c) L’idealismo
magico-speculativo (1922-7)
Nella propria biografia letteraria (88) E. dichiara che, dopo aver abbandonato
la carriera artistico-letteraria, i suoi interessi filosofici s’erano volti
soprattutto verso la corrente idealistica post-kantiana. Afferma d’aver intuito a differenza d’altri
il fondo pre-razionale di quell’atteggiamento nella volontà di dominio, collimante
peraltro con uno dei due fattori dispositivi del proprio carattere (89), o per stare al linguaggio
evoliano colla sua “equazione personale” (90). Non a caso il N., prima di dedicarsi ad
esperienze artistiche e filosofiche, aveva seguito studT tecnici e
matematici (91). Evola, a dire il vero, ha messo al primo
posto tra le sue disposizioni l’impulso alla trascendenza (92), e, al secondo posto, la qualifica aristocratica. Tuttavia lo scarso interesse pratico dell’a. ad
aderire a qualsivoglia forma religiosa indica come la sua predisposizione
prevalente non fosse quella d’un sacerdote, ma semmai d’un guerriero, per dirla
all’indiana. Il caso opposto fu invece
di L.B.G. Tilak, un brahmana con attitudini kshatriya. Benché le due
personalità abbiano avuto, in effetti, molto in comune. Sennonché l’uno ha mostrato maggior interesse
per il Veda, l’altro per il Tantra, ed anche ciò la dice lunga sulle
reali qualifiche di codesti autori.
Insomma, possiamo tranquillamente considerare E. un nobile con
attitudini sacerdotali (93). Ciò indipendentemente dalla valorizzazione
che l’uomo ha fatto della proprie disposizioni individuali, di cui diremo
approfonditamente nel pross.art. sull’argomento. L’attitudine aristocratica lo ha portato
infatti fin dalla giovinezza, fra i 25 ed i 29 anni, a teorizzare l’Io Assoluto
quale espressione di potenza individuale di contro al comune ego.
Nonostante il riferimento lodevole alla
sapienza lao-tsiana è chiaro che l’Io evoliano, sebbene scritto al maiuscolo,
permane pur sempre a livello egoico anche se dilatato al massimo. Ben altro è il punto d’arrivo in campo
taoista dell’Uomo Reale o dell’Uomo Trascendente. Manca ancora in questa fase speculativa al
poeta e saggista siciliano una precisa conoscenza della dottrina ciclica, che
evidentemente mutuerà in seguito da Guénon.
Speculatività od operatività a parte, l’ambito delle quali non era
ancora stato ben distinto con chiarezza in lui (né forse lo sarà mai del tutto,
ad esser sinceri), anche se ciò è normale nella parte giovanile della
vita. Egli si limitava a teorizzare
un’azione interna realizzatrice, ma di che tipo e realizzatrice di cosa (94)?
Il Wu-wei spesso citato era
probabilmente solo una chimera, per quanto si possa desumere da quel che
seguirà nella vita del filosofo (95). La realizzazione interiore non è questione né
di formule né di parole, è il risultato dell’applicazione d’un metodo. È in tale metodo che consiste essenzialmente
una tradizione, non nella letteratura che ne consegue; a cui ci si può
avvicinare con intelletto attento, ma se ne rimane pur sempre al di fuori. D’altronde un metodo è insegnato da un
maestro, non dai libri, neppure dai libri sacri. A meno di ricevere un aiuto dall’alto (96), ma è l’eccezione, di cui peraltro
non ci sembra E. abbia mai tenuto conto se non in minima parte. Vista la scarsa riflessione, per non dire quasi
avversione, da lui mostrata nei confronti del profetismo o degli argomenti
affini. La “calma olimpica” spesso
ripetuta nei suoi scritti non è il wei-wu-wei,
potrebbe semmai esser paragonato alla calma del Buddha. L’imitazione delle
sacre icone era un fatto oggettivo nell’Antichità, ciò tuttavia all’interno
d’una pratica meditativa effettiva, non certo quale via iniziatica a sé (97).
Insomma, il travaglio
compiuto dal N. tramite uno studio sistematico delle grandi opere della
filosofia tedesca (Kant, Fichte, Hegel, Schelling, Schopenhauer), oltretutto in
tempi nei quali non erano a disposizione le traduzioni piú tardi pubblicate, va
senz’altro elogiato; è il modus operandi
d’uno studioso serio e profondo, che vuol giungere ad una meta. Se poi a questo viene aggiunto dell’altro,
vale a dire nozioni sapienziali tratte dal mondo antico e non solo quello
ellenico ma anche quello orientale, è cosa assolutamente meritoria
indipendentemente dai risultati ottenuti.
Rimane in ogni caso un’esperienza intellettiva che non supera l’ambito
filosofico se non in minima parte.
Validissima, ed attuale, è comunque la critica che egli fa agli epigoni
nostrani di quell’idealismo. Al tempo
imperava infatti, c’informa E., il neo-hegelismo crociano e poi gli subentrò
quello gentiliano. Il giovane Julius
trovava gli esponenti di quel ramo troppo pedagogici, anzi assai presuntuosi e
tali da esporre critiche superficiali alle vette del pensiero filosofico
europeo, che con schopenhaueriana ironia definiva “professori dei professori di
filosofia” (98). Questo è un punto totalmente a favore di E. e
ne condividiamo appieno il costrutto, indispensabile onde porsi al di là delle
mode passeggere del tempo. Per la verità
il N. riconosce a Croce “maggior signorilità e chiarezza” rispetto a Gentile, ma
ne mette ciononostante a nudo il livello puramente discorsivo, con quella
brillantezza che gli ha fatto da gioiello indiscutibile in tutta la sua
attività letteraria prevalentemente demolitrice. Con saggezza a poco a poco apprende da
costoro il gergo, s’aggiorna e gioca alfine le sue carte, ponendosi ad un
livello superiore rispetto a loro grazie alla conoscenza diretta degli autori
tedeschi e francesi tenuti in disparte dagli idealisti italiani, a suo parere di cultura piuttosto ristretta.
Il punto che distanziava E. dalle opere filosofiche
coeve era senza dubbio, per sua ammissione, il proprio affidamento alle
dottrine sapienziali; che faceva però rientrare limitatamente nell’ambito
magico, sia pur concedendo a siffatto termine un significato piú ampio di
quello abituale. Per impulso magico egli
intendeva, immanentisticamente, la “volontà di essere e di dominare”. L’idealismo invece aveva messo da parte
quell’impulso, che l’a. sentiva proprio, identificandolo alla trascendenza (99).
