giovedì 19 giugno 2014

APAM NAPAT, IL VALORE DELLE ACQUE NELLA LETTERATURA VEDICA E NELLA CULTURA HINDU










        Nei Salmi biblici e nelle Sūre coraniche viene celebrato con molta partecipazione emotiva il tema delle piogge e della fertilità, connesso inscindibilmente al motivo del seme animale e della fecondità.  Cosa che comporta in qualche modo degli antecedenti nel mondo mesopotamico ed in quello iranico.  I testi vedici non sono da meno.  Alle “pie” Acque (Āpah) – cfr. con l’Apsu sumerico, l’increato abisso primordiale – nel Ṛ.V.- x. 30 è riservato un caloroso inno, in cui si elogia il potere oltremodo vivificante delle stesse, affinché Sarasvatī possa concederlo parimenti a chi le canta (vv. 12 e 14): «O ricche Acque, voi invero regnate sopra i beni e propizie capacità portate in voi nonché immortalità, e siete signore dell’abbondanza unita a buona discendenza…  Eccole che sono giunte le ricche, le piene di forza vitale.



a)  Apam Napat, il misterioso Figlio delle Acque
        Ai vv. 3-4 del passo testé menzionato si accenna ad Apā Napāt, il cd. "Figlio delle Acque", definendolo "(Colui) il quale risplende senza legna dentro le acque, che i sacerdoti adorano nei sacrificî (1).  È evidente da tal passo che abbiamo a che fare col Lampo fra le nubi e non con uno dei due luminari, a differenza di quanto hanno sostenuto alcuni commentatori; benché il riferimento al vs. 2b al Rosso Supara– prototipo vedico del Garua, veicolo d’Indra prima che di Viu – parrebbe, in effetti, al mitico uccello detentore del Soma nel proprio becco (2).  Informazioni più estese sul dio sono reperibili in ii. 35, un inno esplicitamente dedicatogli.  In questo  precedente sūkta le Acque (vs.4) sono additate quali 
modeste fanciulle, mentre in altri passi del Veda (Ait.B.- ii. 16 e 20)



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vengono descritte come madri donde discendono tutte le cose od assimilate a benefiche dee assistenti al sacrificio.  Il K.B.- xii. 1 le dichiara, non meno del gveda (vedi sopra), apportatrici d’immortalità.  È chiaro, ovviamente, che raffigurano l’indifferenziazione antecedente alla Manifestazione.  Il termine napāt (‘nipote, progenie, discendente’), var.napt, si trova quasi  identico in lingua zend-avestica (var.naptar) ed è connesso etimologicamente al lat.nepōs, ōtis (id.); gr.a-nepsiá (‘chi appartiene alla stessa famiglia; nipote, cugino’) e népodes (‘nidiata, figliuoli, discendenti’); a.sass. nefa (‘nipote’); ingl. nephew (id.); a.ted. e ted.m. Neffe (id.); irl.necht (id.).  Da segnalare anche lo zd.nāfyo (‘prole’).  La radice di tutti questi vocaboli è messa generalmente in relazione col v.scr. nabh (‘scoppiare’) o a nah (‘legare’), ma a nostro  giudizio sarebbe piú diretto collegarlo al lat.nāscor (‘nascere, generare, originare’).  Ci pare del resto piú plausibile in quest’ottica la tesi che apparenta il secondo termine del nome – il primo è un gen.pl da āp = ‘acqua’, con caduta della prima vocale lunga – all’appellativo latino-etrusco del dio delle acque (Neptūnus-Nethuns), nonché a quello dell’omologo nume irlandese Nechtan; a patto di considerare costoro non tanto dei signori del mare, quanto delle divinità delle fonti, che è poi l’originaria accezione (legata in ogni caso alla terza funzione sociale).
        Circa il ruolo di Apā Napāt nell’India vedica non possono esser ritenute del tutto valide quelle saccenti ricerche comparse in riviste prestigiose, ma vuote di contenuti reali, che fra una citazione e l’altra lo ritengono astrusamente un nume della folgore o al contrario una deità delle acque.  Niente di tutto ciò, il personaggio si situa al di là della dualità upanishadica fra Agni e Soma, essendo semmai il principio d’entrambi i fattori opposti e complementari.  A meno d’interpretare i due fattori come termini assommanti ciascuno la realtà opposta.  Chi sia mai quegli lo si può ad ogni modo capire dal verso 10 del succitato inno rigvedico (ii. 35), che lo descrive cosí: «Aurea è la forma del Figlio delle Acque, aureo il suo aspetto, aureo il suo colore, aureo il suo seggio...»  Non sarebbe quindi 



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corretto identificarlo tout court ad Agni, l’igneo nume, come fece a suo tempo il Papesso (3).  Guénon (4) ha commesso apparentemente il medesimo “errore”, errore ripetuto anche dal prof. Filippani Ronconi a commento delle sue Upaniad (5); sebbene nel primo caso l’autore lo identifichi giustamente a Hirayagarbha, designato quale Avatāra ‘Primordiale’ (6).  Ivi l’attributo sta per ‘primigenio’, in  senso atemporale, visto che egli stesso lo paragona al Cristo unigenito inteso quale ‘germoglio’(7).  Tanto più che Hirayagarbha, come suggerito in x. 121. 1-7 (8) e riconosciuto da Guénon, altri non è che Brahmā rinchiusosi nell’Uovo del Mondo (Brahmāda)(9) al fine di generare il cosmo. 
        Tuttavia nella tradizione avestica (Yt.- viii. 6, 34), bisogna onestamente osservare, l’equivalente Apãm Napā parrebbe fungere forse limitatamente da spirito delle acque; cioè in quella veste demiurgico-ricettiva che, da quanto sopra indicato, non risulterebbe viceversa palese nella tradizione vedica.  Cosí almeno l’intendono gli Stutley (10), ma personalmente siamo dello stesso parere di quegl’iranisti che seguendo il Darmesteter (11) riferiscono pur esso al Lampo, alla maniera vedica.  Cfr., ad es. Y.- lxx. 6, ove è scritto: “Noi lodiamo il flusso e il riflusso delle buone acque, il loro mugghio e quell’alto Ahura, il regale Apãm Napā, lo splendente, (dotato) di agili cavalli” (12).  Cio che lo identifica, indirettamente, ad Ahura Mazdāh  Va comunque sottolineato che se dal vs.11 dell’inno rigvedico in onore di Apā Napāt costui pare risultare il Lampo che irrompe nelle nubi e le costringe a versar acqua, il vs.13 sembra subito correggere il tiro facendone un infante che succhia le nuvole come mammelle.  Di nuovo il vs.15 incoerentemente pare identificarlo ad Agni, dando quindi ragione a Guénon e a Filippani Ronconi (13).  Invece dal x. 21, dedicato a Ka (il Cielo nel senso di Prajāpati), capiamo chiaramente che Apā Napāt altri non è che Hirayagarbha, il famoso “Embrione d’Oro” presente nelle Acque Primordiali, colui cui son seguiti tutti i numi (14).  Da Hirayagarbha proviene (vs. 7) Agni medesimo nella sua quadruplice forma (15): celeste (il Sole), atmosferica (il Lampo), 



