giovedì 29 maggio 2014

L'EVOLA ARTISTA, LETTERATO E FILOSOFO- III




c)     L’idealismo magico-speculativo (1922-7)

         Nella propria biografia letteraria (88) E. dichiara che, dopo aver abbandonato la carriera artistico-letteraria, i suoi interessi filosofici s’erano volti soprattutto verso la corrente idealistica post-kantiana.  Afferma d’aver intuito a differenza d’altri il fondo pre-razionale di quell’atteggiamento nella volontà di dominio, collimante peraltro con uno dei due fattori dispositivi del proprio carattere (89), o per stare al linguaggio evoliano colla sua “equazione personale” (90).  Non a caso il N., prima di dedicarsi ad esperienze artistiche e filosofiche, aveva seguito studT tecnici e matematici (91).  Evola, a dire il vero, ha messo al primo posto tra le sue disposizioni l’impulso alla trascendenza (92), e, al secondo posto, la qualifica aristocratica.  Tuttavia lo scarso interesse pratico dell’a. ad aderire a qualsivoglia forma religiosa indica come la sua predisposizione prevalente non fosse quella d’un sacerdote, ma semmai d’un guerriero, per dirla all’indiana.  Il caso opposto fu invece di L.B.G. Tilak, un brahmana con attitudini kshatriya.  Benché le due personalità abbiano avuto, in effetti, molto in comune.  Sennonché l’uno ha mostrato maggior interesse per il Veda, l’altro per il Tantra, ed anche ciò la dice lunga sulle reali qualifiche di codesti autori.  Insomma, possiamo tranquillamente considerare E. un nobile con attitudini sacerdotali (93).  Ciò indipendentemente dalla valorizzazione che l’uomo ha fatto della proprie disposizioni individuali, di cui diremo approfonditamente nel pross.art. sull’argomento.  L’attitudine aristocratica lo ha portato infatti fin dalla giovinezza, fra i 25 ed i 29 anni, a teorizzare l’Io Assoluto quale espressione di potenza individuale di contro al comune ego.    
         Nonostante il riferimento lodevole alla sapienza lao-tsiana è chiaro che l’Io evoliano, sebbene scritto al maiuscolo, permane pur sempre a livello egoico anche se dilatato al massimo.  Ben altro è il punto d’arrivo in campo taoista dell’Uomo Reale o dell’Uomo Trascendente.  Manca ancora in questa fase speculativa al poeta e saggista siciliano una precisa conoscenza della dottrina ciclica, che evidentemente mutuerà in seguito da Guénon.  Speculatività od operatività a parte, l’ambito delle quali non era ancora stato ben distinto con chiarezza in lui (né forse lo sarà mai del tutto, ad esser sinceri), anche se ciò è normale nella parte giovanile della vita.  Egli si limitava a teorizzare un’azione interna realizzatrice, ma di che tipo e realizzatrice di cosa (94)?  Il Wu-wei spesso citato era probabilmente solo una chimera, per quanto si possa desumere da quel che seguirà nella vita del filosofo (95).  La realizzazione interiore non è questione né di formule né di parole, è il risultato dell’applicazione d’un metodo.  È in tale metodo che consiste essenzialmente una tradizione, non nella letteratura che ne consegue; a cui ci si può avvicinare con intelletto attento, ma se ne rimane pur sempre al di fuori.  D’altronde un metodo è insegnato da un maestro, non dai libri, neppure dai libri sacri.  A meno di ricevere un aiuto dall’alto (96), ma è l’eccezione, di cui peraltro non ci sembra E. abbia mai tenuto conto se non in minima parte.  Vista la scarsa riflessione, per non dire quasi avversione, da lui mostrata nei confronti del profetismo o degli argomenti affini.  La “calma olimpica” spesso ripetuta nei suoi scritti non è il wei-wu-wei, potrebbe semmai esser paragonato alla calma del Buddha.  L’imitazione delle sacre icone era un fatto oggettivo nell’Antichità, ciò tuttavia all’interno d’una pratica meditativa effettiva, non certo quale via iniziatica a sé (97).
         Insomma, il travaglio compiuto dal N. tramite uno studio sistematico delle grandi opere della filosofia tedesca (Kant, Fichte, Hegel, Schelling, Schopenhauer), oltretutto in tempi nei quali non erano a disposizione le traduzioni piú tardi pubblicate, va senz’altro elogiato; è il modus operandi d’uno studioso serio e profondo, che vuol giungere ad una meta.  Se poi a questo viene aggiunto dell’altro, vale a dire nozioni sapienziali tratte dal mondo antico e non solo quello ellenico ma anche quello orientale, è cosa assolutamente meritoria indipendentemente dai risultati ottenuti.   Rimane in ogni caso un’esperienza intellettiva che non supera l’ambito filosofico se non in minima parte.  Validissima, ed attuale, è comunque la critica che egli fa agli epigoni nostrani di quell’idealismo.  Al tempo imperava infatti, c’informa E., il neo-hegelismo crociano e poi gli subentrò quello gentiliano.  Il giovane Julius trovava gli esponenti di quel ramo troppo pedagogici, anzi assai presuntuosi e tali da esporre critiche superficiali alle vette del pensiero filosofico europeo, che con schopenhaueriana ironia definiva “professori dei professori di filosofia” (98).  Questo è un punto totalmente a favore di E. e ne condividiamo appieno il costrutto, indispensabile onde porsi al di là delle mode passeggere del tempo.  Per la verità il N. riconosce a Croce “maggior signorilità e chiarezza” rispetto a Gentile, ma ne mette ciononostante a nudo il livello puramente discorsivo, con quella brillantezza che gli ha fatto da gioiello indiscutibile in tutta la sua attività letteraria prevalentemente demolitrice.  Con saggezza a poco a poco apprende da costoro il gergo, s’aggiorna e gioca alfine le sue carte, ponendosi ad un livello superiore rispetto a loro grazie alla conoscenza diretta degli autori tedeschi e francesi tenuti in disparte dagli idealisti italiani,  a suo parere di cultura piuttosto ristretta. 
         Il punto  che distanziava E. dalle opere filosofiche coeve era senza dubbio, per sua ammissione, il proprio affidamento alle dottrine sapienziali; che faceva però rientrare limitatamente nell’ambito magico, sia pur concedendo a siffatto termine un significato piú ampio di quello abituale.  Per impulso magico egli intendeva, immanentisticamente, la “volontà di essere e di dominare”.  L’idealismo invece aveva messo da parte quell’impulso, che l’a. sentiva proprio, identificandolo alla trascendenza (99).  Aggiunge molto bene il N.: «Su tale base, sembrava eliminato ogni dubbio, veniva chiusa la porta al mistero, all’Io veniva fornita una rocca salda e inaccessibile, dove poteva sentirsi sicuro, libero e dominatore.»  L’Io cosR inteso era un Io trascendentale, lo Spirito Assoluto (Dio), il Lógos capace dell’atto cosmogonico (100).   Dinanzi a cui l’individuo concreto, a dire del Gentile, non era che “un fantoccio dell’immaginazione”.  Nelle varie tappe della filosofia trascendentale, da Kant a Gentile, E. ha intravisto “una fuga progressiva dall’Io reale” (101); intesa quale via di decadenza, in quanto l’Io in tal modo non si poneva a dominare “gnoseologicamente la contingenza dei fenomeni”.  Al contrario, si scioglieva in essa.  Il puro Io evoliano sarebbe, onestamente, da porre a metà fra il ‘Sé’ dello Yoga e l’Io Trascendentale degli idealisti.  Da quest’ultimo tenta di svincolarsi e ci riesce in parte, ma prima di arrivare al vetta reale del Sé ne è di nuovo avviluppato inconsapevolmente.  Sul piano teorico ha ragione quando rovescia la nota formula cartesiana in una nuova: «Sono, dunque penso» (102),  benché le identificazioni dichiarate di questo Io cosR concepito non appaiano corrette, poiché da un lato vien citato il Noûs ellenico e dall’altro l’Âtmâ (103) induista.  Si sa difatti che l’Âtmâ non  ha corrispondenza di significati nei linguaggT europei, a parte il riscontro puramente etimologico del ted.Atem (‘respiro’), mentre il Noûs corrisponde in sanscrito alla Buddhi, cioè l’Intelligenza.  A quale principio equivalesse perciò l’Io evoliano non è dato di sapere esattamente.  Vi è da credere che fosse una nozione ancora confusa di trascendenza immanente, specie di Super-io freudiano; o possibilmente, stando all’imprecisa identificazione evoliana, qualcosa d’analogo al JTvâtmâ indú.  Tuttavia va precisato che nel Vedânta a differenza di quanto suggerito da E. l’Anima del Vivente ritorna all’Âtmâ allorché si libera non già dell’individualità, bensì di sé medesima tornando nell’incondizionato, l’individualità propriamente detta in senso psichico-egoico essendo già stata superata nell’ottenimento della Buddhità; ossia nel passaggio interiore dall’Ahamkâra (‘Coscienza individuale’) alla Buddhi (‘Intelligenza’), dopodiché è necessario un ulteriore passaggio onde divenire una sola cosa coll’Essere (Sat), la Coscienza (Cit) e la Beatitudine (Ananda) Universale.  Ciò però corrisponde semplicemente all’Immortalità, detto in termini settari, ovvero all’identificazione col Signore (Îç).   Ma nemmeno questo è l’ Âtmâ,  l’ Âtmâ essendo il passo finale che conduce al Non Essere (Asat) o se vogliamo ancor oltre, ossia lo stato in cui si scioglie la differenza fra l’esistenza e la non-esistenza; quando cioè l’Anima del Vivente, cogliendo laliberazione da ogni tipo di condizionamento (Mukti), cessa di essere distinta dall'Anima Universale.
         Volendo legger tra le righe, si potrebbe rilevare che l’uso della parola ‘Io’ è congeniale ad un tipo di mentalità aristocratica anziché sacerdotale; qual è per l’appunto quella evoliana, indipendentemente dall’impiego del termine nell’idealismo.  Pensare all’Io come “puro centro di luce” è in realtà un’illusione, a meno d’intendere per esso il suddetto Jivâtmâ, in quanto si ha a che fare pur sempre a livello individuale con una luce riflessa.  D’altra parte la Luce vera appartiene unicamente all’ Âtmâ, che è come il Lampo.  Non c’è alcun termine di paragone nella grecità e nella romanità con questo concetto, siccome va oltre la filosofia e la teologia.  Sarebbe troppo poco paragonarlo al Lógos, corrispondente viceversa alla Vac (lat.Vôx, Verbum) nonostante la diversità di genere nominale, figuriamoci al Noûs!  Evola non aveva ancora assimilato bene la dottrina indú, ammesso che l’abbia fatto mai, se non attraverso lo studio compiuto per L’Uomo e il Tantra (104); riveduto successivamente e pubblicato col titolo de Lo Yoga della potenza, saggio sui Tantra (105).  Si comprende che, per quanto egli ci tenesse a ricordare che in tale campo come in altri era stato un pioniere in Italia, forse anche insuperato (non lo si può negare), allo studio dei Veda non ci sembra si sia mai dedicato appieno neppure in età matura.  Se non andiamo errati.  Proprio la sua qualifica personale, aristocratica e non sacerdotale, gliel’ha impedito.                     
         Tornando al campo strettamente filosofico, l.’a. osserva (106) che al tempo dei suoi 4 scritti sull’idealismo magico (107) la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo kierkegaardiano (108) non avevano ancora preso piede, per cui li ignorava (109).  Benché a suo dire ne sia stato, in qualche modo, anticipatore: “Ma, in fondo, io… ne riproducevo la tematica essenziale, cioè il paradossale e irrazionale coesistere e vicendevole implicarsi, nell’esistenza reale, del finito e dell’infinito, del condizionato e dell’incondizionato.”  E poi, tipicamente orgoglioso d’una propria sentita superiorità, aggiunge (110): “Ma mentre l’esistenzialismo doveva fermarsi alla constatazione di tale paradosso e di tale irrazionalità, indulgendo allo stato di crisi che allora necessariamente ne derivava… ovvero cercando… delle evasioni pagate con un cedimento interno… (111), io di quella struttura dell’esistenza feci un punto di partenza per la mia teoria dell’Individuo assoluto.”  Condividiamo.
         A parte le tematiche anticipatrici, che gli vanno riconosciute, in questa fase della sua esistenza E. mostra invero un pensiero piuttosto confuso, ancora embrionale diremmo.  Ciò è tipico di molti autori nel periodo giovanile, ovviamente.  Si comprende la volontà di chiarire i termini del dibattito filosofico dell’epoca, ma le risoluzioni adottate non appaiono del tutto convincenti, per cui è difficile seguirlo nelle sue elucubrazioni  mentali.  Ad es. quando (112) sostiene il concetto di libertà assoluta da parte dello spirito, anteriore alla libertà realizzata; “un puro arbitrio in grado di scegliere sia sé stesso che il contrario”.  Per questa strada arriva a considerare il valore e il non-valore come le due opzioni possibili.  Fin qui la cosa potrà apparire sensata, anche se si tratta d’un idealismo spinto agli estremi limiti, eliminando ogni senso pragmatico; ma subito dopo teorizza 2 vie, ispirandosi al filosofo goriziano d’origine ebraica C.R. Michelstaeder, anche lui non meno di Weininger finito tragicamente in giovane età: la via dell’altro, che definisce anche dell’oggetto, e quella dell’Individuo assoluto (113).  Queste 2 vie vengono paragonate alle 2 vie dell’antica misteriosofia e del buddhismo: da un lato la dispersione nei vortici molteplici del mondo fenomenico ovvero del samsâra, e, dall’altro, l’acquisizione interiore del Risveglio ossia dei Misteri.  La presunta audacia dello scrittore è di metterle entrambe sullo stesso piano, in nome della libertà assoluta, ed è qui che egli cade in un individualismo insensato.  L’Uomo ha libertà di scelta, in ciò consistendo il Libero Arbitrio (equivalente al Karma indú) che anche il cristianesimo gli concede, ma ne paga comunque le conseguenze.  Con incoerenza si dedica però esclusivamente a descrivere la via dell’Individuo assoluto, annunciata dapprima nella seconda parte di ‘Teoria’ e ripresa poi nell’intera ‘Fenomenologia’.  Se vogliamo veramente metter le cose a posto, dobbiamo precisare per contro che la via fenomenica – vuoi nelle dottrine occidentali, vuoi in quelle orientali – si contrappone inevitabilmente all’altra, non può risultare un’opzione.  Certo, l’Individuo può sceglierla in seguito a fallacia di giudizio o per debolezza, o persino di proposito nel caso sia un semplice padre di famiglia, ma in ogni caso rimarrà condizionato da tale scelta.  Questo è il sentiero oscuro, in rapporto al Kaliyuga, che gl’indú chiamano Pitryâna (‘Via degli Antenati’) e che dopo la morte conduce il semplice devoto alla rigenerazione attraverso il ceppo paterno o materno.  La buddhistica ricaduta nel Samsâra, in certo senso, corrisponde a tale via.  Alla rigenerazione samsarica va contrapposto giustamente – come vuole E. – il percorso verso il risveglio interiore (vide supra), l’equivalente della via misterica, stando alla definizione del filosofo siciliano; ma non la “via degli Svegliati”, che è altra cosa e può esser percorsa soltanto da speciali individui: Buddha e Bodhisattva.  La strada del Risveglio è, semmai, il sentiero luminoso del Devayâna (‘Via degli Dei’); il quale avvia verso gli stati superiori d’esistenza le anime degl’iniziati, sì ma dei comuni iniziati.  Mentre la Via degli Svegliati (Bauddhâcâra) è in realtà il Madhyamikavâda (‘Cammino di Mezzo’), che pure i Pitagorici indicavano con una  Y, cui era aggiunta graficamente una linea tratteggiata intermedia (114).  Probabilmente E., che in quegli anni non aveva ancor bene studiato le tradizioni pagane e quelle orientali, s’è confuso colla distinzione fra pratiche ascetiche e pratiche libertine, in altre parole fra la Via di Destra (scr.Dakshinâcâra) e quella di Sinistra (Vâmâcâra).  In questo caso siamo di fronte, effettivamente, a 2 vie pressappoco equivalenti: si può scegliere l’una o l’altra a seconda delle proprie disposizioni individuali ed il risultato finale è quasi il medesimo, nonostante le notevoli differenze di percorso ed i diversi proclami dei varT testi settarT.  Anche in codesta distinzione vi è d’altronde una Via Intermedia, di Centro si potrebbe dire, come accade nel Tantrismo coll’Uttarâcâra.  Soltanto un jTvan-mukta può insegnarla, non un qualsiasi guru (115).  Nel caso dell’esoterismo buddhista (116), greco od ebraico ci troviamo di fronte a distinzioni analoghe, che non stiamo ivi a delineare per brevità, avendolo già fatto in altri scritti.
        Nei ‘Saggi’ (117) lo scrittore aveva postulato che il principio idealistico secondo cui l’Io determina le cose era valido solamente allorquando “l’individuo abbia trasformato in un corpo di libertà” (cioè in potenza) “l’oscura passione del mondo”(118).  Si palesa cosR il superamento del N. del superomismo iniziale di stampo nietzchiano (119) in favore di concezioni tantricizzate, benché ovviamente adattate all’epoca.  Dal punto di vista evoliano il filosofo idealista si limitava unicamente alla discorsività, non possedendo realmente le cose e dunque non essendo in grado d’annullarle.  In parole povere, non sapeva annientare l’altro-da sé.  In ciò mostrava un’inesorabile alienazione, dovuta a privazione, pur utilizzando espressioni altisonanti quali “io trascendentale”.  Questa critica è perfetta, non occorre riconoscerlo.  Anche l’idea che “fra persona e soggetto universale non vi è alterità ma progressività” è efficace, non c’è nulla d’aggiungere.  E prosegue (120), con acume, che «la persona è il soggetto universale in potenza e il soggetto universale è la persona in atto».  Il che concorda colla dottrina sapienziale vedantica del Jivâtmâ e dell’Âtmâ, non invece colla dottrina mahabharatiana del Tripurusha; la quale non meno della dottrina gnostica giudaico-cristiana pone uno iato fra l’Assoluto ed il Signore Iddio, identificando in genere solo quest’ultimo alla forma celeste del Primo Uomo e d’ogni figura avatarica, specialmente di Krsna (121).  Gli altri, i semplici Perfetti, sono invece equiparabili alla Terza Persona; la Persona Peritura, che i cristiani chiamano ‘Spirito Santo’, sostituendo all’avatâra la figura profetica del Figlio (122).  Si correggerà nell’autobiografia (123) asserendo la non-esistenza dell’Io assoluto e la possibilità, semmai, “dell’Io di rendersi assoluto”.  Un’ulteriore intuizione fu d’intendere l’idea come una realtà in potenza e la realtà un’idea in atto.  L’intromissione nel discorso della magia, per E. la scienza dell’Io, la si ha mediante la progressiva trasformazione dell’Io in soggetto universale (124).  Infatti l’unificazione con tal soggetto – l’a. impiega il termine ‘unizione’, sempre allo scopo di vanificare il dualismo – comporta possibilità magiche oltreché noetiche.  Come insegnano lo Yoga e, aggiungiamo noi, l’Alchimia.  Poi E. va oltre ed, insistendo sull’argomento, cade in errore subordinando la verità alla potenza.  In questo caso non siamo d’accordo per nulla.  In tal modo infatti, lo si riconosce da parte del N., si aprono le porte a possibilità catastrofiche.   
        Naturalmente E., data la sua innegabile apertura mentale, trasborda dalla metapsichica e asserisce cose interessanti degne d’un grande scrittore.  Per quanto, sin qua, gli manchi quell’incredibile lucidità di pensiero che lo caratterizzerà nella fase successiva e piú oltre.  Il suo argomentare per il momento è un po’ astruso, troppo teso alle formule astratte.  Il periodare appare convulso, si compiace delle parole non in lingua, specie del francese e del tedesco; nonché di neologismi o parole molto ricercate quali “unizione, superessenza, partitamente, epperò”, tratte chiaramente dalle sue letture filosofiche, senza tuttavia che il contenuto sia adeguato allo stile aulico.  Una visione giovanile comunque destinata a far faville in età adulta, almeno nell’ambiente elitario della cultura, seppur gravida di problemi irrisolti.  Tutto un mondo insomma che ritornerà nel bene o nel male, nell’E. maturo, nelle forme proprie d’una serrata critica al mondo moderno.  Salvo il riconoscimento d’una Tradizione, che nelle parole medesime dell’a. era cosa in gran parte ormai desueta.  Il tentativo ciononostante di riorganizzarne una sul piano ideale e su quello materiale è la virtú principale, nonché per certi versi il vizio fondamentale, di tutta la speculazione evoliana e di coloro che ne hanno arditamente seguito le orme.






