venerdì 30 gennaio 2015

IL DRUIDISMO ED IL 'CALICE RIPIENO':





annotazioni ulteriori sulla mitologia e l’iconografia

di Bran-Brahma e Urano-Varuna





                   Il Druidismo, vale a dire la forma celtica di shamanismo giuntaci in epoca storica, stava allo shamanismo preistorico come il Taoismo in Cina si poneva di fronte al wuismo originario.  Non dobbiamo comunque lasciarci ingannare dalle nostre stesse definizioni, che sono un fatto soltanto accademico.  La Tradizione è un insieme unico di credenze e di riti, si articola in base alle età cicliche, non per etnie o periodi culturali; sebbene ogni età cronologica ed ogni periodo intermedio  vadano a braccetto con un determinato sviluppo umano, ovvero siano caratterizzati da una data cultura o civilizzazione.  Le elaborazioni erudite vanno bene solo in ambito universitario, non al di fuori.  Al di fuori, va sottolineato una volta per tutte, occorre rifarsi alla Tradizione vera.  R.Guènon, il quale aveva avuto un passato scomodo occultistico prima e luciferino poi, stando alle ricerche del prof. Introvigne (1), ma era diventato in seguito pur sempre un grandissimo rappresentante del sufismo autentico, c’insegnava che il Druidismo – ossia la tradizione celtica come lui preferiva chiamarlo (noi abbiamo tratto la precedente definizione da J.Markale) – costituiva una forma storica di ciò che lui amava chiamare ‘Tradizione Primordiale’.  E che personalmente preferiamo definire ‘Rivelazione Primordiale’, per le ragioni etimologiche addotte in un altro nostro scritto (di cui questo era in origine la conclusione)(2), conservando la definizione guénoniana per il lascito tradizionale a partire dall’inizio di quello che l’India conosce come II Ciclo Avatarico.  Il cd. ‘Ciclo della Tartaruga’, per intenderci; il quale proviene dall’Ecumene Nord-orientale, di cui è impregnata fondamentalmente la tradizione cinese.  Sebbene quest’ultima per metà risalga ad un momento successivo, il ‘Ciclo del Cinghiale’ (o III C.A.).  Infatti i due simboli teromorfici indicati fungono 



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rispettivamente l’uno da supporto del corredo emblematico di Fo-hi, che ha tratto gli Esagrammi (assunzione in sacra veste grafica del Senario Planetario, cosí come i due Triangoli opposti e complementari dello Yin-Yang lo sono sul piano geometrico-sacrale)(3) dal ‘Guscio della Tartaruga’ (immagine del Cielo, ovviamente, nella parte dorsale e della Terra in quella addominale); l’altro da vittima sacrificale d’un arcaicissimo rito cruento, ove la shamana (wu) colpiva col Tridente il collo del suino.  Tal sacrificio è rimasto peraltro in voga, disgraziatamente, sino a tempi recenti (4).

                   Che il druidismo a differenza del wuismo fosse costruito sul simbolismo del I Ciclo Avatarico, il ‘Ciclo del Pesce’, anziché di quello successivo o di altri cicli posteriori è dimostrato dall’utilizzo che si fa nella saga graaliana (celto-cristiana) di contrassegni quali il Pesce od il Re Pescatore.  Non possiamo affrontare l’argomento in esteso in questo breve art., accenneremo soltanto al problema, rimandando il lettore per una lettura esaustiva al nostro libro Il Re Pescatore e il Pesce d’Oro. Considerazioni sul tema della Rivelazione Primordiale (5).  Per comprendere esattamente i riferimenti tanto astrali quanto metafisici della leggenda del Santo Graal dobbiamo rifarci al contenuto della mitologia indiana.  Infatti è proprio là che troviamo un analogo Re Pescatore come quello del Castello del Graal e un similare Sacro Calice.
                   La storia di Manu Satyavrata, il Dāśarāja (‘Re Pescatore’) per eccellenza del Mahābhārata altri non essendo che lui in occulta forma, fa menzione non per nulla d’un otre; un vaso, immagine simbolica del cuore umano, che cambia man mano che il Pesce d’Oro Unicorne s’ingrandisce.  Tale connotazione ictomorfica ci rimanda all’Eros Protogeno greco-orfico, il quale guardacaso possedeva per veicolo il Kêtos; non un delfino qualsiasi, bensí il ‘Mostro dei Mari’, talvolta raffigurato monocero (o forse monodono come un narvalo, visto che il supposto corno è in realtà il quinto dente mediano d’un quadridente) e comunque sempre compositamente con denti di squalo.  Il Vaso, che nell’induismo è propriamente definito Pūrna Kalaśa ovvero il ‘Vaso 



