(*)
Narra il Mahâbhârata che in principio il matrimonio non esisteva, i rapporti
sessuali degli uomini assomigliando a quelli degli animali. Un giorno però, allorquando un giovane
ricevette un amico nel proprio abitacolo e l’ospite chiese d’adagiarsi colla
madre dell’ospitante, questi si seccò; il padre, rimproverandolo della scortesia,
gli ricordò che quello era un costume atavico e andava rispettato. Analogo costume, si sa, era in vigore presso
gli Eschimesi prima del loro ingresso nella contemporaneità. Ma il giovane, essendo rimasto deluso dal
comportamento paterno, affermò spazientito: – D’ora in avanti si farà il
matrimonio! Una tautologia questa tipica
della spiegazione dell’origine delle cose nelle società tribali. Sta di fatto che in India sono stati
celebrati ritualmente in passato 5 tipi di riti nuziali, come attestato nel Mhbh.- xiii.44, ogni suddivisione quinaria
dipendendo da un Mahâyuga; il piú
arcaico di essi era quello gandharvico (gandharvavivâha),
di natura celestiale. Il Manu- iii. 32 aggiunge in proposito:
“L’unione d’una giovinetta con un giovane (in Oriente la minor età non ha mai
contato, questa è un’ossessione tipica dell’Occidente moderno), risultante da
un reciproco voto, è detta il matrimonio dei musici celesti: nata dalla
passione, ha per meta i piaceri dell’amore.” Forse potrà apparire una
contraddizione, tuttavia la base di codesto rituale era rappresentata dalla
reciproca fedeltà fra i due partner,
fedeltà che una volta venuta meno annullava
ipsô factô la loro unione. Il matrimonio veniva celebrato a cielo
aperto, di notte presso un fuoco, collo sposo additante alla sposa quale
esempio nuziale di comportamento femminile Arundhatî
(consorte di Dharma o di Vasiṣṭha,
oppure dei Saptaṛṣi); dea d’una minuscola stella dell’Orsa
Maggiore (Alcor), evidentemente presa a modello d’immutabilità dei sentimenti
amorosi. Quale delle due situazioni, l’eros
sfrenato o l’assolutà fedeltà coniugale, era dunque la condizione primaria
umana? Nel corso dell’articolo cercheremo
di mostrare, a costo d’apparire irrazionali, che lo erano entrambe.
a. L’eros quale piacere fisico e metafisico
Nel 1988, sei mesi dopo la
morte prematura di nostro padre, avemmo modo di viaggiare per la giungla
indiana alla volta di Khajurâho, sede
dei piú famosi templi erotici indú (XI sec.).
A quel tempo percepivamo l’amore virgilianamente, cioè in senso
generativo e direttamente connaturato col suo principio opposto, la morte. Frutto di questo connubio di pensieri
positivi e negativi fu, un decennio dopo, un nostro scritto sui rapporti fra
Desiderio e Morte (1); che ricevette qualche critica a livello
etico da parte di un’amica mediattivista, pensando fosse frutto di chissà quali
oscure pratiche tantriche. Niente di
tutto questo, era stato semplicemente uno studio teorico, sebbene ammettiamo d’aver
ricevuto nel viaggio cui abbiamo fatto cenno la dîkṣâ
direttamente da Mṛgeśvara, forma kaliyugica di Śiva-Pâśupati. Quel tipo
d’iniziazione che vien concessa straordinariamente ai cd. ‘solitarî’. Una l’avevamo ricevuta oltre un anno prima
tramite l’emissario d’un guru
indiano, poi personalmente identificato a Kalki. Soltanto ciò ci aveva reso strettamente competenti
in materia. Rammentiamo soltanto a nostra
eventuale discolpa che il vivere idealmente una catabasi passando per strade
immonde, poi procedendo ad un’anabasi per sentieri mondi, costituisce
interiormente per gl’indiani (buddhisti compresi) e per la mentalità antica in
genere un’esperienza realizzativa efficace.