(88)     Ev., Il camm., p.33.
(89)     Ovviamente qui s’intende il carattere in senso astrologico, vale a dire in senso lato; in altre parole, le disposizioni individuali.

(90)     Ibid., pp. 11-2.

(91)     Ib., p.13.

(92)     Notiamo attraverso il linguaggio ed i contenuti del periodo filosofico evoliano che lo scrittore nel suo percorso speculativo non si era ancora distaccato completamente dall’alveo giudaico-cristiano, pur concedendosi ad interpretazioni esegetiche non del tutto in linea con quelle comunemente accettate.

(93)     L’oroscopo individuale a nostro giudizio lo conferma, quantunque i pianeti in segni ariosi siano di piú di quelli in segni ignei; vi è un handicap ad ogni modo che pregiudica la prevalenza dei primi, il fatto che i secondi siano meglio aspettati.  Giove e Venere determinano la qualifica sacerdotale, secondo l’astrologia induista nepalese, e questi due pianeti nel cosmogramma dell’a. sono entrambi condizionati dall’Elemento Aria.  Ecco la ragione dell’autoriconosciuto senso di trascendenza.  Mentre Saturno ed il Sole, pianeti determinanti la predisposizione aristocratica, si trovano l’uno in segno di fuoco e l’altro in segno di terra: questa la motivazione del basso grado nobiliare del casato familiare.  Bisogna riconoscere, d’altronde, che E. ha esercitato un mestiere intellettuale e non una disciplina militare.  Ciononostante va tenuto conto per una piú approfondita analisi della qualifica personale dell’a. l’ascendenza leonina, oltretutto appoggiata dalla marzialità arietina e dalla razionalità sagittariana, a sua volta direttamente spronata dalla dinamicità uranica; tale quadro di relazioni astrali non poteva che conferire ad E. quella “tensione verso l’incondizionato” che egli sia pur con altre parole confessava di percepire in sé e che il lungimirante pittore L.Alessandri (AA.VV., pp. 11-4) ha una volta candidamente ricordato a bella posta, pur accusandolo a ragione fra le righe di ambiguità, di pregiudizio ideologico nonché di sopravvalutazione della volitività e dell’azione rispetto a temi come l’amore e la conoscenza.

(94)     Il fatto medesimo ch’egli non parlasse mai di ‘realizzazione spirituale’, come han fatto altri, ma semplicemente di ‘azione realizzatrice interna’ ci porta di nuovo a sottolineare quanto con acume suggerito dall’Alessandri (vide n.prec.).  Non si tratta tanto di paura di chiamare le cose col loro nome, quanto di sottovalutazione evidente del fattore intellettivo.  Certo, E. non aveva del tutto torto.  Il procedimento interiore che porta alla realizzazione dello spirito dopo il ‘Peccato Originale’ – inteso esotericamente quale perdita dell’identità col Divino – è divenuto obsoleto, ha bisogno d’essere riscoperto, praticato; non è un processo spontaneo, come in origine, necessita d’un azione ascetica occulta in senso shivaico.
(95)     La contraddizione evoliana è di menzionare il Wu-wei, ma di non praticarlo se non esteriormente.  Il vero ‘Non-agire’ è il lasciar attraverso il distacco interiore che le cose si sviluppino da sole, dando prima o poi i loro naturali frutti.  Per ottenere questo occorre una disciplina del pensiero notevolissima, portata all’estremo limite del’ascesi interiore, che dai risultati non ci pare E. abbia effettuato in sé.  Da cosa lo deduciamo?  È ovvio, dai frutti.  Per ora, comunque, ci limitiamo a considerare il periodo giovanile, fino al ’27.
(96)     L’aiuto è sempre possibile, lo abbiamo sperimentato di persona, seppur nel nostro caso avessimo già frequentato in precedenza la via maestra.  Tutti i fondatori di scuole sono dei missionati, in tal senso, giacché ricevono un appello dalla Divinità ad aprire una determinata via.  (Ivi, è ovvio, non stiamo parlando né di avatâra né di profeti, ma semplicemente di battitori solitarT alla M.Eckhart o alla J.Böhme).  È stato Evola l’apritore d’una nuova via?  Chissà!  Personalmente non ci pare, ma non sta all’uomo giudicare le cose divine, come il papa attuale (novello Pietro II) c’insegna.  Per chi volesse metter in dubbio la parola del pontefice su base pregiudiziale anti-cristiana, sappia che un papa è colui che alla sua epoca porta l’Anello del Pescatore; in altre parole è la veste exoterica del Re Pescatore (o Re del Mondo), custode esoterico del Santo Graal.  Non a caso Papa Francesco – che a giudicare dai ‘segni dei tempi’ parrebbe essere l’ultimo papa, insomma il papa santo gioachimita atteso in segreto dalla curia vaticana – è nato il 17 dicembre, cioè nel giorno in cui il Sole nella sua proiezione zodiacale si situa al centro della galassia.  Naturalmente le galassie non facevano parte della visione astrologica tradizionale, d’origine tolemaica, ma fanno parte guardacaso dell’Universo ossia di quel cosmo che è etimologicamente Uni-versus (‘rivolto all’Uno’).  Tutto ciò che esiste, visibile od invisibile che sia, non è che un simbolo di ciò che lo trascende.  Tant’è che gli antichi definivano la Via Lattea, vestigio siderale di spirali galattiche, il “Sentiero delle Ombre”.  Dato che le Ombre ovvero gli Antenati appartengono all’invisibile, non si può certo credere che la consapevolezza della loro esistenza sia anti-tradizionale ed esclusa dai sacri insegnamenti.
(97)     Ci nuovo ci tocca far presente che, sebbene rarissima, anche questa via iniziatica irregolare è in realtà possibile.  La Divinità aiuta il cuore di chi la cerca dovunque questi si possa trovare ed in qualsiasi contesto umano.  Le storie sufiche narrano d’un ragazzo entrato nella Via semplicemente per aver a lungo servito il the a dei sufi.  Il contatto umano non è cosa indifferente per chi ha il cuore svincolato dal pregiudizio e dei semplici umanissimi gesti, ripetuti casualmente da coloro che sono sulla Via, non possono non influenzare spiritualmente quelli che a mente aperta si trovano in un modo o nell’altro ad aver a che fare con loro.  Ciò detto, per beneficio d’inventario, il caso dell’a. ci pare diverso, almeno crediamo salvo ripensamenti futuri.   
(98)     Ev., op.cit., pp. 34-5.
(99)     Questa è una distorsione del significato proprio del termine ‘magia’, indicante invero la ‘via’ (scr.mârga) di natura solare  percorsa dal mrga (‘cervo’), incarnazione del Mâyin (‘Incantatore, Mago’), identificabile cosmologicamente all’asterismo di Orione.  Cfr. Ac., Le m., § 4, p.223.  E. era nato, non a caso, col Sole in Orione!  Come sempre E. non appare mai nel giusto, mai nell’errore; ha costantemente un suo modo personale di distorcere le parole conferendo loro alla fine, non si sa bene come, un’accezione quasi adeguata.  Pur comprendendo che la magia non è nulla se non ha valore operativo, la riduce filosoficamente a ‘scienza dell’Io’; ma la magia, intendendola spiritualmente e non psichicamente (vedi magi persiani), è ben altro.  È incantazione della mente a scopo liberatorio, non incantamento a fini di dominio egoico.  Dunque, l’essere e il dominare stanno su piani diversi; a meno che s’intenda l’essere come volontà di potenza individuale, il che è una contraddizione in termini.  Già lo segnalava l’Alessandri (AA.VV., p.13), anche se con altre parole.  Poiché l’Essere reale si trova al là dell’individuo, l’individualità non avendo alcuna assolutezza se non a livello illusorio, ipertrofico.      
(100)     Ev., cit., p.41.
(101)     Ibid., p.43.
(102)     Ib., p.44.  Giusto, ma sarebbe stato meglio, anche qui, asserire da parte del barone: «Esisto, dunque penso», affinché non si scambi l’essere come un mero atto di volontà individuale.  L’Esistenza ci è donata dall’Assoluto, non siamo noi a volerla.  Fra il Vivente (scr.Jiva) e l’Anima Universale (scr.Âtmâ) – come insegna la dottrina vedantica – c’è sempre uno iato, incolmabile sino alla morte.  Non la morte fisica e neppure quella psichica, ma semmai quella spirituale.  Nessuno può attingere direttamente all’Assoluto, sarebbe come tentar d’acchiappare il Lampo e non è questo che c’insegnano la Rivelazione e la Tradizione; ciascun individuo ha la facoltà – se non vuol fare come il Barone di Münchhausen che si tirava per i capelli – di affidarsi al Tuono e il Tuono è rappresentato dalla Parola Divina, che sola è proferita dalle Divine Incarnazioni, maggiori o minori.  Al fine di afferrar con essa almeno il Fulmine, cioè l’Essenza Divina, sR da tramutarla in fuoco e luce della Coscienza.  L’Essenza Divina (scr.Purusha) è peritura (kshara), non  la Voce Divina (scr.Vac, lat.Verbum, gr.Lógos) che dall’Essere promana quale fonte d’esistenza per le forme molteplici, compreso l’ahamkâra (lett. la facoltà ‘creatrice dell’io’).  Naturalmente si può passar per la Tradizione, anziché per la Rivelazione: il cammino in questo caso è piú lungo e faticoso, ma va tenuto conto d’una cosa.  Che la Tradizione dipende dalla Rivelazione, come il Re Pescatore graalico dipende da Cristo.  Prima dell’avvento del cristianesimo era Bran presso i celti a svolgere tale funzione, come Brahmâ presso gli indú.  Bran aveva un fratello, Mananann; Brahmâ invece ha un alter-ego, l’uomo delle origini, Manu. La sostanza del mitologema in ogni caso è la stessa.  Cioè, il Rivelatore si rivela nel cuore dell’Uomo e di qui comincia la Tradizione in quanto trasmissione di bocca in bocca, da orecchio in orecchio; ma la Tradizione non inizia da Manu, né da Brahmâ.  Parte da Shiva e si trasmette all’uomo asurico, duale, come fra i celti Merlino. Il caso del re Artú è ancor peggiore, poiché riceve gl’insegnamenti non direttamente dal Cielo, bensì dal bardo Merlino.  I bardi e tutta la classe sacerdotale in genere facevano da tramite, infatti, fra il Cielo e l’Uomo.  Ciò non significa che sia mai esistita una Tradizione indipendente dalla Rivelazione, o meglio esiste; ma ha carattere luciferino, contro-tradizionale.  Tutte le scuole iniziatiche valide si rifanno ad una figura avatarica, o messianica per dirla in termini giudaico-cristiani, altrimenti hanno un funzione contro-iniziatica.  Persino i cd. ‘Solitari’ attingono a Râja Khadir, il quale come insegna Guénon non è che la personificazione dell’Eterna Manifestazione Divina.  Anche in tal caso c’è una Rivelazione, simile a quella avuta da Manurâja o da Mananann nei primordi.

(103)     Non si capisce perché l’a. scriva il termine ‘Io’ al maiuscolo e le altre due parole, rispettivamente greca e latina, al minuscolo.

(104)     Atanor, Todi-Roma 1925.

(105)     Bocca, Milano 1949 (III ed. Mediterranee, Roma 1972).

(106)     Ev., Il camm., p.45.

(107)     Cioè Saggi sull’idealismo magico- Atanòr, Todi-Roma 1925; Teoria dell’Individuo assoluto- Bocca, Torino 1927 (rived. 1948-9; rist.  Mediterranee, Roma 1973); Introduzione alla Magia quale scienza dell’Io (Gruppo di Ur, diretto da Evola)- Roma 1927-9, 3 voll. (ed.riv. Bocca, Roma 1955; rist. col tit. Introduzione alla Magia, Mediterranee, Roma 1971); Fenomenologia dell’Individuo assoluto- Bocca, Torino 1930 (rist. F. dell’I.A.- Mediterranee- Roma 1974).     