Aggiunge molto bene il N.: «Su tale base, sembrava eliminato ogni
dubbio, veniva chiusa la porta al mistero, all’Io veniva fornita una rocca
salda e inaccessibile, dove poteva sentirsi sicuro, libero e dominatore.» L’Io cosR inteso era un Io trascendentale, lo
Spirito Assoluto (Dio), il Lógos capace
dell’atto cosmogonico (100). Dinanzi a cui l’individuo concreto, a dire
del Gentile, non era che “un fantoccio dell’immaginazione”. Nelle varie tappe della filosofia
trascendentale, da Kant a Gentile, E. ha intravisto “una fuga progressiva
dall’Io reale” (101); intesa quale
via di decadenza, in quanto l’Io in tal modo non si poneva a dominare
“gnoseologicamente la contingenza dei fenomeni”. Al contrario, si scioglieva in essa. Il puro Io evoliano sarebbe, onestamente, da
porre a metà fra il ‘Sé’ dello Yoga e l’Io Trascendentale degli idealisti. Da quest’ultimo tenta di svincolarsi e ci
riesce in parte, ma prima di arrivare al vetta reale del Sé ne è di nuovo
avviluppato inconsapevolmente. Sul piano
teorico ha ragione quando rovescia la nota formula cartesiana in una nuova:
«Sono, dunque penso» (102), benché le identificazioni dichiarate di
questo Io cosR concepito non appaiano
corrette, poiché da un lato vien citato il Noûs
ellenico e dall’altro l’Âtmâ (103) induista. Si sa difatti che l’Âtmâ non ha corrispondenza
di significati nei linguaggT europei, a parte
il riscontro puramente etimologico del ted.Atem
(‘respiro’), mentre il Noûs corrisponde
in sanscrito alla Buddhi, cioè
l’Intelligenza. A quale principio
equivalesse perciò l’Io evoliano non è dato di sapere esattamente. Vi è da credere che fosse una nozione ancora
confusa di trascendenza immanente, specie di Super-io freudiano; o
possibilmente, stando all’imprecisa identificazione evoliana, qualcosa
d’analogo al JTvâtmâ indú. Tuttavia va
precisato che nel Vedânta a
differenza di quanto suggerito da E. l’Anima del Vivente ritorna all’Âtmâ allorché si libera non già dell’individualità,
bensì di sé medesima tornando nell’incondizionato, l’individualità propriamente
detta in senso psichico-egoico essendo già stata superata nell’ottenimento
della Buddhità; ossia nel passaggio interiore dall’Ahamkâra (‘Coscienza
individuale’) alla Buddhi
(‘Intelligenza’), dopodiché è necessario un ulteriore passaggio onde divenire
una sola cosa coll’Essere (Sat), la
Coscienza (Cit) e la Beatitudine (Ananda) Universale. Ciò però corrisponde semplicemente
all’Immortalità, detto in termini settari, ovvero all’identificazione col
Signore (Îç). Ma nemmeno questo è l’ Âtmâ, l’ Âtmâ essendo il passo finale che
conduce al Non Essere (Asat) o se
vogliamo ancor oltre, ossia lo stato in cui si scioglie la differenza fra
l’esistenza e la non-esistenza; quando cioè l’Anima del Vivente, cogliendo laliberazione da ogni tipo di condizionamento (Mukti), cessa di essere distinta dall'Anima Universale.
Volendo legger tra le righe, si potrebbe rilevare che l’uso della parola ‘Io’ è congeniale ad un tipo di mentalità aristocratica anziché sacerdotale; qual è per l’appunto quella evoliana, indipendentemente dall’impiego del termine nell’idealismo. Pensare all’Io come “puro centro di luce” è in realtà un’illusione, a meno d’intendere per esso il suddetto Jivâtmâ, in quanto si ha a che fare pur sempre a livello individuale con una luce riflessa. D’altra parte la Luce vera appartiene unicamente all’ Âtmâ, che è come il Lampo. Non c’è alcun termine di paragone nella grecità e nella romanità con questo concetto, siccome va oltre la filosofia e la teologia. Sarebbe troppo poco paragonarlo al Lógos, corrispondente viceversa alla Vac (lat.Vôx, Verbum) nonostante la diversità di genere nominale, figuriamoci al Noûs! Evola non aveva ancora assimilato bene la dottrina indú, ammesso che l’abbia fatto mai, se non attraverso lo studio compiuto per L’Uomo e il Tantra (104); riveduto successivamente e pubblicato col titolo de Lo Yoga della potenza, saggio sui Tantra (105). Si comprende che, per quanto egli ci tenesse a ricordare che in tale campo come in altri era stato un pioniere in Italia, forse anche insuperato (non lo si può negare), allo studio dei Veda non ci sembra si sia mai dedicato appieno neppure in età matura. Se non andiamo errati. Proprio la sua qualifica personale, aristocratica e non sacerdotale, gliel’ha impedito.
Volendo legger tra le righe, si potrebbe rilevare che l’uso della parola ‘Io’ è congeniale ad un tipo di mentalità aristocratica anziché sacerdotale; qual è per l’appunto quella evoliana, indipendentemente dall’impiego del termine nell’idealismo. Pensare all’Io come “puro centro di luce” è in realtà un’illusione, a meno d’intendere per esso il suddetto Jivâtmâ, in quanto si ha a che fare pur sempre a livello individuale con una luce riflessa. D’altra parte la Luce vera appartiene unicamente all’ Âtmâ, che è come il Lampo. Non c’è alcun termine di paragone nella grecità e nella romanità con questo concetto, siccome va oltre la filosofia e la teologia. Sarebbe troppo poco paragonarlo al Lógos, corrispondente viceversa alla Vac (lat.Vôx, Verbum) nonostante la diversità di genere nominale, figuriamoci al Noûs! Evola non aveva ancora assimilato bene la dottrina indú, ammesso che l’abbia fatto mai, se non attraverso lo studio compiuto per L’Uomo e il Tantra (104); riveduto successivamente e pubblicato col titolo de Lo Yoga della potenza, saggio sui Tantra (105). Si comprende che, per quanto egli ci tenesse a ricordare che in tale campo come in altri era stato un pioniere in Italia, forse anche insuperato (non lo si può negare), allo studio dei Veda non ci sembra si sia mai dedicato appieno neppure in età matura. Se non andiamo errati. Proprio la sua qualifica personale, aristocratica e non sacerdotale, gliel’ha impedito.