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Ripieno’ (cfr. coll’ingl. Vase of Plenty), presenta molti significati correlati (6).   Fu Coomaraswamy il primo a metter in chiaro le equivalenze fra le due saghe, indiana e celtica, riflettendo sulla natura di Re Varuna.  Naturalmente nella tradizione indiana l’archetipo umano e quello divino d’una data epoca corrispondono, anzi coincidono; ecco perché nella tradizione iranica, in altre parole dal punto di vista duale proprio degli zoroastriani, si accusava Re Yima (omologo dello Yamarāja hindu, che i latini appellavano Rēx Iānus, a sua volta doppione di Manurāja) di adorare sé medesimo (sic!).  Ovviamente, non l’ego veniva considerato oggetto del culto, bensí il Sé in senso yoghico.  Coomaraswamy però non arrivò a capire analiticamente che non era precisamente Re Varuna il vero originario Re Pescatore, ma piuttosto Re Manu.  È Re Manu difatti che, dilatando il proprio cuore immensamente per contenere man mano l’Avatara Ittico (Matsyāvatāra) il quale s’ingrandisce a dismisura, riesce a congiungersi coll’intero Universo.  Ovvero con Brahmā, di cui il Pesce Unicorne era l’incarnazione originaria.  Insomma con Re Varuna, giacché questi aveva una volta per veicolo il Matsya (Pesce) anziché il Makara (‘Coccodrillo’).  Dal che si deduce che Varuna era non il Re Pescatore, bensí il Pesce ossia l’oggetto (e non il soggetto) della visione contemplativa; si tratta comunque d’una figura equivalente, persino nell’etimo, al Bran celtico (7).  Se proprio vogliamo intenderlo alla maniera di Coomaraswamy quale ‘re-pescatore’ è ad un ‘Pescatore di Anime’ nel post-mortem non meno del Ded Moroz (‘Nonno Gelo’) russo, uranicamente dotato in passato d’un manto stellato e di un’arca anziché di veste rosso-solare e di slitta, che dobbiamo pensare.  Diciamo che la veste solare è quella cosmogonica, opposta e complementare; in India è rappresentata da Mitra, che insieme a Varuna incarna una forma duale in Mitra-Varunau.  Ovviamente il Fisher-King in senso umano ovvero il Gran Maestro in senso iniziatico svolge un’analoga funzione a quella del Primo Uomo, dato che il collegio-castello-loggia funge da imago mundi (scr. Loka = ‘Mondo’) per il novizio.  Poiché pure lui attrae le anime in quel effettivo post-mortem che è dovuto all’iniziazione, se correttamente intesa quale renovatio vitae.



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                   Tuttavia il Fisher-King graalico, o Kingfisher se preferiamo la forma agglutinante, a differenza di Manurāja (l’Uomo-re originario, il Principe della Creazione) non insegue un Pesce d’Oro.  Il Pesce non appare nella saga celto-cristiana, o piú precisamente appare e non appare.  Ci spieghiamo meglio.  Solamente nel ‘Racconto del Graal’ di R. de Boron si fa una chiara allusione all’Ιchthýs, che nel particolare approccio al tema proprio del romanzo graaliano diviene naturalmente il Cristo Redentore.  O, se vogliamo, il Gesú Nazareno della Gnosi tardo-medievale.  La definizione di ‘Re Pescatore’ altrimenti non avrebbe senso.  Insomma, presentandosi Gesú nel ‘Nuovo Testamento’ quale ‘Figlio dell’Uomo’ (del ‘Primo Uomo’, l’Autopátōr, come all’uopo spiega la gnostico-essenica Sophia Jesu Christi), possiamo capire il resto.  Infatti il Nazareno, cosí chiamato secondo i piú recenti studî non perché fosse di Nazareth ma per il fatto di appartenere al Nazarenismo (movimento essenico di liberazione spirituale della Palestina dal giogo imperiale) ed esserne stato il personaggio di spicco dopo Simon Lazzaro, nella nuova gnosi di stampo esseno-nazarea sorta alla Fine del I mill. av. l’E.V. vien a sostituire Adamo; come prima aveva fatto, per gli gnostici sethiani, il ‘Figlio’ Seth (8).  Se il Re Pescatore del Castello del Graal assume i connotati d’un Re Magagnato è a causa dell’incomprensione degli uomini, i quali peccando non sanno piú innalzare il proprio cuore fin Lassú (l’Ouranós stellato dei Greci).  Ecco dunque che unicamente il Cavaliere Puro, vale a dire l’iniziato capace di arrivare in fatto di realizzazione spirituale sino alla meta ultima, sa ridonare al Re Paralitico quello che è di costui; l’intero Castello/ Universo, da cui sembrava in un primo momento persino essere stato detronizzato, perso com’era nella pesca delle anime-pesci.  Il Grande Pesce (Gesú Cristo nel simbolismo cristiano), cioè la Grande Anima offertasi in oblazione per i peccati degli uomini (cfr. sul tema il bellissimo prologo del Vangelo di Tommaso), ha trasmesso ad altre grandi anime/ re pescatori a lui correlate dal punto di vista dinastico – s’intenda la cosa spiritualmente parlando o genetliacamente non importa, ma è comunque meglio la prima interpretazione – il Verbo purificatore.  E il Verbo, come insegna S.Giovanni, era Luce.  Possiamo in 