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terrestre (il Fuoco) ed infera (la Lava).  Hirayagarbha è dunque da equiparare a Ud, quell’aureo e solitario essere con barba e capelli d’oro e con occhi di loto che vive celato nel disco solare secondo la Ch.U.- i. 6. 7 e sovrasta (udita) ogni male.  È certo a questi e non ad Agni – limitatamente inteso in senso demiurgico – che si riferisce la Mai.U.- vi. 17 allorché chiarisce: «Colui che è nel  fuoco, nel cuore e nel sole, costui è l’Unico.»  Rispetto ad Hirayagarbha inteso quale principio unitario, infatti, tanto Agni (il Divoratore) quanto Soma (l’Alimento) svolgono una funzione demiurgica e complementare (16).  Insomma, costituiscono i due fattori fondamentali dell’auto-offerta sacrificale dei quali appunto si nutre Apā Napāt (R.V.- ii. 35, 7); non per tal motivo questi va identificato al divorante, essendo simultaneamente l’offerente.  Per questo al vs.2 è detto: “Apā Napāt , il signore, per la grandezza della sua potenza di asura ha generato tutti gli esseri” (17).
        Pur se occasionalmente sembrerebbe scadere ad entrambi i ruoli di Agni o di Soma, ovvero ai loro equivalenti iranici di Ādur e Haoma, nel Veda e nell’Avesta; ma oggettivamente essendo l’esegesi testuale soltanto questione di sfumature, non è mai facile distinguere il giusto ruolo della figura fra un passo e l’altro, onde l’importante è aver chiarito il problema. 
        A conclusione segnaliamo che al vs.8 dell’inno ora menzionato gli esseri tutti sono dipinti come suoi rami, quasi che il ‘Figlio delle Acque’ effigiasse l’Albero del Mondo.  Lo si potrebbe del resto paragonare ad Eros Protogonio, sorto secondo l’orfismo da un Uovo d’Argento covato dalla Notte.  In entrambi i casi la natura fanciullesca del personaggio allude alla dimensione primigenia del nume.



b)  Le Acque nella letteratura, nell’arte e nel folclore

        Un altro inno del piú antico dei Veda (iii. 33) è elevato alle sacre correnti, descritte quali “sciolte cavalle”, animali solitamente 



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associati a Varua.  Numerosi sono altresí gl’inni rivolti a Varua (l’Urano indiano, checché se ne dica), signore non meno dell’equivalente avestico Ahura dapprima delle acque celesti e poi di quelle oceaniche, marine e fluviali (18); o ad Indra (19), distruttore col suo Vajra (‘Fulmine’) dei demoni della siccità (20), nei confronti del quale Parjanya in aspetto taurino (21) – il muggito è una chiara connotazione del Tuono – costituisce una specificazione a livello pluviale.  Parjanya è difatti indicato sul piano mitologico quale figlio di Dyaus Pitar (22), l’equivalente induista di Iūpiter e Zeū Páter, dei della pioggia rispettivamente della Grecia ellenizzata e dell’Italia latinizzata.  D’altronde Dyupitar (23) è un alter-ego di Indra in quanto Re degli Dei (Devarāja), entrambi fungendo da varianti vishnuite nel contesto ārya (24); sebbene l’uno possegga connotazioni gioviali e l’altro marziali, quest’ultimo essendo apparentato al Pico Marzio latino (25).  Di qui le preziose libagioni di soma (acqua o latte contenente sostanze oleose ed infusi vegetali dal potere inebriante non ancora ben identificati, similmente all’avestico haoma) rivolte ad entrambi.  Una loro variante popolare, soprattutto in Orissa, è costituita da Jagannātha (26).

        Nei varî maala rigvedici si fa riferimento inoltre a ninfe primeve, le Apsaras (‘Signore delle Acque’, dell’essenza delle quali costituivano la personificazione), consorti dei Gandharva; mitici esseri paradisiaci in veste di musici celestiali capeggiati da Varua, corrispettivi numinosi degli Hasa, forma mascolina della sovracasta originaria.  Di norma le Apsaras (27) fungono da danzatrici, prerogativa d’altronde delle stesse Sirene (28) mediterranee, stando ad una vecchia e poco nota fiaba pugliese raccolta a Taranto da Calvino (29).  Ivi sono descritte come le anime delle donne morte annegate, intente nelle loro danze nel “Palazzo-in Fondo-al Mare”, ovvero nel ‘Fondo delle Acque’ (30).  Ci si è chiesti da più parti quale fosse l’aspetto primario delle Sirene, figlie del Vecchio del Mare o d’una progenie di costui (31).  K.Kerényi et al. (32) hanno ipotizzato che fosse quello di donne-



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uccelli, ma personalmente abbiamo sempre creduto che sia stato un tempo anche in Grecia quello di donne-pesci (33); come talvolta difatti assunto dalle Apsaras, sia pure per incantesimi o maledizioni varie.  Inincantesimi ed incantamenti rappresentano formule simboliche le quali nel mito o nella fiaba tradiscono sempre un importante passato, che mitografi e studiosi di tradizioni popolari sarebbero tenuti a vagliare assai attentamente, anziché accantonarli con superficialità.  Tuttavia negli ultimi tempi ci siamo convinti che le 2 tesi testé enunciate siano delle parziali verità, o se preferiamo dei parziali errori; insomma che non vadano contrapposte, essendo entrambe giuste.  Infatti, pur restando inopinabile – crediamo – ciò da noi dichiarato sulla primordialità degli aspetti itttici di Apsaras e Seines, va preso comunque in considerazione il fatto che anche in India l’espetto ornitomorfico si perda nella notte dei tempi.  Giacché l’uno e l’altro aspetto, ictomorfia ed ornitomorfia, costituiscono parimenti modalità ancestrali di raffigurazione della simbologia uranica e paradisiaca.  L’ictomorfia è basata sull’allegoria, l’ornitomorfia sulla biologia (34). 

        «Proprio come l’acqua, piovuta giú sulla montagna, fluisce a caso per gli scoscesi pendii – c’insegna un passo upanishadico segnalato dal Baartmans (35) nell’ambito dello Yayurveda Nero (Kā. U.- iv. 14-5) – cosí pure uno che corre dietro alle impressioni dei sensi si disperde attraverso di esse./  Proprio come acqua pura versata in acqua pura rimane interamente la stessa, cosí anche l’anima d’un saggio silenzioso che possiede la Conoscenza… rimane pura» (36).  Si distingue cioè fra la pioggia disperdentesi fra i monti e l’acqua pura della brocca, immagine simbolica del cuore: la prima rimanda naturalmente al Vyakta, la Manifestazione del cosmo, ed inevitabilmente alle fantasmagorie della Māyā; la seconda appare al contrario un contrassegno del āna, la gnosi proveniente dalla contemplazione interiore.
        Come non rammentare in proposito quel passo evangelico quasi omologo (Iôh.- iv. 5-15)?  Gesú chiede da bere ad una samaritana che va a raccogliere acqua alla fonte di Giacobbe, ma 



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essendo giudeo si trova di fronte ad un diniego da parte della donna e perciò l’invita ad ascoltare il suo insegnamento; giacché bevendo l’acqua del pozzo avrà sete di nuovo, invece dell’acqua viva che le fornirà ne potrà bere in eterno.  In questo caso la brocca svolge opposta funzione e la fonte, benché non fluisca direttamente dal cielo, detiene al pari della pioggia un significato fenomenico.  Viceversa l’Acqua fornita dal Maestro, cioè la Parola Divina, ha il potere di mondare esteriormente dai peccati se la s’interpreta sul semplice piano devozionale; ed, interiormente intendendola, purifica la mente.  È  chiaro che  in tal caso silenzio e parola hanno evangelicamente un’accezione antinomica rispetto al testo upanishadico.  Ivi è la Parola, non il silenzio ostile dell’anima, l’anticamera alla Gnosi.  Nelle Upaniad, al contrario, la silente meditazione al posto del chiacchiericcio introduce la contemplazione.
        Il Baartmans, a differenza di quel che abbiamo appena rilevato, spinge la sua esegesi in altra – seppur accettabile – direzione.  Riflettendo sulla definizione vedica delle “sagge acque”, parallela a quella avestica delle “buone acque”, considera il percorso mondano delle medesime dalle nubi all’oceano un emblema tipico di ciò che la mentalità hindu percepisce quale yajña, vale a dire sacrificio universale.  La quasi-identità delle Āpah (Acque) col Sāgara (l’Oceano) è provata dall’equiparazione mitologica possibile fra Varua e Sāgara, in origine a vicenda il nume sovrintendente alle acque celesti e quello dominante le acque oceaniche; seppure in seguito le due funzioni si siano sovrapposte ed il secondo nume, come c’insegna E.Hopkins, sia divenuto un attendente del primo.   Ed il sacrificio è il nābhi (‘perno’) attorno a cui ruota l’intero mondo.  La rotazione ciclica delle sacre acque, oltre a generare vita, permette alle creature generate di mantenersi in vita e ciò è oltremodo importante.  Mirando al loro scorrere per via pluviale dal mondo atmosferico a quello terreno e poi dal mondo terreno tramite le correnti fluviali a quello oceanico, secondo quanto è sintetizzato con allusioni esoteriche in ii.35, 3 