E non un surrogato dell’esperienza diretta. Anzi, forse piú efficace per lo sviluppo
interiore d’una vita pratica dispersiva trascorsa fra alterne vicende
d’edonismo ed ascesi. Caratteristica è
in tal senso la storia di quei poveri novizî che, giunti in un santuario
mahayanico, furono spronati dal maestro ad andar a caccia delle fate di
montagna per violentarle. I giovani
monaci, ancora ripieni in cuor loro di desiderî mondani, si slanciarono subito
all’assalto di quelle fantastiche creature; ma a sera, ahinoi, tornarono
stanchi e delusi. Il maestro allora fece
loro sapere, con un gran sorriso, che le femmine da violentare erano le loro
menti e i novizî furono costretti ad imparare la lezione. Né diversamente ragionava l’autorità
cristiana dei primi secoli, che diversamente da oggi non faceva del moralismo
gratuito. Allorché un prete chiese al
suo vescovo come doveva comportarsi nell’approccio alle cose divine, questi
gl’ingiunse di bramarle senza ritegno, non meno di come desiderava le cose
sconvenienti. Dunque, chiarito questo
punto da non sottovalutare, procediamo a raccontare la nostra catabasi in quel
di Khajuraho; in mezzo a templi dedicati alle piú vaste esperienze erotiche,
dal normale rapporto di coppia alle piú svariate e parossistiche
perversioni. Almeno cosí oggi le
percepiamo, ma non è detto che tali apparissero agli architetti edificanti i
templi o agli scultori che ne plasmarono le sacre icone. Poiché di sacralità trattavasi pur sempre,
non dobbiamo dimenticarlo, anche in un contesto in apparenza prepotentemente
frivolo. Andiamo con ordine. Il lungo viaggio in bus, che in mancanza di
treno – a meno d’un volo nell’aeroporto improvvisato nel ’58 per turisti
anziani, danarosi e frettolosi – portava non a caso in mezzo alla giungla
(evidente immagine d’una natura incontaminata, oseremmo dire semiparadisiaca),
si snodava per paesaggî incredibilmente fascinosi; fatti di valli e colline
rammentanti da presso gli sfondi idillici della poesia e della pittura
krishnaita, con costruzioni diroccate che potevano nascondere la presenza
d’animali selvaggî quali la tigre o il serpente. Sembrerà banale confessarlo, ma da quel
viaggio ci aspettavo avventure erotiche meravigliose. Non eravamo gente da grandi alberghi o da
turismo sessuale sporco. Ci aspettavo
comunque esperienze straordinarie, addirittura magiche. Avevamo letto su Playmen al tempo del militare, ritardato per via del corso di
Medicina e Chir. presso l’Univ. di Torino nella prima metà degli Anni ‘70, che
un tale avventuratosi in un luogo selvaggio ed imprecisato del Deccan era stato
invitato da una giovane sacerdotessa della dea Kâlî ad un incontro erotico speciale con lei in
una grotta a lume di torcia. Il tale
anonimamente asseriva che il coito rituale da lui avuto su un rozzo altare
litico colla sacerdotessa nuda gli era parso piacevolissimo ma estenuante ed
interminabile, sino a svenimento.
Ripresi i sensi, s’era ritrovato solo e stordito fra l’acre odore
d’incenso ed i fiori sparsi qua e là in onore della dea, non sapendo donde
fosse finita la sua compagna di coito. Il fatto era credibile e perfettamente
comprensibile, dato che le seguaci del tantrismo sono state da sempre addestrate
fisiologicamente ad utilizzare nell’amplesso i muscoli vasocostrittori vaginali
per impedire l’eiaculazione del maschio e prolungare il piacere. Lo sforzo del maschio onde arrivare
all’orgasmo produrrebbe in tal modo in lui una sorta di orgasmo continuato,
simile a quello multiplo delle femmine, ma non adatto evidentemente ai deboli
di cuore. Purtroppo non ci capitò nulla
di tutto questo, sebbene col senno del poi riconoscemmoi che simili pratiche
avrebbero potuto arrivare alla decapitazione mediante spada rituale del
malcapitato ed offerta susseguente alla devî
del capo insanguinato. L’unica
fortuna per i turisti spregiudicati era che le devote di Kali ritenevano gli
stranieri impuri e quindi inadatti al sacrificio supremo. Era bastato alla giovane sacerdotessa, se ci
è concessa una battuta, ricondurre il partner ad un paradiso terreno... Ciò ci consente di chiarire un ulteriore
punto: a differenza d’altri tipi di yoga,
il Tantra dava la possibilità all’adepto (sâdhaka) d’ottenere l’Unione (Yoga)
col Divino (Śiva, Viṣṇu o Śakti in base ad una delle tre vie scelte) senza trascurare il Piacere (Bhoga).