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questo modo intendere cosa significasse quel Corno (in origine, nella Terra Iperborea, era un Dente di Narvàlo) o Raggio posto sulla bocca del Pesce nella mitologia indiana.  Tanto piú che il Pesce nel Veda era in principio Brahmā (cfr. etimologicamente e miticamente col celt. Bran), non Visnu; un po’ com’è avvenuto nella saga graaliana, dove il Re Pescatore è stato noachicamente (per probabile influenza rosicruciana) assimilato ad Artú, pur essendone in principio nettamente distinto.  Per ritrovare l’originario aspetto del sovrano vedi il Parzifal di Von Eschenbach.  Il Pesce dunque in Occidente è stato trasfigurato nella persona divina di Gesú ed è questo che insegnavano i ‘ricchi pescatori’ (come altrove, alla maniera del Bran del Mabinogion, sono in tal modo definiti i trasmettitori della sapienza graalica), a fare del ‘Sacro Cuore’ dell’Adamo-Gesú il Centro dell’Universo, sí da renderlo oggetto della propria meditazione e finale contemplazione.  Per giungere alla meta bisogna compiere un atto mastodontico di assimilazione del Divino in noi, similmente a Manu, che si sforza di contenere il Matsya in un recipiente sempre maggiore.  Non per salire a Dio, già sapendo con i piccoli occhi della semplice fede d’appartenerGli, ma per far discendere la Divinità in noi e vedere l’Universo con i grandi occhi divini del Santo Spirito.  Solamente in questa maniera possiamo contenere il Matsya/ Amrta, ossia l’Amore Imperituro, nel nostro cuore.
                   Il vero ‘Grande Occhio’ che ci spia non è quello di Echelon, o del ‘Grande Fratello’; è quello di Varuna (Urano), che attende di rivelarci il ‘Sole dai Mille Petali’ dentro di noi, ad immagine di quello fisico-astrale.  A ciò, pur nei distintivi linguaggî e simboli d’altre tradizioni, ci richiamano egualmente l’All-Seeing-Eye (<l’Occhio che vede tutto in Sé>) del Delta massonico ed altri analoghi emblemi quali l’Occhio Magico di stampo ermetico.  Sebbene la Contro-tradizione abbia abusato di tal simbolo per trasformarlo nello shivaico ’Occhio del Male’.  Non a caso, d’altronde, il Delta è una Coppa Rovesciata.  Potremmo perciò assimilarlo ad un Monte ed anche ad una Porta, nonché considerarlo un’immagine del Mondo, piú modestamente della Loggia.  [Quelle regolari, per quanto poche ne rimangano a sentir certuni...; chi scrive non è un profano, 