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(l’inno dedicato a Napāt, ove si dice enigmaticamente che le acque dei fiumi fluiscono per propiziare il fuoco oceanico), abbiamo l’esatta percezione del compito che ci spetta in vita.  Un compito riservato a tutto il mondo vegetale ed animale, ma soprattutto all’uomo, cardine essenziale dell’asse celeste-terrestre.
        Ciononostante, ci permettiamo di segnalare, l’A. dimentica una cosa da non sottovalutare.  La visione del sacrificio come perno dell’universo è una dottrina sacerdotale, propria se si vuole del ‘Secondo Paradiso’ (zoomorficamente simboleggiato da Varāhi ed umanamente da Parśu, la figlia-costola di Manu), il paradiso che biblicamente potremmo chiamare “evaico”.  Non per nulla esiste uno Yajña-varāha, il quale ricopre un particolare significato; in quanto esprime la primordialità del sacrificio anteriormente all’inizio vero dello Yajña in senso ciclico, spuntato nel globo solamente all’epoca del “cainita” Vamana, il V Avatāra.  Nel ‘Primo Paradiso’, quello “adamico”, Manu non compiva sacrificio alcuno.  Rispettava senza mezze misure ogni ente della Manifestazione.  E se riempiva il suo calice d’acqua giornalmente a scopo sacrificale, come affermano le scritture vediche, la questione non va intesa letteralmente.  Si deve ritenere piuttosto che impiegasse il vaso del cuore da mezzo meditativo per ottenere l’Au, il Supremo Suono (Paraśabda) fungente da veicolo verso il Non-suono (Aśabda).  In modo spontaneo, preternaturale, senza iniziazione preventiva.  Poiché l’abbondanza degli stati spirituali era allora alla portata di tutti gli uomini.
        Ecco il motivo onde nei millennî successivi si è invocato il Pûrakhumba (‘Vaso Ripieno’), versione indiana del celtico ‘Calderone dell’Abbondanza’, di cui il Sacro Graal ha rappresentato la forma celto-cristiana del simbolo; non piú però spontaneamente, bensí per via iniziatica.  Il Pūrakumbha (37), aggiungendo alla sola acqua originariamente contenuta olî ed essenze vegetali unite a motivi floreali quali gemme di loto od altro, ha finito per divenire un contrassegno di fertilità in senso vitale.  Tanto che la cerimonia del vaso propiziatorio è stata posta da premessa a qualsivoglia forma di rituale.  La storia dell’arte indiana, dal Periodo Śūga in poi, lo 



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testimonia.  L’influenza è rilevabile anche al di fuori dell’India, sino all’Indonesia.  Trattasi dello stesso Vaso Sacrificale celebrato nel gveda (iii. 32, 15; v. 51. 4).  Il fatto presenta delle corrispondenze mitico-rituali un po’ dovunque nell’Eurasia (38).
        Da notare che nelle tarde cosmogonie anziché Hirayagarbha è Brahmā seduto sul Loto a nascere dall’Uovo, metà aureo metà argenteo, denominato Brahmāda.  L’importanza dell’acqua nella cultura hindu è evidenziata, indipendentemente dalla letteratura e dall’arte, dal posto eminente occupato nel folclore locale.  I pellegrini che vanno a Benares a fare il bagno nel Gange od in altri analoghi siti cerimoniali per alleviare il loro karma, al modo come i giudeo-cristiani venerano il Giordano o i musulmani si recano alla Ka’ba per render maggiormente elevate le loro preghiere, dimostra che l’acqua – almeno in India – non è solo uno dei più importanti doni a livello vitale; ma nondimeno, accanto al fuoco, uno dei principali contrassegni della vita spirituale. 






Note 



1)            V.Papesso, Inni del gveda- Astrolabio-Ubaldini, Roma 1979, p.195 (ed.or. [in 2 voll.] Zanichelli, Bologna 1929 e ’31).
2)            Non il Sole, come vorrebbe il Papesso, che perciò male intende il verso, ma che si è premurato ciononostante di segnalare l’interpretazione hillebrandtiana (ibid. come alla 1, n.3) dell’uccello come la Luna.  Per la verità la citaz. è introvabile alla pag. indicata, tuttavia codesto autore (A.Hillebrandt, Vedic Mythology-Motilal B., Delhi 1980 [ed.or. Vedische Mythologie, II ed.riv. in 2 voll.Breslau 1927 e ‘29], Vol.I, p.208) riporta alcuni passi rigvedici (ix. 71.9, nonché 97.33 e 85.11) nei quali a suo dire Soma è personificato come uccello, ossia come Supara.  Anche altri indologi (cfr. H.H. Wilson, g-veda Sahitā  1980 [rived. ed ampl. da N.S. Singh], Nag P.- Delhi -Jalalpur Mafi [U.P.] 1978, Vol.VI, pp. 100-1) erano orientati verso la stessa esegesi di Hillebrandt.



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3)            Il Papesso non si pronuncia in proposito, ma nell’introd. a ii. 35 (p.119) lo identifica ad Agni  per via della menzione di questo nume al vs.15 di tal inno.
4)            R.Guénon, Il Cuore e l’Uovo del Mondo (ed.or. Le Coeur et l’Oeuf du Monde), 1938); sta in Simboli della scienza sacra- Adelphi, Milano 1975 (ed.or. Symboles fondamentaux de la Science sacrée- Gallimard, Parigi 1962), p.194.
5)            P. Filippani Ronconi, Upaniad antiche e medie- Boringhieri, Torino 1968, p.670, s.v.AGNI. 
6)            Vi è da aggiungere che nel passo cui l’autore fa riferimento Agni svolge la funzione suprema, non quella demiurgica.  A differenza di Guènon, tuttavia, Filippani Ronconi lo intende semplicemente come Folgore e non come Lampo.  Si noti che mentre il Lampo ha una funzione luminosa, la Folgore ne ha una creativa o distruttiva.  D’altra parte F.R. male interpreta il summenzionato passo upanishadico (ibid., p.492), facendo banalmente del “fuoco per il quale si acquista il cielo” – è la sua pur bella trad.– “una nuova specie di fuoco sacrificale” (ib., p.486).  Il Fuoco di cui ivi si parla è, in verità, il segreto interiore di ogni contemplazione divina.  
7)            Ibid. come alla 4, n.6.
8)            H.H. Wilson nella sua trad. della g-veda Sahitā, rived. ed ampl. da N.S. Singh (Nag P.- Delhi 1978, vol.VI, p.415) segnala in proposito, per un confronto,  2 passi significativi: A .V.- xiii. 4 e Nir.- x. 23.
9)            Cfr. con Ra (Sole), l’uovo di Geb (Terra), ovvero con l’Uovo orfico donde nasce Eros Protogeno.  Per una sintesi generica sul tema nelle varie tradizioni vide M.Eliade, Trattato di storia delle Religioni- Boringhieri, Torino 1976 (ed.or. ionsTraité d'histoire des religions- Payot, Parigi 1948), Cap.XII, §157 sgg.  Non siamo d'accordo con Eliade che il mito cosmogonico dell'uovo si sia diffuso a partire dal territorio indiano.  Su quale base si può fare tale affermazione?  Le tesi diffusioniste lasciano sempre il tempo che trovano.  Personalmente preferiamo affidarci alla mitologia e scoprire che, dall'India alla Grecia, il motivo dell'Uovo è ciclicamente assegnato al I Grande Anno.  Ciò significa che esso rappresenta il mito fondamentale di tutto il genere umano, per questo è ubiquitariamente diffuso.  Tant'è che, come insegna lo storico delle religioni rumeno, lo ritroviamo già in un lontano passato presso Oceaniani (Polinesia, Melanesia, Micronesia) ed Altaici (Ceremissi, Votiachi).
10)       M. & J. Stutley, Dizionario dell’Induismo- Astrolabio, Roma 1980  (ed.or. A Dictionary of Hinduism- Routledge & Kegan P., Londra 1977), s.v.APĀM  NAPĀT, pp. 23,col.b-24,col.a.
11)      J.Darmesteter, The Zend-Avesta- Motilal B., Delhi –Varanasi-Patna 1964 (ed.or. Oxford U.P. 1887), P.II, p.6, n.1.
12)      L.H. Mills, The Zend-Avesta- Motilal B., Delhi –Varanasi-Patna 1965 (ed.or. Oxford U.P. 1887), P.III, p.326.
13)       La posizione di Guénon, stando alla citazione dell’autore (ib. come alla 6, n.7), è basata sulla Kāṭ.U.- i.14 ossia probabilmente lo stesso passo cui si riferisce nel proprio glossario a fine libro il Filippani Ronconi nella voce succitata.  In questo testo il Fuoco che Mtyu (la Morte) ovvero Yama (il Primo Morto, 