Come surriferito, per il sâdhanâ
(contatto sessuale nell’ambito tantrico per ottenere quale scopo finale la
liberazione dal desiderio) era irrilevante – esattamente come capitava una
volta agli shamani d’ogni contrada – che il sadhaka avesse rapporti fisici o
mentali nella seduta tantrica. Nel primo
caso la donna oggetto di piacere (tantrikâ),
che non poteva esser in nessun modo la moglie del sadhaka, veniva immaginata
quale incarnazione d’una dea ovvero un ostacolo da superare per arrivare alla
perfezione interiore. Nel secondo si
procedeva all’unione interna della Śakti-kuṇḍalinî con Ðiva attraverso i Sette Cakra. La Perfezione (Sâdha)
non è alcunché d’asettico, bensí l’ottenimento di quello stesso Amrta – termine che fonde assieme i concetti d’Ambrosia, Amore ed Immortalità –
caro al Veda. Benché il punto di vista vedico non contempli
alcun sforzo unificante, ma si limiti a vanificare le illusioni (Mâyâ) tramite tecniche meditative ad un
fine liberatorio (Mukti). Quanto surriferito non può che esser
impreciso, se è vero che ogni via esige una diversa attitudine. Lo Śaiva per sua natura è piú portato a sfruttare il terreno
mentale (dakṣiṇâcâra), mentre lo Śâkta quello fisico (vâmâcâra); in
modo indifferente il vaiṣṇava (uttarâcâra), dal momento che
anche i krishnaiti hanno a loro volta praticato riti tantrici, ma non
necessariamente gli altri vishnuiti. E
diversa è la condizione della donna rispetto all’uomo, indipendentemente dalla
via seguita. La nostra visita a
Khajuraho s’è conclusa in modo insoddisfacente, visto che poi siamo finiti
moribondi e paralizzati a Satanâ (hin.Satnâ) sulla via di Kâśi (lett.‘Sole’, antico nome di Benares), ove è cominciata la nostra
risalita. Ciò che c’era rimasto impresso
dall’osservazione delle sculture erotiche si rivelò utile in ogni caso ad
avviare la nostra aanabasi, culminante in un tempio naturale shivaita sulle
cime himalayane. Di ciò abbiamo parlato già
su questo blog in un articolo
appositamente dedicato a Mṛgeśvara, concernente il Nepal ed in particolare il tempio
di Pâśupatinâtha, pochi kilometri fuori della capitale. Ora ci limiteremo a considerare il simbolismo
di Kâma, dio del desiderio.
b.
I
misteri dell’Eros
Il Kâmasûtra di Vâtsyâyana
Mallanâga (IV sec. d.C.) ed il Kâmaśâstra (c.XVI sec.) di Kalyâna Malla, contrariamente
a quanto si possa ritenere in Occidente, non fan parte della tradizione
vedica. Sono stati riscoperti in epoca
contemporanea. L’uno appartiene alla
letteratura erotica dei primi secoli dell’E.V., influenzata dal prestigio delle
corti vishnuite (soprattutto i Gupta),
la quale si sviluppa dal bisogno della decadente aristocrazia e della nuova
borghesia di pianificare i rapporti coniugali.
Piú che da un atteggiamento realmente aristocratico proviene da un
atteggiamento eroico (ârya) ed
antivirile, in cui la donna pur non assumendo la parte di dominatrice ha di
necessità un ruolo preponderante.