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ma parla comunque dall’esterno.]  Con riferimento, naturalmente, al Cielo.  Il Calice al diritto si riferisce viceversa alla Terra quale propiziatrice d’Abbondanza, od al Cuore, siccome in tale fiasco interiore ogni cosa è microcosmicamente contenuta.  Tra i due simboli, i quali furono la primeva scoperta dell’eroe-culturale cinese Fo-Hi (lo Yin e lo Yang, quantunque gli ebrei per la loro specifica vocazione sacerdotale ne abbiano fatto il Sigillo di Salomone nonché lo Stemma di David, traendolo in realtà da Seth), c’è una complementarietà non facilmente comprensibile.  Se pensiamo che la Coppa Oracolare, per mezzo di cui tutto si poteva contemplare similmente all’Occhio Oracolare delle fiabe islamiche (9), era nell’antica Persia leggendariamente attribuita a Jamšīd (var. dello Yima Kšaēta analizzato in nota), si chiarisce il punto.  Fra gli ebrei fu il Giuseppe figlio di Giacobbe a possedere una simil coppa, conferma che il Calice dell’Abbondanza apparteneva alla tradizione ebraica già prima di Gesú.  D’altra parte ritroviamo lo stesso contrassegno in Egitto, sotto forma dei 2 Canopi; un rimando ai Poli, la cui effigie nell’insieme costituisce il Senario, analogamente alla tradizione cinese.  I Poli sono tratteggiati quali Vasi opposti anche nella letteratura e nell’arte indiana.  E, guardacaso, son attribuiti simbolicamente nientemeno che a Yama, una variante di Manu.  Quantunque il simbolo appartenga di norma a Paraśurāma, il VI Avatāra, trasmettitore ai posteri della sapienza del Ciclo Antartico.  Analogo simbolismo ritroviamo del pari nell’America Precolombiana, presso i Maya-quiché, in quest’ultimo caso attraverso dei contenuti molto affini a quello graalico (10).  Da dove è giunto in America?  Dall’Artide, oppure da una zona asiatica oggi imprecisabile tramite la cultura wuista ancestrale?  Probabile, non sarebbe il primo fattore.  O forse, attraverso l’Antartico?  Anche questo è possibile.  Una spiegazione geograficamente piú problematica sarebbe del resto necessaria, ma da quale settore dell’Asia proverrebbe allora il simbolo, visto che la Cina a quel tempo ancora non esisteva?  Non possiamo occuparci ivi del tema per una faccenda di spazio.  Preferiamo invece chiederci per quale via dalla cultura iperborea e nordorientale il simbolo della Doppia Coppa (Cielo-Cuore), o dei 2 Triangoli (Poli) contrapposti si sia trasmesso 



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all’India primitiva di Paraśurāma.  Non esistendo una trasmissione diretta di alcun motivo culturale dall’estremo nord all’estremo sud dell’Asia, a parte probabilmente l’apporto del VI Ciclo Avatarico, può darsi che la trasmigrazione del simbolo sia avvenuta wittkoverianamente per diffusione lungo la costa oceaniana.  A meno di credere ciecamente al dato tradizionale, collegando il flusso iperboreo-nordorientale attraverso la Siberia colla trasmissione del contrassegno in questione, cosa che comunque in tempi odierni andrebbe dimostrata prima d’essere accettata senza riserve.  L’ipotesi che sia stata la cultura austronesiana a far da intermediatrice non è peraltro molto credibile, visto che in termini concreti non si trovano tracce in tal senso e nemmeno dati tradizionali.  Ragion per cui la questione rimane per ora aperta, al momento non avendo da parte nostra ipotesi migliori.
                   È noto da tempo comunque che un flusso migratorio ancestrale, spostatosi dall’Australia in tempi nei quali il continente australe era ancora connesso a quello asiatico, ha superato l’Indonesia arcaica per dirigersi verso l’India pre-indoeuropea e pre-dravidica e da qui ha lambito il Mediterraneo sino alla costa atlantica.  Dopodiché è proseguito sin nel Nordeuropa, per incontrarsi alfine colla cultura paleo-europea primitiva; che taluni confondono con quella proto-indoeuropea, viceversa d’origine vicino orientale.  Vi è del resto una serie di dati nelle tradizioni orali dravidiche la quale testimonia di come la costa dell’Oceano Indiano fosse molto piú ampia in passato dell’attuale, tanto che si parla d’un collegamento geografico ormai sommerso fra l’India e l’Egitto preistorici (11).  Ma, d’altro canto, anche il subcontinente indiano secondo certi dati cosmografici d’origine puranica si spingeva molto piú a sud di oggi; tanto da far pensare che gli arcipelaghi d’isole sparse lungo la linea sudoccidentale che da Ceylon arriva sino al Madagascar, e piú oltre quasi fino all’Antartide, costituiscano semplicemente i picchi d’una dorsale sommersa (12).  E quindi è possibile, anzi probabile, che una diversa diramazione del flusso oceano-austronesiano sia passato dal subcontinente indiano alla Patagonia anziché all’Europa, avendo come via l’isola antartica piuttosto che il Mediterraneo, in tempi nei quali un collegamento fra le masse 