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alter-ego di Manu quale Primo Uomo) concede a Naciketas quale secondo dei 3 doni che il fanciullo (simbolo nel neofita) ha ottenuto per mezzo di 3 notti di digiuno – vale adire: 1) la riconciliazione col padre, 2) il fuoco attraverso cui s’acquista il Cielo [questo punto, l’abbiamo già sottolineato alla n.6, non è ben chiaro all’illustre Professore, che in tal caso ragiona purtroppo in maniera profana], 3) il destino dell’anima nel post-mortem – non ha valenza demiurgica, è quel Divino Fuoco in cui è rimasto avvolto Mosé contemplando Yahweh sul Sinai; e che è localizzabile microcosmicamente secondo i testi esoterici islamici ed in particolare Rūmī (vide A.Bausani, La letteratura neopersiana, Cap.IV, p.452; apud A.Pagliaro & A.Bausani, La letteratura persiana- Sansoni, Firenze 1968), sulla sommità del capo del contemplante.  Anche se le Upaniad lo pongono nel cuore.
14)       Per un approfondimento sul concetto qui brevemente discusso vide F.D.K. Bosch, The Golden Germ. An Intrpoduction to Indian Symbolism-Munshiram M., N.Delhi 1994 (ed.or. Mouton & Co. ‘S-Gravenhage 1960), Cap.II sgg.  L’autore ha dedicato il libro a Coomaraswamy, ma ha commesso un piccolo errore d’impostazione generale nel presentare l’argomento di tale capitolo.  Pur essendo assolutamente appropriata la cit. del Nāsadīyasūkta, cioè dell’inno 129 del X maala del gveda, paragona il principio luminoso e quello tenebroso rispettivamente al Purua e alla Prak ti del Sākhya (ibid., p.51).  Non che sia del tutto scorretto codesto paragone, ma al vs.1 del sūkta è indicato chiaramente che il tempo di riferimento non è il tempo cosmogonico, bensì quello metafisico.  In altre parole, vien affermato che in illo tempore non c’era né il Non-essere (Asat), né l’Essere (Sat), come d’altronde egli peraltro riporta giustamente al punto 1.  Che non abbia capito tuttavia del tutto l’affermazione in questione è confermato dal fatto che poco piú avanti (ib., pp. 51-2) dichiara: “In this hymn the first of the above mentioned  cosmic elements is referred as ‘the One’, same as used  by the Upanishads for the Brahman notion…”.  Eppure egli stesso ha menzionato quel fattore ultracosmico che è l’Asat, il quale non costituisce semplicemente l’Avyakta (l’Immanifesto), poiché anche l’Uno è tale, pur essendo il Principio della Manifestazione; cotal fattore, oltretutto, è ben segnalato anche nelle Upaniad.  Il gveda però attesta qualcos’altro nei suoi versi, un principio metafisico ancor superiore all’Asat, che con iperbole verbale definisce anteriore sia all’Asat che al Sat.   Questo principio potrebbe esser chiamato ‘Grande Uno’ come fanno i cinesi, che l’associano alla Stella Polare (Tai-i, lett. ‘Grande Unità’); non la Polare cosmologicamente intesa quale perno del cielo artico, che subisce i movimenti pendolari di spostamento dal Dragone del Nord avanti e indietro, in questo caso è il principio costituito dalla grande unità dell’Asat e del Sat che è presa di mira.  O, se vogliamo, dell’Avyakti (‘Non-manifestazione’) e della Vyakti (‘Manifestazione’).  Già prima (p.51) Bosch aveva fatto derivare Hirayagarbha inteso come ‘Germe della Vita’ dall’unione dei due principî, luminoso e tenebroso, a dimostrazione di quanto detto sopra.  Il che sarebbe andato bene intendendoli in senso traslato, come accade in Cina collo Yin e lo Yang.  In questo caso lo Yin diverrebbe una trasposizione del Tao (lo Zero metafisico, let. la ‘Via’) e lo Yang del Tai-i (il Grande Principio).  Comunque pure il Wilson (op.cit., p.435) ha commesso gli stessi errori del Bosch, tipici del dualismo 
 


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proprio della mentalità di ambiente protestante.
15)      A parte quanto rilevato alla n.prec., Bosch (op.cit., p.53) approfondisce splendidamente il concetto di Hirayagarbha, collegandolo a quello di Vāc (‘Parola’, lett. ‘Voce’, personificata in forma di dea equivalente a Sarasvatī); talora considerata figlia delle Acque (Āpah), talora identificata ad esse ed ora persino figlia delle stesse.  Sulle Acque risiede il ‘Germe d’Oro’ e su tale germoglio s’erge l’Arbor Mundi (ibid., p.55).  Alternativamente abbiamo l’immagine del grande Loto-splendido-come mille soli spuntato dall’Uovo giacente inerte sulle Acque, equivalente macrocosmico di del Loto-dai mille petali, posto dal Tantrismo quale VII Cakra; su codesto Loto siede Brahmā, secondo quanto mostra l’iconografia del nume.  Alternativamente ha per veicolo un hasa.  Vide in proposito S.L. Nagar, The Image of Brahmā in India and Abroad- Parimal P, Delhi 1992, 2 voll., passim.  In una speciale icona (ibid., Vol.II, tav.68) d’un tempio di Mahādeva in Nepâl (Gokara, XIII-IV sec.) il dio compare reggendo 4 attributi di potenza (ib., Vol.I, p.163): il Libro, il Rosario, il Tridente ed il Kamaalu.  Sul capo ha un Kalaśa, col piede destro è poggiato su Hasa, col sinistro su Loto.  In un’altra immagine nepalese (Vol.II, tav.69), questa volta da Patan (Vol.I, p.163), un Brahmā unicipite a 12 braccia seduto accanto a Brahmī con 8 braccia – l’identificazione, non facile, è di K.Deva – ha il piede sinistro stranamente su Leone e la paredra ha il sinistro poggiato su Hasa.  Il Buddhismo ha trasformato l’Albero del Mondo in Albero della Vita (Bo., cit., p.56), sostituendo l’Ādibuddha (il Buddha originario) allo Svayambhū (l’Esistente-in sé), epiteto di Brahmā (ibid., p.57).  In campo artistico il ruolo di Hirayagarbha nei confronti del Loto è stato coperto dal Padmamūla, la radice a forma di bulbo della pianta.  Al gveda, ha notato però F.B.J. Kuiper, il Loto era semisconosciuto; onde, ne ha dedotto l’autore (ib., n.5), nel mito originario vi era probabilmente un’altra pianta.  Bosch ipotizza la śamī , cioè una pianta sacra connessa coll’origine del fuoco per sfregamento d’un bastoncino della stessa con uno di aśvattha (vedi legenda di Purūravas); secondo taluno sarebbe la  prosopis spicigera, secondo altri la mimosa suma.  Oppure, aggiungiamo noi, potrebbe esservi stato uno sdoppiamento nei miti cosmogonici tardivi non ancora presente nel mitema primario.  Anche Bosch (p.58) identifica Agni ad Hirayagarbha e all’aureo Apā Napāt, ma spiegandone molto bene le ragioni, vale a dire ritenendo quest’ultimo un travestimento dell’igneo nume.  A dimostrazione di ciò menziona passi rigvedici nei quali Agni è tequiparato all’oro, gli è attribuita un’aurea veste od è considerato il creatore dell’oro, la cosa essendo confermata da un rito vedico che lo rappresenta mediante un simbolo aureo.  In altri passi, non meno dell’Aureo Germe sprizza fuori dal ventre delle acque o è denominato ‘germe delle acque’ (apā garbha).  Da parte nostra crediamo che la funzione del dio del fuoco sia in realtà triplice: in quanto Lampo è Brahmā, in quanto Tuono è Vāc, in quanto Fulmine è Purua.  