L’altro è un trattato riassuntivo a posteriori. Destinatario d’entrambi era il nâgaraka, ossia il dandy cittadino. Le 4
categorie di maschî e femmine disciplinate da siffatta letteratura –
razionalizzandola un poco – sono invece autenticamente tradizionali, giacché
cosmicizzate attraverso il consueto ricorso elementale. Ecco dunque che l’Uomo-lepre è esaltato nei
confronti dell’Uomo-toro, stallone od elefante; o la Donna-cerbiatta è
magnificata al di sopra della Donna-vacca, giumenta od elefantessa. Sottinteso che gli Uomini-cigni (Haṁsa, lett. 'Oca Selvatica') e le Donne-cigni (Haṁsî) dei primordî,
a causa del loro equilibrio intimo e di conseguenza esterno, superavano tutti
per grazia e compostezza. Proviamo
adesso a rispondere al quesito iniziale, quale fosse cioè la vera condizione
paradisiaca a livello sessuale. I Ṛṣi, che la rappresentavano piú genericamente degli Haṁsa e delle Apsaras (Sirene,
equivalenti alle Haṁsî), sono spesso
ritratti in atto amoroso incantatorio sotto forma cervina. Secondo quanto comprova la parentela filologica
fra il termine che li denomina e la voce ṛśya (‘cervo’). Appaiono rigorosamente accoppiati, mai orgiasticamente. Questa dovette essere pertanto la vera
condizione originaria. Le Kṛttikâ (Pleiadi), mogli dei Saptaṛkṣa (Orsa Maggiore) assieme ad una settima
dea dimorante in Alcor od Aldebaran e talora considerata la loro unica comune
sposa, hanno pur esse a che fare col medesimo simbolismo apparendo talvolta nel
folclore vario nelle vesti di ochette. La settima assume la forma, piú spesso,
di cerbiatta. Che dire però della
vergognosa seduzione subita dalle 7 spose nella saga della foresta di pini da
parte da Śiva, dio orgiastico per antonomasia?
L’itifallismo shivaico è proverbiale e guardacaso ricorre proprio in
cotale nume quel comportamento erotico disinibito assegnato dall’epica agli
antenati. Biblicamente parlando, con una
punta di malizia, codesto costume lo si potrebbe attribuire ai tempi evaici;
corrispondentemente, essendo la leggenda edenica – lo ribadiamo – d’origine
indiana, i Purâṇa parlano d’una grande trasformazione
avvenuta durante quel periodo nel comportamento umano in campo sessuale. Con gran dominio della donna ed importanza
decisiva, ovviamente, riservata al sesso.
Lo Shaktismo primordiale delle sacerdotesse-prostitute o cerbiatte, di cui
è rimasta certa traccia in ambiente polinesiano e persino nella Rhea Silvia
romana, non era che questo. Eva colla
Mela in mano, d’altronde, è il corrispettivo giudaico-cristiano della
Venere-Urania latino-ellenica. La
rispettiva iconografia risulta d’altronde indistinguibile nel Rinascimento
europeo. L’assoluta fedeltà ricorrente nel
gandharvavivâha, ad imitazione
degli haṁsa (questi uccelli, assai fedeli nell’accoppiamento e sotto l’aspetto
alimentare, non appena trovano cibo chiamano il compagno), si rifà invece ad
epoca adamitica. In seguito, l’eros
perse la sua innocenza. E si spiegano
quindi certi miti come quello di Śiva che respinge Kâma, anzi
l’abbrucia asceticamente col Terzo Occhio, inerte dinanzi alla dolce brezza
sollevata da Vasanta (Primavera). Un tentativo, in sostanza, di riportare in
auge il senso paradisiaco dell’eternità; ma non ci riesce del tutto, perché Kâma una volta reso incorporeo si
nasconde nei fiori e nelle vulve delle femmine, dovunque è bellezza. Siccome la repulsione verso la Śakti rende il mondo oscuro, Śiva è costretto ad assumere la parte d’un pescatore al fine di liberare il
villaggio, del mondo s’intende, da un pauroso squalo infestante le coste; in
realtà Viṣṇu, che vuole cosí spingerlo al recupero della Śakti sotto forma di celebrazione matrimoniale.