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oceaniche lambenti i due poli non era geograficamente interdetto.  Assai piú difficile, per non dire chiaramente impossibile a meno d’immaginare una striscia continentale attraverso l’Oceano Pacifico che arrivasse fino all’Is.a di Pasqua, è ipotizzare un passaggio di temi culturali dal Pacifico all’Atlantico.  Ultimamente però ci si è accorti, utilizzando gli studî specialistici settoriali con l’aiuto di grandi elaboratori elettronici, che circa 17.000 anni fa (13) l’Atlantico era ghiacciato nell’ambito settentrionale.  Perciò consentiva un passaggio dal Nordeuropa al Nordamerica.  Una conferma a tale supposizione viene dal fatto che è stata rinvenuta in Virginia una lancia preistorica di tipo europeo (14).  Il che spiega indirettamente molte cose della storia dell’Eurasia, in particolare il mito degli Eroi.  La cosa è complessa, per capire occorre ragionare con calma, punto per punto.
                   Il fatto che si tratti al momento attuale del piú antico reperto d’America non significa che sia un lascito dei primi indigeni, ma potrebbe esserlo realmente in rapporto al flusso migratorio inter-atlantico.  Poiché, è chiaro, bisogna coerentemente supporre migrazioni in senso inverso magari piú tarde (in tempi post-miocenici).  Non vi è ragione per negarle.  Circa la presenza di altre razze sul ‘Nuovo Continente’ possiamo ipotizzare che un troncone del flusso migratorio austronesiano, per via indiana (15), sia stato il primo a raggiungere l’America Meridionale tramite il passaggio antartico; ma non il solo, giacché la dottrina tradizionale delle Razze, conservatasi specialmente per merito dei Gitani, descrive la Razza Rossa in tempi precolombiani come un’etnia mista.  Mista, sicuramente, fra Neri e Bianchi.  E non come vorrebbe una certa approssimazione, fra Neri e Gialli.  I dati razziali reperiti dalla scuola cosmologica anglosassone che fa capo a C.Wilson e G.Hancock, d’evidente influenza massonica, hanno dimostrato a livello iconografico la presenza della Razza Nera sul suolo americano – soprattutto nell’America Centrale e Meridionale – prima del 1492 (16).  Tuttavia, a nostro modo di vedere, sono le genti paleo-asiatiche e non quelle proto-indoeuropee (sarebbe meglio dire sethite o iafetiche) ad aver raggiunto per prime il continente americano.  E non potrebbe che essere cosí, dal momento che 



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l’Artico (Stretto di Bering), ghiacciato o meno che fosse, offriva un accesso senza dubbio piú facile dell’Atlantico.  Per cui è d’uopo supporre che la Prima Atlantide o Atlantide Meridionale sia stata condizionata dai due flussi migratorî in ambito antartico ed artico congiuntisi nel mezzo del continente americano.  Quest’incontro è stato sporadicamente descritto dalle tradizioni di alcuni popoli come un fatto tragico, poiché s’è rivelato in parte deleterio sia per la Razza Nera sia per quella Bianca (i Paleo-siberiani sono dei bianchi, anche se prossimi alla Razza Gialla e con gli occhi a mandorla).  Se vogliamo coglierne il lato positivo dobbiamo pensare alla Terza Atlantide, l’Atlantide Settentrionale (Iperborea).  È probabile che nelle leggende egizie riportate da un antenato di Solone e richiamate alfine da Platone si sia fuso il ricordo dell’Atlantide Centrale, cui fa riferimento geograficamente la storia greco-egizia, con quella Settentrionale oggetto di speculazione cronologica da parte dello stesso raconto.  O, se preferiamo usare un diverso linguaggio (evoliano), si potrebbe affermare che vi è stata un’interferenza fra i ricordi delle due
<vecchie Americhe> (17).  L’epoca glaciale, in effetti, è ricordata nelle loro tradizioni anche da certe tribú amerinde.  Non è difficile capire allora come mai gli Atlantidei sapessero del continente europeo ed altrettanto i Proto-arî, nonostante lo scioglimento successivo dei ghiaccî attorno all’11.000-10.900 a.C.  Cosa che causò probabilmente forti evaporazioni e, di conseguenza, il Diluvio di Noè di biblica memoria, con parziale migrazione di alcuni ceppi etnici verso l’Europa; questa volta alla deriva in mezzo all’oceano, ma possibilmente con imbarcazioni dotate di migliori capacità nautiche rispetto al loro passato.  Nella versione platonica la scomparsa dell’Atlantide (18) è legata, altresí, all’idea escatologica della corruzione del culto.  Pure la Grecia ci tramanda che i Giganti si rivoltarono contro gli Dei e con la Gigantomachia iniziò la trasmissione negativa del Tifonismo, cosa che nelle tradizioni abramitiche è presentata come l’inizio del Satanismo vero e proprio.  Non a caso nelle attribuzioni mitiche il Ciclo Atlantico-meridionale, che i Greci chiamavano tifonico, corrisponde a quello di Seth, colui cioè che al dire del celto-cristianesimo fu l’ultimo a tentar di rivedere il Paradiso Terrestre. 