(108)     Com’è noto, le ‘Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica’ fecero seguito nella Germania del Novecento (Husserl, 1930) alla ‘Fenomenologia dello Spirito’ del secolo precedente (Hegel, 1807).  In questa fondamentale opera  G.G.F. Hegel tracciava la successione di gradi mediante i quali la coscienza era in grado di elevarsi dallo stato di coscienza volgare a coscienza filosofica perfetta, atta a percepire l’identità propria coll’assoluto.  Ovviamente si trattava d’una identità di tipo ideale, non reale, secondo quanto avveniva in campo esoterico.  E.Husserl, invece, aveva dato in un primo tempo alla sua fenomenologia una base rigorosa per le scienze sperimentali; ma viceversa nella parte finale della vita espose una critica alla scienza contemporanea (vedi La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1935-7), dichiarandola fallita e tornando ad una nuova forma d’idealismo trascendentale, quello fenomenologico.  Che, in certo senso, può essere accostato all’idealismo evoliano ante-litteram; vuoi per la comune ispirazione hegeliana, vuoi per le influenze generali di tipo modernistico alle quali furono sottoposti inconsapevolmente tutti gli autori del XX secolo.
(109)     La fenomenologia husserliana influenzò profondamente l’esistenzialismo, che aveva riscoperto tardivamente il filosofo danese anti-hegeliano S.Kierkegaard, propugnatore d’una nuova irrazionalità imperniata sulla fede.  Husserl aveva delimitato il proprio interesse al solo dominio della conoscenza, quale frutto d’una intuizione eidetica che si discostasse dai dati sensoriali (in ciò è visibile l’influenza del coevo E.Bergson, criticatissimo da Guénon); mentre le indagini dell’esistenzialismo contemporaneo si sono spinte piú in là, verso la vita sentimentale e quella pratica.  Con M.Heidegger, il portavoce di questo neo-esistenzialismo, la fenomenologia è ridivenuta però ontologia.  Non a caso la principale opera di quest’autore, del 1927, è intitolata Essere e tempo.  Dopodiché Heidegger tornerà a parlare di metafisica, di platonismo e di verità senza dimenticare comunque la lezione husserliana in merito a quest’ultimo.  Ciò che lo distingue nettamente dalla precedente tradizione filosofica, tuttavia, è il ruolo ch’egli assegna all’angoscia nello spingere l’uomo a riflettere sulla radice dell’esistenza, identificata nel nulla.
(110)     Ibid. come alla 106.
(111)     In Cavalcare la tigre  (Scheiwiller, Milano 1961; II ed.riv. 1971, Capp. 12-5 passim), E. esaminerà i postulati fondamentali dell’Esistenzialismo, segnalando l’insofferenza anarcoide di questo movimento culturale verso ogni forma d’autorità temporale o spirituale.  Per gli esistenzialisti l’esistenza precede l’essenza, intendendosi per questa ogni forma di giudizio e di valore.  Essendo però l’esistenza a livello pubblico fatta d’inautenticità, di fuga da sé stessi, ci si perde nelle chiacchiere, negli equivoci, nelle evasioni varie.  L’esistere autentico salta fuori allorché si percepisce il nulla sotteso al vivere quotidiano, l’assurdità della vita contemporanea.  Per gli esistenzialisti non ci può essere un sé distinto dall’essere-nel mondo ed è questo che il filosofo siciliano contesta loro, a ragione.  Per la verità il punto di partenza di codesta speculazione si trovava già in Kierkegaard, il quale intendeva il principio esistenziale come un punto paradossale d’incontro fra finito ed infinito, temporalità ed eternità.  Secondo Sartre invece per agire occorre abbandonare l’essere e passare al non-essere, ogni fine corrispondendo ad una cosa non ancora esistente.  Era dunque la libertà d’agire ad introdurre il <nulla> nel mondo.  La libertà non era altro da questo punto di vista nientificante (néantisant) che una rottura col mondo e con sé stessi, tal processo dando luogo all’esistere nel tempo.  Per il Sartre infatti “libertà, scelta, nientificazione, temporalizzazione” non costituiscono che un’unica medesima cosa, essendo propria all’uomo a suo dire la libertà assoluta.  La condanna dell’uomo ad esser libero è stata sentita dagli esistenzialisti come dato primordiale ed angosciante.  L’uomo non avrebbe fatto altro che quel che voleva.  Essi hanno percepito l’esistenza quale peso, la libertà assoluta nientificante quale enorme responsabilità, pur non ponendosi problemi circa la provenienza od il fine della vita, come se l’uomo fosse venuto ad esistenza per caso.  Sottolinea E., con acume, responsabilità dinanzi a chi?  Ecco il punto critico di tutta questa forma di pensiero agnostico, la cui radice è in fondo l’angoscia del possesso d’una libertà subita anziché raggiunta.  In Heidegger il problema viene reso ancor piú palese: si è gettati nel mondo come mera possibilità d’esistere, di qui deriverebbe la nostra segreta angoscia esistenziale.  L’Esistenzialismo ha funto insomma da <filosofia della crisi> (per questo è stato ripreso nel Dopoguerra e divulgato), poiché ha trasformato il vivere in puro divenire, mettendo peraltro in risalto gli aspetti inautentici del nostro vivere sociale, giungendo quindi ad una diversa e piú sofferta forma di nichilismo rispetto a quelle in voga nella seconda metà dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento.  Nel descrivere le 3 categorie di male suggerite da Jaspers, particolarmente la terza, E. ha tuttavia una caduta di livello del tipo di quelle che aveva avuto in gioventú.  Segno che aldilà dell’evoluzione sicuramente riscontrabile nella capacità di chiarire i temi trattati, innalzando notevolmente il proprio punto di vista, sono rimasti in lui certi limiti strutturali di pensiero e di giudizio anche in età adulta ed oltre.  Giacché la critica all’Esistenzialismo di non aver un ben chiaro rapporto colla trascendenza, cosa che in effetti non si può negare, lascia il tempo che trova allorché l’a. accusa lo Jaspers di ricaduta nella morale religiosa quando questi addita nella volontà nichilista di distruzione e di crudeltà qualcosa che a differenza dell’amore allontana dall’essere.  È purtroppo il solito cliché evoliano rimproveratogli alla n.93.  Il barone rigettando l’amore come se fosse solo un sentimento romantico parla genericamente di uomo integrato, con rimandi all’incondizionato, senza spiegare bene cosa intenda con codeste espressioni e perché le voglia porre al di sopra dell’eros inteso in senso ontologico.  L’Esistenzialismo di certo lascia irrisolto il problema del rapporto colla trascendenza, ma altrettanto vale per l’a.  È vero che l’Esistenzialismo non spiega in chiari termini in cosa consista l’atto pre-temporale determinante la caduta nel mondo e che preesiste in sottofondo in tal tipo di teoretica il senso non riconosciuto del Peccato Originale, ma questo è un fattore positivo; non negativo come vorrebbe E., incapace  come sempre di disfarsi della sua mentalità luciferina e superomistica.  Il N. sa comunque volgere la situazione a suo favore, descrivendo il discentramento degli esistenzialisti rispetto alla trascendenza; il che in parte è vero, ma la cosa vale pure per lui, seppur in altro ed opposto modo.   Eccolo allora cautelarsi menzionando in opposizione al senso di colpa esistenzialista, d’inconsapevole matrice giudaico-cristiana, il senso greco del limite e della forma, riflesso divino – asserisce – dell’assoluto.  Critica alfine il pur valido concetto di Jaspers che “senza la trascendenza la libertà sarebbe solo arbitrio senza senso di colpa”, dimostrando di non capire né il lato migliore dell’Esistenzialismo (cioè il background biblico) né l’equivalente pensiero greco.  La Grecia spesso tirata in ballo dal filosofo è talvolta una Grecia irreale, travisata.  I Greci provavano un senso ciclico di colpa non troppo diversamente dagli Ebrei, secondo quanto mostra il mito di Edipo del parricidio e dell’incesto materno; cioè dell’Uomo che nell’Età del Ferro, dimentico del Deus Pater, si è messo ad adorare la Magna Mater.  Cfr. in proposito G.Acerbi, Edipo e l’Enigma della Sfinge tebana – Heliodromos N.S. (aut. ’98-inv. ’99), N° 15, Catania 1999, passim.  L’a. conclude affermando che la trascendenza dovrebbe includere calma e sicurezza nell’azione, non angoscia e solitudine.  Ancora una volta il termine di paragone per la critica è inadeguatamente il titanismo nietzchiano e gli strali si rivolgono contro la filosofia religiosa, se non addirittura per interposta persona contro la fede cristiana; per salvarsi la faccia E. riporta la visione esistenzialista alla teologia liberale protestante, cosa che ovviamente non è lontana dal vero.  Il punto piú controverso nel giudizio finale risulta la contrapposizione fra il concetto di esistenza e quello di trascendenza.  Prendendo i due termini nel loro significato reale è evidente che l’Esistenza, in senso shamanico, non è diversa dall’induistico Svayambhu (l’Esistente-in sé); mentre la trascendenza rappresenta, semplicemente, l’atto exoterico di riportare ogni forma al suo principio.  E. al contrario fa di quest’ultima, tradendo in ciò anch’egli un’inconfessata influenza cristiana (anche in questo caso di natura protestante), il fine del sapere tradizionale, mostrando così d’esser incapace non meno della comune filosofia di portarsi molto aldilà dell’idealismo trascendentale post-kantiano.  Nonostante i riferimenti tradizionali isolati del contesto.                       
(112)     Ibid. come alla 110, p.46.
(113)     Ib., pp. 46-7 (in riferimento a Teoria).
(114)     Vide R.Guénon, Simboli della Scienza sacra- Adelphi, Milano 1975 (ed.or. Symboles fondamentaux de la Science sacrée- Gallimard, Parigi 1962), § 37, p.213, n.4.  Si noti che lo stesso Guénon assimila per brevità, non illustrandole dovutamente, le differenze fra le 3 ‘Vie della Virtù e del Vizio’ con le 3 ‘Vie Ermetiche’; benché, in effetti, occorra riconoscere che una relazione fra di esse esiste.  Dato che le prime si riferiscono alla situazione costante dell’Età del Ferro, presa a paradigma; mentre le seconde, alludono non solo a quest’ultima età, ma pure alle due precedenti intese dinamicamente.
(115)     Cfr. S.C. Banerjee, Brief History of Tantra Literature- Naya P., Calcutta 1988, Intr., p.45.  La nozione, inconsueta per la letteratura tantrica che tende a semplificare in 2 vie, è tratta dai Pârânanda-sûtra.  D’altra parte i testi tantrici sono di 3 tipi, in base alle 3 correnti incorporate in essi: âgama, samhitâ e tantra propriamente dettiVedi, in proposito, N.N. Bhattacharyya, History of the Tantric Religion- Manohar, N.Delhi 1987, Cap.II, p.38.  Ciascuna di codeste categorie postula a vicenda una via differente: di destra (çaiva), di mezzo (vaishnava), di sinistra (çâkta).  La Via di Mezzo è anche detta Madhyamamârga, giacché tende a seguire il cammino tracciato dagli avatâra vishnuiti o dai jivanmukta (avatâra minori), non soggetti alle leggi karmiche.  Dato che i Tantra sono scritture rivelate significativamente alla fine del Tretâyuga, secondo la tradizione indiana (cit. da J.Woodroffe in Principles of Tantra- Ganesh & C., Madras 1986, P.II, Intr., p.29), è evidente che il Tantra originario – sorta di Âdi-tantra – era esclusivamente shivaita; anche se ha finito per assumere dapprima (Dvâparayuga) valenze vishnuite  e poi (Kaliyuga) shaktiche, tanto da designare in particolare queste ultime. 
(116)     Ci limitiamo a segnalare in nota come, analogamente al Tantrismo induista, in quello buddhista – meglio noto come Buddhismo tantrico – esistano 3 vie equivalenti; tutte nate da una sola primaria, il Mantrayâna.  Cfr. S.B. Dasgupta, Introduzione al Buddhismo tantrico- Ubaldini, Roma 1977 (ed.or. Introduction to Tantric Buddhism- Shambala, Berkeley & Londra 1974), Cap.5, § II, p.63 ss.  L’ascetico Vajrayâna (‘Via Adamantina’ od alternativamente, in base al doppio significato della parola Vajra, ‘Via della Folgore’) adempie ad una funzione analoga a quella del Dakshinacâra.  Invece il Sahajayâna (lett. ‘Via Naturale’, giacché sublima g’impulsi ordinari come la fame o il sesso), che ne è derivato rigettando ogni formalità del culto e le austere pratiche di disciplina, ricalca per certi aspetti l’Uttaracâra, sostituendo peraltro il risveglio della potenza della Kundalini nel Muladhâra-cakra con quello del fuoco della Candâli nel Nirmâna-kâya; cfr. in proposito Ibid., Obscure Religious Cults- Firma KLM, Calcutta 1969 (I ed. non riv.. 1946), P.I, Cap.IV, § 4 sgg et passim. Mentre il Kâlacakrayâna (lett. ‘Via della Ruota del Tempo’), per la sua funzionalità adatta ai tempi kaliyughici, ha a che fare rispettivamente col Vamacâra. 
(117)     Ibid. come alla 113, p.49.
(118)     L’a., ricordiamo, aveva pubblicato L’uomo come Potenza (Atanòr, Todi-Roma) nel medesimo anno, il 1925.  
(119)     Illuminante a tal proposito A.Ginna, Brevi note su Evola nel tempo futurista in AA.VV., pp. 144-5.  Nell’art. il primo artefice d’arte astratta in Italia parla di comuni interessi per  la Besant e la Blavatskij, nonché per l’antroposofia steineriana, approfonditi tra lui e il pittore siciliano nella casa del futurista G.Balla; secondo F.G. Carli maestro di Evola sul piano pittorico, cit. da Evola pittore tra Futurismo e Dadaismo (sulla falsariga di E.Crispolti, Evola pittore, fra futurismo e dadaismo; in Julius Evola e l’arte delle avanguardie, Fond.Evola, 1998 passim), on line.   Crispolti fu l’uomo che organizzò a Roma un’esposizione di quadri evoliani nel secondo Dopoguerra, presso la Gall.Medusa (Tagl., Cap.III.1, p.42).   Codesti interessi pare fornissero uno stimolo non indifferente all’arte di tutti costoro.  Ginna (pseud. in chiave futurista, proposto in quegli anni dal Balla, di A. Ginanni Corradini) dichiara in aggiunta che mentre il collega tendeva verso la teoria del ‘superuomo’, egli preferiva indirizzarsi verso ‘l’uomo minimo’, evidenziando insomma l’umiltà dell’uomo nei confronti di Dio (sia pure il Dio interiore).  Il flash di vita vissuta appena descritto traccia bene la differenza tra un percorso d’annientamento dell’ego ed uno viceversa ipertrofico.  Se in uno ci si limita ad una dispersione mistica, nell’altro si va alla ricerca di “forze occulte trascendentali” (sono parole del Ginna).  L’esaltazione della forza fisica tipica di quel periodo storico, spiega bene l’artista, era in linea col trascorso artistico dalla staticità cubista alla dinamicità formale futurista.  Il futurismo, a suo dire, veniva spesso superato da parte di pittori come Balla e Boccioni mediante nuovi sbocchi verso la spiritualità.  Al modo dell’astrattismo alla Kandiskij, evidentemente, il primo di tale cerchia avanguardistica  a rifarsi al teosofismo.
(120)     Ibid. come alla 117. 
(121)     In rare occasioni Krsna funge da Assoluto, mentre nel caso del Cristo Pantocratore (lett. ‘Onnipotente’) degli affreschi e dei mosaici absidali dell’arte bizantina paleocristiana e medievale vien meno esclusivamente una distinzione netta fra il ‘Figlio’ ed il ‘Padre’ in senso strettamente trinitario, senza che si possa per questo attribuire al Cristo quella funzione suprema che va oltre l’Uno semplicemente inteso.     
(122)     In realtà la formula evoliana è a mezzo fra le due concezioni, tant’è che di seguito afferma: «Se Dio è, l’Io non è».  Quindi il termine di riferimento è Dio, non il vero Assoluto, che nelle formule filosofiche tende a confondersi col ‘Signore’ al modo della figura del ‘Padre’ nella Trinità post-nicena.  L’Âtmâ d’altronde non è l’Uno, ma molto di piú.
(123)     Ib., p.50.
(124)     E. non intendeva usare troppo la parola ‘Dio’, onde non cadere in un dualismo di tipo teologico, lo si capisce bene.
  
 
N.B.-  Per chi volesse approfondire la questione fenomenologica, in Evola, preghiamo di consultare questo nostro articolo presso la Riv. on line 'Simmetria':

L'EVOLA ARTISTA, LETTERATO E FILOSOFO- II







b)     Il periodo futurista e dadaista in pittura e in letteratura (1916-22)