Tornando al campo strettamente filosofico,
l.’a. osserva (106) che al tempo dei
suoi 4 scritti sull’idealismo magico (107)
la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo kierkegaardiano (108) non avevano ancora preso piede,
per cui li ignorava (109). Benché a suo dire ne sia stato, in qualche
modo, anticipatore: “Ma, in fondo, io… ne riproducevo la tematica essenziale,
cioè il paradossale e irrazionale coesistere e vicendevole implicarsi,
nell’esistenza reale, del finito e dell’infinito, del condizionato e
dell’incondizionato.” E poi, tipicamente
orgoglioso d’una propria sentita superiorità, aggiunge (110): “Ma mentre l’esistenzialismo doveva fermarsi alla
constatazione di tale paradosso e di tale irrazionalità, indulgendo allo stato
di crisi che allora necessariamente ne derivava… ovvero cercando… delle
evasioni pagate con un cedimento interno… (111),
io di quella struttura dell’esistenza feci un punto di partenza per la mia
teoria dell’Individuo assoluto.”
Condividiamo.
A parte le tematiche anticipatrici,
che gli vanno riconosciute, in questa fase della sua esistenza E. mostra invero
un pensiero piuttosto confuso, ancora embrionale diremmo. Ciò è tipico di molti autori nel periodo
giovanile, ovviamente. Si comprende la
volontà di chiarire i termini del dibattito filosofico dell’epoca, ma le
risoluzioni adottate non appaiono del tutto convincenti, per cui è difficile
seguirlo nelle sue elucubrazioni
mentali. Ad es. quando (112) sostiene il concetto di libertà
assoluta da parte dello spirito, anteriore alla libertà realizzata; “un puro
arbitrio in grado di scegliere sia sé stesso che il contrario”. Per questa strada arriva a considerare il
valore e il non-valore come le due opzioni possibili. Fin qui la cosa potrà apparire sensata, anche
se si tratta d’un idealismo spinto agli estremi limiti, eliminando ogni senso
pragmatico; ma subito dopo teorizza 2 vie, ispirandosi al filosofo goriziano
d’origine ebraica C.R. Michelstaeder, anche lui non meno di Weininger finito
tragicamente in giovane età: la via dell’altro, che definisce anche
dell’oggetto, e quella dell’Individuo assoluto (113). Queste 2 vie vengono
paragonate alle 2 vie dell’antica misteriosofia e del buddhismo: da un lato la
dispersione nei vortici molteplici del mondo fenomenico ovvero del samsâra,
e, dall’altro, l’acquisizione interiore del Risveglio ossia dei Misteri. La presunta audacia dello scrittore è di
metterle entrambe sullo stesso piano, in nome della libertà assoluta, ed è qui
che egli cade in un individualismo insensato.
L’Uomo ha libertà di scelta, in ciò consistendo il Libero Arbitrio (equivalente
al Karma indú) che anche il
cristianesimo gli concede, ma ne paga comunque le conseguenze. Con incoerenza si dedica però esclusivamente
a descrivere la via dell’Individuo assoluto, annunciata dapprima nella seconda
parte di ‘Teoria’ e ripresa poi nell’intera ‘Fenomenologia’. Se vogliamo veramente metter le cose a posto,
dobbiamo precisare per contro che la via fenomenica – vuoi nelle dottrine
occidentali, vuoi in quelle orientali – si contrappone inevitabilmente
all’altra, non può risultare un’opzione.
Certo, l’Individuo può sceglierla in seguito a fallacia di giudizio o per
debolezza, o persino di proposito nel caso sia un semplice padre di famiglia,
ma in ogni caso rimarrà condizionato da tale scelta. Questo è il sentiero oscuro, in rapporto al Kaliyuga, che gl’indú chiamano Pitryâna
(‘Via degli Antenati’) e che dopo la morte conduce il semplice devoto alla
rigenerazione attraverso il ceppo paterno o materno. La buddhistica ricaduta nel Samsâra, in certo senso, corrisponde a tale
via. Alla rigenerazione samsarica va
contrapposto giustamente – come vuole E. – il percorso verso il risveglio
interiore (vide supra), l’equivalente
della via misterica, stando alla definizione del filosofo siciliano; ma non la “via
degli Svegliati”, che è altra cosa e può esser percorsa soltanto da speciali
individui: Buddha e Bodhisattva. La strada del Risveglio è, semmai, il sentiero
luminoso del Devayâna (‘Via degli Dei’);
il quale avvia verso gli stati superiori d’esistenza le anime degl’iniziati, sì ma dei comuni
iniziati. Mentre la Via degli Svegliati
(Bauddhâcâra) è in realtà il Madhyamikavâda (‘Cammino di Mezzo’), che
pure i Pitagorici indicavano con una Y,
cui era aggiunta graficamente una linea tratteggiata intermedia (114).
Probabilmente E., che in quegli anni non aveva ancor bene studiato le
tradizioni pagane e quelle orientali, s’è confuso colla distinzione fra
pratiche ascetiche e pratiche libertine, in altre parole fra la Via di Destra (scr.Dakshinâcâra) e quella di Sinistra (Vâmâcâra). In questo caso siamo di fronte, effettivamente,
a 2 vie pressappoco equivalenti: si può scegliere l’una o l’altra a seconda
delle proprie disposizioni individuali ed il risultato finale è quasi il
medesimo, nonostante le notevoli differenze di percorso ed i diversi proclami
dei varT testi settarT. Anche in codesta distinzione vi è d’altronde una
Via Intermedia, di Centro si potrebbe dire, come accade nel Tantrismo coll’Uttarâcâra. Soltanto un jTvan-mukta può insegnarla, non un qualsiasi guru (115). Nel caso
dell’esoterismo buddhista (116), greco
od ebraico ci troviamo di fronte a distinzioni analoghe, che non stiamo ivi a
delineare per brevità, avendolo già fatto in altri scritti.
Nei ‘Saggi’ (117) lo scrittore aveva postulato che il principio idealistico
secondo cui l’Io determina le cose era valido solamente allorquando
“l’individuo abbia trasformato in un corpo di libertà” (cioè in potenza) “l’oscura
passione del mondo”(118). Si palesa cosR il superamento del N. del superomismo
iniziale di stampo nietzchiano (119) in
favore di concezioni tantricizzate, benché ovviamente adattate all’epoca. Dal punto di vista evoliano il filosofo idealista
si limitava unicamente alla discorsività, non possedendo realmente le cose e
dunque non essendo in grado d’annullarle.
In parole povere, non sapeva annientare l’altro-da sé. In ciò mostrava un’inesorabile alienazione,
dovuta a privazione, pur utilizzando espressioni altisonanti quali “io
trascendentale”. Questa critica è
perfetta, non occorre riconoscerlo.