Anche presso il cristianesimo primitivo il mistero della camera nuziale
in relazione al V Sacramento, tardivamente scaduto a VII, era il punto d’arrivo
della loro dottrina. Allusione evidente
alla Ûnio oppositôrum alchemica (2). Ben altra era viceversa la dottrina degli
gnostici libertini, paragonabili agli Śaivatantrikâ nella loro ricerca della Dýnamis tramite mezzi eterodossi.
Parimenti i Cabalisti equivalgono agli Śâktatantrikâ per il loro maggior trasporto verso il femminino e
la pratica bacchico-orgiastica a fini di perfezionamento. Un mito indú di non
diversa portata, benché in apparenza differenziato, è la storia di Rṣyaśṛṅga; il giovane asceta unicorne nato da una daina, che per il suo tapas (calore ascetico, da intendere
come risvolto contemplativo dell’eros sublimato) aveva provocato un’enorme
siccità. I saggî decisero d’inviargli
una giovane e virginale prostituta: Śântâ, la figlia del re, di cui egli s’innamorò all’insaputa del padre, pur
non sapendo dell’esistenza delle donne.
Infatti quando descrisse al padre l’incontro avuto con lei, parlò d’un
giovane bellissimo dotato di seni e d’altre grazie fisiche. Dal che il padre, un rishi post-litteram,
dedusse che era stato perpetrato un inganno nei confronti del figlio. La leggenda medievale europea della Vergine e
dell’Unicorno è analoga, indica l’acquisizione della Sapienza da parte
dell’iniziato mediante una simbolica erotica.
L’ascetismo fine a sé stesso risulta improduttivo, poiché rafforza
l’ego; mentre l’eros, nell’etimo apparentato al lat. ardor, è fuoco che ravviva e permette di superare le miserie
dell’egocentrismo. Anche se, non bisogna
dimenticare, esiste un aspetto fagocitante del desiderio sessuale, in India
come altrove, annientante lucifericamente l’individuo. Per finire non mi rimane che citare una
splendida canzone degli Anni ’70, The Boy
with a Moon and a Star on His Head di C.Stevens. Un critico equivocò ed identificò il ragazzo
a Cristo. Il testo originale della
fiaba, raccolto in Indian Fairy Tales
da J.Jacobs nel 1892, rimanda per contro a Śiva. La conclusione della fiaba e
della canzone era che Love is all. O per meglio dire, l’Eros è il Tutto,
l’Uno-tutto degli ermetisti. E non c’è
altro da cercare nella vita… È f uoco ed
acqua ed annienta ogni cosa, al pari del Terzo Occhio, che difatti è qualche
volta associato al Liṅga o alla Yoni, nonché al Corno dell’Unicorno od al profumo di muschio della vulva della Cerbiatta (Kastûrî). La Cerbiatta, è ovvio, è la medesima
ossequiata da Re Salomone nel Cantico dei
Cantici.
Giuseppe Acerbi
Note
(*) Pubblicato collo stesso titolo, in forma
divulgativa, presso la Riv.Hera: A.XI, N°127 (7-08-10), pp. 54-60, Binasco [Pv] 2010.
(1) G.Acerbi, Kâma-Kâla. Érôs e Thánatos
ovvero il motivo ierogamico- Heliodromos N.S., ( Aut. ‘96/ Inv. ’97 ed Est. ’98 ), NN. 11 e 14,
Catania 1997-8, 2 PP., pp. 42-55
e 42-60.
(2) Sotto l’aspetto alchemico la trasmutazione nell’Uno degli opposti e
complementari indica l’Opera al Rosso (Rubêdo) quando è completa, quando è parziale l’Opera al
Bianco (Albêdo). Nel
simbolismo erotico la Grande Opera è emblematizzata dall’Amplesso – anche con
mezzi sostituiti dalla meditazione – o
dalla Coppia Rovesciata, mentre la Piccola Opera ha per contrassegno la
preparazione dell’Elisir di Lunga Vita.