         Attenendoci strettamente all’autobiografia letteraria (12), dovremo dapprima fare un cenno agli esordi del N. in chiave pittorico-poetica.  Questi tuttavia non chiarisce bene in essa le basi della sua cultura artistica e letteraria, onde è stato necessario rivolgerci altrove al fine di delineare compiutamente il quadro generale delle influenze che i movimenti pittorici e letterari dell’Ottocento hanno determinato e le reazioni conseguenti alle stesse prodottesi nei primi due ventenni del Novecento.  
         Cosí come nella pittura futurista italiana di Buccioni, del Balla  e di E. (13)  si dissolve in chiave dinamica (14) quel mondo lunare fatto di candida semplicità e di terrena consapevolezza evocato dalla pittura verista e divisionista (15) di Fine Ottocento, esaltante la vita contadina e paesana che vanno scomparendo dinanzi alle gravissime conseguenze in campo economico-sociale dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione forzate (16), nondimeno col Dadaismo si disintegrano senza rimedio le allegorie poetiche ed i proclami storici del Tardo Romanticismo; votato non piú alla esaltazione nazionalistica ed eroico-borghese come il Primo Romanticismo, né al realismo storico-sociale di tipo balzachiano o flaubertiano come il Secondo Romanticismo, bensí alle familiari e provinciali immagini di carducciana o pascoliana memoria (17).
         Nel 1910, quando E. aveva solo 12 anni, fu sottoscritto da 5 artisti (Giacomo Balla, Carlo Carrà, Umbero Buccioni, Gino Severini e Luigi Russolo) – aventi quasi tutti (almeno i primi 4, che ne sappiamo) radici nel divisionismo di Fine Ottocento – il ‘Manifesto tecnico della pittura futurista’.  Il futurismo fu comunque un movimento fondato da F.T. Marinetti in chiave letteraria nel 1909 in Italia, ripreso nello stesso anno anche in Francia (ma solo nel 1913 G.Apollinaire propose un manifesto analogo, L’antitradition futuriste) ed in Russia, ove nel periodo 1911-4 sulla scia della pittrice N.S. Gonarova, del regista M.F. Larianov e del pittore K.S. Malevi influenzò anche il poeta V.V. Majakovskij.  E., in un articolo inedito inviato alla rivista ‘La folgore futurista’ e pubblicato postumo (18) distingueva due forme di futurismo: il primo (di tipo boccioniano) si era limitato, caoticamente, a deformazioni spaziali dell’oggetto; il secondo (di tipo balliano, cui l’a. stesso s’è appoggiato), più consapevole delle innovazioni estetiche, tendeva a forme maggiormente tecniche ed ordinate.   In generale comunque esso propugnò la libera espressione degli stati d’animo, sul piano letterario e su quello artistico, senza freni inibitorT di qualsivoglia genere; insomma, in una direzione apparentemente opposta a quella romantica, sebbene a ben guardare non fosse che l’espressione estrema d’un romanticismo a rovescio.  Sul piano sociale fu una reazione entusiastica d’impostazione neo-borghese, proponente a differenza delle due scuole che l’avevano preceduto nella seconda metà dell’Ottocento – il verismo ed il divisionismo (caratterizzati letterariamente l’uno dalla visione drammatica d’impronta aristocratica dei cd. ‘Vinti’ da parte del Verga e l’altro artisticamente dal divisionismo di tipo segantiniano, ispirato ai nuovi studi in campo ottico ma poggiante su una visione della natura di stampo idillico-popolare) – un’entusiastica accettazione anziché un velato rifiuto delle nuove tecniche di produzione economica.  Quantunque vi fossero differenze fra il futurismo nostrano e quello russo, che condussero gli aderenti a posizioni politiche antitetiche (evidenziate dal bellicismo nel primo caso e dall’antibellicismo nel secondo), i presupposti dei due paralleli movimenti culturali rimasero in fondo gli stessi: la celebrazione dell’<uomo nuovo> e di un <nuovo ordine> basato su una visione antipassatista del futuro.  Quest’ultima in realtà non è che la trasposizione in termini contemporanei e filo-tecnologici dell’utopismo liberal-socialista, di matrice massonico-settecentesca, sintetizzato nelle “magnifiche sorti e progressive” d’una celebre poesia leopardiana (19).  Sul piano pittorico, però, il futurismo fu una continuazione del cubismo di P.Picasso e G.Braque; come testimonia, difatti, il nome alternativo di ‘Cubo-futurismo’ assegnato al Raggismo russo.  Similmente al suddetto movimento franco-ispanico, il Futurismo aveva messo da parte la forma figurativa; ma, anziché dedicarsi ad un soggettiva scomposizione delle figure secondo un punto di vista anti-prospettico, preferiva svincolarsi da ogni verosimiglianza visuale e raffigurare soggettivamente forme novelle secondo il principio del ‘dinamismo plastico’.  Ad esso faranno vicendevolmente seguito l’astrattismo di V.Kandiskij (20), in cui la forma si dissolverà totalmente (seppur piú correttamente questa scuola la si dovrebbe porre in anticipo rispetto al Futurismo, facendola derivare dall’Espressionismo russo-tedesco) e la pittura metafisica di G.De Chirico; dove in incantate apparizioni le forme, ormai private delle loro naturali policromie, riacquisteranno solidità ancorché sul piano unicamente geometrico.
         In una recente tesi di laurea, semplice nella scrittura ma ben fatta, Claudia Tagliaferri ha considerato certi aspetti poco noti dell’E. futurista e dadaista (21).  Nonostante appaia chiaro a prima vista che l’immaginabile giovane età della candidata l’ha portata inevitabilmente ad una facile esaltazione dell’autorevole personaggio, con qualche ingenuità di troppo, non si può far a meno d’affrontare l’argomento senza menzionarne i risultati, di sicuro notevoli.  La Tagliaferri, con il necessario piglio accademico, analizza dapprima (22) gli sviluppi del Movimento Dada; nato attraverso la fondazione a Zurigo nel febbraio 1916 del ‘Cabaret Voltaire’, ad opera di T.Tzara, H.Boll et al., ma sviluppatosi poi con temi diversificati in Germania, in Italia, in Francia e negli Stati Uniti.  Senza contare i suoi influssi sul neo-dadaismo del Dopoguerra.  Nel giugno di quell’anno il Boll pubblicò Cabaret Voltaire, un opuscolo omonimo a tiratura limitata cui collaborarono collettivamente artisti e letterati di varia nazionalità e di scuole avanguardistiche differenti.  Le serate del Cabaret Voltaire, intanto, trascorrevano fra atteggiamenti dissacratorT ed assimilazioni di linguaggi artistici diversificati; sorta di prefigurazione dei metodi spettacolari delle avanguardie post-belliche, se non addirittura del linguaggio multimediale odierno.  Persino tecniche modernissime come quelle del fotomontaggio e della performance hanno avuto colà, parrebbe, il loro battesimo inaugurale (23).  Piú libertino che libertario, il Dadaismo – come dimostra la Tagliaferri – non è assimilabile né all’Anarchismo né al Nichilismo, rispetto ai quali deteneva una maggior carica ironica e dissacratoria verso i supposti falsi valori del passato.  Non è singolare che il di poi tradizionalista E. abbia di qui preso le mosse per la sua “rivolta contro il mondo moderno”.  Ciò lo hanno fatto anche altri prima e dopo di lui (non solo nelle arti plastiche od in quelle sonore, ma anche nella arti visive), che si son posti in un primo momento il compito da avanguardisti di portare alla massima esasperazione i mezzi tecnici a disposizione nel mutato mondo industriale, forgiato dalle arti meccaniche.  Salvo poi ricredersi e recuperare la sacralità insita nei veri valori del passato, riproposti in termini aggiornati e non piú ricoperti di quella patina polverosa che li allontanava dalla contemporaneità.
         Nuovi periodici in stile dadaista (Dada, 291, Cannibale, Bleu), contenenti inusuali progetti in campo artistico e letterario, fecero seguito fra il 1917 ed il ’22 alle ormai desuete riviste di stampo impressionista.  All’ultima citata collaborò anche il N., assieme ad altri dadaisti italiani e a Tzara medesimo.  Di contro all’ottocentesca art pour l’art, l’arte dada si proponeva lei stessa quale anti-arte senza mezzi termini.  L’idea di superamento dell’arte, in senso filosofico e platonico, che comparirà in E. nella seconda fase del suo periodo giovanile, ha probabilmente in questo rifiuto artistico le sue radici culturali.  Il metodo dadaista era anti-estetico, offensivo, sfrenato, privo di contenuti; accusava in modo insensato tanto l’arte avanguardistica quanto quella pre-avanguardistica, contro cui aveva incoerentemente l’atteggiamento del cuculo che immesso di nascosto in un nido altrui scaccia i piccoli della nidiata dei legittimi proprietari, di essere del tutto funzionali ai valori al sistema borghese.  Il proposito intimo consisteva infatti nella volontà irrazionale di azzerare l’arte del passato per ricostruirne una nuova.  Per questo i dadaisti adottavano forme e materiali inconsueti, accostati casualmente a quelli tradizionali per ottenere effetti immediati.  La Tagliaferri individua nel ready-made (lett. ‘ecco pronto’,  o meglio ‘già fatto’), l’oggetto d’uso comune estratto dal contesto abituale e presentato al pubblico dall’artista senza un proprio intervento manuale, il punto di partenza del Movimento Dadaista.  A tal proposito cita l’ormai famosa Fontana (in realtà un orinatorio ribaltato) di M.Duchamp, del 1917 (24), di cui altri ha fatto impudicamente e beffardamente copia.  E spiega, giustamente, che la concezione dada dell’<arte totale> partiva dal fatto che non era piú l’artista in quanto artigiano a modellare plasticamente l’oggetto artistico, bensì il poeta in quanto ideatore e ‘creatore’ nel senso greco originario (dal vr.poiéo = ‘fare, creare; inventare, poetare’) a proporsi quale “strumento di conoscenza e trasformazione del mondo”.  Si deve ricordare che utensili e suppellettili di tal tipo, ripresi in chiave neo-dadaista nella seconda metà dello scorso secolo, hanno fatto il bello ed il cattivo tempo nelle varie mostre della Biennale di Venezia, tanto da essere stati oggetti d’ilarità e satira cinematografica in un noto ed esilarante episodio filmico di Sordi alla Fine degli Anni Settanta (25).  Per questa via al limite dell’assurdo si è finiti alla trasformazione d’ogni oggetto quotidiano in oggetto d’arte ad opera di A.Wharol, od alle fialette di sangue d’artista e alle scatolette d’escrementi di P.Manzoni, come tanti altri colleghi guardacaso precocemente scomparso.  Però, al fondo di quest’atteggiamento apparentemente irrazionale vi è qualcosa di molto profondo, che lo storico delle religioni M.Eliade definiva “nostalgia delle origini” (26).
         L’interpretazione corretta dell’arte dada comunque, a giudizio della Tagliaferri, sarebbe d’intenderla come tentativo irrazionale di  colmare lo scarto fra arte e vita quotidiana; scarto che – aggiungiamo noi – non esisteva in tempi medievali, quando l’arte non distinguevasi dall’artigianato.  Col Rinascimento le cose cambiarono ed al tempo delle signorie il culto dell’artista da parte dei ricchi mecenati, sostituitisi nella committenza al clero od alla vecchia aristocrazia, ha portato di passo in passo giú per una china sino alla situazione dell’Ottocento; in cui è prevalsa la concezione romantica dell’arte per l’arte, disdegnata appunto dal Dadaismo.  Se il caso e l’improvvisazione l’hanno fatta da padroni nell’arte dada, sia in campo letterario che pittorico, lo dobbiamo al fatto che essa era concepita quale manifestazione della vita pratica.  In quei frangenti nasceva quell’idea dell’interazione spettacolare col pubblico, spinto a partecipare comunque all’evento e magari a scandalizzarsi, che a lungo ha solcato i palcoscenici delle nazioni europee durante il Novecento.  L’importante per gli artisti, o non-artisti che dir si voglia, era ottenere un contatto attivo da parte dei partecipanti alle mostre od agli spettacoli in un contesto per così dire multimediale.  
         Sottolinea con acume la Tagliaferri (27) che l’esperienza della Grande Guerra, “la disgregazione delle istituzioni di tradizione ottocentesca e le grandi trasformazioni sociali e politiche produssero un forte distacco dal passato”; tale mutamento non avvenne soltanto in campo storico e sociale, ma anche in quello culturale e artistico.  “Il movimento dadaista si basava proprio su un generalizzato atteggiamento di sfiducia e disgusto nei confronti della civilizzazione, minata dal persistere di una guerra che pareva non dovesse finire mai.”  La neutralità della Svizzera fece in modo che si creasse a Zurigo un’oasi di pace.   In Italia invece, c’insegna la Tagliaferri (28), il Dadaismo si scontrò col Futurismo, di cui in prima istanza fu considerato un’imitazione.  Evola gl’impresse una forte connotazione filosofica, come all’estero non aveva avuto.  Tanto che Tzara, già ammiratore di Marinetti, essendo stato impressionato dalla vivacità degli sviluppi dadaisti nel nostro Paese strinse rapporti cogli esponenti italiani del movimento; sì da trasformarlo, praticamente, in un scuola avanguardistica svizzero-italica.  Anche se i futuristi quali Prampolini, orgogliosamente, asserivano di essere stati degli anticipatori attraverso uomini come Marinetti e Boccioni di quel che Tzara spacciava per avanguardia.  Perciò, dal ’18 in poi, il poeta rumeno reagì contro questa pretesa, tagliando fuori i futuristi dalle prospettive del dadaismo, che ricevette dunque nuovi apporti a partire dagli Anni ’20.  A differenza del Futurismo, il Dadaismo italiano tralasciò l’ideologia progressistico-rivoluzionaria e con questa il modernismo a tutto spiano, cercando viceversa di rivalorizzare l’artigianato di contro all’industrialismo della cultura di massa. Sul piano del metodo mirò ad incoraggiare la libertà espressiva, privilegiando il senso dell’umorismo, messo da parte dai futuristi (29).  Vi furono naturalmente anche delle defezioni, col reintegro di certuni (Fiozzi e Cantarelli, esponenti del dadaismo mantovano) in posizioni di stampo futurista.
         In campo futurista la parte del leone l’avevano fatta Umberto Boccioni e Giacomo Balla.  La sfumata composizione del Boccioni intitolata La città che sale, del 1910, è un richiamo non meno dell’altrettanto stupendo Forme e rumori di motocicletta, del 1913 (30), al principio ispirativo delle forme dinamiche.  La prima composizione, con quel rosso acceso, sprizza scintille  di laboriosità e di voglia di edificare; la seconda risulta assai efficace nella cromaticità dell’abbinamento fra un verde scuro e un rosa pallido, tanto da ricordare la lezione divisionista.  Morto il Boccioni in guerra, attraverso il Balla l’azione futurista approdò verso nuove spiagge, delle quali ivi non ci occupiamo (31).
         Nel frattempo nacque una nuova scuola pittorica, prettamente dadaista, nel cui ambito primeggiò appunto il grande E. (32).  L’esperienza artistica cominciò per il N. a 17 anni, in piena guerra mondiale, un anno prima di quella poetica.   Grazie a G.Papini era entrato in contatto con Marinetti e con Balla, partecipando persino ad una mostra futurista; ma presto si distaccò da tale ambiente, a lui non esattamente congeniale per molte ragioni (33).  Non ultima la presa di posizione a favore della guerra, in funzione antigermanica.  Secondo un mercante d’arte che era stato un giorno in visita a Casa Evola (34) le opere pittoriche del pittore siciliano si dividerebbero in 2 categorie: una ispirata al cd. <idealismo sensoriale>, 1915-9; l’altra all’<astrattismo mistico>, 1920-1 (35).  In quadri come Five o’clock tea, (del 1917)(36), egli asserisce, la tematica dinamistica balliana si fonderebbe con quella cabarettistica severiniana.  Mentre nella Fucina studio di rumori (del ’18)(37), fa notare, riaffiorerebbero – crediamo da un punto di vista cromatico piú che compositivo – influenze del Blaue Reiter (38).  Le opere di spunto dadaista, essendo il mercante interessato secondo quanto spiegato in nota specificatamente al futurismo, non gli apparivano al momento degne di attenzione, pur accorgendosi istantaneamente che artisticamente E. aveva raggiunto una posizione di primo piano tanto a livello italiano quanto europeo.  Ma successivamente egli andò a trovare di nuovo il pittore e ne convenne con costui che il <secondo futurismo> accreditatogli in quel periodo dalla critica d’arte doveva interpretarsi semmai come arte dada, visto che questi in parallelo aveva sviluppato un discorso antifuturista pure sul piano letterario.  Durante il periodo dada, E. espose i proprT quadri in 2 mostre: alla Casa d’Arte Bragaglia di Roma nel 1920 – anno di adesione formale al movimento (39), ma già si situava in quell’ottica l’anno prima – presentò 3 sue opere in parallelo con G.Cantarelli, di seguito tornato al futurismo; alla Galleria ‘Der Sturm’ di Berlino, nel ’21, ben 60 (49).  A tal periodo appartengono composizioni quali Paesaggio interiore ore 10,30 (1918-20)(41) e Astrazione (1920-1)(42).  Opere quali Paesaggio interiore ore 17 (del 1918-20)(43) e Paesaggio dada n.1 (1920-1)(44) miscelerebbero, invece, intenti dada a opzioni costruttiviste (45).  In quest’ottica, l’atto di smettere di dipingere da parte del N. buttando “alle ortiche sei anni di lavoro e di ricerca pittorica” è stato giudicato “un estremo gesto dada”; poiché E. aveva scritto in precedenza, in un numero d’una rivista dadaista mantovana (46), che aveva fatto i suoi quadri per sola vanità individuale.  Similmente fecero De Chirico colla pittura metafisica 2 anni prima e Duchamp 4 anni dopo col dadaismo, il silenzio od altri linguaggT espressivi avendo preso il posto dei rispettivi periodi creativi ormai esauriti di tali artisti.