Anche l’idea che “fra persona e soggetto universale non vi è alterità ma
progressività” è efficace, non c’è nulla d’aggiungere. E prosegue (120), con acume, che «la persona è il soggetto universale in
potenza e il soggetto universale è la persona in atto». Il che concorda colla dottrina sapienziale
vedantica del Jivâtmâ e dell’Âtmâ, non
invece colla dottrina mahabharatiana del Tripurusha;
la quale non meno della dottrina gnostica giudaico-cristiana pone uno iato fra
l’Assoluto ed il Signore Iddio, identificando in genere solo quest’ultimo alla
forma celeste del Primo Uomo e d’ogni figura avatarica, specialmente di Krsna
(121). Gli altri, i semplici Perfetti, sono invece
equiparabili alla Terza Persona; la Persona Peritura, che i cristiani chiamano
‘Spirito Santo’, sostituendo all’avatâra
la figura profetica del Figlio (122). Si correggerà nell’autobiografia (123) asserendo la non-esistenza
dell’Io assoluto e la possibilità, semmai, “dell’Io di rendersi assoluto”. Un’ulteriore intuizione fu d’intendere l’idea
come una realtà in potenza e la realtà un’idea in atto. L’intromissione nel discorso della magia, per
E. la scienza dell’Io, la si ha mediante la progressiva trasformazione dell’Io
in soggetto universale (124). Infatti l’unificazione con tal soggetto –
l’a. impiega il termine ‘unizione’, sempre allo scopo di vanificare il dualismo
– comporta possibilità magiche oltreché noetiche. Come insegnano lo Yoga e, aggiungiamo noi, l’Alchimia. Poi E. va oltre ed, insistendo
sull’argomento, cade in errore subordinando la verità alla potenza. In questo caso non siamo d’accordo per nulla. In tal modo infatti, lo si riconosce da parte
del N., si aprono le porte a possibilità catastrofiche.
Naturalmente E., data la sua innegabile apertura mentale, trasborda
dalla metapsichica e asserisce cose interessanti degne d’un grande scrittore. Per quanto, sin qua, gli manchi quell’incredibile
lucidità di pensiero che lo caratterizzerà nella fase successiva e piú
oltre. Il suo argomentare per il momento
è un po’ astruso, troppo teso alle formule astratte. Il periodare appare convulso, si compiace
delle parole non in lingua, specie del francese e del tedesco; nonché di
neologismi o parole molto ricercate quali “unizione, superessenza, partitamente,
epperò”, tratte chiaramente dalle sue letture filosofiche, senza tuttavia che il
contenuto sia adeguato allo stile aulico.
Una visione giovanile comunque destinata a far faville in età adulta, almeno
nell’ambiente elitario della cultura, seppur gravida di problemi irrisolti. Tutto un mondo insomma che ritornerà nel bene
o nel male, nell’E. maturo, nelle forme proprie d’una serrata critica al mondo
moderno. Salvo il riconoscimento d’una
Tradizione, che nelle parole medesime dell’a. era cosa in gran parte ormai
desueta. Il tentativo ciononostante di
riorganizzarne una sul piano ideale e su quello materiale è la virtú
principale, nonché per certi versi il vizio fondamentale, di tutta la
speculazione evoliana e di coloro che ne hanno arditamente seguito le orme.
(88) Ev., Il camm., p.33.
(89) Ovviamente qui
s’intende il carattere in senso astrologico, vale a dire in senso lato; in
altre parole, le disposizioni individuali.
(90) Ibid., pp. 11-2.
(91) Ib., p.13.
(92) Notiamo
attraverso il linguaggio ed i contenuti del periodo filosofico evoliano che lo
scrittore nel suo percorso speculativo non si era ancora distaccato
completamente dall’alveo giudaico-cristiano, pur concedendosi ad
interpretazioni esegetiche non del tutto in linea con quelle comunemente accettate.
(93) L’oroscopo individuale a nostro giudizio lo
conferma, quantunque i pianeti in segni ariosi siano di piú di quelli in segni
ignei; vi è un handicap ad ogni modo che pregiudica la prevalenza dei primi, il
fatto che i secondi siano meglio aspettati.
Giove e Venere determinano la qualifica sacerdotale, secondo
l’astrologia induista nepalese, e questi due pianeti nel cosmogramma dell’a.
sono entrambi condizionati dall’Elemento Aria.
Ecco la ragione dell’autoriconosciuto senso di trascendenza. Mentre Saturno ed il Sole, pianeti determinanti
la predisposizione aristocratica, si trovano l’uno in segno di fuoco e l’altro
in segno di terra: questa la motivazione del basso grado nobiliare del casato
familiare. Bisogna riconoscere,
d’altronde, che E. ha esercitato un mestiere intellettuale e non una disciplina
militare. Ciononostante va tenuto conto
per una piú approfondita analisi della qualifica personale dell’a. l’ascendenza
leonina, oltretutto appoggiata dalla marzialità arietina e dalla razionalità
sagittariana, a sua volta direttamente spronata dalla dinamicità uranica; tale
quadro di relazioni astrali non poteva che conferire ad E. quella “tensione
verso l’incondizionato” che egli sia pur con altre parole confessava di
percepire in sé e che il lungimirante pittore L.Alessandri (AA.VV., pp. 11-4)
ha una volta candidamente ricordato a bella posta, pur accusandolo a ragione fra
le righe di ambiguità, di pregiudizio ideologico nonché di sopravvalutazione della
volitività e dell’azione rispetto a temi come l’amore e la conoscenza.
(94) Il fatto medesimo ch’egli non parlasse mai
di ‘realizzazione spirituale’, come han fatto altri, ma semplicemente di
‘azione realizzatrice interna’ ci porta di nuovo a sottolineare quanto con
acume suggerito dall’Alessandri (vide
n.prec.). Non si tratta tanto di paura
di chiamare le cose col loro nome, quanto di sottovalutazione evidente del
fattore intellettivo. Certo, E. non aveva
del tutto torto. Il procedimento
interiore che porta alla realizzazione dello spirito dopo il ‘Peccato Originale’
– inteso esotericamente quale perdita dell’identità col Divino – è divenuto
obsoleto, ha bisogno d’essere riscoperto, praticato; non è un processo
spontaneo, come in origine, necessita d’un azione ascetica occulta in senso
shivaico.
(95) La
contraddizione evoliana è di menzionare il Wu-wei,
ma di non praticarlo se non esteriormente.