16)      A differenza di altri studiosi, il Bosch (pp. 60-1) comprende chiaramente che Hiranyagarbha/ Apā Napāt, benché identificabile per un verso ad Agni siccome ‘Germe delle Acque’, contiene per un altro verso l’essenza di entrambi i fattori opposti (Agni/ Prajāpati e Soma/ Am ta o Rasa).  L’intero mondo dunque, essendo costituito dal duplice fattore, riproduce questa dualità ad infinitum.  Bosch nota peraltro (pp. 63-4) 
 


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che la connotazione aurea è altre volte attribuita a Soma/ Am ta, ma non riesce bene a dedurne il motivo, facendo questa volta confusione.  Ossia non comprende che talora è Agni ad avere natura solare, talora Soma, egualmente accadendo colla natura lunare.  Non è insomma il fattore aureo ad accomunare gli opposti, cocome non potrebbe esserlo il fattore argeneteo nel caso in cui si parlasse del Sacrificante o dell’Offerta in termini lunari, a meno d’intendere gli aspetti maschile e femminile di entrambe le nature.  In questo solo caso i fattori omologhi sarebbero complementari.             
17)      Stut., op.cit., s.v.AGNI, p.9/ col.b.
18)      Pap., op.cit., p.120; cfr. con Y.- lxx. 6.  Se Varuna è da considerare per gl’Indiani una divinità primeva (anche se non la piú antica), non meno di Ahura fra gl’Iranici ed Ouranós fra i Greci, il ciclo di riferimento per tutte queste divinità è l’Età Aurea.  Gli antichi ragionavano infatti ciclicamente, prima che etnicamente.  La vecchia supremazia dei tempi pre-vedici apparteneva perciò a Varua, tuttavia la nuova supremazia nel Veda è attribuita ad Indra, poiché la tradizione vedica costituisce l’eredità a mezzo del Dvaparāyuga (c.11-10.000 a.C.) – cioè all’interno del IX Periodo Avatarico (10.960-4.480 a.C.) – di quella spiritualità primeva che l’induismo attribuisce al Satyayuga.

19)      Le Acque nello zoroastrismo (Y.- xxxviii. 3) sono ritenute le consorti (Ahurānī) di Ahura Mazdāh.  Cfr. sul tema R.C. Zaehner, Zoroastro e la fantasia religiosa- Il Saggiatore, Milano 1962 (ed.or. The Dawn and Teilight of Zoroastrianism, 1961), P.I, Cap.II, pp. 68-9.  Parimenti nell’induismo le Acque raffigurano le spose di Varua (Tait.Sa.- v. 5, 4, 11), personificate da Varuānī.  Vedi in proposito lo Stutley, cit., s.v.VARUA, pp. 471/ coll. a-b e 472/ coll. a-b.  Nel caso di A.N. invece, come ci rivela la versione vedica del nume, le Acque costituiscono le madri del dio.  D’altra parte il Fuoco (ir.Ādur) è considerato nell’Avesta la potenza luminosa per antonomasia in cui si avvolge Ahura (Zaehn., ibid., p.79), ma nell’Avesta tardo ne figura quale figlio non meno di Haoma, in codesta funzione essendo identificato a Spenta Mainyu; nel contempo, il Fuoco è l’espressione p diretta della Verità e della Rettitudine (ib., Cap.I, pp. 45) e, come tale, adempie il ruolo di speciale protettore di Zoroastro (p.59).  Quindi riassumendo esso dapprima funge da Lampo, poi per cosí dire da Tuono ed infine da Folgore.  In questa sorta di tri-unità formata da Ahura, il Creatore primevo dell’Uomo Veridico (var.: Giusto o Buono), da A.N. – cui si rifà la figura del Saośyans (‘Salvatore’), incarnata prima dell’escatologia dalla Parola  (Manthran) del Profeta (p.58) – e dallo Spirito Santo ritroviamo il senso vero della mitologia delle Acque; o, se preferiamo, delle Piogge.  Il fatto che Ahura corrisponda in India a Varua (Cap.II, pp. 70-2), allonimo a sua volta di Brahmā siccome dio dell’Età dell’Oro, prova indirettamente che A.N. svolge nel mazdeismo lo stesso ruolo coperto nell’induismo.  Insomma sta ad Ahura, come Hirayagarbha a Brahmā.  A riprova di ciò, nella religione iranica (Cap.I, p.41) è affermata la predestinazione dell’azione profetica di Zoroastro, che dichiara d’esser stato trasportato da Ahura in contemplazione alle origini del mondo, non meno di quanto avvenga per Gesú e Maometto vicendevolmente nella religione cristiana ed in quella islamica.  In Persia la funzione avatarica di Zoroastro, sia pur d’un avatara minore, è suggerita anche dal fatto che è figlio simbolico di  
 


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Pouruāspa (Cap.III, p.99), cosí come Ka in India lo è di Puruottama.  Pouruāspa è il quarto uomo ad aver compiuto il rito dello Haoma (scr.Soma), dopo Vivahvant (Vivasvant), Athwya e Thritā (nel Veda un unico personaggio, i.e. Trita Āptya, lett. “il Terzo sorto dalle Acque”).  Gli Stutley (ibid., s.v.TRITA, p. 443/ coll. a-b) identificano quest’ultimo giustamente ad Indra, non a caso definito pure lui Āptya, il tutto facendo capo ad un mitologema contenuto nello G.B.- i. 2. 3, 1ss; in cui si narra  della sparizione di Agni nelle Acque, donde i numi lo fecero uscire.  Si tratta, invero, d’un altro modo per indicare la stessa cosa del rito dello haoma zoroastriano.  D’altronde Agni, il ‘figlio maggiore di Brahmā’, copre ivi la parte del padre nell’atto di nascondersi nell’Immanifesto – emblematizzato dalle Acque o dall’Uovo – onde divenire il Principio della Manifestazione (Hirayagarbha od A.N. che dir si voglia).  Vide n.9.       


20)      Non meno dell’Indra vedico il Mithra iranico, che per certi versi si differenzia dal corrispondente indiano (Mitra) disponendo della ‘Mazza’ (scr.Vajra, ir.Vaĵra) esattamente come il Signore dei Marut, è un dio della guerra.  Nel tardo Avesta il personaggio di Indra ricopre il ruolo d’un daeva (demone), mentre nell’Avesta anteriore appariva nei suoi attributi distinto in 2 figure: Verethragna, equivalente del scr.Vtrahan (‘uccisore di Vtra’), cioè del volto assunto da Indra in veste di annientatore del drago – o serpente  Vtra (chiamato anche Ahi, Vala o Bala); Mithra, che nella letteratura avestica svolge pertanto una funzione maggiormente complessa di quella del proprio doppione vedico.  Cfr., in proposito, R.C. Zaehner, Zoroastro e la fantasia religiosa- Il Saggiatore, Milano 1962 (ed.or. The Dawn  and Twilight of Zoroastrianism, ediz. e l. di ediz. n.c., 1961), P.I, Cap.IV, pp. 117-20.
21)      Cfr. col Giove Pluvio latino.