         Vi è unicamente da aggiungere che, a differenza dei due grandi storici dell’arte A.K. Coomaraswamy e H.Sedlmayr (l’uno occupatosi d’arte asiatica e l’altro d’arte europea), E. non è mai giunto neanche in età matura ad una teorizzazione realmente tradizionale dell’arte.  Il suo tentativo in tal senso è stato monco, in quanto pur abbandonando fattivamente il mondo artistico contemporaneo per i motivi che si è ora detto, non ha mai rinnegato la sua partecipazione all’arte futurista od a quella dadaista, né è giunto sul piano teorico ad una limpidezza di giudizio quale si riscontrano nei due grandi studiosi testé menzionati.  E, per contro, non ha neanche saputo rivalutare opportunamente l’arte contemporanea sul piano dei legami spirituali coll’arte orientale, tao-buddhistica (gli scorci naturali eletti ad immagine ultraterrena) da un lato ed indo-buddhistica (le astrazioni della forma scelte a significare qualcosa di veramente sovra-razionale) dall’altro.  Compaiono negli scritti artistici evoliani, esattamente come durante il successivo periodo filosofico, dei barlumi teorici sicuramente interessanti; ma il linguaggio nel suo insieme è, spesso, verboso ed inconcludente.  Parla di superamento della spiritualità comune, eppure i suoi suggerimenti in proposito paiono dei rapimenti idealistici di genere teosofistico verso nessuna meta reale.  Diversamente accadrà invece a partire dagli Anni ’30, specialmente dopo l’incontro con Guénon.; almeno, sul piano della rivalutazione dei miti e dei simboli in campo ermetico (47).  L’Alchimia fatta d’indecifrabili immagini lunari o di sovrapposizione alle forme astratte di emblemi come quelli del Mercurio o dello Zolfo – rimandi rispettivi alla Psiche e allo Spirito – che incontriamo in certi suoi quadri dada (48) è per ora solamente di superficie, un’alchimia coloristica.  Non basta per trasformare la cromaticità dell’artista in arte dal significato spirituale.  Tuttavia, la persistenza in tali composizioni del periodo d’astrattismo mistico di altri simboli alchemici (ad es. dei Tre Colori fondamentali dell’Opera)(49), sui quali si è dilungata preziosamente la Tagliaferri (50), dimostra che vi è uno stretto legame fra l’E. pittore e l’E. filosofo.  È qui che fa apprendistato senza dubbio lo studioso d’ermetismo, prima di cimentarsi a 33 anni (cifra fatidica!), sulla soglia della maturità, in quello che a nostro giudizio permane tuttora il miglior saggio del barone siciliano (51).
         In un’altra rappresentazione cromatica intitolata Composizione n.19 (52), un olio su cartone del 1918-20, troviamo la lettera A quasi ad evocazione del Fiat Lux primigenio (53).  Benché nell’ottica del barone, pensando a come si configurerà negli anni immediatamente a seguire la sua filosofia, rappresentasse soprattutto la centralità dell’Io (54).  La Tagliaferri (55), da quella brava scrittrice in erba che si rivela essere di già nella sua speciale tesi di laurea, spiega adeguatamente il passaggio evoliano dalle forme psicologico-pittoriche a quelle idealistico-filosofiche successive come un trascorrere inevitabile dall’arte al sapere senza soluzione di continuità.  Il problema di cui la dottoressa non tien conto, tuttavia, è che si passa da un soggettivismo ad un altro; con coerenza, è chiaro, ma l’interiorità palesata è soltanto psichismo (56) e la vera spiritualità rimane in ogni caso lontana.  Tant’è che, come sottolinea il Giovannini, E. si stancherà anche del secondo futurismo.  Ciononostante, è lecito sottolineare (57) che questi non s’abbassa mai nei suoi quadri a delle rappresentazioni puramente descrittive o sensoriali alla maniera d’altri futuristi, neanche quando tratta di fucine, scintille e rumori, alludendo sempre invero agli sconvolgimenti interni della psiche.  L’ennesimo punto a favore della Tagliaferri (58) è inoltre la constatazione in una rappresentazione quale Five o’ clock tea dell’influenza, soprattutto a livello cromatico, dello stile secessionista viennese (59) e considerate le amicizie austriache (60) del N. la cosa si spiega perfettamente.  Volendo essere caustici a tutti i costi e rifacendoci a Sedlmayr, potremmo aggiungere ad ogni modo che il <mondo in disordine> ritratto dall’arte contemporanea del Primo Novecento se da una parte ha rispecchiato il caos prodotto da guerre e rivoluzioni, dall’altra ne ha preparato ulteriore.  Si potrebbe addirittura vedere negli sconvolgimenti delle forme dell’arte cubiste, astrattiste, futuriste e dadaiste, oltreché uno specchio di come l’uomo ha ridotto madre-natura nel paesaggio europeo nello scorso secolo tramite l’industrializzazione massiccia e le guerre tecnologiche, un vero e proprio programma sia pur inconsapevole di demolizione d’ogni logica razionale.  L’irrazionalismo, al massimo livello, è il vero trionfatore del Novecento.   E. ha spiegato il Dadaismo come la maggior avanguardia del XX sec. ed in effetti è giusto così.  Neanche dopo si è andati molto oltre, tant’è che dagli Anni ’60 in poi è stata ripresa una forma di neo-dadaismo.  Quale sia stato il traguardo reale del movimentismo novecentesco oggigiorno lo si capisce bene, aldilà della cura maniacale con cui si preservano (non nel nostro paese, disgraziatamente…) gli oggetti d’arte negli enti museali: la distruzione finale dell’arte, non in vista d’un arte nuova come pretendevano ciascuno dei movimenti artistici con fremito susseguitisi uno all’altro, bensR di una società in cui l’arte appare solo un ricordo del passato.  Se sia questo il passo necessario – come personalmente crediamo – verso la nuova società utopica sognata da Platone nella Respublica, senza appunto l’arte in quanto non piú necessaria ad un’umanità ritornata per incanto ciclico perfettamente naturale al modo di quella dell’Età Aurea, oppure qualcos’altro d’inatteso, solamente il futuro divenuto presente potrà svelarcelo.    
         Per conto nostro abbiamo indi esaminato per intero lo scritto dadaista per eccellenza dell’a., Raâga Blanda, ossia la prima opera letteraria evoliana in assoluto (61).  La scena s’apre a dire il vero con un accostamento di tipo post-impressionista, un malinconico “giardino d’inverno” (è il titolo della prima poesia) su cui si riversa il sole coi suoi pallidi raggi mentre passeggia un adolescente, ma il linguaggio impiegato privo della comune sintassi è tipicamente dada.  È tutto un gioco poetico di ombre e di colori, di viottoli ed anelli contorti, portato all’eccesso senza ritegno: in ciò consiste la nuova moda, lanciata prima dall’espressionismo e poi portata ad esasperazione dal dadaismo.  Ancora espressionistiche – se non addirittura münchiane – sono le “larve nere” (evidentemente gli addetti ad accendere i lampioni) di Vespro, la seconda bellissima poesia, moventisi “per le strade dei sobborghi”; intanto che il cielo, “di un livore cianotico”, viene “graffiato dalle rapide traiettorie fischianti delle rondini.”  La terza composizione poetica, Mare al pomeriggio, tratteggerebbe invece se non fosse per il linguaggio altrettanto iperbolico contorni impressionistici.  Trionfano musicalmente “calma e silenzio”, mentre sulla spiaggia l’onda espelle “bave bianche”.  Addirittura divisionista o neo-simbolista (62) appare Prato nel parco, la quarta magnifica poesia degli Schizzi (e cioè della prima breve raccolta di versi contenuti nel poemetto), dichiaratamente – è menzionato in conclusione “un dipinto giapponese fresco e tutto luce” – ispirata a paesaggi esotici estremo-orientali (63).  In contrasto ai bimbi festanti, che corrono di gioia, si staglia sul fondo “una vecchia fontana beghina; la quale pare essersi isolata, chioccolando “sommesse litanie gorgoglianti”.  Il sottile e compiaciuto erotismo adolescenziale con cui s’avviano al termine i versi privi di rima di questa poesia (“il fascino chiaro sotto la vestina rossa di due gambette lunghe esili” che turba la serenità del poeta) riecheggerà in altri momenti analoghi ma piú maturi che traspariranno nella parte finale della composizione n.4 di Stimmungen (Stati d’animo): “Tu sei vicina strana cosa viziosa/(64) tu attendi distesa le mie mani che ti liberino delle vesti per offrire lunghe carezze al tuo giovane corpo nudo”.  Una prefigurazione soft, quest’ultima, di strani sviluppi futuri, a giudicare da Ballata in rosso (vide infra) e da certi esiti dello studio sulla sessualità condotto negli anni della maturità (65).  La quinta poesia,  ‘Notte’, come il resto della raccolta prosegue con quei tratti pseudo-naturalistici divenuti rari piú avanti nella poetica evoliana, tipicamente futurista o dadaista.  In una lugubre visione “una luna da tregenda” è vista rotolare “veloce sulla collina nuda tra nubi tragiche” ed il vento, sciabolante orizzontalmente, sibila “la sua ira galoppante.”  Gli fa eco l’albero, scuotente “a scatti convulsi da torturato la sua capigliatura”; diversamente dalla croce nera, che rimane “immobile al sommo dell’erta.”  E.Valento (66) l’ha posta intuivamente in relazione ad un’insolita rappresentazione pittorica ritrovata in una rigatteria negli Anni ’80 e riportante la data del 1918.  Tale opera, un olio su tela attribuito successivamente al periodo 1916-8, è stata definita come altre del medesimo tenore ‘Tendenze di idealismo sensoriale’; nell’opaca nebbia autunnale, tinteggiata di colori tenui – tanto da sembrare dipinti ad acquerello – che variano dal bianco al rosa od al verde marcio, s’intravedono a stento un albero spoglio e una nuvola stemperati in un paesaggio slavato che non è del tutto forzato far rientrare nei modi dell’arte espressionista.  Se è vero che il canone di questo stile fin dapprincipio era quello di liberarsi da una visione esclusivamente fenomenica della realtà esteriore, onde cercare l’essenza profonda della medesima.  Era merito degli espressionisti infatti “riattingere… ad una soggettività non alterata” (67), benché confusa buddhisticamente col proprio essere originario; ossia colle “oscure radici del reale, là dove più non ha senso l’intellettualistica distinzione fra soggetto ed oggetto”.    
         Ciò che accomuna quadri (68) e poesie dell’a. ci sembra sia l’utilizzo ipertrofico del colore.  Gli astratti equini (69) ritratti da tale poetica, appare chiaro, non sono piú né i corsieri lunisolari delle vecchie mitologie (70) né le splendide bestie ancorché desacralizzate trainanti le eleganti carrozze cittadine (71) o i poveri carri agricoli (72) della pittura del Settecento e dell’Ottocento; tali mezzi stanno entrambi per esser sostituiti del tutto da quelli di locomozione meccanica, onde i cavalli vengono ridotti a simbolo romantico-decadente dei grandi moti dell’anima (73).  Un altro motivo campeggiante fra i versi è la contrapposizione alla vitalità naturale, in precedenza esaltata dalla poesia tardo-romantica, di un’atmosfera di morte e di desolazione (frutto evidente d’una partecipazione, sia pur distante, alla I Guerra Mondiale) tratteggiata mediante simboliche tonalità in BN.  Ivi s’inseriscono le immagini sbiadite – il poeta le chiama “esiliate” – del “poker sulla tavola presso la stufa” o del “grammofono rauco in un angolo” in Baracca alpina al fronte; “talvolta scivolavano fra le fessure assurde evasioni”, oppure “partivano carovane per lontane mète”.  Si menzionano altrove teschT e labirinti, annegati e cadaveri varT, veleni e malattie, campi abbandonati e deserti, notti ed oscurità, ecc.; con avvicendamento d’immagini celesti, ma non celestiali (74).  Da tutto ciò la Terra colle sue gioie è completamente assente, se non attraverso pochi barlumi di sensualità, anche questi tuttavia in prevalenza annientatori della serenità interiore.   Vi è unicamente nella caverna delle munizioni, per contrasto, un vago accenno ad un’amata (75): “Egli cammina calmo ma vi debbono essere rapide spirali nella sua anima perché dalla vòlta pesi immani potrebbero precipitare allo spezzarsi d’un tenuissimo filo.  Egli pensa alla sua amata/ ma la gialla gioielleria dei bossoli incatena il suo sguardo.”   Ci sarebbe piaciuto analizzare infine il poema a 4 voci, in francese, La parole obscure d’un paysage intérieur; ma, sfortunatamente, non disponiamo d’alcuna copia di esso nella nostra biblioteca personale.  Leggiamo ad ogni modo dall’autobiografia che il poema dadaista è stato oggetto di recitazione in un cabaret romano (76), prima di cui l’a. spiega a suo modo il background culturale individuale e trans-individuale nel quale è sorta la sua categoria pittorica, teorizzata peraltro nel manuale di Arte astratta del 1920 (77).  Sta di fatto che dopo il 1922 E. afferma d’aver abbandonato completamente poesia e pittura e di essersi dedicato nel contempo alla filosofia e alla misteriosofia.  Indubbiamente ciò che afferma dell’arte futurista e del dadaismo traccia un quadro chiarissimo dell’epoca durante e dopo la I Guerra Mondiale, degno di quel grande scrittore che è sempre stato, indipendentemente dal fatto che si condivida o meno il suo pensiero.  Poiché il tempo è passato è impossibile non accorgersi che la fine subita da quei movimenti, allora assai innovatori  ed in seguito divenuti stereotipati, è la fine inevitabile d’ogni moda; la quale al suo sbocciare, ci appare molto all’avanguardia, ma poi pian piano assume una coloritura stanchevole (78).
         Tornando a Raâga Blanda, c’è però all’interno dell’antologia una poesia dal significato oscuro o forse addirittura perverso, alludiamo a Ballata in rosso.  Ha attratto la nostra attenzione per il contrasto del colore menzionato nel titolo col BN generale in cui è avvolta l’atmosfera dell’intera raccolta.  A parte gli Schizzi, già esaminati.  Come in tutte le altre poesie il verso è libero, senza rima alcuna, ondeggiante nella vacuità d’una sintassi slegata ove i segni d’interpunzione latitano.  Spazi che s’interpongono irrazionalmente fra un verso e l’altro, quasi a sintetizzare un indugio del comunicatore; o meglio nessun verso, le frasi fluttuando al pari di oggetti in assenza di gravità.   Private di peso le parole levitano, fra minuscole e maiuscole a casaccio, ma verso quale méta?  Chiaramente verso il Mondo Intermedio, anziché quello Celeste.  Quivi si  accenna vagamente ad un rito, un rituale nero tuttavia, senza alcuna ipocrisia: “questa sera il rito vi spezzerà (aspergono ora di petrolio l’alta cattedrale…”).  Un cerimoniale senza dubbio inquietante, già a giudicare dalla presentazione del tema, con mezzi moderni e sinistri (il petrolio coi rituali veri c’entra poco…): «Perché ora siete in mio potere/(79) vi hanno portata nella piccola sala chiusa dinanzi alla mia indifferenza seduta.»  A chi si fa riferimento, ad una prostituta d’alto bordo?  Perché dovrebbe allora essere in potere del suo occasionale amante?  Le prostitute in quanto tali non partecipano ai cerimoniali, si tratta evidentemente d’una femmina adatta al rito citato, forse una sacerdotessa oppure una vittima sacrificale.  In un rito, comunque, chi vi partecipa non ostenta indifferenza e non ha potere sulla sacerdotessa di turno per un atto sessuale con valenze magiche.  Semmai è il contrario.  Abbiamo di fronte in tutta evidenza una femmina qualsiasi, non una sacerdotessa, portata nella saletta chiusa a forza.  Altrimenti il poeta avrebbe detto ‘condotta’, non ‘portata’.  Francamente si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una giovane femmina, insomma una minorenne.  La minore età d’altronde, a quel tempo, arrivava oltre gli attuali steccati.  Quantunque l’aristocrazia abbia sempre avuto l’abitudine di svezzare sessualmente i proprT rampolli colle giovani fanciulle del popolino, sacrificate all’uopo (80).  Sacrificate?  Beh, un conto è lo svezzamento sessuale, un conto la violenza pura e semplice.  Qui, ci spiace doverlo sottolineare, pare d’essere dinanzi al secondo caso.  Insomma, ad un rito di sottomissione, che è altra cosa.  Lo conferma quanto segue: «il vostro sguardo che mi vuole ignorare/ non potrò nascondere…/ angoscia».  Se la femmina non partecipa al rito è senz’altro una succube, non c’è via di scampo.  Il significato preciso è dissimulato da altre parole inframmezzate, qui omesse, per fare risaltare meglio il fraseggio riportato.    L’angoscia è di chi teme d’esser violentata, o persino sacrificata, non d’una prostituta o d’una semplice giovinetta che teme l’incontro amoroso od aborrisce il rapporto con uno sconosciuto.  Procediamo nell’analisi, con cautela: «con un ordine breve vi farò denudare/ lampo dei vostri occhi/ sdegno/vana rapida lotta/ …dalla seta nera stracciata fioritura brusca …seni nudi e adesso giú/ …strappare giú fino al segreto del vostro essere oscurità chiusa fra le vostre cosce/ giú  tutto fino a terra.»  Non c’è dubbio che dal punto di vista erotico E. era straordinario nel creare in breve colle parole atmosfere ed ambientazioni, non per caso era nato con Venere in Gemelli, vale a dire nel domicilio di Mercurio.  La descrizione a seguire mostra comunque che non si tratta in realtà d’un vero rapporto sessuale, né probabilmente d’una minore.  L’«indifferenza seduta» continua.  Pare uno spettacolo pornografico preso senza il consenso della malcapitata.  A questo punto subentra una sorta di lotta psicologica fra la femmina nuda e chi la guarda, che sente interiormente d’esser conquistato dal “magnetismo subdolo acceso dalla sua nudità sovrana in quella piccola sala chiusa” [cors. dell’articol.].  E che, in certo senso, è lui per qualche po’ a sentirsi la vera vittima di quell’attrazione fatale; tanto da asserire che “nell’estrema inane profanazione sua ella gusterà un sottile trionfo”.  Sul maschio, è ovvio, che non resiste all’attrazione delle forme naturali.  In ciò, occorre ammettere, il poeta è magistrale nella sua iperbole.  Parla d’un rito, certo perché usava ripetersi di volta in volta, magari colla stessa oppure con un’altra posta in condizioni similari.  Forse addirittura sempre colla sua femmina preferita.  Non per quel che temevamo leggendo, può darsi che ci sia stato da parte nostra un falso allarme.  Leggiamo ancora in dettaglio (a capo): «Ma io ti farò frustare».  Dunque non ci sbagliavamo, trattasi di sadomasochismo, se non proprio di luciferismo.  Procediamo: «Ora vi avrò dinanzi legata alla parete/ …nudità del dorso con le braccia che i due polsi legati manterranno allargato in alto nella U di una irrigidita evocazione/ guizzo elettrico/ grido/ …primo sfregio violaceo».  La ragazza o le ragazze, non ci sono piú dubbT, erano vittime di soprusi basati prima sulla denudazione forzata a scopo libidinoso, poi di torture ripetute a mezzo di scosse elettriche graduali, tali da provocare piacere nel guardone sadico di turno.  L’a. difatti proclama: «berrai, berrai, dalla rossa vertigine che ora si accende».  Non stiamo a capire cosa sia esattamente cotesta vertigine, se sangue che scorre dalla vagina della poveretta oppure un fuoco che s’accende nel vile spettatore, il quale oltretutto non osa guardare la sua vittima se non di schiena.  Sappiamo solo che cominciamo ad essere disgustati nel profondo dal testo e dal tema.  Non sappiamo quando la poesia sia stata composta di preciso, ma ricordiamo che ci troviamo all’incirca nel periodo della Prima Guerra, non nel periodo nazista.  Qui – sarà bene esser precisi al riguardo – termina la nostra ammirazione per E., che sempre ci ha accompagnato negli anni giovanili ed oltre.  Ce ne dispiace, ma non si può farne a meno, a rischio di esser complici morali di gravi soprusi.  La scossa è stata quasi fatale, dato che il N. aggiunge: «poco ancora si terrà la difesa dell’ultima vostra fierezza contratta».  Ed ancora di seguito: «brividi brividi correranno sulla vostra carne sussultante/ in crescendo/ fino al crollo aspro sgretolamento che inghiottirà l’intangibilità della vostra nudità inerme/ grido sotto ogni nuovo colpo che la solcherà con cadenza inesorabile sotto ai miei occhi».  Signori, questo è il maestro della Tradizione in Italia!  Tradizione sì, ma quella della scuole di magia nera, che va sotto il nome di Oto o consimili!  Già evidentemente il N. aveva preso contatto con esse, forse con un ramo secondario.  Difficile argomentare, in assenza di dati precisi.  Chi sono le “pantere oscure acquattate” che “balzano… a turno per l’unghiata rovente”, provocante il grido finale, in altre parole un sussulto di morte?  Lo spettacolo raggelante, estremamente sadico e criminoso, pare suscitare nel poeta dal tono glaciale come lo spettacolo penoso descritto un’ebbrezza assoluta.  È così che è cominciata la storia del tradizionalismo nostrano nel Novecento?  Forse c’è di meglio.  Fiumi di parole ricercate buttate al vento dinanzi all’inanità, questa sì, del pensiero evoliano giovanile: “fuoco gelido che m’invade” e “salendo dal basso si impasta col vostro strazio/ corre rapidissimo a fianco di esso” per berlo come “tossico vino”/ in grandi ritorni di fiamma per ogni vostro nuovo grido”.  Gli spasimi  della poveretta – lui li chiama “il turbine vermiglio” – sono motivo d’eccitazione plurima per il poeta.  Lasciamo il giudizio al lettore (81).  Per chi avesse frainteso o non avesse ben capito la reale portata dell’orrido cerimoniale, pone a suggello parole chiarificatrici: «continua continua il rito nero dinanzi all’occulto altare scarlatto un brano dopo l’altro».  Ivi non è ben chiaro.  Sembrerebbe che la vittima dopo esser stata sacrificata sia stata sbranata pezzo per pezzo con coltelli rituali (”le unghiate delle pantere oscure”) da parte degli astanti, dapprima negli angoli, crediamo per consumarne le carni liturgicamente.  Adesso abbiamo capito bene perché mai la fanciulla fosse contraria al rito, dopo esser stata portata là e rinchiusa in una saletta adibita alle messe nere.  No, il finale ci riserva nuovamente delle sorprese.  Niente di quanto appena congetturato. Le unghiate erano solo delle ferite, ma non paiono esser risultate fatali.  Il corpo della fanciulla rimane appeso inerte «senza voce senza moto/ ancora nella grande U delle braccia bianche distese legate nella crocifissa invocazione».  Dopodiché il testo prosegue, gelidamente: «vi staccheranno/ vi distenderanno su un grande velluto nero/ e solo allora nell’etere che vibra sempre del vostro spasimo mi alzerò pallido sovrano/ mi curverò sulla vostra nudità ancora sussultante/ sul vostro volto scolorito… i vostri occhi semichiusi perduti / per prendervi la bocca/ per suggere il respiro ansimante della vostra amica bianca/ del vostro essere quasi senza coscienza (82)».  Facciamo comunque notare che il ratto del respiro è il ratto dell’anima compiuto nelle messe nere dai luciferiani, ma qui dovremmo parlare di satanismo vero e proprio, poiché abbiamo a che fare chiaramente colla Via di Sinistra; appunto nella versione illecita magico-satanica e non in quella lecita gnostico-libertina (83), che è altra cosa e anche quando giungesse al sacrificio rituale della vittima non lo farebbe certo per sadismo, ma semmai per rimandarla agli stati superiori d’esistenza.  In conclusione il demonico poeta (non ci resta che chiamarlo così) riporta ad epitaffio, compiaciuto, quanto segue: «Questa è la mia ballata rossa per voi stasera».
         Abbiamo un’opinione conclusiva in merito alle fine di tali poverette, ma preferiamo palesarla allorché esamineremo nel pross.art. le opere della maturità.  Non stiamo per ora a chiederci perché E., il grande E., da giovane sia caduto tanto in basso.   È successo a molti, persino a Donna Luisa (la consorte di Coomaraswamy), di commettere l’errore di cadere nelle magnetiche grinfie crowleyane.  Sempre che si tratti di questo, il contesto è talmente labile da non poterlo affermare con certezza (84).  L’importante, in ogni caso, è tornare sui propri passi e procedere verso un innalzamento degl’ideali personali.  In fondo parliamo d’un periodo in cui si scatenò quella vicenda tremenda che fu la I Guerra Mondiale.  Certo, non si può dire che E. abbia iniziato bene la scalata verso le vette spirituali.  Non è per fare i moralisti.  Tutti abbiamo i nostri scheletri negli armadi.  Può anche darsi che E. sia stato vittima d’un ambiente generale perverso perdurante da secoli presso i rami cadetti dell’aristocrazia, quello che ha condotto al falso tradizionalismo del nazifascismo di lí ad un decennio circa, ma la compiacenza di cui si è sempre vantato in seguito nei confronti delle cd. ‘rivoluzioni conservatrici’ testimonia che egli – così come altri che ne hanno seguito pedissequamente il pensiero – non aveva ben chiaro quale fosse il ruolo vero giocato da ogni tipo di rivoluzione, di destra o di sinistra che fosse.  Oppure ce l’aveva (non lo crediamo…), allora in questo caso il giudizio riguardo lo scrittore dovrebbe esser ben peggiore.  Non si può ragionare, d’altronde, col senno del poi.  Il problema è che quanto descritto è estremamente grave, oseremmo dire criminale.  E la compiacenza del gesto è peggio del gesto stesso.  Forse si può capire allora perché mai il testo in nostro possesso, pubblicato da parte delle ‘Edizioni del Sole Nero’ (sic!), sia stato stampato ad Amsterdam; ed abbia nel suo indice, guardacaso, Il Morto di G.Bataille e Cento incisioni d’epoca per illustrare Sade.  Anche se, per la verità, in tal modo non fa parte fortunatamente delle opere ufficiali menzionate dell’a. (85).  Tanto che ci siamo chiesti, onestamente parlando, se non fosse il caso di passarla sotto silenzio; ma, dato che in fin dei conti non l’ha fatto E., ci pareva giusto non farlo neppure noi.  Rimane la possibilità ultima che si tratti di semplici fantasie, ma in ogni caso il valore simbolico dell’atto perdura egualmente.  Sarebbe ridicolo spacciare una cosa del genere per dadaismo.  Non ne ha il carattere.  Eppure altri (86) ha voluto esaltare i versi in questione, passando sopra alla chiara menzione del petrolio, dei fili elettrici ecc.  Che dire?  Rimaniamo sconcertati.  Non crediamo sia questo il modo giusto per affrontare un discorso critico.
         Il poema prosegue con immagini in tipico stile futurista, simbolista o dadaista: un guerriero d’acciaio fra i nembi, vita legnosa fra le gibbosità di stufe, deserto rarefatto, la pioggia calda sulle monache (87), grande noia sospesa fra la nebbia, una canzone che si sveste dalla seta, un fiore in lontananza, orchidee di sangue nell’oro, l’automa nel bianchissimo mezzodì, le costellazioni davanti agli altiforni, 966 [>666, dato che ritorna piú volte ossessivamente] follia, il dio che si apre le vene (?).  Si ripete per giunta, fra le righe, la menzione del “gran serpe Ea”.  Si afferma che “l’umanità è merda, i sentimenti blenorragia dell’anima”, si cita Napoléon, concludendo alfine: “è la morte che ci dona il maggior piacere” (quest’ultima parte tutta in francese).  Tutto perfettamente coerente, pur di richiamarsi al pensiero degl’Illuminati.  L’a. è rimasto legato a codesta confraternita deviata per tutta la vita?  Se le cose stiano veramente così o meno lo vedremo nei prossimi 2 articoli, dedicati agli scritti dell’età matura e dell’anzianità.  Per il momento, al fine d'esaurire l’analisi degli stimoli della giovinezza, ci occuperemo del periodo filosofico.   