Il vero ‘Non-agire’ è il lasciar attraverso il distacco interiore che le
cose si sviluppino da sole, dando prima o poi i loro naturali frutti. Per ottenere questo occorre una disciplina
del pensiero notevolissima, portata all’estremo limite del’ascesi interiore,
che dai risultati non ci pare E. abbia effettuato in sé. Da cosa lo deduciamo? È ovvio, dai frutti. Per ora, comunque, ci limitiamo a considerare
il periodo giovanile, fino al ’27.
(96) L’aiuto è sempre
possibile, lo abbiamo sperimentato di persona, seppur nel nostro caso avessimo
già frequentato in precedenza la via maestra.
Tutti i fondatori di scuole sono dei missionati, in tal senso, giacché
ricevono un appello dalla Divinità ad aprire una determinata via. (Ivi, è ovvio, non stiamo parlando né di avatâra né di profeti, ma semplicemente
di battitori solitarT alla M.Eckhart o alla J.Böhme). È stato Evola l’apritore d’una nuova via? Chissà!
Personalmente non ci pare, ma non sta all’uomo giudicare le cose divine,
come il papa attuale (novello Pietro II) c’insegna. Per chi volesse metter in dubbio la parola
del pontefice su base pregiudiziale anti-cristiana, sappia che un papa è colui
che alla sua epoca porta l’Anello del Pescatore; in altre parole è la veste
exoterica del Re Pescatore (o Re del Mondo), custode esoterico del Santo
Graal. Non a caso Papa Francesco – che a
giudicare dai ‘segni dei tempi’ parrebbe essere l’ultimo papa, insomma il papa
santo gioachimita atteso in segreto dalla curia vaticana – è nato il 17
dicembre, cioè nel giorno in cui il Sole nella sua proiezione zodiacale si
situa al centro della galassia.
Naturalmente le galassie non facevano parte della visione astrologica
tradizionale, d’origine tolemaica, ma fanno parte guardacaso dell’Universo
ossia di quel cosmo che è etimologicamente Uni-versus
(‘rivolto all’Uno’). Tutto ciò che
esiste, visibile od invisibile che sia, non è che un simbolo di ciò che lo trascende. Tant’è che gli antichi definivano la Via
Lattea, vestigio siderale di spirali galattiche, il “Sentiero delle Ombre”. Dato che le Ombre ovvero gli Antenati appartengono
all’invisibile, non si può certo credere che la consapevolezza della loro esistenza
sia anti-tradizionale ed esclusa dai sacri insegnamenti.
(97) Ci nuovo ci
tocca far presente che, sebbene rarissima, anche questa via iniziatica
irregolare è in realtà possibile. La
Divinità aiuta il cuore di chi la cerca dovunque questi si possa trovare ed in
qualsiasi contesto umano. Le storie
sufiche narrano d’un ragazzo entrato nella Via semplicemente per aver a lungo
servito il the a dei sufi. Il contatto
umano non è cosa indifferente per chi ha il cuore svincolato dal pregiudizio e
dei semplici umanissimi gesti, ripetuti casualmente da coloro che sono sulla
Via, non possono non influenzare spiritualmente quelli che a mente aperta si
trovano in un modo o nell’altro ad aver a che fare con loro. Ciò detto, per beneficio d’inventario, il caso
dell’a. ci pare diverso, almeno crediamo salvo ripensamenti futuri.
(98) Ev., op.cit., pp. 34-5.
(99)
Questa è una distorsione del significato proprio del termine ‘magia’,
indicante invero la ‘via’ (scr.mârga)
di natura solare percorsa dal mrga
(‘cervo’), incarnazione del Mâyin
(‘Incantatore, Mago’), identificabile cosmologicamente all’asterismo di Orione. Cfr. Ac., Le
m., § 4, p.223. E. era nato, non a
caso, col Sole in Orione! Come sempre E.
non appare mai nel giusto, mai nell’errore; ha costantemente un suo modo
personale di distorcere le parole conferendo loro alla fine, non si sa bene
come, un’accezione quasi adeguata. Pur
comprendendo che la magia non è nulla se non ha valore operativo, la riduce
filosoficamente a ‘scienza dell’Io’; ma la magia, intendendola spiritualmente e
non psichicamente (vedi magi persiani), è ben altro. È incantazione della mente a scopo
liberatorio, non incantamento a fini di dominio egoico. Dunque, l’essere e il dominare stanno su
piani diversi; a meno che s’intenda l’essere come volontà di potenza
individuale, il che è una contraddizione in termini. Già lo segnalava l’Alessandri (AA.VV., p.13),
anche se con altre parole. Poiché
l’Essere reale si trova al là dell’individuo, l’individualità non avendo alcuna
assolutezza se non a livello illusorio, ipertrofico.
(100)
Ev., cit., p.41.
(101)
Ibid., p.43.
(102)
Ib., p.44. Giusto, ma sarebbe stato meglio, anche qui, asserire
da parte del barone: «Esisto, dunque penso», affinché non si scambi
l’essere come un mero atto di volontà individuale. L’Esistenza ci è donata dall’Assoluto, non
siamo noi a volerla. Fra il Vivente
(scr.Jiva) e l’Anima Universale (scr.Âtmâ) – come insegna la dottrina
vedantica – c’è sempre uno iato, incolmabile sino alla morte. Non la morte fisica e neppure quella
psichica, ma semmai quella spirituale.
Nessuno può attingere direttamente all’Assoluto, sarebbe come tentar
d’acchiappare il Lampo e non è questo che c’insegnano la Rivelazione e la
Tradizione; ciascun individuo ha la facoltà – se non vuol fare come il Barone
di Münchhausen che si tirava per i capelli – di affidarsi al Tuono e il Tuono è
rappresentato dalla Parola Divina, che sola è proferita dalle Divine Incarnazioni,
maggiori o minori. Al fine di afferrar
con essa almeno il Fulmine, cioè l’Essenza Divina, sR
da tramutarla in fuoco e luce della Coscienza.
L’Essenza Divina (scr.Purusha)
è peritura (kshara), non la Voce Divina (scr.Vac, lat.Verbum, gr.Lógos) che dall’Essere promana quale
fonte d’esistenza per le forme molteplici, compreso l’ahamkâra (lett. la facoltà
‘creatrice dell’io’). Naturalmente si
può passar per la Tradizione, anziché per la Rivelazione: il cammino in questo
caso è piú lungo e faticoso, ma va tenuto conto d’una cosa. Che la Tradizione dipende dalla Rivelazione, come
il Re Pescatore graalico dipende da Cristo.
Prima dell’avvento del cristianesimo era Bran presso i celti a svolgere tale funzione, come Brahmâ presso gli indú. Bran aveva un fratello, Mananann; Brahmâ invece
ha un alter-ego, l’uomo delle origini, Manu.
