-tao (inizio VII-inizio VIII sec.), leggendarî creatori d’ambienti fiabeschi ed inusitati; quella meridionale dal letterato e calligrafo nonché musico Wang Wei (prima metà dell’VIII), considerato forse a torto l’inventore dello stile monocromo col procedimento a macchia d’inchiostro.  Ma in complesso è il loro contemporaneo Wu Tao-tsû, l’ineguagliabile “Maestro del Tao”, a dominare la scena generale presso l’Imperatore Ming nel momento di maggior splendore dei T’ang (712-56).  Qualche secolo dopo la morte di Wu, si tramanda che oltre una novantina d’opere di tale straordinario personaggio abbellissero la Galleria Imperiale.  Del piú famoso pittore cinese, che si dice vissuto fra la fine del VII e l’VIII sec. e scomparso un giorno in una grotta apertasi miracolosamente in un dirupo d’una sua composizione mentre stava conversando con Ming, non è rimasto purtroppo quasi niente se non in forma di rare copie.  Una di queste ritrae un’amena cascata al cui lato, lungo un cieco sentiero intagliato su rocce a strapiombo rese seminvisibili dalla bruma e dagli effetti chiaroscurali, conversano del piú e del meno dopo una nevicata due figure umane quasi indistinguibili dal paesaggio (4).  A significare evidentemente che la Terra (Ti) sovrasta nettamente l’Uomo (Jên) non meno del Cielo (T’ien) ed inglobandolo a Sé maternamente lo armonizza, inducendolo all’autoperfezionamento; è d’altronde nell’indefinitezza della Valle, immagine del Puro Yin, che si riconosce spesso lo Hsien (‘Immortale’) taoista.
       Durante il periodo di disordine provocato dalle 5 Dinastie al nord e dai 10 Stati al sud (907-60) c’imbattiamo in una sintomatica massima di King Hao (X sec.), di cui non è purtroppo perdurata alcuna opera, che cosí ci ammonisce: la riproduzione naturalistica del tema copia la forma dell’oggetto, ma ne trascura distrattamente lo spirito, ottenibile solo mediante il vero.  Fra i contemporanei del saggio King sono noti il rinnovatore Kuan T’ong ed il tormentato Li Ch’eng, immergente il paesaggio in atmosfere desolate.  I  due maggiori paesaggisti di questo periodo sono in ogni caso due uomini del Sud: il delicato Tung Yüan, abile tecnicamente nel mostrare le brume autunnali (vedi il bellissimo Giorno sereno nella valle, dove soltanto pochi tratti di costa sono segnati, benché sotto gli erti pendii brumosi all’orizzonte compaiano minuscole barche evidenzianti il travaglio umano nel quadro maestoso della natura), nonché il monaco buddhista Chü Jan (autore dello splendido Alla ricerca del Taô nelle montagne d’autunno); rotolo illustrante un iniziatico viaggio attraverso un sentiero snodantesi fra ruscelli e dirupi, fino a raggiungere un’altezza immane, testimoniata prepotentemente dalla cima irregolare d’una sorprendente montagna, ondulatamente segmentata da scoscese abetaie.  In questo è il Monte quale Puro Yang ed immagine dell’Uno ad esser oggetto di meditazione, a meno d’una identificazione fra i due 



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Poli, Terrestre e Celeste.
       Di poi nell’ambito del nuovo ordine imperiale attuato dai Sung Settentrionali (960-1127), distinguonsi Fan K’uan (X-XI sec.) e Kuo Hsi (XI sec.).  Il primo, “maestro delle  altezze e degli sfondi”, riprende in sostanza lo studio degli ambienti nevosi; il secondo invece si mostra peculiarmente dedito al tratteggio d’alberi rigidi e rinsecchiti (5), sempre però in ambito similare.  Kuo appartiene alla Scuola del Fiume Giallo, piú lineare nel disegno rispetto agli aspri tratti della Scuola dello Yangtse, di cui abbiamo sopra menzionato un tipico rappresentante (Tung).   Un altro – ci indica il Willets (6) – è Hsü Tao-ning (XI sec.), operante tuttavia a differenza di Tung già in Epoca Sung (7).  Fra le due scuole funge nel contempo da intermediario e prosecutore l’accademico Li T’ang (XI-XII sec.), dapprima col suo Paesaggio autunnale, successivamente col magnifico ed iper-realista Ritorno da una festa; in cui s’osserva un bufalo, sormontato dal padrone e dal figlioletto, che viene trainato da uno stanco servo (8).  Un grande albero spoglio pare curvarsi a protezione della scarna comitiva, immersa come di consueto nella nebbia, ivi suggerita dal chiaroscuro del colore.  L’impostazione sarà ripresa di pari passo nella pittura dei Sung Meridionali (1127-1279), seppure in un contorno decisamente piú tetro, da Li Ti (XII sec.)(9).  Lo stile sarà perfezionato ulteriormente attorno al 1.200 da Ma Yüan e Hsia Kuei (XII-XIII sec.).  Al Tardo Sung Settentrionale appartiene anche il Paesaggio con montagne di Mi Fei (XI-XII sec.), richiamato in Per. Yüan (1260-1368) dalla Montagna dopo la pioggia di Kao K’o-kung (XIII-XIV sec.)(10) .