Cfr. nel primo caso le figg. 1, 2, 6, 8, 11 ecc. e nel secondo la fig.14. Da notare che il dott. Albrile ha di recente
individuato con molto acume in una visita condotta assieme ad amici presso
l’Eremo di S.Alberto di Butrio, in Val Staffora (Otrepò pavese), una raffigurazione all’interno
della parete occidentale del chiostro la quale indicherebbe una situazione
alchemica simile a quella descritta nella figura succitata. E giustamente l’ha relazionata a nostro
parere alla comune pratica dei monaci del monastero di produrre medicinali a
base di erbe officinali, secondo formule piú o meno segrete, per la buona
salute fisica e mentale della comunità. Attendiamo con ansia il suo scritto in
proposito, che non mancheremo ivi di menzionare non appena l’avremo letto.
Illustrazioni
1. Gandharva in mithuna rovesciato, a suon di musica… (mensola
lignea, dett., tempio-carro, India del Sud, XVIII sec.).
2.
Amanti umani in mithuna rovesciato (carro ligneo ad uso processionale, Nanjangud, presso Mysore).
3. Donna-loto, o
cerbiatta, secondo i trattati erotici (schizzo basato su un ritrovamento,
Begram, II sec. d.C.).
4. I Saptarishi ed Arundhatî (bassorilievo, Bhîmeçvara M., Drâksharâma, Per. Câlukya Or., X sec. d.C.).
5. Gioie sessuali di
gruppo (altorilievo,
Kandâriyâ Mahâdeo M., Khajurâho, XI sec. d.C. ).
6. Esperienza
sessuale intensa di coppia (id.).
7. Coppia
affiancata da fanciulla in attesa vogliosa (medaglione litico, Grotte di Bâdâmî, Bîjapura, VII
sec. d.C.).
8. Amanti in posa erotica
sotto il Kalpavriksha (altoril., Râjarânî M., Bhuvaneçvara,
X sec. d.C.).
9. Fregî orgiastici in
panoramica (altorilievi,
K.Mahâdeo M., XI sec. d.C. ).
10. Kâlî in amplesso con Ҫiva cadaverico (gouache su carta, Panjâb, XVIII sec.).
11. Yogî come Bhogî
(pannello
di pietra, tempio solare, Konârak, XIII sec. d.C.).
12. Tantrikâ nuda pronta al rituale (gouache su c., Râjasthan,
XVIII sec.).
13. L’Unione Suprema con “mezzi sostituiti”, ovvero
i 7 Cakra (gouache, stile Kângrâ, Himachal P., XIX sec.).
14. Preparazione orgiastica dell’Amrita nel Pûrna-
khumba (fregio erotico, dett., terrazza, Lakshmana M., Khajuraho, X sec. d.C.).
15. Ҫiva e Pârvatî in atteggiamento erotico (altoril., Bhuvaneçvara M., Orissa, X sec.
d.C.).
16. Krishna
e Râdhâ in danza estatica (bronzo, India del Sud, XVIII sec.).
17. Tantrika
in cunnilingus colla Yoni della Gran- de Dea (bassoril. su pilastro, Mînâkshî M., Madura, XVIII sec. ).
18. Cunnilingus
e fellatio rituali (parete di piattaforma, Konarak, XIII sec. d.C.)
19. Cunnilingus di çakti col Cane (Ҫvan), emblema lunare siriaco-shivaico (altoril.,
Konarak, XIII d.C. ).
20. Coito shaktico col Toro
solar-zodiacale (impronta di sigillo in steatite bianca, Chanhu Dâro, Valle dell’Indo, c.1500
a.C.).
21. Coito shaktico col Leone (rilievo d’un tempio, Khajuraho,
XI sec. d.C.).
22. Coito di tantrikâ col Cavallo, simbolo solare fregio d’uno
zoccolo, dett., Lakshmana M., Khajuraho,
XI sec. d.C.).
23. Coito tantrico col Cinghiale, altro simbolo solare (incisione su pietra della
terrazza, Lakshmana M., Khajuraho, X
sec. d.C.).