La sostanza del mitologema in ogni caso è la stessa. Cioè, il Rivelatore si rivela nel cuore
dell’Uomo e di qui comincia la Tradizione in quanto trasmissione di bocca in
bocca, da orecchio in orecchio; ma la Tradizione non inizia da Manu, né da Brahmâ. Parte da Shiva e si trasmette all’uomo asurico,
duale, come fra i celti Merlino. Il caso del re Artú è ancor peggiore, poiché
riceve gl’insegnamenti non direttamente dal Cielo, bensì
dal bardo Merlino. I bardi e tutta la
classe sacerdotale in genere facevano da tramite, infatti, fra il Cielo e
l’Uomo. Ciò non significa che sia mai esistita
una Tradizione indipendente dalla Rivelazione, o meglio esiste; ma ha carattere
luciferino, contro-tradizionale. Tutte
le scuole iniziatiche valide si rifanno ad una figura avatarica, o messianica
per dirla in termini giudaico-cristiani, altrimenti hanno un funzione
contro-iniziatica. Persino i cd.
‘Solitari’ attingono a Râja Khadir, il quale come insegna Guénon non
è che la personificazione dell’Eterna Manifestazione Divina. Anche in tal caso c’è una Rivelazione, simile
a quella avuta da Manurâja o da Mananann nei primordi.
(103)
Non si capisce perché l’a. scriva il termine ‘Io’ al maiuscolo e le
altre due parole, rispettivamente greca e latina, al minuscolo.
(104)
Atanor, Todi-Roma 1925.
(105)
Bocca, Milano 1949 (III ed. Mediterranee, Roma 1972).
(106)
Ev., Il camm., p.45.
(107)
Cioè Saggi sull’idealismo magico- Atanòr, Todi-Roma 1925; Teoria dell’Individuo assoluto- Bocca,
Torino 1927 (rived. 1948-9; rist.
Mediterranee, Roma 1973); Introduzione
alla Magia quale scienza dell’Io (Gruppo di Ur, diretto da Evola)- Roma
1927-9, 3 voll. (ed.riv. Bocca, Roma 1955; rist. col tit. Introduzione alla Magia, Mediterranee, Roma 1971); Fenomenologia dell’Individuo assoluto-
Bocca, Torino 1930 (rist. F. dell’I.A.-
Mediterranee- Roma 1974).
(108)
Com’è noto, le ‘Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica’ fecero seguito nella Germania del Novecento (Husserl, 1930)
alla ‘Fenomenologia dello Spirito’ del secolo precedente (Hegel, 1807). In questa fondamentale opera G.G.F. Hegel tracciava la successione di
gradi mediante i quali la coscienza era in grado di elevarsi dallo stato di
coscienza volgare a coscienza filosofica perfetta, atta a percepire l’identità
propria coll’assoluto. Ovviamente si
trattava d’una identità di tipo ideale, non reale, secondo quanto avveniva in
campo esoterico. E.Husserl, invece,
aveva dato in un primo tempo alla sua fenomenologia una base rigorosa per le
scienze sperimentali; ma viceversa nella parte finale della vita espose una
critica alla scienza contemporanea (vedi La
crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1935-7),
dichiarandola fallita e tornando ad una nuova forma d’idealismo trascendentale,
quello fenomenologico. Che, in certo
senso, può essere accostato all’idealismo evoliano ante-litteram; vuoi per la comune ispirazione hegeliana, vuoi per
le influenze generali di tipo modernistico alle quali furono sottoposti inconsapevolmente
tutti gli autori del XX secolo.
(109)
La fenomenologia husserliana influenzò profondamente l’esistenzialismo, che
aveva riscoperto tardivamente il filosofo danese anti-hegeliano S.Kierkegaard,
propugnatore d’una nuova irrazionalità imperniata sulla fede. Husserl aveva delimitato il proprio interesse
al solo dominio della conoscenza, quale frutto d’una intuizione eidetica che si
discostasse dai dati sensoriali (in ciò è visibile l’influenza del coevo
E.Bergson, criticatissimo da Guénon); mentre le indagini dell’esistenzialismo
contemporaneo si sono spinte piú in là, verso la vita sentimentale e quella
pratica. Con M.Heidegger, il portavoce
di questo neo-esistenzialismo, la fenomenologia è ridivenuta però
ontologia. Non a caso la principale
opera di quest’autore, del 1927, è intitolata Essere e tempo. Dopodiché
Heidegger tornerà a parlare di metafisica, di platonismo e di verità senza
dimenticare comunque la lezione husserliana in merito a quest’ultimo. Ciò che lo distingue nettamente dalla
precedente tradizione filosofica, tuttavia, è il ruolo ch’egli assegna
all’angoscia nello spingere l’uomo a riflettere sulla radice dell’esistenza,
identificata nel nulla.
(110)
Ibid. come alla 106.
(111) In
Cavalcare la tigre (Scheiwiller, Milano 1961; II ed.riv. 1971,
Capp. 12-5 passim), E. esaminerà i
postulati fondamentali dell’Esistenzialismo, segnalando l’insofferenza
anarcoide di questo movimento culturale verso ogni forma d’autorità temporale o
spirituale. Per gli esistenzialisti
l’esistenza precede l’essenza, intendendosi per questa ogni forma di giudizio e
di valore. Essendo però l’esistenza a
livello pubblico fatta d’inautenticità, di fuga da sé stessi, ci si perde nelle
chiacchiere, negli equivoci, nelle evasioni varie. L’esistere autentico salta fuori allorché si
percepisce il nulla sotteso al vivere quotidiano, l’assurdità della vita
contemporanea. Per gli esistenzialisti
non ci può essere un sé distinto dall’essere-nel mondo ed è questo che il
filosofo siciliano contesta loro, a ragione.
Per la verità il punto di partenza di codesta speculazione si trovava già
in Kierkegaard, il quale intendeva il principio esistenziale come un punto
paradossale d’incontro fra finito ed infinito, temporalità ed eternità. Secondo Sartre invece per agire occorre
abbandonare l’essere e passare al non-essere, ogni fine corrispondendo ad una
cosa non ancora esistente. Era dunque la
libertà d’agire ad introdurre il <nulla> nel mondo. La libertà non era altro da questo punto di vista
nientificante (néantisant) che una
rottura col mondo e con sé stessi, tal processo dando luogo all’esistere nel
tempo. Per il Sartre infatti “libertà,
scelta, nientificazione, temporalizzazione” non costituiscono che un’unica
medesima cosa, essendo propria all’uomo a suo dire la libertà assoluta. La condanna dell’uomo ad esser libero è stata
sentita dagli esistenzialisti come dato primordiale ed angosciante. L’uomo non avrebbe fatto altro che quel che
voleva. Essi hanno percepito l’esistenza
quale peso, la libertà assoluta nientificante quale enorme responsabilità, pur
non ponendosi problemi circa la provenienza od il fine della vita, come se
l’uomo fosse venuto ad esistenza per caso.