Considerazioni finali

       I primi artisti taoisti si radunavano in campagna per cercare l'isolamento dal mondo. Come i sannyâsi indiani abbandonavano spesso i loro familiari onde applicarsi unicamente alle proprie attività artistiche.  Al modo dei colleghi europei loro coevi non erano d’altronde in cerca di fama o di fortuna, non potendo affidarsi ad una committenza privata, poiché non esisteva ancora un vero e proprio mecenatismo.  Erano costretti a servire solamente in centri di culto imperiali.  Per questo la maggior parte dei loro nomi sono rimasti inevitabilmente avvolti nel silenzio.  Se ne sono salvati alcuni fra i tanti grazie esclusivamente ai timbri di sigilli litici impressi sui dipinti con inchiostro rosso.
       A partire dai T’ang, gli artisti hanno fruito invece di maggior indipendenza, dimenticandosi dei laboratori artigianali tradizionali.  Sotto codesta medesima dinastia parallelamente si crearono associazioni buddhiste capaci d’organizzare incontri culturali a scopo meditativo, dove poeti ed artisti di vario genere –  taoisti e buddhisti indistintamente –  offrivano la loro arte in pasto al popolo illetterato.  L’offerta consisteva in opere 



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eseguite senza schizzi preliminari su carta, di cui la Cina fu la prima produttrice al mondo utilizzando la corteccia di sandalo.  La carta resisteva bene all’invecchiamento, non essendo facilmente attaccabile dai tarli, e rimaneva perciò a lungo inalterata conservando i toni di colore originarî.  Oggetto dei disegni e delle pitture oltre ai paesaggî, agli alberi e agli animali erano i ritratti umani, il tutto sempre in funzione simbolica.
       Una particolare importanza aveva l’ambito botanico, ove si riconoscevano 4 “nobili piante”: ad es. il susino in fiore richiamava annualmente al principio vitale (ch’i) della primavera e all’elemento corrispondente d’ogni altro quaternario, l’orchidea a quello dell’estate, mentre il crisantemo od il pruno rinsecchito ricordavano l’autunno;  a sua volta il sempreverde bambú riportava all’inverno, nonché alla longevità, corrispettivo cinese della rinascita.  Non a caso il manico del pennello proveniva da tal vegetale, emblema di quel Soffio Primordiale attraverso cui il Tao produceva la scomposizione cosmica nello Yin e nello Yang.  Viceversa i peli venivano tratti dalla pelliccia di animali domestici o selvatici al fine di garantire estrema morbidezza alla linea del tratto.  Il mezzo per dipingere era altresí preparato impastando la fuliggine con materiale colloso appropriatamente aromatizzato.
       L’ingrediente principale della composizione rimaneva comunque il vuoto incommensurabile della carta, immagine del Tao, su cui si fissavano a mo’ di mediazione umana fra Cielo e Terra poche linee essenziali d’inchiostro; atte piú a suggerire e ad interpretare, che non a raffigurare.

                                                                                       Giuseppe Acerbi



Note

(1)    Cfr. con l’I, il monosillabo affine denominante in lingua cinese il numero 1.
(2)    M.Loewe, Ways to Paradise- G.Allen & Unwin, Londra-Boston-Sidney 1979, Cap.IV, passim.
(3)    Tao-tê Ching- xliii. 
(4)    G.Argentieri ( a c. di), Pittori cinesi- Mondadori, Milano 1967, p.23, iil.7.  Confessiamo d’esserci appoggiati a questo testo, principalmente, per la parte storica e documentativa dell’art.
(5)    Cfr., in proposito,  Boschi invernali; apud W.Willets, Origini dell’arte cinese, dalla ceramica neolitica all’architettura moderna- Silvana, Milano ?, Cap.VII, fig.211 (ed.or.  



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Chinese Art, I ed. Penguin B., Harmondsworth [Middl.], 1958; II ed.riv. Thames & Hudson, Londra 1958).
(6)    Ib.p.335.  
(7)    Cfr., per un appoggio visivo, lo stile scabro hsü-tao-ninghiano di Alti templi sulle montagne innevate col dolce paesaggio tunghiano di Cerimonia per invocare la pioggia (ib., p.352, tav.209; p.250, tav.207.
(8)    Arg, op.cit., p.49,  tav.col.14.
(9)    Vedi Pastore che ritorna a casa con un fagiano legato al bastone, in un paesaggio invernale in  W.Speiser, Cina- Il Saggiatore, Milano 1960 (ed.or. China. Geist und gesellschaft- Holle V., Baden-baden 1959), p.212, tav.col.n.num.  Per il comm. cfr. p.218.  Al soggetto abbiamo dedicato alcune nostre riflessioni personali di stampo animalista-esistenziale in I.Hud (pseud.), Quel fagiano che cantava nella valle, blog (Noiweb, 8-12-09). Link: http://noiweb.blogs.it/2009/12/08/quel-fagiano-che-cantava-nella-valle-7534266/
(10)  Will, op.cit. p.253, ta.213; p.357, tav.220.