24. La Divina Yoni
quale Centro del Mondo (incisione lignea, India del Sud, XIX sec.).
25. Donna-yoni
come grande utero cosmico (noce di cocco sagomata
ad immagine della vulva della Gran Madre,
idem).
26. Culto
della Yoni della Devî (altoril., Chausath Yoginî M., Bherâghat, X sec. d.C.).
27. Esposizione
rituale della bhaga (genitale femminile) dinanzi al Linga (bassoril., Konarak, XIII sec. d.C.).
28. Devoti ossequianti
il Sacro Linga (idem, Khajuraho, XI sec. d.C.).
29. Uomo-linga
di tipo priapico (altoril., Bagali, XII sec. d.C.).
30. Kâma
su Pappagallo, con arco di canna da zucchero e frecce dalla punta fiorita (rappresentazione canonica dell’icona del dio).
31. Yoni Asana (gouache, st. Kangra, XVIII sec.).
32. Coppia di Rishi praticante fellatio e cunnilingus (bassoril., Bagali, XII
sec. d.C.).
33. Ganeça
itifallico in scambio erotico con çakti
(rilievo, Nâgeçvara M., Per. Tardo Chola, Kumbhako nam, c.XII-XIII sec.d.C.).
34. Scena orgiastica con tantrika mascherato (fregio erotico,
piattaforma, Lakshmana M., Khajuraho,
X sec. d.C.).
35. Asceti in sanghâtaka
(triangolo erotico)(colonna, Roda, Mus. di Baroda, XI sec. d.C.).
36. Copula mitica di Rishyaçringa con Ҫântâ (pannello del fondo, lastra verticale in arenaria, Mus. di Mathurâ, II sec. d.C.)
Fonti
1. P.Rawson, Tantra. The Indian Cult of
Ecstasy- Thames and Hudson, Londra
1973, tav..32. FILTRO FILTRATO IN AZZURRO
2. D.Desai, Erotic Sculpture of India-
Munshiram M., N.Delhi 1985.
3. P.Thomas, Kama Kalpa. The Hindu Ritual of
Love- D.B. Taraporevala Sons & C., Bombay 1960, tav.31. FILTRATO
IN AZZURRO
4.
C.Sivaramamurti, Rishis in Indian Art and Lit.- Kanak, N. Delhi 1981, ill.1. FILTRATO IN AZZURRO
5. Raws.,
op.cit., tav.36 ( on line si trova a col. ).
6. Des., op.cit.,
tav.69.
7. Thom., op.cit.,
tav.28.
8. Ibîd., tav.27.
9. Tav.27.
10. Raws., cit., tav.18.
11. P.K. Agrawala, Mithuna…-Munshiram M.,
N.Delhi 1993,
tav.226.
12. Raws., tav.34.
13. Ibîd., tav.53.
14. M.Bussagli, Eros
indiano- Bulzoni, Roma 1972, tav.36.
15. Thom., cit., tav.4.
16. Raws., tav. 43.
17. Ibîd., tav.11.
18. Des., op.cit., tav.60.
19. Ibîd., tav.131.
20. H.Mode, L’antica India- Primato,
Torino 1960, tav. 66 sûpra.
21. Ibîd., fig.45.
22. Agraw., op.cit., tav.116
23.
Ibîd., tav.117.
24.
Raws., tav.7.
FILTRATO IN ROSSO
25.
Ibîd.,
tav.12.
26.
Des.,
cit, tav.115.
27. Ibîd., tav122.
28. P.Thomas, Secrets of Sorcery spells and
pleasure cults of India- D.B. Taraporevala Sons & C., Bombay 1983, tav.77.
29. Des., tav.124.
30 Thom, Ka.,
tav.1.
31. Raws.,
tav.38.
32. Des.,
tav.150.
33. Ibîd., p.92, fig.XX.
34. Ib., tav.142.
35. Tav.146.
36. Agraw., cit., tav.48.
Fig.1
Fig.2
Fig.3
Fig.4
Fig.5
Fig.6
Fig.7
Fig.8
Fig.9