22)      Gli storici delle religioni (vedi ad es. R.Pettazzoni, La religione di Zarathustra nella storia religiosa dell’Iran- Zanichelli, Bologna 1920, Cap.II, p.38 ss.) si sono trovati in difficoltà nel ricostruire la presenza d’un dio supremo della pretesa religione indoeuropea, cui mai nessuna tradizione ha fatto alcun cenno.  Primo, perché tale religione è probabile non sia mai esistita; secondo, per il fatto che non vi è prova di alcun genere che i popoli di lingua indoeuropea abbiano costituito una loro unità etnoculturale in una plaga dell’Europa o dell’Asia negli ultimi diecimila anni di storia.  Purtroppo anche Guènon pare compiere quest’errore, invero antitradizionale, se ben interpretiamo le parole dello scrittore francese (R.Guénon, La situazione della civiltà atlantidea nel «Manvantara», p.40; sta in Forme tradizionali e cicli cosmici- Mediterranee, Roma 1970).  Laddove parla di Nord anziché di Nordovest, come insegna la dottrina ciclica, confondendo in tal modo il IX ed X Periodo Avatarico; seppur abbia ragione nel distinguere la corrente d’origine atlantidea da quella d’origine iperborea, poiché sono queste due forme differenziate in effetti ad unirsi.  Il problema è che non meno di altri, egli era convinto che tale congiunzione etnoculturale si fosse attuata nel Vecchio Continente, pur non essendo ben chiaro a suo dire come si fosse verificato l’evento.  Le cose sarebbero apparse in una diversa ottica, se Guénon et al. avessero preso in considerazione la zona nordatlantica del Nuovo Continente, come d’altronde additavano le leggende celtiche relative al Tir na nOg (‘Terra di Giovinezza’).  Parlando invece di Atlantide Meridionale ed Atlantide Settentrionale (Atlantide e 
 


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Regione Iperborea, ibid., p.29), ha finito per lasciar intorbidare le acque.  Semmai, ed è questo il punto da considerare realmente, vi è testimonianza tramite i loro miti che i popoli di lingua indoeuropea c.13-12.000 anni fa abbiano costituito un tutt’uno nella seconda metà ciclica della fase bronzea della loro storia culturale.  Il che è assai diverso da quanto proclamato da Pettazzoni & C., ciò spingendoci anzi ad ipotizzare che la loro vera denominazione è quella tramandataci da Esiodo, cioè di Eroi.  Il termine ‘indoeuropeo’ è solamente un dato linguistico, come peraltro la buona accademia ha sempre insegnato.  Da notare che la denominazione esiodea di ‘Eroi’ corrisponde perfettamente, nell’etimo e nel senso proprio, all’appellativo che gl’Indoiranici davano a sé medesimi nelle loro rispettive scritture: av.Airya, ved.Ārya.  Dalla ‘Genesi’ – vide G.Acerbi, Uttara Kuru, il paradiso boreale nella cosmografia e nell’arte indiana, blog (Alle pendici del Meru, 8-06-13), passim – apprendiamo inoltre che la denominazione esiodea equivale a quella biblica di Gibborīm, in altri termini Noè ed i suoi discendenti.  In un’accezione piú ristretta potremmo paragonarli agli Iapheti.  Dunque, se tali popoli hanno avuto una loro unità, questa non ha potuto essere se non in quella terra nordatlantico-occidentale definita da Paul Le Cour ‘Atlantide Iperborea’ (R.Guénon, ibid., p.27); la quale ha avuto cronologicamente una durata assai limitata (non oltre 2.000 anni), se è vero che come insegna la tradizione avestica (Vīd.- i. 4 e ii. 21 ss) un grande freddo ad un certo punto l’ha investita, tanto da costringerne gli abitanti ad emigrare.  Alludiamo, ovviamente, all’Airyanm Vaeĵa.  A quella fase unitaria, ancora preistorica (forse già mesolitica), parrebbe infatti risalire la figura del Dyaus Pitar/ Dyupitar hindu, o meglio il prototipo da cui questi e le altre figure correlate  (i corrispettivi Zeds Páter e Iūpiter in  Grecia e a Roma, o l’aat.Ziu) sembrerebbero rifarsi.  Dyaus per la verità ha una presenza limitata nel gveda, ove è già stato sostituito da Indra.  Il Pettazzoni (ibid., p.39) ne segnala l’invocazione congiuntamente a P thivī, la dea-terra; si esamini ad es. x. 110, 9/a, in cui all’espressione Dyāvāp thivī segue l’appellativo di janitrī (‘genitori’).  Solo nell’A.V.- vi. 4, 3 il dio è invocato a sé stante.  Dal punto di vista figurativo non si conoscono immagini di questo nume se non in certe raffigurazioni assai rozze delineanti una divinità maschile, il Cielo Padre evidentemente, accoppiantesi in coito rovesciato con una divinità femminile, che secondo logica si suppone essere la Terra.  Cfr. P.K. Agrawala, Mithuna. The Male-Female Symbol in Indian Art and Thought- Munshiram M., N.Delhi 1983, tav. 5.  La tav.cit. riporta un’incisione in pietra d’una terrazza del Lakmaa M. di Khajurāho, del 900 d.C. c.; ma rappresentazioni similari s’incontrano nei graffiti parietali dell’arte preistorica camuna, seppur coll’aggiunta di linee verticali irregolari indicanti la pioggia.   Tempo fa avevamo segnalato da parte nostra codesto parallelismo iconologico ed altro, riguardo la mitologia di Mithra/ Mitra ed il Marte latino nonché Indra e Pico Marzio (cfr. n.25), ad un un membro del C.N.R. mediante una consulenza indiretta richiestaci dal dott.Albrile; ma non sappiamo se l’interessato ne abbia tenuto conto, oppure no, e come abbia sviluppato il suo studio.
23)      Pettazzoni (Pet., op.cit., p.46) non aveva torto ad ipotizzare che la supremazia originaria del culto vedico appartenesse a Varua e non a Dyaus e che vi fosse stato di poi un passaggio di consegne, ripetuto relativamente di recente nei confronti di Indra (ibid., Cap.II sgg).  A testimonianza di ciò vi è un mito, 
 