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‘Sethiti’ (da non confondere coi piú tardi Sethiani), secondo R.Pataï, erano detti i suoi discendenti.  Abbiamo visto quanto il mito significhi, positivamente e negativamente, in chiave cosmografica. 
                   Il flusso post-atlantideo alla volta dell’Europa inaugurò, preistoricamente parlando, qualche millennio dopo il Mesolitico europeo.  Bisognerebbe sapere se l’emigrazione dall’Atlantide platonica per cause diluviali coincise esattamente dal punto di vista cronologico con quella dall’Atlantide Iperborea di cui riferiscono le scritture parsi per cause di congelamento.  Dai dati tradizionali parrebbe di sí.  L’ulteriore commistione di ceppi etnici già di per sé impuri determinò la formazione di 3 principali gruppi, conosciuti biblicamente col nome di Camiti, Semiti e Iafeti.  La distinzione netta fra costoro deve essere avvenuta soltanto a partire dal Neolitico ovvero, in termini mitici, a partire dalla cd. ‘ Torre di Babele’.  Che non fa capo a Babilonia, bensí allo Ziggurat sumero; riferentesi non meno della Piramide egizia al nuovo ciclo post-diluviano, emblematizzato come sempre dalla ‘Montagna Cosmica’ (altre volte è l’Isola, di cui il Monte è il Centro ordinatore) in funzione di Axis Mundi.  Tant’è che fu il cacciatore Nimrod (Orione) ad edificarla.  Dato che fra il 5000 e il 4000 a.C., epoca d’inizio della mitica Età del Ferro (Kaliyuga per gl’indú), l’asterismo d’Orione (scr. Mrgaśiras) governava il Punto Vernale.
                   Altre volte (19) abbiamo spiegato che i Druidi non erano in origine dei sacerdoti, ma invero un’etnia, proprio come i Caldei.  Parola che l’Archeologia Orientale attuale ha tanto ampiamente quanto ingiustamente rigettato, ridimensionandola ad un solo ceppo mesopotamico.  Se estensione del termine è avvenuta, però, non è da questo ceppo secondario che ha preso origine, ma dalla casta sacerdotale che dirigeva la civiltà sumera e che era di costumi visibilmente similari a quelli della casta sacerdotale vallinda.  La stessa casta sacerdotale celtica non era molto diversa, secondo quanto indicato dal nome.  I druidi erano, dunque, dei camiti di tipo dravidico.  Letteralmente i Dravida erano dei ‘Figli delle Acque’, con attinenza evidente alle loro origini e per il fatto di essere dei pescatori utilizzanti le vie fluviali e 



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marittime.  Dalla prima casta prese nome l’intero popolo, donde l’appellativo di Caldei o di Dravidi per coloro che nell’ambito dell’Oceano Indiano erano scampati all’ultimo Diluvio.  Detto di Deucalione secondo i Cretesi, del Dilmūn secondo i Sumeri, o di Dvārakā secondo gl’Indú.  I primi rappresentavano i krishnaiti (Yādava) fuggiti ad ovest (Mesopotamia), gli altri quelli fuggiti ad est (Valle dell’Indo, Gujarat).  Non è escluso tuttavia che pure i Cretesi e gli anatolici da noi definiti in nota Paleo-ionici (o Yavana), donde pare siano originati rispettivamente gli Etruschi e i Latini (almeno per la loro provenienza etnica principale), fossero strettamente apparentati in quanto genti d’origine asianica a Caldei e Paleo-dravidi.  Anzi, decisamente lo sosteniamo e supponiamo anche che i Celti medesimi o Druidi – notare il parallelismo etimologico con Caldei e Dravidi – fossero tali.  Data la comunanza colle popolazioni bianche di tutti e tre i ceppi noaici discesi da Cam, Sem e Jafet, ibridatisi rispettivamente con esponenti di razza nera, gialla e bianca, si spiega in tal modo perché mai l’intera genía sia stata definita eroica; od aria, che è la stessa cosa.  In un primo tempo da parte nostra accettavamo il dato comune, seppur pseudo-tradizionale, che gli Eroi esiodei fossero gl’Indoeuropei, ai quali Evola attribuí l’appellativo spurio di ‘Olimpici’.  Successivamente abbiamo rigettato quest’interpretazione rilevando l’analogia fra Iafeti ed Indoeuropei.  E pensavamo quindi di poter attribuire in India la definizione di Arî ai Dravidi, sebbene classificati normalmente come Anarî insieme ai Proto-australoidi.  In effetti gl’Indoeuropei, nonostante la definizione di per sé erronea che li riguarda – a meno di considerarli il prodotto ultimo delle commistioni estreme fra le varie razze dell’Eurasia quale oggidí si riscontra realmente in territorio eurasiatico – non costituiscono un ceppo bianco puro, al di là della favola germanico-buonselvaggista del “Puro Ariano”.  Piuttosto dovremmo affermare che gli Eroi veri sono solamente i progenitori mesolitici dei ceppi camitici, semitici e iafetici, non altri.  Però, discendendo tutti questi dai Proto-arî, europei od atlantidei non importa (la commistione colla Razza Bianca è avvenuta comunque), si può accennare ad essi come ad una popolazione unica seppur mista ove dominava l’elemento 