Fig.1-  V.Kandisky, Il Cavaliere Azzurro (1903)  

Fig.2-  F.Marc, Grandi cavalli azzurri (1911)

Fig.3-  J.Evola, Tendenze di idealismo sensoriale (1916-8)

Fig.4-  J.Evola, Five o'clock tea (1917)

Fig.5-  J.Evola, Fucina. Studio di rumori (1917-8)
Fig.6-  J.Evola, Sequenza dinamica. Etere (1917-8)
                        
Fig.7-  J.Evola, Mazzo di fiori (1919)

Fig.8-  J.Evola, Composizione n.19 (1920 c.)



(12)     J.Evola, Il cammino del cinabro- Ed. all’insegna del Pesce d’Oro, da V.Scheiwiller, Milano 1972; I ed. 1963.
(13)     Vide s.v. FUTURISMO, Wikipedia, on line. 
(14)     Mercurialmente, oseremmo dire.
(15)     Nel verismo italiano si era manifestata una tecnica pittorica visibilmente ispirata alla prosa poetica di stampo verghiano, basata sulla “santità del vero” ed esaltante liricamente gli umili quale classe sociale vicina alla semplicità della natura, in cui i mali del vivere contemporaneo erano rimasti ancora allo stato elementare e proprio per questo facilmente rilevabili ad un occhio attento; mentre col macchiaiolismo toscano di T.Signorini nonché col divisionismo norditalico di G.Segantini, G. Pellizza da Volpedo e del teorico G.Previati (autore, rispettivamente nel 1.895 e nel 1.905, di Memoria sulla tecnica dei dipinti e La tecnica della pittura), non troppo diversamente da quanto era accaduto in Francia col neo-impressionismo di P.Guaguin o col puntinismo di G.Seurat e P.Signac (sfociato alfine nel fauvismo di H.Matisse), avvenne una scomposizione tonale del colore sulla tela preludente alla scomposizione figurativa del cubismo.  In maniera non troppo diversa è stata raggiunta un’ipertrofia del colore in ambito espressionista da parte del grande pittore olandese V. Van Gogh, figlio d’un pastore protestante e cultore di stampe giapponesi, o del norvegese E.Munch; fino all’eclissi della figura immediatamente susseguente, proposta in prima istanza dall’aridità astrattista e portata a termine alfine dalle macchinazioni futuristiche.  Non è comunque un caso che pittori divenuti famosi in campo futurista quali U.Boccioni, G.Balla e C.Carrà provenissero dal settore divisionista prima del passaggio alla nuova tecnica pittorica del secondo decennio del Novecento.  Egualmente in Francia il pre-impressionismo manetiano era sfociato dapprima nell’impressionismo monetiano, poi nel neo-impressionismo guaguiniano ed infine nel tardo-impressionismo matissiano, strettamente apparentato in realtà al puntinismo seuratiano.
(16)     A differenza dell’impressionismo, esaltante la vita borghese e cittadina.  Tutti i movimenti menzionati non vanno comunque contrapposti a seconda della posizione sociale, il domicilio di appartenenza o le idee politiche proprie.  Ogni movimento artistico e letterario allorché sorge costituisce sempre una novità positiva ed inizialmente segue percorsi d’avanguardia, ma poi inevitabilmente si fa stucchevole,  assumendo posizioni di retroguardia.  È la natura delle cose.  Vana è dunque la pretesa di E. & C. che Futurismo e Dadaismo abbiano raggiunto il massimo dell’avanguardia.  Non è vero, astrattismo a parte, hanno semplicemente raggiunto il massimo livello di dissoluzione delle forme.  Dunque il Decadentismo, nel quale essi nell’insieme rientrano unitamente agli altri movimenti artistico-letterarT di Fine Ottocento e del Primo Novecento, costituisce in certo senso il punto d’arrivo finale del Romanticismo; che sempre ha privilegiato lo stato d’animo e la suggestione al pensiero razionale.  E ciò non implica, di conseguenza, una rottura di livello in senso superiore, poiché il Caos – E. lo sapeva bene – possiede 2 facce, una rivolta verso il basso e l’altra verso l’alto.  Il che si può dire anche per le forme.  Dunque il dissolvimento formale s’applica solamente sul piano orizzontale, non su quello verticale, l’informale essendo una trascendenza spirituale delle forme e non una loro tragica dissoluzione a livello psichico.
(17)     Nella poetica del Tardo Romanticismo va distinto un filone nazionalista e sanguigno rappresentato nella nostra penisola da G.Carducci ed in campo europeo da L.Tolstoj, avendo il romanzo sociale russo superato in valore letterario i corrispondenti romanzi francesi ed inglesi (Haus., op.cit., P.IX [n.num.], Cap.III, p.371), rispetto ad un altro filone simbolista ed allusivo; quest’ultimo viene esemplificato in Italia da G.Pascoli e G.D’Annunzio, in Europa (valendo pure qui lo stesso summenzionato ragionamento) da F.Dostoevskij.  Il filone carducciano-tolstojano si ricollega in parte al Primo Romanticismo, in parte al Secondo; mentre il filone pascoliano-dannunziano rientra, propriamente, nel Decadentismo.     
(18)     Ouverture alla pittura della forma nuova, cit. in C.Tagliaferri, Julius Evola e il Dadaismo- Univ. ‘La Sapienza’, Fac. di Lett. & Fil., tesi (rel. Prof.sa Ilaria Schiaffini), Roma 2010-11, Cap.III. 2, p.43, n.53.
(19)     G.Leopardi, La ginestra, vs.51 (ispirato ad una dedica del cugino, il sen. T.Mamiani della Rovere).
(20)     W.Kandiskij non per niente ha preceduto anche teoreticamente il manuale d’arte evoliano (Arte astratta- Maglione e Strini, Roma 1920), pubblicando già nel 1908 il suo Abstraktion und Einfühlung, cui sono seguite altre opere sullo stesso argomento dell’introduzione della spiritualità nell’arte; la principale è Über das Geistige in der Kunst, del 1910, in cui postulava i principi basilari dell’astrattismo .       
(21)     Tagl., op.cit.
(22)     Tagl., cit., Cap.I sgg.
(23)     Il tradizionalista H.Sedlmayr in Perdita del centro (Ed.Borla, Bologna 1967 e poi Rusconi, Milano 1974; ed.or. Verlust der Mitte- O.Müller, Salisburgo 1948), P.Prima, Cap.V, pp. 169-77, traccia una linea di decadenza ben diversa accusando nell’insieme i movimenti artistici del Tardo Ottocento e soprattutto quelli del Primo Novecento d’infernalismo programmato.  Scrive in proposito, con consumato mestiere (ibid., p.173): “L’inferno era un tempo contenuto in una zona limitata di fronte al Tutto sensibile. Ma, come nel secolo diciannovesimo lo splendore del mondo ultraterreno si riversò tutto a guisa di luce naturale su ogni cosa terrena e trasfigurò, alla fine, anche un mucchio di fieno in uno splendore celeste [vedi Tardo Impressionismo e Divisionismo, N.d.A.]…; così le visioni angosciose del limbo e di tutti i gironi infernali irrompono ora, all’insaputa dei loro esorcisti, nella realtà, compenetrandosi in essa.  L’elemento notturno, pauroso, morboso, molle, morto, putrefatto e sfigurato, il tormentato, dilaniato, ottuso, osceno, l’invertito, il meccanico, tutte queste sfumature, attributi ed aspetti di ciò che non è umano, si impadroniscono dell’uomo, del suo ambiente familiare, della natura e di tutte le manifestazioni.  Essi trasformano l’uomo in un rudere e in un automa, …in un cadavere e in uno spettro...; essi lo dipingono brutale, crudele, abietto, osceno, mostruoso, meccanico.  In diverse combinazioni della pittura… compare l’una o l’altra combinazione di questi tratti antiumani, dove in sostanza dominano, nel cubismo la morte, nell’espressionismo il caos ardente, nel surrealismo la fredda demonìa del più profondo gelo infernale.”  Non dice nulla al momento della pittura futurista e di quella dadaista, ma aggiunge più innanzi (ib., p.174) che “tutti questi «-ismi» (sfuggenti alla realtà superiore), dal futurismo sino al surrealismo” appaiono a ben vedere “espressioni – diverse solo in superficie – delle medesime forze generatrici…”  In sostanza, quel che rimprovera Sedlmayr all’arte contemporanea (Cap.III, pp. 116-23) è d’aver provocato la fine dell’iconologia e la morte dell’ornamento; l’una sminuisce il significato dell’oggetto artistico e l’altra affievolisce se non cancella del tutto l’aspirazione alla purezza.  Lo storico ci spiega inoltre, anche se non siamo completamente d’accordo (cfr.n.3), che nel’Ottocento è cominciato quel processo di smembramento dell’unità delle arti in generale e della singola composizione artistica in particolare il quale porterà alla formazione dei complessi museali mediata dagli antiquarT, favorendo in questa maniera una concezione frammentaria dell’arte tendente a favorire in definitiva la separazione del contenuto dalla forma.          
(24)     Tagl., cit., Cap.I, § 2, p.10.  La rappresentazione è riportata alla fig.1, ma la datazione in questo caso è 1916.  Occorre ricordare che, non meno di tanti altri artisti della sua epoca, anche M.Duchamp passò attraverso il battesimo dell’impressionismo prima e poi del futurismo, allorché si accorse che quest’ultimo altro non era che “impressionismo in campo meccanico”.
(25)     Si trattava de Le vacanze intelligenti, terzo ed ultimo episodio del film Dove vai in vacanza?, del 1978; la divertente performance cinematografica di Alberto Sordi, coadiuvato per l’occasione da una strepitosa Anna Longhi, si svolgeva all’interno della Biennale dello stesso anno di produzione della pellicola.
(26)     Cit., Cap.II, § 1, p.17.
(27)     È in base a quest’indefinibile nostalgia che si spiega il ricorso al primitivo, al dilettantesco, al folle o all’incolto.  Tutto in origine era sacro, non solo l’arte, non solo il tempio: l’intero mondo lo era.  In fondo se le cose sono cambiate, lo asseriva anche Platone, è la Divinità (per il filosofo greco Crono, per noi il Deus Pater del Gloria vivaldiano, non molto diverso d’altronde dallo Zeus ellenico) che ha operato in modo tale da determinare nella vita umana dei tempi ultimi quel male che rappresenta il contrario di Sé stessa.  Il caos ed il demonico del mondo contemporaneo le arti lo hanno soltanto riflesso, non provocato; come insegna la nota presa di posizione da parte di Picasso nei confronti di chi lo accusava d’aver dipinto il massacro di Guernica, quasi che se ne fosse fatto beffa oppure l’avesse trasformato in un gioco estetico.  Oltretutto, vi è da considerare che l’arte in principio non esisteva, è il frutto della conoscenza e della cultura dell’uomo; pertanto è destinata a terminare prima o poi, dando spazio ad una nuova Età dell’Oro.   Che a propria volta scomparirà, in un interminabile serie ciclica, giacché altrimenti gli esseri s’addormenterebbero nella Pace del Paradiso Terrestre, dimenticando quella Gloria che è ancor più oltre.
(28)     § 2, pp. 19-20.
(29)     P.22.
(30)     Fig.10.
(31)     Per chi volesse tuttavia approfondire l’argomento è utile, sempre della stessa autrice, il § 3 sgg, sull’ambiente romano d’avanguardia nel primo dopoguerra.  La Tagliaferri, oltre a spiegare gli apporti del Futurismo alle correnti d’avanguardia successivi (Costruttivismo e Surrealismo), illustra fra le altre cose l’avvento della ‘fotodinamica’, la nuova tecnica fotografica ideata teoricamente e sperimentata fattivamente dai Fratelli Bragaglia.  Costoro erano figli del produttore Francesco B., dal 1906 direttore della Cines.  La fotodinamica fu la concezione della fotografia in movimento, ideata da Anton Giulio B. assieme al fratello Arturo, sulla base del ‘Manifesto’ futurista.  Fin dal 1911 stampò cartoline postali con immagini fotodinamiche e pubblicò il saggio Fotodinamismo.  In seguitò fondò la riv. ’L’artista, ma la sua tecnica venne sconfessata due anni dopo da Marinetti e Boccioni.  L’influenza futurista perdurò comunque in lui, se è vero che a partire dal 1915 fece uscire un nuovo periodo illustrato, ‘La ruota’.  Un anno dopo si dà al cinema, fondando la Novissima Film e mettendo in scena un copione scritto da E.Prampolini (giocato sul BN).  Col fratello minore, Antonio Ludovico B., nel ‘18 allestR la ‘Casa d’arte Bragaglia’, sede di mostre d’arte contemporanea e d’incontri internazionali con autori stranieri; e nel ’22 il ‘Teatro degli Artisti Indipendenti’, che cominciò ad operare a partire dal ’23, liberando ai registi spazi non contaminati dal semplice esercizio commerciale.  Carlo Ludovico si dedicherà con maggior successo al cinema professionale, essendo autore fra l’altro nel ’49 della celebre pellicola comica Totò le Mokò, parodia di Pépé-le Moko, realizzato in stile gangsteristico ed ambientato in Algeria con poetico realismo dal regista francese J.Duvivier nel ’39.  Invece il fratello maggiore era rimasto sempre condizionato dalla sua vena artistico-sperimentale, passando da Prampolini a De Chirico.  Arturo B., dal canto suo, diverrà un apprezzato caratterista in campo cinematografico dagli Anni ’30 a seguire.  Per un approfondimento di tal tipo di tematiche vide F. Di Giammatteo (in coll. con C.Bragaglia), Nuovo dizionario universale del cinema- E.R., Roma 1996 (II ed., agg. rispetto a quella dell’85), ss.vv. BRAGAGLIA, ANTON GIULIO, pp. 167-col.b-8 col.a e BRAGAGLIA CARLO LUDOVICO, p.168-coll.a-b.  Altra cosa interessante dello scritto della Tagliaferri è il cenno alla questione dell’arte totale.  Interessante osservare che dopo la frammentazione dei varT campi artistici avvenuta nell’Ottocento e specialmente all’inizio del Novecento, come ha denunciato giustamente Sedlmayr (cfr. n.23), vi sia stata un’azione di ripiego da parte futurista nel tentativo di riunire ciò che dapprima era stato sparso.  Di qui è nata quell’idea di ‘arte totale’, dapprima in campo pittorico, poi in quello teatrale e musicale.
(32)     Non a caso egli dipinse anche a scopo teatrale (Tagl., p.37, n.42).
(33)     Cap.III, § 1 sgg.
(34)     C.Bruni, autore peraltro del saggio Dopo Boccioni, dipinti e documenti futuristi dal 1915 al 1919- Mediterranee, Roma 1961.  Il Bruni in un art. intitolato Evola dada (AA.VV, pp. 57-63) dichiara come all’inizio degli Anni ‘60, nel tentativo di raccogliere informazioni sui pittori futuristi spariti dalle scena artistica, fosse giunto una volta a casa di E. e sia pure a distanza, stando il pittore sulla sua immancabile sedia a rotelle (cui era stato costretto dopo l’incidente del bombardamento di Vienna), questi gli avesse indicato una catalogazione appropriata delle sue opere.
(35)     Abbiamo spostato lievemente le date in base alle risultanze da altre fonti.
(36)     Tagl., p.68, fig.6.
(37)     P.69, fig.7.
(38)     Cfr. al riguardo n.73.   
(39)     L’anno 1920 è anche quello di varie pubblicazioni evoliane di carattere dada (segnalazione della Tagliaferri, p.40): l’opuscolo Arte astratta, la cofondazione della Riv.Bleu assieme al Cantarelli,  la pubblicazione zurighese del poema La parole obscure, la collaborazione ad altre due riviste (Cronache dell’attualità di A.G. Bragaglia e Noi di Prampolini).  Su quest’ultima rivista pubblica L’arte come libertà ed egoismo, A.III, N°1, Gen. ’20; scritto che a giudizio del Giovannini (art.cit.) costituisce una specie di ur-test per l’artista, ovvero un punto di svolta definitivo verso l’Astrattismo e il Dadaismo. 
(40)     P.40, n.50.
(41)     P.72, fig.12; oppure in AA.VV., intra pp. 96-7, fig.7.
(42)     Tagl., p.75, fig.17.
(43)     AA.VV., fig.6.
(44)     Fig.8; oppure  Tagl., p.74, fig.15.
(45)     Il Costruttivismo, nato in Russia nel 1913 quale sviluppo del Futurismo, gettò le sue basi teoriche nel ‘Manifesto Realista’ del 1920 di N.Gabo.  Rigettando il concetto d’arte per l’arte, intendeva creare una nuova arte in funzione sociale; parallelamente a quanto faceva simultaneamente, in campo architettonico, il funzionalismo.