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quantunque a nostro parere non interpretato nel giusto senso.  Oltre al Dyaus vedico vi è infatti un altro Dyaus (var.Dyau, Dyu, Āpa) nell’epica, inteso come uno degli 8 Vasu, benché il secondo non sia mai chiamato Pitā o Pitarā (‘Padre’).  Gli Aavasu furono sottoposti a maledizione a causa del ratto di Nandinī, la ‘Vacca dell’Abbondanza’.  Vi è una leggenda riguardante il figlio di Varua aliâs Āpadeva (‘Dio delle Acque), ossia Vasiha (detto Āpava secondo il Mhbh.- i, 99), in proposito.  Essa narra che una volta i Vasu si recarono all’eremo di Vasiha a scopo edificatorio, ma la moglie di Dyaus disgraziatamente s’innamorò di N.  Il marito allora decise di rubarla, non rendendosi conto delle conseguenze del suo gesto.  Quando il devai, che  gli indú identificano miticamente ad una delle stelle dell’Orsa Maggiore, tornò al proprio eremo presto si accorse del ratto subito ed in men che non si dica coi suoi poteri magici individuò il colpevole; dopodiché condannò i Vasu a trasformarsi in uomini, sebbene la pena sia stata poi attenuata per via delle loro suppliche, fermo restando che il vero colpevole subisse per intero la pena.  Dyaus s’incarnò perciò nel figlio del re dei re Sāntanu e della sua prima sposa Gagā, vale a dire il gigante Bhīma (discepolo di Paraśurāma), mentre gli altri 7 Vasu furono subito annegati dopo la nascita dalla figlia di Jahnu.   Cfr. colla storia dei fratelli di Achille, allonimo di Acheloo, e della madre Teti.  La leggenda indiana ora accennata prova ad ogni buon conto che  fra  Āpadeva, od il suo alter-ego Āpava, ed Āpa c’è stata ciclicamente una trasmissione di dominio in sede celeste da sovrano delle acque a dio delle piogge.  Da notare che Jahnu equivale al lat.Iānus (it.Giano) e che sua figlia Gagā ha iconologicamente per veicolo il Pesce o il Makara, esattamente come Varua, di cui d’altronde appare quale ipotetica consorte.  Difatti Śāntanu, cui il Mhbh.- i. 100 attribuisce un regime poco dissimile da quello totalmente aureo di Uparicara-vasu (I Mahāyuga), è vissuto in un’epoca nella quale “cervi, cinghiali, uccelli od altri animali non venivano uccisi senza necessità” (II Mahāyuga); sebbene i sacrifici in onore di déi, i e pit abbiano già cominciato ad esser allestiti.  In altre parole il consorte di Gagā altro non è che un’incarnazione di Sāgara, l’Oceano (Re Sagara di Ayodhyā, connesso anch’egli a Vasiha, ne è l’ennesimo doppione), vale a dire d’un altro figlio di Varua.  Insomma, il marito della devī costuisce un allotipo del suocero, cosí come Giano fra i Latini  corrisponde – la buonanima di Ovidio non ce ne voglia! – all’Urano greco.  Non è certo un caso che Nandinī, per finire, sia stata identificata al Madhyādeśa; conteso fra i 2 purohita (consigliere del re, lett. ‘preposto’) Vasiha e Viśvamitra nella ‘Guerra dei 10 Re’.  I 2 Purohita dapprima a vicenda al servizio di Sudās e poi contrapposti in guerra alludono cosmologicamente ai Poli e i Dāśarājña ai Dāśavatāra, invece la ‘Regione di Mezzo’ non può che essere la trasposizione nel Deccan di un’ecumene ormai scomparsa, sia in senso primordiale che successivo.  Cfr. nn. 22 e 24.
24)      Il Ciclo Ario, che in un altro scritto (Ac., art.cit., pp. 18-9, n.13) abbiamo identificato a quello eroico descritto da Esiodo, rappresenta il diretto passaggio dall’Ilāvta (‘Terra Nascosta’ = Iperborea) all’Uttarākuru (‘Terra-piú esterna’ = Nordica, insomma la cd. ‘Atlantide Iperborea’) d’una vetusta e millenaria cultura spirituale.  Tale passaggio non è però un semplice trasferimento da una sede ad un’altra della tradizione iperborea, sebbene quest’errore venga in genere commesso persino dai testi; il passaggio 
 


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implica, necessariamente, anche l’apporto dei periodi avatarici intermedî fra il I e d IX. Proprio per questo ha ricevuto la denominazione sopra riportata.  L’apporto non è unicamente culturale, ma evidentemente pure etnico, visto che lo stesso Iaphet viene presentato dalla Bibbia come figlio di Noè.  I tradizionalisti odierni, che non tengono conto di questo dato e si rifanno invece eurocentricamente a quell’indoeuropeismo di maniera il quale ha preso le mosse dai tempi coloniali, mostrano di non aver a cuore la vera Tradizione. 
25)      Sul tema vide G.Acerbi, Il culto di Pico in area indo-mediterranea, dalla Sicilia al Deccan, pross. su questo blog.
26)      Che il vedico Indra possa esser appaiato al post-vedico Jagannātha (l’anario ‘Signore del Mondo’), ennesimo dispositore hindu delle acque e delle piogge, è dimostrato dall’associazione di ciascuno dei due con Ka; ovviamente il Ka mahabharatiano, nel senso  che Jagannātha è il dio corrispondente e Ka l’avatāra dominante il IX Periodo Avatarico (vide nn. 18 e 24).  La prima citazione sicura di  questa speciale figura numinosa trovasi nell’epica (K.C. Mishra, The Cult of Jagannātha- Firma KLM, Calcutta 1984, Cap.III, p.73).  Di cotal deità non si hanno invece tracce puraniche od agamiche prima del V sec. d.C. (ibid., Pref., p.xi), benché taluno rifacendosi all’interpretazione d’un passo vedico da parte di Sāyaācārya ipotizzi la sua presenza in veste rozzamente lignea e di color bluastro nel Kaliga – antico Orissa, con centro a Purī – sotto forma di devatā tribale denominata Puruottama (‘Persona Suprema’) fin dai tempi rigvedici (ib., Cap.III, pp. 71-2).  Che in origine fosse una divinità oceanica di tipo varuniano – proveniente dall’Oceania Meridionale attraverso i Mari del Sud – trasmessa dalle tribú mundariche d’origine austronesiane, è provato dalla sua relazione col IV avatāra vishnuita (AA.VV., The Cult of Jagannath and the Regional Tradition of Orissa- Manohar, N.Delhi 1986; ed.or. South Asia Inst. (branch of Heidelberg Un., N.Delhi 1978, P.I, Cap.X, p.169 ss); ossia Narasiha, il quale oltre ad esser in precedenza rappresentato in forme lignee cioè tribali (ibid., fig.56), ha una versione shivaita in Sihanātha (ib., fig.55).  Allo stesso modo come Bhairava in aspetto semiteriomorfico di verro funge da corrispondente shivaico di Varāhāvatāra e, parimenti, l’antropomorfico Vāmadeva nei confronti Vāmanāvatāra.  È da supporre che furono Bhairava, Sihanātha e Vāmadeva a far da modelli agli altri 3; vale a dire il III, il V ed il V avatāra, visto che direzionalmente lo Shivaismo discende dal Sud ed il Vishnuismo dall’Ovest.  A riprova di ciò Jagannātha (figg. 37-8), altrimenti noto come Nīlādrinātha ovvero ‘Signore della Montagna Blu’ (Cap.I, p.25), è a giudizio di H. von Stietencron (Cap.VI, pp. 120-1) assai affine dal punto di vista iconografico ad Ekapāda Bhairava (figg. 57-8); una forma di Mahādeva nei panni di ‘Primo Figlio’ di Śiva posto in connessione colla Direzione Orientale o meglio, ad un tempo, coll’E ed il SE.  Primieramente Jagannātha dovette quindi costituire una deità suprema a sé stante, equivalente a Puruottama, la cui paredra a livello tantrico è non per niente Kamalā (lett. ‘Loto’).  Cfr. con Kalā, la śakti di Kāma inteso quale signore tantrico del binomio Éros-Thánatos.  Kamalā benché tardivamente identificata a Rohiī (la Settima Pleiade) in quanto Decima Mahāvidyā, era forse in principio la paredra di Kāma al posto di Rati.  E Kāma è un dio aureo, variante talora di Brahmā, talora di Varua.  Alla diade originaria, richiamata 
 