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nordico-atlantideo.  O meglio il ceppo nordorientale, divenuto successivamente nordoccidentale; trasformatosi  in ultimo nel ceppo nordico-barbarico (principalmente scandinavo), ovviamente ibridatosi in seguito.  Il ceppo nordico-barbarico ha mantenuto una maggior purezza rispetto alle origini, nei confronti dell’altro, paleo-siberiano; tuttavia è quello nordico-occidentale, in senso biblico-platonico e non europeo-moderno, che ha creato la civiltà.  Cosiccome alle prime tre razze, le razze pure celebrate anche dalla saga dei Tre Re Magi (il bianco Baldassarre, il giallo Gaspare e il nero Melchiorre), va ascritto il titolo di reali trasmettitori della nostra cultura:  Amore (Mirra), Conoscenza (Incenso) e Potenza (Oro) costituiscono i loro benefici doni.  Codesta nostra elaborata ricostruzione, seppur non confermi pienamente la posizione evoliana e parzialmente la consideri anzi purtroppo scaduta ad un livello contro-tradizionale, a grandi linee tuttavia la spiega e persino la giustifica.  Pur se in maniera sofisticata.
      Indipendentemente da ciò, crediamo d’aver alfine chiarito le reali motivazioni onde il simbolismo del Pesce, del Calice Ripieno e del Re Pescatore siano stati assimilati nel contempo da Celti ed Indú.  E laddove non è presente il Re Pescatore, in pratica il Maestro tradizionale che trasmette l’Amore Divino ai discepoli oltreché la Gnosi e le tecniche iniziatiche di Potenza per realizzarla, rimane pur sempre il Corno dell’Abbondanza.  Insomma il nostro Cuore, che può ricevere l’Alimento Immortale direttamente dal Pesce Divino, se vogliamo.  Il Tempo è giunto per questo.  S’aprano le Porte del Tempio! 