Illustrazioni


1.  Lao Tsu a cavallo del Bufalo (Chao Pu-che, pittura cinese, XI-XII sec. d.C.).


2.  L’Imperatore Ming (Li Chao-tao, cop., Per.T’ang, Mus.Naz, del Palazzo, Taiwan, XI sec.,).


3.  Wang Wei (Gao Tsu, ritratto).


4.  Paesaggio nebbioso (Chao Mêng-fu, porz. di rotolo, ispir. a Wang W., Per.Yüan, Mus.Brit., Londra, XIII-XIV sec.).


5.  Paesaggio fluviale (Xiang Shen-mo, inch. su carta, ispir. a  Wang W., Per.Ming, Mus. di Shang., Shangai,  XVI-XVII sec.).


6.  Confucio (Wu Tao-tsu, ritr., Per.T’ang, VIII sec.).


7.  Paesaggio (Id., Per.T’ang, Daitokuji, Kyoto, VIII sec.).


8.  Tempio sulle montagne (Li Ch’eng, pitt. su carta, ispir. a Wang W., Per. delle 5 Din., X sec.).


9.  Giorno sereno nella valle, P.II (Tung Hüan, inch. e col. su carta, Per.Sung, Mus. di Belle Arti, Boston, X sec.).


10. Cerimonia per invocare la pioggia (Id., inch. e col. su seta, Mus. Naz. del Pal., Taiwan, X sec.).


11. Andando alla ricerca del Taô nelle montagne d’autunno (Chü Jan, inch. su seta, Mus. Naz. del Pal., Taiwan, X sec.).


12. Paesaggio sotto la neve (Fan K’uan, dett., Mus. di B.Arti, Boston, X-XI sec.).


13. Sedendo solitario accanto a un rivo (Id., Mus.Naz. del Pal., Taiwan, X-XI sec.).


14. Boschi invernali (Kuo Hsi, inch. su seta, Mus.Naz. del Pal., Taiwan, XI sec.).


15. Alti templi sulle montagne innevate (Hsü Tao-ning,  inch. su seta, Mus.Munic., Osaka, XI sec.).


16. Paesaggio autunnale (Li T’ang, inch. su seta, Per.Sung, Tempio Kôtô-in, Kyôto, XII-XII sec.).


17. Ritorno da una festa di villaggio (Id., foglio d’album, Per.Sung, Mus. di B.Arti, Boston, XI-XII sec.).


18. Paesaggio invernale illustrante un pastore che ritorna a casa con un fagiano legato al bastone (Li Ti, inch. di china su seta, Per.Sung, Yamato Bunka Mus., Osaka, XII sec.).


19. Due saggi sotto un pruno (Ma Yüan, Per.Sung, Mus. di B. Arti, Boston, XII-XIII sec.).


20. Paesaggio (Hsia Kuei, dett., Per.Sung, Coll. Iwasaki, Tokyo, XII-XIII sec.).

21. Rientro d’una barca sotto la pioggia (Id., dett., inch. su seta, Per.Sung, Mus. delle B.Arti, Boston, XII-XIII sec.).


22. Paesaggio montano (Mi Fei, inch. su carta, coll. F.Nakamura, Tokyo, XI-XII sec.).


23. Montagna dopo la pioggia (Kao K’o-kung, Per..Hüan, Coll. Governo Cin., XIII-XIV sec.).


24. Abate taoista (Anon., ritr.).


25. Monaco taoista (Anon., ritr.).



Fonti

1.      M.Kaltenmark, Lao Tseu et le taoïsme- Éd. du Seuil, Parigi  1982, p.58, ill.n.num.

2.      On line.

3.      Id.

4.      L.Binyon, Painting in the Far East- Dover, N.York 1969, in fr. A p.92, tav.7.

5.      On line.

6.      Id.

7.      G.Argentieri, Pittori cinesi- Mondatori, Milano 1967, p.23, ill.7.

8.     On line.

9.      Arg., op.cit., p.47, tav.15.

10.  Willets, Origini dell’arte cinese, p.350, ill..207.

11. Will., op.cit., p.351, ill.208

12. Arg., p.44, tav.12.

13. Will., p.352, ill.210.

14. P.353, ill.211.

15. P.352, ill.209.

16. p.353, ill.212.

17. Arg., p.49, tav.14.

18. W.Speiser, Cina- Il Saggiatore, Milano 1968, tav. a fr. di p. 213.

19. Arg., p.48, ill.16.

20. P.60, tav.20.

21. P.47, tav.15.

22. P.64, ill.21.

23. P.80, ill.25.

24. P.67, ill.22.

25. P.105, ill.33.


 Fig.1

 Fig.2

 Fig.3

 Fig.4

 Fig.5

 Fig.6

 Fig.7

 Fig.8

 Fig.9

 Fig.10

 Fig.11

 Fig.12

 Fig.13

 Fig.14

 Fig.15

 Fig.16

 Fig.17

Fig.18

 Fig.19

Fig.20

Fig.21

Fig.22

Fig.23

Fig.24

Fig.25