(46)     Note per gli amici, in Bleu (N°3), Mantova 1921.
(47)     Nella seconda metà degli Anni ’30, in pieno periodo nazista, il N. s’è occupato della tradizione celto-cristiana; di questa tratteremo in un pross.art., dedicato agli studi dell’età matura.  Egualmente faremo cogli studi buddhistici, affrontati negli Anni ’40.
(48)     Cfr. al riguardo prima Paesaggio interiore, illuminazione , olio su tela del 1919; poi, La fibra s’infiamma e le piramidi, olio su tela del ’20. c. (Tagl., p.77, figg. 20-1).
(49)     P.76, fig.19.
(50)     § 4 sgg.
(51)     J.Evola, La Tradizione Ermetica…- Mediterranee 1971 (I ed. Laterza, Bari 1931; II ed.riv. 1948).  Va respinto però quanto scrive nella Pref., a p.10, ove contrappone maldestramente l’Arte Regale ermetico-alchemica alla pretesa visione religioso-sacerdotale del mondo.  Torna a proporre tale presunta dicotomia al § 21, p.202, come al solito confondendo e rovesciando le cose; ma, al di là di questa eretica ossessione anti-sacerdotale (non s’attribuiva una vocazione anche in tal senso?), per cui conoscenza e contemplazione starebbero su un piano inferiore ad azione e regalità in quanto abbinate reciprocamente al color Bianco (Lunare) e alla Luce anziché al Rosso (Solare) e al Fuoco, il libro è profondo nell’analisi e ben fatto nella sintesi.  Naturalmente, il vero motivo per cui talora il Bianco (colore <sattvico>) piglia il posto del Rosso (colore <rajasico>) e il Rosso del Bianco è realmente la trasposizione dal piano regale a quello sacerdotale e viceversa.  Ciò non perché l’uno costituisca un simbolismo primordiale e l’altro no, nessuno dei due lo è in realtà, ai primordi non esistendo simbologia alcuna.  Semmai, per lo stesso motivo per cui Crono ha assunto le sembianze di Urano come dio aureo, ossia per una trasposizione verso l’alto.  Il che non implica di necessità che una tradizione possa essere trasmessa dal basso verso l’alto.  Ecco la ragione per cui tutto deriva dal sacerdozio in linea discendente.  Vi è anche una regalità sacra, come quella del famoso Prete Gianni, che si situa al di là del sacerdozio; ma questa, ovviamente, è altra cosa rispetto alla regalità comune cui fa riferimento l’arte alchemica.   
(52)     Ibid. come alla 49.
(53)     Ancora una volta la Tagliaferri, dopo esser entrata in argomento alchemico, mette in luce nella sua ottima tesi l’importanza della lettera A (che compare in altri quadri evoliani), riferendola a varie categorie interpretative: A-lchimia, A-thanor, A-lpha.  Circa l’Athanor, dall’ar.at-tannûr (‘forno’), scrive T.Burchardt (L’alchimia- Ed.Azoth, Lugano 1976, p.138) che “nei manoscritti alchimistici esso è raffigurato generalmente come una piccola torre coperta con una cupola.  E riporta varie raffigurazioni di seguito, ma prima  spiega che “il vero athanor… non è che il corpo umano”, quindi il nostro microcosmo individuale.  O meglio, non “il corpo effettivo, visibile e tangibile, bensì un tessuto di forze psichiche che si appoggiano al corpo”.
(54)     § 3, pp. 50-1.
(55)     § 2, p.44.
(56)     Non a caso, a detta dei ‘Taccuini mussoliniani’ (Evola e la critica della civiltà. Freud e Nietzche, relaz. di D.Caccamo, p.1, on line), il barone – presentatogli da Marinetti nel 1922 – era letteralmente entusiasta di Freud.  Sebbene poi in un’art. successivo intitolato ‘Critica della psicanalisi’ e pubblicato sul N.9 de ‘La Torre’ nel ’30, riproposto in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (I ed., 1932),  il Caccamo afferma abbia fatto retromarcia.  Per aggravare il proprio dissenso contro le tesi freudiane, ancor di piú, nella II ed.riv. del ’49 e nei libri scritti dell’ultimo periodo (Orientamenti, 1950; Gli uomini e le rovine, 1953).  Fino a detestarle, secondo quanto si rileva dagli artt. pubblicati sui quotidiani fra il 1952 ed il ’71, alfine raccolti in opuscolo.
(57)     P.46.
(58)     P.45
(59)     La Wiener Sezessionstil fu l’associazione di una ventina d’artisti, tra i quali spiccavano G.Klimt ed E.Schiele, che nel 1.897 si distaccarono dall’Accademia delle Belle Arti di Vienna onde dar vita ad un gruppo autonomo.  Si proponevano d’introdurre in Austria in campo pittorico ed architettonico l’art nouveau, in Italia identificata allo stile liberty.  Tal tipo di movimento artistico è sorto a mezzo fra la Secessione di Monaco (esponenti principali V.Uhde, f. von Stuck) del 1892 e quella di Berlino (sorta per protestare contro il rifiuto di esporre opere di W.Leistikow, impressionista tedesco di stile paesaggista) del 1.898.
(60)     Ad es. l’amica-psicologa Marianna Leibl, cit. dal Waldner (vide n.1); oppure lo scrittore viennese O.Weininger, di cui ha curato la riediz. nel 1956 di Sesso e carattere- Bocca Milano 1912 (ed.or. Geschlecht und Charakter- W.Braumüller, Vienna e Lipsia 1903).  Una nuova ediz. del testo nell’originale trad. di G.Fenoglio, riv. e corr. da F.Maccabruni, è stata pubblicata dalla Feltrinelli; con Introd. di F.Rella (Milano, 1978), illustrante l’ambiente viennese di Fine’800 ed Inizio ‘900.  Inutile aggiungere che certi tópoi della cultura evoliana, come l’antifemminismo e l’antiebraismo, hanno preso le mosse da una condivisione del trattato weiningeriano.  Ed anche una tendenza al suicidio in età giovanile, nel senso del cupio dissolvi, venuta meno per fortuna come candidamente confessa il pittore siciliano nella sua autobiografia (Ev, Il c., pp. 18-20).        
(61)     J.Evola, Raâga Blanda, poesie dada- Ed. del Sole Nero, Amsterdam, dat. n.c.  Nella Present. dell’a. è chiarito che si tratta di poesie stilate in ordine cronologico, fra il 1916 ed ’22, alcune delle quali pubblicate in Arte astratta- Maglione e Strini, Roma 1920 (per la serie «Collection Dada»); questa raccolta figura di norma quale opera-prima del N., omettendo l’altra, in parte precedente ed in parte no.  Circa le tematiche trattate in R.B. (il titolo è ispirato ad una delle 30 poesie raccolte, precisamente Paesaggio dada, p.38), sorta dunque di opera-zero, E. stesso confessa d’esser stato influenzato nelle sue composizioni da scuole varie: decadentismo, simbolismo, astrattismo futurismo, ed analogismo.
(62)     La “corsa rosea e chiassosa dei bambini” che passa ricorda vagamente l’atmosfera festosa del ‘Girotondo’ di G.Pelizza da Volpedo, segno che non meno di Boccioni e di Balla anche E. è partito mentalmente dallo stesso punto prima d’ancorarsi altrove.  Qui siamo probabilmente nel 1.916, allorché l’a. aveva a malapena diciott’anni.
(63)     Dopo lo Stile Impero di J.-L. David e J.A.D. Ingres, corrente neoclassica sviluppatasi durante l’Età Napoleonica (ossia fra il 1.800 ed il 1.815) la quale forniva sia soggetti ispirati all’epoca greco-romana sia soggetti esaltanti le imprese napoleoniche, si era sviluppato in parte in continuità in parte in opposizione con esso il Movimento Romantico (1816-40); caratterizzato in Francia ed in Germania da pittori come T.Géricault, E.Delacroix e C.D. Friedrich nonché in Inghilterra da altri quali J.Constable e W.Turner.  Questo nuovo tipo di pittura, tralasciati i temi ispirati alla storia antica, si dedicò esclusivamente ai temi moderni quali gli eroi nazionali o le guerre di popoli; ma, in parallelo, propose altri modelli artistici richiamantisi alla pittura estremo-orientale o agli aspetti meno noti della mitologia classica: montagne nebbiose, paesaggi invernali, eroiche solitudini, scene irreali.  Richiami precisi al mondo figurativo estremo-orientale cominciarono però solo a partire dal pre-impressionista E.Manet, punto di trapasso tra l’arte pittorica del Romanticismo (1.820-40) e quella dell’Impressionismo (1.860-75) di C.Pissarro, C.Monet, A.Renoir e J-F. Bazille.  Anzi, si può dire senza tema di smentite che in epoca contemporanea una volta tralasciata l’iconologia di stampo mitologico propria del periodo neoclassico e del periodo romantico (l’ultima pittura mitologizzante della storia dell’arte europea, pur velata di significati gnostici rispetto a quella delle due correnti appena menzionate, è opera del pre-romantico W.Blake), avviene in parallelo all’aperta e nota desacralizzazione dei contenuti delle opere un’intima e segreta rivalorizzazione dei medesimi in chiave poetica ed artistica anziché religiosa.    A codesta risacralizzazione, seppur con modalità e valori differenti, non è estranea l’influenza soprattutto nel campo della tecnica del pennello (specie attraverso l’uso dell’acquerello) dell’arte cinese e giapponese; giunta in Europa tardivamente rispetto all’arte pittorica e scultorea buddhista indiana, che a sua volta aveva seguito nell’Antichità e nel Medioevo la via di trasmissione della ceramica, foriera di una simbologia figurativa od astratta d’origine protostorica.  Basta pensare che le rotte commerciali marittime verso l’Estremo Oriente si sono aperte solamente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, allorché le stampe nipponiche vennero utilizzate come carta da imballaggio, prima valendo esclusivamente le rotte via-terra tracciate alla fine del Medioevo.  Cfr. in proposito La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich- Einaudi, Torino 1966 (I ed. 1950, I ed.it. Mondadori, Milano 1952), Cap.XXV, pp. 521-2.  Ebbene, nella pittura estremo-orientale tanto della Scuola Taoista quanto di quella Buddhista (dal Ch’an allo Zen) la spiritualità non era confinata a speciali icone sacre, ma veniva colta shamanicamente in mezzo agli spazT naturali.  Non importava che si ritraessero monaci, uccelli, fiori, bambú, templi, eremi, monti, vallate, fiumi, laghi, barche di pescatori, albe o tramonti.  Persino gl’insetti d’uno stagno potevano suggerire la presenza del Tao o favorire il Samâdhi, ossia il Satori degli zenisti.  Egualmente nella pittura contemporanea occidentale il rinnovato verbo, prima manifestatosi nelle forme idealistiche o realistiche in luogo di quelle simboliche od allegoriche del passato – pagane o cristiane che fossero – e dopo nell’assunto drammatico delle rappresentazioni amorfiche, oniriche o metafisiche, ha dissacrato esclusivamente delle forme vetuste e logore di raffigurazione artistica.  Sbaglierebbe dunque chi le considerasse naturalistiche o materialistiche, tout court; sempre piú infatti s’intravede dietro di esse, man mano che nuovi elementi di critica sorgono a loro favore e l’occhio diventa ognora piú esperto, l’«opera missionaria» (si fa’ per dire….) di canoni taoistici o zenisti.   Insomma, dietro la forma o la non-forma, si cela il vuoto.  Non unicamente in senso demonico, benché questo senso sia pur sempre il connotato prevalente, come attesta Sedlmayr.  Il mondo rimane divino in ogni caso, persino quello umano, per quanto le forze caotiche nell’uomo e fuori dell’uomo si diano da fare per provare il contrario.
(64)     Non essendoci separazione dei versi ma soltanto spazT vuoti in tal tipo di poesia, abbiamo adottato la barra normalmente separatrice dei versi per segnalare lo spazio vuoto.
(65)     Cfr. J.Evola, Metafisica del sesso- Mediterranee, Roma 1969, passim.  Questo è uno strano (si fa per dire..) e magnifico libro di E.  Non solo, uno dei migliori testi sulla sessualità mai scritti.  Quando lo leggemmo ai tempi dell’università ci entusiasmò, ma la parte finale – specie a cominciare dal § 49 sino al § 59 – suscitò in noi l’effetto contrario, tanto da tralasciarne quasi inconsapevolmente la lettura.  Insomma, il tutto nell’insieme ci lasciò lo spiacevole presentimento che l’a. pur partendo da ottime premesse e da un’analisi del fenomeno sessuale assolutamente convincente e profonda, si fosse perso nei meandri d’un luciferismo (per non aggiunger altro, vista l’esaltazione che vien fatta in tali pagine di A.Crowley) in apparenza negato, ma in realtà presente, benché dissimulato dalle citazioni erudite.  Vi è una magia sessuale a sfondo spirituale (‘rossa’) ed una a sfondo demonico (‘nera’).  Non è la stessa cosa, benché i presupposti operativi possano apparire consimili.  In ciò è la direzione impressa al rito che conta, in ultima analisi.  E sebbene vi possa essere una magia nera positiva (nell’iniziazione propriamente detta, in cui il contatto infero assume valenze sovra-terrene) ed una magia rossa negativa (quale culmine della contro-iniziazione, in quanto proponentesi di disintegrare l’individuo anziché di trascenderlo), invertendo i valori, è in ogni contesto che va fatta distinzione.  Non si può far di tutte le erbe un fascio.  Cfr. in proposito G.Acerbi, Le magie e gl’incantesimi di Merlino e Morgana….- Viator, Anno VII, Rovereto (Tn) 2003, § 3, pp. 220-1.  Evola invece pare non distinguere (anche in età adulta), facendo sempre e comunque dell’elemento femminile un fattore negativo, da vincere colle buone o colle cattive.  Non questo c‘insegna il vero Tantrismo, specialmente lo Gaktismo, di cui pure egli ha dichiarato – sicuramente a ragione (non abbiam condotto ricerche al riguardo, gli crediamo sulla parola) – di esserne stato il primo espositore in Italia.  Nella dottrina shaktica induista è semmai l’elemento maschile, simboleggiato da Mahishâsura (lo Giva demonico), a fungere da controparte naturale trascendibile in Lei (Durgâ).  Nello Givaismo vamayanico, è vero, è Giva a prevalere e non la Gakti; tuttavia la cosa non avviene come nello Givaismo dakshinayanico, ove effettivamente la gran Madre ha il significato illusorio della Mâyâ.  Nel Tantrismo çaiva, a differenza che nel Tantrismo çakta, il principio maschile pur prevalendo su quello femminile concede a questo un ruolo non indifferente.  Esattamente come accade, in parallelo, nella Gnosi libertina rispetto alla Gnosi ascetica ed alla Cabala.  Nella sua analisi lucida ma troppo audace E. purtroppo mescola sacro e profano, ortodossia ed eterodossia, luciferismo e tradizione autentica.  
(66)    Tagl., p.48, n.62.
(67)    T.Perlini (a c. di), Maestri dell’espressionismo- Perna, Milano 1967, pp. 3-4.
(68)     Non possediamo purtroppo alcun catalogo delle opere pittoriche di E.  Ci siamo semplicemente sforzati di ricordare, sebbene con molta difficoltà, i quadri esposti in una mostra milanese visitata nei nostri anni giovanili.
(69)     È noto il paradosso applicato alla corsa del cavallo da parte futurista, cioè la moltiplicazione delle sue gambe come fosse una locomotiva.  Infatti la meccanicità del nuovo vivere quotidiano del primo ventennio del Novecento viene percepita dal futurismo come una novità assolutamente positiva, in contrasto colla mentalità ottocentesca.
(70)     I corsieri luni-solari della mitologia antica di lingua indoeuropea sono a loro volta, a livello artistico, l’idealizzazione iconografica degli ancestrali equini selvaggi dei graffiti preistorici.  