Sottolinea E., con acume, responsabilità dinanzi a chi? Ecco il punto critico di tutta questa forma
di pensiero agnostico, la cui radice è in fondo l’angoscia del possesso d’una
libertà subita anziché raggiunta. In
Heidegger il problema viene reso ancor piú palese: si è gettati nel mondo come
mera possibilità d’esistere, di qui deriverebbe la nostra segreta angoscia
esistenziale. L’Esistenzialismo ha funto
insomma da <filosofia della crisi> (per questo è stato ripreso nel
Dopoguerra e divulgato), poiché ha trasformato il vivere in puro divenire,
mettendo peraltro in risalto gli aspetti inautentici del nostro vivere sociale,
giungendo quindi ad una diversa e piú sofferta forma di nichilismo rispetto a
quelle in voga nella seconda metà dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento. Nel descrivere le 3 categorie di male suggerite
da Jaspers, particolarmente la terza, E. ha tuttavia una caduta di livello del
tipo di quelle che aveva avuto in gioventú.
Segno che aldilà dell’evoluzione sicuramente riscontrabile nella
capacità di chiarire i temi trattati, innalzando notevolmente il proprio punto
di vista, sono rimasti in lui certi limiti strutturali di pensiero e di
giudizio anche in età adulta ed oltre. Giacché
la critica all’Esistenzialismo di non aver un ben chiaro rapporto colla
trascendenza, cosa che in effetti non si può negare, lascia il tempo che trova
allorché l’a. accusa lo Jaspers di ricaduta nella morale religiosa quando
questi addita nella volontà nichilista di distruzione e di crudeltà qualcosa
che a differenza dell’amore allontana dall’essere. È purtroppo il solito cliché evoliano rimproveratogli alla n.93. Il barone rigettando l’amore come se fosse solo
un sentimento romantico parla genericamente di uomo integrato, con rimandi all’incondizionato,
senza spiegare bene cosa intenda con codeste espressioni e perché le voglia
porre al di sopra dell’eros inteso in senso ontologico. L’Esistenzialismo di certo lascia irrisolto
il problema del rapporto colla trascendenza, ma altrettanto vale per l’a. È vero che l’Esistenzialismo non spiega in
chiari termini in cosa consista l’atto pre-temporale determinante la caduta nel
mondo e che preesiste in sottofondo in tal tipo di teoretica il senso non
riconosciuto del Peccato Originale, ma questo è un fattore positivo; non
negativo come vorrebbe E., incapace come
sempre di disfarsi della sua mentalità luciferina e superomistica. Il N. sa comunque volgere la situazione a suo
favore, descrivendo il discentramento degli esistenzialisti rispetto alla
trascendenza; il che in parte è vero, ma la cosa vale pure per lui, seppur in
altro ed opposto modo. Eccolo allora
cautelarsi menzionando in opposizione al senso di colpa esistenzialista,
d’inconsapevole matrice giudaico-cristiana, il senso greco del limite e della
forma, riflesso divino – asserisce – dell’assoluto. Critica alfine il pur valido concetto di
Jaspers che “senza la trascendenza la libertà sarebbe solo arbitrio senza senso
di colpa”, dimostrando di non capire né il lato migliore dell’Esistenzialismo
(cioè il background biblico) né
l’equivalente pensiero greco. La Grecia
spesso tirata in ballo dal filosofo è talvolta una Grecia irreale,
travisata. I Greci provavano un senso
ciclico di colpa non troppo diversamente dagli Ebrei, secondo quanto mostra il
mito di Edipo del parricidio e dell’incesto materno; cioè dell’Uomo che
nell’Età del Ferro, dimentico del Deus
Pater, si è messo ad adorare la Magna
Mater. Cfr. in proposito G.Acerbi, Edipo e l’Enigma della Sfinge tebana – Heliodromos N.S. (aut. ’98-inv. ’99), N°
15, Catania 1999, passim. L’a. conclude affermando che la trascendenza
dovrebbe includere calma e sicurezza nell’azione, non angoscia e
solitudine. Ancora una volta il termine
di paragone per la critica è inadeguatamente il titanismo nietzchiano e gli
strali si rivolgono contro la filosofia religiosa, se non addirittura per
interposta persona contro la fede cristiana; per salvarsi la faccia E. riporta
la visione esistenzialista alla teologia liberale protestante, cosa che
ovviamente non è lontana dal vero. Il
punto piú controverso nel giudizio finale risulta la contrapposizione fra il
concetto di esistenza e quello di trascendenza.
Prendendo i due termini nel loro significato reale è evidente che
l’Esistenza, in senso shamanico, non è diversa dall’induistico Svayambhu (l’Esistente-in sé); mentre la
trascendenza rappresenta, semplicemente, l’atto exoterico di riportare ogni
forma al suo principio. E. al contrario
fa di quest’ultima, tradendo in ciò anch’egli un’inconfessata influenza
cristiana (anche in questo caso di natura protestante), il fine del sapere
tradizionale, mostrando così d’esser incapace non meno della comune
filosofia di portarsi molto aldilà dell’idealismo trascendentale post-kantiano. Nonostante i riferimenti tradizionali isolati
del contesto.
(112) Ibid. come alla 110, p.46.
(113)
Ib., pp. 46-7 (in riferimento
a Teoria).
(114)
Vide R.Guénon, Simboli della Scienza sacra- Adelphi,
Milano 1975 (ed.or. Symboles fondamentaux
de la Science sacrée- Gallimard, Parigi 1962), § 37, p.213, n.4. Si noti che lo stesso Guénon assimila per
brevità, non illustrandole dovutamente, le differenze fra le 3 ‘Vie della Virtù
e del Vizio’ con le 3 ‘Vie Ermetiche’; benché, in effetti, occorra riconoscere
che una relazione fra di esse esiste.
Dato che le prime si riferiscono alla situazione costante dell’Età del
Ferro, presa a paradigma; mentre le seconde, alludono non solo a quest’ultima
età, ma pure alle due precedenti intese dinamicamente.
(115) Cfr. S.C.