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dall’aspetto erotico di Narasiha (Cap.X, p.173), è subentrata di poi una triade formata da Ka, Balarāma (fratello di K.) e Subhadrā (sorella dei due), colla quale s’è compiuta in ambiente dravido-camita la nuova identificazione del dio blu con Ka.  Non piú nei panni di ‘Suprema-persona’ (Puruottama), bensí di ‘Imperitura-persona’ (Akarapurua).
27)      Il nome delle Apsaras, è fatto derivare (E. Washburn Hopkins, Epic Mythology- Motilal B., Delhi 1974; ed.or. Strasburgo 1915) da apsu-rasa, nel senso di ‘essenza del profondo delle acque’).  L’Ap-su ovviamente, per l’India antica come per la Sumeria, era lo strato delle Acque Superiori ossia l’Oceano Celeste.  Altri fanno provenire il termine composto da altre fonti, non stiamo a disquisire in proposito.  Numericamente appaiono in elenchi varî, che non sembrano però collegati né alla loro forma originaria, né a quella terminale kaliyugica.  Vengono fatte discendere (Har.- 12476) dall’immaginazione (sakalpa) o dagli occhi del Brahman, oppure dalle 27 ‘figlie’ di Daka.  Non meno dei Gandharva, talora egualmente equiparati alle deità presidenti agli asterismi lunari (sono infatti 27), appartengono al Reame di Varua, loro mitico re.  Ciò significa in tutta evidenza che in principio le Apsaras erano semplicemente i vari raggruppamenti di stelle, per non dir le stelle singole, di quel che gli aedi greci chiamavano l’«Urano stellato»; in seguito, hanno assunto la fisionomia dei Nakatra.  La natura venerea di coloro che un passo vedico cit. da Hopkins (§100 sgg) definisce le “brave fanciulle” è rivelata dalle gemme e dalle ghirlande delle quali son dotate figurativamente, oltreché dalle loro libere maniere in campo sessuale.  Per questo sono presenti alla morte degli eroi, danzano ai matrimoni degli uomini intantoché i loro partner gandharvici cantano ed allietano gli ospiti degli Dei.  Talvolta, al pari di Rati (sposa di Kāma, l’Eros indiano) o di Urvaśī (ammaliatrice di yaśga), 5 di esse amano sedurre, tal numero essendo correlato alle frecce dell’arco del dio del desiderio, alludenti ai 5 sensi.  Altre di costoro sono Menakā, la madre di Pārvatī direttamente generata dal Brahman; nonché Rohiī, celeberrima sposa di Soma.

28)      Circa l’etimo del gr.Seir-ēn-es è d’uopo rifarsi al s.f.seirá (‘laccio, fune’), il suff.-ēn- essendo una semplice denotazione di signoria, ma potrebbe anche non esser questa la fonte primaria del vocabolo.  Anzi, in tutta sincerità, riteniamo che non lo sia; pensiamo viceversa che entrambe le parole vadano ricollegate a sélas (‘raggio, lampo; splendore, cielo’), quindi alla base *sel/ seil- (var. *ser/ seir-, che è la  stessa della voce sel-ēn-ē (‘luna’) o del lat.sol (‘sole).  In modo differente da noi, ma assolutamente convergente, altri (E.Albrile, Serena- Nel nido del Simorgh, blog, 1-02-13, pp. 2 e 7-8, n.13) si rifà invece al scr.Sūrya nonché al tema ie.*svar- (scr.śvar-, av.xvar-, pahl.xwar-).  Il che è corretto, giacché si può ipotizzare che le Apsaras siano filologicamente oltreché mitologicamente apparentate alle Sirene, riferimento alle acque (il pref.ap-) a parte.  L'etimo del pur bravissimo prof.Hopkins (vecchio cattedratico presso l’Univ. di Yale) indicato alla n.prec., del resto, ci pare piú un’interpretazione ermeneutica – valido quanto si vuole dal punto di vista del Nirukta (vedi possibile rimando a Soma quale sposo delle 27 Figlie di Daka) – ma non una vera e propria etimologia; poiché il passaggio da -u- ad -a- (apsu-ras(a)>aps-a-ras) è difficile da spiegare  sul piano dell’apofonia vocalica e, prima di poterla accettare, bisogna portare dei significativi esempî in 
 


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proposito.  D’altronde, il s.f.śrī (‘luce, radiazione; splendore, gloria’) – proveniente dal verbo omonimo, significante ‘bruciare, fiammeggiare, diffondere luce’ – in sanscrito ha un valore parallelo a quello del gr.sélas, probabilmente derivato da *sƑélas.  Cfr., al riguardo, il passaggio dal gr.hýlē (‘selva; legno, materia’) al lat.sylva (‘selva; albero, materia').
29)      I.Calvino, Fiabe italiane- Einaudi, Torino 1956, Vol.II, N°132.
30)      Sull’argomento del Gorgo vedi A.Bonifacio, Moby Dick e lo sciamanesimo artico- Hera, N°106 (ott. 2008), un bell’art. ispirato ad un nostro studio sulla simbologia ancestrale dei cetacei polari (G.Acerbi, Il culto del Narvàlo, della Balena e di altri mammiferi marini nello sciamanesimo artico (apud Il tamburo e l’estasi. Sciamanesimo d’oriente e d’occidente’), Avallon, N° 49, Rimini [Fo] 2001,  pp. 55-78.

31)      Sul Vecchio del Mare e la sua progenie in ambiente greco-romano vide G.Acerbi, La saga universale del Pesce e del Re Pescatore. Indagine iconologica e cosmografica sugli sviluppi ciclici della Rivelazione Primordiale, in prep., Cap.V, §h sgg.  
32)      Ad es. Alb., art.cit., pp. 1 e 7, nn. 1-4, nonché pp. 2 e 7, n.12.
33)      Il loro simbolismo ittio-uranico è difatti palesemente correlato da un lato a quello di Afrodite Anadiomene, affiancata dal Delfino, la dea costituendo una variante di A.Urania, (associata all’Oca, come la sua equivalente hindu Rati, l’apsaras incarnante non meno del corrispettivo consorte Kāma – ritratto a dorso di pesce – il desiderio e perciò fungente da Māyāvatī = ingannatrice’); e dall’altro a quello degli Erotidi (coi quali i Sireni maschî hanno molto in comune), a dorso di Delfini.  Dagli Erotidi derivano infatti gli Angeli, caratterizzati guardacaso da una simbologia semi-aviaria, le ali di cigno.  Similmente agli Hasa (in questo caso Oche Selvatiche maschî), a loro volta i corrispettivi indiani dei Gandharva (controparti maschili delle Apsaras), che però hanno tutti quanti per intero il corpo ornitomorfico.  Sull’argomento si analizzi per un approfondimento G.Acerbi, Il sesso degli Angeli– Alle pendici del Meru (blog, pross.),  n.22 et  passim.  Nella simbologia cristiana la parte di A.Urania, che il Rinascimento italiano ritraeva in modo pressoché identico ad Eva, è stata non per niente assunta da Maria semplicemente colla sostituzione del Globo alla Mela.  Per questo la Madonna medesima in quanto ‘Madre dei Viventi’ è stata trasformata in Sirena mistica, così come una Sua contro-faccia demonica lilithiana.  Ricordiamo che Lilith era una delle spose leggendarie di Adamo.
34)      Forse non è solo un caso che Kāma cavalchi il Pesce e la consorte sia a dorso dell’Oca (vide n.prec.).  In altre parole, l’ictomorfia è un po’ più vetusta dell’ornitomorfia, sebbene entrambe appartengano ciclicamente al Satyayuga. 
35)      F.Baartmans,Āpa“, the Sacred Waters- Publishing Corporation, Delhi 1990 I ed.1936), P:III, Cap.VI, p.203 ss.
36)      Per la verità ci siamo aiutati nella trad. col Deussen e il Filippani-Ronconi (il testo sanscrito è raccolto da J.L. Shastri), poiché nel saggio indicato la versione inglese dell’originale lasciava un po’ a desiderare.  Ad ogni modo il senso generale è chiaro.
 


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37)      Molte altre definizioni sono state in uso al riguardo, come ha riportato P.K. Agrawala in Pûra Kalaśa  or the Vase of Plenty- Prithivi P., Benares 1985 (I ed. 1965), Intr., p.1. 
38)      Cfr. É.Burnouf, Le Vase Sacrée et ce qu’il contient. Dans l’Inde, la Perse, la Gréce et dans l’Église Chrétienne, Milano 1974, passim.