(71)     Cfr. ‘La piazzetta di Settignano’, di T.Signorini (1.890) in E.Fezzi, Maestri dell’Imprerssionismo- Perna, Milano 1967, tav.43.  Le bestie da tiro che compaiono nel quadro costituiscono, in fondo, la risultante romantica degli aristocratici destrieri tardo-medievali o rinascimentali; vedi in tal senso il monumento di A. del Verrocchio (XV sec.) dedicato al condottiero veneto Bartolomeo Colleoni ne La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich- Einaudi, Torino 1966 (I ed. 1950, I ed.it. Mondadori, Milano 1952), Cap.XV, p.282, fig.184.  A mezzo tra di essi potremmo considerare i cavalli agresti della ‘Scena campestre’ settecentesca del rustico T.Gainsborough (ibid., Cap.XXIII, p.466, fig.297)  in un paesaggio rurale che, a giudizio del Gombrich (ib.), appare espressione d’uno stato d’animo pastorale piú che non una reale veduta naturale.  In ciò il pittore inglese s’è posto da tramite involontario fra il rococò arcadico del belga A.Watteau, appartenente al Primo Settecento, e gli scorci panoramici degl’impressionisti della Seconda Metà del XIX sec.   Il critico austriaco H.Sedlmayr, dal canto suo (La m., op.cit., pp. 215-6), opta per una differente interpretazione del cavallo; per lui, rifacendosi a Weininger,  quest’animale è un emblema della pazzia.  Lo pone in primo luogo quale immagine, fra le numerose create dall’arte contemporanea, a delineare uno stato di “segreta sofferenza spirituale”.  Secondo Sedlmayr, insomma, l’equino che si slancia in una corsa pazza dopo aver disarcionato il proprio cavaliere – quale troviamo ad es. nel ‘Cavallo che scappa’ del realista francese G.Courbet (ibid., fig.10 n.num.) oltreché in altri pittori a lui precedenti (T.Gericault, F.Goya, H.Daumier) o successivi (E.Munch, Kubin, Böckl) – sarebbe un contrassegno della perdita degl’istinti da parte dell’uomo ultimo, un segno che la dissoluzione era alle porte e non poteva essere fermata.  Notiamo che in effetti il primo romantico francese (ossia T.G.) si dedicò dal 1820 in poi allo studio dei pazzi, ma neppure a farlo apposta 2 anni dopo morR prematuramente poco piú che trentenne per una disgraziata caduta da cavallo (A.Bovero, Personaggi delle arti figurative- Zanichelli, Bologna 1960, s.v. GÉRICAULT, p. 129, coll.a-b).
(72)     Vide ‘in E.Carli & G. Dell’Acqua, Storia dell’Arte. Dal Cinquecento ai Contemporanei-Ist.Ital. d’Arti Grafiche, Bergamo 1969, p.418, fig.501 ‘Il paesaggio degli Appennini’ di G. De Nittis (1.855-60), realizzato dal pittore pugliese nel suo periodo napoletano (prima di partire alla volta della Parigi impressionista), apparentato allo stile macchiaiolo toscano; quest’ultimo per la verità, sostenitore attivo dell’unità nazionale, com’è dimostrato nel bellico ‘Soldati a cavallo’ (ibid., p.422, fig.505) o nel veristico ‘Il riposo di barrocci romani’ (ib., fig.506) – entrambi del livornese A.Fattori (1.825-1.908) – sfruttò la lezione del realismo romantico francese al fine d’illustrare la vita nostrana al di fuori del ristretto ambito provinciale.  I cavalli del Fattori non sono quindi propriamente equini di città o di campagna, bensR animali che pur ritratti in modo assolutamente realistico dal piú importante pittore macchiaiolo (allievo dell’Accademia di Firenze) già preludono ai disciolti cavalli allo stato libero del Novecento.  Vide n.seg.   Non per nulla (pp. 425-6) il Fattori dedicò la sua pittura alle aspre solitudini della Maremma toscana, dove sul litorale ventoso galoppavano branchi di cavalli bradi.   
(73)     Vedi il ‘Secondo Tempo’ di Tema e variazioni, in un contesto nebuloso annunciante la morte delle stelle.  E non a caso delle stelle rosse e bianche appaiono suggestivamente disperse in mezzo a casuali strati di colore in un olio su cartone del 1919, intitolato Mazzo di fiori (AA.VV., fig.5; oppure in Tagl., p.70, fig.9).  Riguardo i “grandi cavalli bianchi” che passano nell’anima del poeta (Ra., op.cit., p.15) è lecito rifarsi ai ‘Grandi cavalli azzurri’ od ai ‘Cavalli rossi’ di F.Mark, pittore appartenente al Bläue Reiter (‘Cavaliere Azzurro’); movimento artistico sorto nel 1911 all’interno dell’astrattismo – il primo quadro astratto fu dipinto ad acquerello da Kandiskij l’anno prima – nell’ambito della Germania guglielmina, utilizzante evocative sagome equine in movimento tutte del medesimo colore (blu, rosse).  Cfr. Prl, op.cit., pp. 15-6, tavv. 12-3.  La denominazione propria del movimento però deriva da un quadro omonimo dello stesso Kandiskij, realizzato nel 1.903 e raffigurante un eroe ispirato ai protagonisti delle fiabe tedesche e russe.  Il dipinto vede un cavaliere tutto azzurro, su cavallo bianco,  che cavalca sullo sfondo di una collina verde-oro.  L’azzurro in ottica kandiskijana sostituiva il blu, come spiegherà il pittore moscovita nei suoi scritti teorici.  Bisogna segnalare, a questo proposito, il debito non riconosciuto che tutti i futuristi ed i dadaisti (compreso E.) debbono a questo magnifico autore e teorizzatore.  D’altra parte anche Kandiskij deve molto a chi l’ha preceduto, seppure indirettamente, cioè al puntinismo francese ed in particolare al divisionismo italiano.  Le sue teorizzazioni sui colori ed i loro effetti fisici sul corpo, psichici sulla mente e spirituali sull’anima precedono le elucubrazioni alchemiche evoliane (rispetto alle quali hanno un maggior impatto ed una maggior chiarezza, occorre onestamente notare), ma seguono gli studi ottici per quanto assai piú modesti dei divisionisti segantiniani.  Cfr., al riguardo, le voci V.KANDISKY e IL CAVALIERE AZZURRO su ‘Wikipedia’.
(74)     Vedi I sogni, poesia già pubblicata in ‘Arte astratta’.
(75)     A parte la bella poesia analogista intitolata Astrid, in francese e del tutto inconsueta nel contenuto per lo stile evoliano.  I versi ci descrivono con cadenzate parole l’eleganza d’una femmina, incorniciata alla finestra e stagliantesi  su un’enorme città nera e bassa.  L’incendio biondo dei suoi capelli sembra la fonte (il testo dice ‘luce’) di piccoli luci lontane, il bianco dei denti pare appellarsi alla pallida immobilità della luna.  Ed alfine conclude, virilmente: “E voi avete infranto il sortilegio/ tourbillon/la trasparenza vertiginosa delle vostre calze/ la schiuma dei pizzi (in senso venereo evidentemente, forse con doppio senso, N.d.T.)/ le vostre gambe che s’allontanano luminosamente/ l’idolo riversato e aperto/ il mio perdermi in voi/ inghiottito nell’oscurità ardente/ senza fine/ il vostro grido breve/ fresca dilatazione/ dissoluzione.”  C’è solo un piccolo particolare inquietante, il ricorso ad un lessico inadeguato, seppur limitatamente all’espressione ripetuta all’inizio e alla fine di “scena di dominio”.  Probabilmente esageriamo, scottati da ‘Ballata in rosso’ (vide infra); ivi sicuramente si tratta d’altro, ancorché il background sia fosco come altrove, immancabilmente adagiato nelle tinte scure.
(76)     Ev., Il camm., p.27.
(77)     Non abbiamo consultato neanche questo libercolo, che analizzeremo forse in altro scritto distinto, unitamente al testé citato poema francese; di cui l’a. offre un breve sunto nell’autobiografia (op.cit, pp. 26-7), menzionando 4 personaggi incarnanti diverse “tendenze dello spirito” ed esprimentisi secondo la tecnica dell’alchimia delle parole, cioè delle parole dissociate dal loro senso comune ed usate evocativamente.  Per quanto riguarda il manualetto d’arte astratta, Sandro Giovannini (Evola tra poesia e arte, art. on line) riconosce a questo (pp.9-10)  3 punti paradigmatici oltre i quali secondo E. l’arte spirituale avrebbe dovuto porsi per esser definita veramente tale: a) la concezione concettuale del mondo, b) la spiritualità generica, c) la naturalità dell’espressione.  Conferma l’a. (Ar.., p.24), infatti, che la sua adesione all’arte contemporanea era favorita dalla “prevalenza della volontà sulla spontaneità”.  Francamente, però, codeste definizioni paiono molto intellettualistiche e tutto sommato aleatorie.  Certo, è spirituale ciò che supera la ragione e quindi la mera concettualità; tuttavia, che significa “spiritualità generica”?  La spiritualità va sempre oltre la generalità e la genericità, è un trascendimento che di per sé supera anche la volontà, la quale permane pur sempre una facoltà psichica.  
(78)   D’altra parte basterebbe dare uno sguardo ancor una volta all’astrologia, sia pur l’astrologia convenzionale – in special modo ai cicli di Plutone  (generazionali) e a quelli di Nettuno (trasformativi) – per constatare che l’aspetto imponente e dirompente del movimento romantico è andato in voga con Plutone nel Segno marziale dell’Ariete (1.821-51), la fase tardo-romantica s’è svolta nel venereo Toro (1.851-82) e quella decadente con Plutone nei mercuriali  Gemelli (1.882-913); che la ripresa delle forme, pur con assenza di tratti naturalistici ha avuto luogo invece con Plutone nel lunare Cancro (1.913-38).  E che parallelamente Nettuno (1.821-34) nel razionale Capricorno ha determinato il primo romanticismo filo-nazionalistico ed eroico, mentre col passaggio nell’imprevedibile Aquario (1.834-48) ha favorito letterariamente il realismo storico-sociale e visionario di tipo balzachiano ed artisticamente il realismo anarchico post-romantico courbetiano; in Pesci (1.848-61) ha lanciato la moda pre-impressionistica, in Ariete (1.861-74) ha provocato la primaverile metamorfosi impressionista ed in Toro (1.874-88) il sensuale verismo oltreché il post-impressionismo. Viceversa in Gemelli ha ispirato la variegata policromia divisionista (1.888-901), in Cancro (1.901-15) la stralunata moltiplicazione delle forme prospettiche in senso cubista, nonché la loro successiva evanescenza nell’astrattismo ed infine la loro movimentazione amorfa nel dinamismo plastico futurista; in Leone (1.915-28) l’assolata pittura metafisica ed infine, in Vergine (1.928-42) la simbiosi onirica tra veglia e sogno del surrealismo.  Tipico di Plutone in Gemelli era l’atteggiamento ciarlatanesco di volerla saper piú lunga degli altri, di barare, di suggestionare, di creare artificT come oggetti o paesaggT inesistenti se non nel proprio intimo, trascurando la realtà esteriore effettiva.  La merculialità del Movimento Dada e di T.Tzara, sotto tal profilo, è caratteristica.  Solo successivamente, coll’entrata di Plutone in Cancro spunterà la pretesa, anche questa falsa in quanto pallida chimera lunare, di ricostruire una dimensione tradizionalistica tramite le cd. ‘rivoluzioni conservatrici’; in verità segretamente finanziate dall’oligarchia, non meno di quelle ‘democratiche’.  Ed è triste, significativo delle limitate vedute di E. nel vero campo tradizionale (quello che si connette agli Smarta hindu, non al tradizionalismo luciferico europeo di stampo sinarchico), il fatto che questi si sia dimostrato orgoglioso di esserne stato considerato un paladino; cfr. a tal proposito J.Evola, Fascismo e Terzo Reich- Mediterranee, Roma 2001 (è la VI ediz.corr. de Il fascismo. Saggio di un’analisi critica dal punto di vista della Destra- Volpe, Roma 1964), Cap.XI, p.173.  E. alfine nella sua ‘Autodifesa’ ha avuto almeno la saggezza di respingere il bonapartismo (Napoleone fungeva da imperator del Rosicrucianesimo deviato, di tipo baconiano, contrapposto a quello ortodosso di marca newtoniana), citando Carlyle (ibid., p.174); ma in precedenza (ib., Cap.III, p.132) come nella giovinezza aveva appoggiato, seppur non a chiare lettere, il punto di vista filo-bonapartista e mazziniano del conte R.N. Coudenhove-Kalergi.  Anche Guénon purtroppo ha commesso un simile errore da giovane, legandosi all’occultismo della scuola ermetica di Papus e Sedir e tramite costoro all’ordine martinista; ma ad un certo punto della propria vita se ne è distaccato per cercare un punto di vista autenticamente tradizionale, agganciandosi all’esoterismo orientale (sufico, vedantico e taoista), cosa che invece E. non sembra aver fatto se non superficialmente.  Di qui il suo limite come autore, che rimarrà sostanzialmente anche in età adulta, seppur temperato da approfondimenti teorici (soprattutto in campo ermetico) che non possono comunque essere sottovalutati.  Per una disamina piú ampia della questione cfr. G.Acerbi, Le tematiche pagane ed orientali dell’Evola maturo (Alle pendici del Meru, on line, pross.).
(79)     Ibid. come alla 64.
(80)     Parola del critico d’arte Bonito Oliva, che ebbe a dichiararlo una volta in tv e non vi è motivo di non credergli, essendo lui stesso di nobile famiglia.
(81)     Il Giovannini (cit.) si domanda assurdamente chi sia la dama in rosso.  Non ci pare questo il quesito giusto da porsi, a meno d’intendere simbolicamente, cosa sempre possibile.  Certo, tradizionalmente parlando, si può rappresentare l’acquisizione interiore come una sorta d’omicidio rituale.  Tale tecnica l’ha adottata il sottoscritto medesimo nella sceneggiatura filmica d’un tv-movie, ove sotto una parvenza di thriller minimalista ha indicato il risveglio in senso buddistico nell’intimo della protagonista dei fondamentali 4 Cakra.   Non ci sembra questo il contesto, sinceramente parlando, per un’interpretazione del genere.  Il Giovannini si chiede, poco astutamente: –Che si debba forzare la nostra natura oltre ogni buonismo (oltre ogni normalità del voler bene, del non fare violenza), rimanendo il tutto in una sorta di mondo allegorico di piccole cattiverie giocate tra sguardi…”, e bacetti e prove ginnico-salutuiste alla new-age?”  Cosa, abbiamo capito bene?  Che c’entra la New Age?  La tendenza a minimizzare a tutti i costi la portata sadica del testo la si coglie anche in altri commenti di filo-evoliani.  Vedi, per es. il Caccamo (rel.cit.).  Costui, addirittura, parla di “turbamento sensuale con enfasi decadente”.
(82)     Dall’assolo finale la vittima risulterebbe esser dunque ancor viva, sia pur ridotta ad una larva incosciente.
(83)     Cfr. coi rituali cruenti induisti della dea Kâli, taluni satanici e tal altri no.
(84)     C’informa il Luci (Julius Evola 30-10-2003, discuss. on line) che secondo la Questura di Roma, non meno del noto tradizionalista A.Reghini, anche E. era legato iniziaticamente all’O.T.O.; ciò per la verità l’avevamo saputo anni fa, attraverso un comm. di Federica ’79 (nick.) quando postammo su un sito no-global un nostro divulgativo art. (C.O.T.L., Julius Evola e la lotta di classe- Indym.It., 27-07-03; rived. ora in I.Hud, Evola, l’Ordo Templi Orientis e la lotta di classe- C.O.T.L. & Friends, blog, 5-4-14).  Qualcuno (T.Haql) contesta ciò in un suo art. pubblicato da 'Arthos', che non abbiamo purtroppo ancora avuto modo di visionare.  Può darsi che abbia ragione e che la Questura si sia sbagliata nella forma, ma di sicuro non nella sostanza.  Secondo altri (M.Introvigne) esistevano infatti crowleyani selvaggi, che basavano la loro adesione sulle letture.  Era E. uno di costoro?


(85)     Vedi ad es. l’elenco di opere riportato in AA.VV, op.cit., Bibl., p.229 ss.  La collez. compare, invece, in app. alla III ed. di Cavalcare la tigre (Scheiwiller, Milano 1973).   D’altro canto è menzionata anche dall’a. nell’autobiografia, dove è chiamata <edizione normale> (p.27); segno che ve n’era stata un’altra precedente, guardacaso non citata.  Circa la prima possibile edizione si racconta anche una strana storia, del “tiro birbone” organizzato ai danni di Papini da parte d’una conoscente evoliana, che avrebbe dovuto spingerlo a scrivere una prefazione riguardo il nome immaginario d’una persona che si sarebbe uccisa in età giovanissima.  In effetti, aggiunge E. e lo crediamo sincero, il poeta che aveva scritto quei versi era morto sul piano psichico.  Fortunatamente, aggiungiamo noi, e  capiamo perché.
(86)     Giov., passim.
(87)     Il tema pluviale ricorre anche in uno straordinario quadro del 1919, Truppe di rincalzo sotto la pioggia.