Banerjee, Brief History of Tantra
Literature- Naya P., Calcutta
1988, Intr., p.45. La nozione, inconsueta per la letteratura
tantrica che tende a semplificare in 2 vie, è tratta dai Pârânanda-sûtra. D’altra
parte i testi tantrici sono di 3 tipi, in base alle 3 correnti incorporate in
essi: âgama, samhitâ e tantra propriamente detti. Vedi, in
proposito, N.N. Bhattacharyya, History of
the Tantric Religion- Manohar, N.Delhi 1987, Cap.II, p.38. Ciascuna
di codeste categorie postula a vicenda una via differente: di destra (çaiva), di mezzo (vaishnava), di sinistra (çâkta).
La Via di Mezzo è anche detta Madhyamamârga,
giacché tende a seguire il cammino tracciato dagli avatâra vishnuiti o dai jivanmukta
(avatâra minori), non
soggetti alle leggi karmiche. Dato che i
Tantra sono scritture rivelate
significativamente alla fine del Tretâyuga,
secondo la tradizione indiana (cit. da J.Woodroffe in Principles of Tantra- Ganesh & C., Madras 1986, P.II, Intr.,
p.29), è evidente che il Tantra
originario – sorta di Âdi-tantra – era
esclusivamente shivaita; anche se ha finito per assumere dapprima (Dvâparayuga) valenze vishnuite e poi (Kaliyuga)
shaktiche, tanto da designare in particolare queste ultime.
(116)
Ci limitiamo a segnalare in nota come, analogamente al Tantrismo
induista, in quello buddhista – meglio noto come Buddhismo tantrico – esistano
3 vie equivalenti; tutte nate da una sola primaria, il Mantrayâna. Cfr. S.B.
Dasgupta, Introduzione al Buddhismo
tantrico- Ubaldini, Roma 1977 (ed.or. Introduction
to Tantric Buddhism- Shambala, Berkeley & Londra 1974), Cap.5, § II,
p.63 ss. L’ascetico Vajrayâna
(‘Via Adamantina’ od alternativamente, in base al doppio significato della
parola Vajra, ‘Via della Folgore’)
adempie ad una funzione analoga a quella del Dakshinacâra. Invece il Sahajayâna
(lett. ‘Via Naturale’, giacché sublima g’impulsi ordinari
come la fame o il sesso), che ne è derivato rigettando ogni formalità del culto
e le austere pratiche di disciplina, ricalca per certi aspetti l’Uttaracâra, sostituendo peraltro il
risveglio della potenza della Kundalini
nel Muladhâra-cakra con quello del fuoco
della Candâli nel Nirmâna-kâya;
cfr. in proposito Ibid., Obscure Religious Cults- Firma KLM,
Calcutta 1969 (I ed. non riv.. 1946), P.I, Cap.IV, § 4 sgg et passim. Mentre il Kâlacakrayâna (lett. ‘Via della Ruota
del Tempo’), per la sua funzionalità adatta ai tempi kaliyughici, ha a che fare
rispettivamente col Vamacâra.
(117)
Ibid. come alla 113, p.49.
(118)
L’a., ricordiamo, aveva pubblicato L’uomo
come Potenza (Atanòr, Todi-Roma) nel medesimo anno, il 1925.
(119)
Illuminante a tal proposito A.Ginna, Brevi
note su Evola nel tempo futurista in AA.VV., pp. 144-5. Nell’art. il primo artefice d’arte astratta
in Italia parla di comuni interessi per
la Besant e la Blavatskij, nonché per l’antroposofia steineriana,
approfonditi tra lui e il pittore siciliano nella casa del futurista G.Balla; secondo
F.G. Carli maestro di Evola sul piano pittorico, cit. da Evola pittore tra
Futurismo e Dadaismo (sulla falsariga di E.Crispolti, Evola pittore, fra futurismo e dadaismo; in Julius
Evola e l’arte delle avanguardie, Fond.Evola, 1998 passim), on line. Crispolti fu l’uomo che organizzò a Roma
un’esposizione di quadri evoliani nel secondo Dopoguerra, presso la Gall.Medusa
(Tagl., Cap.III.1, p.42). Codesti interessi pare fornissero uno stimolo
non indifferente all’arte di tutti costoro.
Ginna (pseud. in chiave futurista, proposto in quegli anni dal Balla, di
A. Ginanni Corradini) dichiara in aggiunta che mentre il collega tendeva verso la
teoria del ‘superuomo’, egli preferiva indirizzarsi verso ‘l’uomo minimo’,
evidenziando insomma l’umiltà dell’uomo nei confronti di Dio (sia pure il Dio
interiore). Il flash di vita vissuta appena descritto traccia bene la differenza
tra un percorso d’annientamento dell’ego ed uno viceversa ipertrofico. Se in uno ci si limita ad una dispersione
mistica, nell’altro si va alla ricerca di “forze occulte trascendentali” (sono parole del Ginna). L’esaltazione della forza fisica tipica di
quel periodo storico, spiega bene l’artista, era in linea col trascorso
artistico dalla staticità cubista alla dinamicità formale futurista. Il futurismo, a suo dire, veniva spesso
superato da parte di pittori come Balla e Boccioni mediante nuovi sbocchi verso
la spiritualità. Al modo dell’astrattismo
alla Kandiskij, evidentemente, il primo di tale cerchia avanguardistica a rifarsi al teosofismo.
(120)
Ibid. come alla 117.
(121)
In rare occasioni Krsna funge da Assoluto, mentre nel caso del
Cristo Pantocratore (lett. ‘Onnipotente’) degli affreschi e dei mosaici
absidali dell’arte bizantina paleocristiana e medievale vien meno
esclusivamente una distinzione netta fra il ‘Figlio’ ed il ‘Padre’ in senso
strettamente trinitario, senza che si possa per questo attribuire al Cristo
quella funzione suprema che va oltre l’Uno semplicemente inteso.
(122)
In realtà la formula evoliana è a mezzo fra le due concezioni, tant’è
che di seguito afferma: «Se Dio è, l’Io non è».
Quindi il termine di riferimento è Dio, non il vero Assoluto, che nelle
formule filosofiche tende a confondersi col ‘Signore’ al modo della figura del
‘Padre’ nella Trinità post-nicena. L’Âtmâ d’altronde non è l’Uno, ma molto di
piú.
(123)
Ib., p.50.
(124) E.
non intendeva usare troppo la parola ‘Dio’, onde non cadere in un dualismo di
tipo teologico, lo si capisce bene.
N.B.- Per chi volesse approfondire la questione fenomenologica, in Evola, preghiamo di consultare questo nostro articolo presso la Riv. on line 'Simmetria':