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Illustrazioni
Fig.1

Fig.2

Fig.3
Fig.4
Fig.5




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Note


(1)              Cfr. M.Introvigne, Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo- Sugarco, Carnago [Va].  Il libro per la verità tende a miscelare la magia nera con la magia tout court nello stile erudito tipico dell’autore, il luciferismo colla metafisica di Giano, generando invero un po’ di confusione.  Anche se la tradizione indiana medesima – cui chi scrive fa riferimento in genere –  insegna che tutto può divenire demonico a seconda dei punti di vista.  Il Grande Dio (Mahādeva) degli shivaiti è Satana per i vishnuiti, che lo pongono difatti al fondo dell’Inferno, alla maniera del Lucifero dantesco.  Il prof. Introvigne è d’altronde del parere che sia puramente “mitologica” l’idea d’una sopravvivenza segreta dell’antica Gnosi, termine che lui scrive però al minuscolo, dimostrando in tal modo di non riferirsi allo stesso piano di realtà cui si riferiva ad es. René Guénon.  Infatti la limita all’equivalente dottrina cattolica – di provenienza monastica – dell’effettiva conoscenza intima delle realtà soprannaturali.  Non si comprende bene, tuttavia, se a livello teologico-discorsivo od ontologico-metafisico.  Ed è qui invece, purtroppo per lui, il punto fondamentale.  Egualmente dicasi della sopravvivenza occulta perciò dei Templari e dei Rosacroce (non siamo del tutto d’accordo su una loro assimilazione, ipotizzata dallo scrittore francese in Études sur la Franc-maçonnerie et le Compagnonnage), che sappiamo attraverso altri autori essere stati di quella Gnosi, benché su un piano diverso, dei continuatori.  La Gnosi (parliamo di Gnosi e non di Gnosticismo, ovviamente, che è altra cosa) è il segreto per eccellenza d’ogni forma d’iniziazione e non è dato di conoscerla per altra via ai profani.  Però è indubbio che gl’interessanti dati riportati dal Professore alle pp. 233-8 non debbano essere sottovalutati ad un fine puramente biografico, pur di non usarli all’ingiusto scopo di screditare il Maestro di Blois.  Che abbia un senso parlare di martinismo guénoniano lo dimostra in ogni caso quell’opera equivoca a firma Palingenius (pseudonimo effettivo del maestro francese, probabilmente in chiave martinista), da taluno (il prof.Ventura) attribuita al Guénon giovanile e da tal altro (il prof.Filippi, crediamo) a S.Yves, il fondatore dell’M.S.I. (M.S.E. in franc.) ossia il Movimento Sinarchico d’impero.  Non è per nulla facile dirimere la questione, anche perché quest’ultimo ha scritto un’opera omonima, sia come autore che come titolo.  L’unica cosa certa sono gli errori dottrinali contenuti nell’opera, in sintonia colla mentalità sinarchica, sebbene qua e là si notino spunti di valore sullo stile effettivamente guénoniano.  Per es. quando in nota si parla di Balarāma e di Krsna quali espressioni, in chiave rispettivamente shivaica e vishnuita, di una determinata epoca ciclica; esattamente come lo sono, aggiungiamo noi, i loro corrispettivi ebraici vicendevoli Melkisedech e Noè.  Nel contempo sono però anche degli uomini in carne ed ossa, naturalmente; degli avatara, l’uno minore e l’altro maggiore, per dirla induisticamente ovvero dei patriarchi antidiluviani se usiamo il linguaggio veterotestamentario.  In merito alla questione dell’attribuzione dell’opera personalmente abbiamo un’idea in proposito, ma preferiamo tacerla al 



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momento, non avendo ancora approfondito le nostre ricerche sul tema.

(2)              Shamanismo e Tradizione, preparato per la Riv. ‘Simmetria’ su consiglio dell’ing.Fontecedro, ma poi disgraziatamente rimasto nel cassetto in attesa di pubblicazione.  L’ultima parte del lungo art., separata dal resto, avrebbe dovuto esser dirottata ad ‘Arkete’ nel 2006; ma abbiamo saputo dal nostro patrocinatore (il dott.Albrile) presso questa bella rivista, la quale ci aveva già pubblicato nel 2002 uno scritto sul concetto di patria nel Mahābhārata, che purtroppo aveva chiuso. 

(3)              Non bisogna credere che nello shamanismo primevo vi fossero già una metafisica ed una cosmologia ispirate al Settenario Planetario in quanto tale (i Sei Pianeti col Sole).  Questo è avvenuto solamente a partire dall’inizio dell’Età dell’Argento, ma certamente i moti celesti almeno a grandi linee erano noti.  È la mitologia cinese dell’eroe culturale Fu-hsi, inventore degli 8 Diagrammi, elaborati guardando i segni in segni incisi sul carapace della tartaruga, ad insegnarcelo.  A Fu Hsi non viene solo attribuita l’introduzione della caccia e della pesca, ma anche il primo calendario.  Pure il doppione P’an-Ku (lett. ‘Guscio Solido’), personificazione del Demiurgo (il  “Grande Architetto dell’Universo”, ritratto con sembianze umane tenendo in mano il Maglio e il Cesello; eppure altre volte rappresentato colla Testa di Drago ed il corpo anguiforme, all’epoca di riferimento dominando polarmente il Caput Draconis) ed in quanto tale produttore della Creazione nonché introduttore del Principio Duale – evidente erede durante il II Ciclo Avatarico di quello ‘Non-duale’ del I – traendolo fuori dal Caos, presenta al fianco quale modello ispiratore nell’iconografia la Tartaruga.  Vide C.A.S. Williams, Outlines of Chinese Symbolism & Art Motives- Dover, N.York 1976, ss.vv. FU HSI e P’AN KU, pp. 202-4 e 313-5 (fig.compr.).  [Si noti che l’ed.cit. è quella corr. della II rist. dell’ed.riv. di Kelly & Walsh, Shangai 1941, basata su una preced.ried. anch’essa riv. del 1932, a propria volta derivata dalla I ed. non sottotitolata, edita da parte della Customs College, Peiping 1931.]  La Tartaruga di Fu-hsi e P’an-ku, per esser chiari, altro non è che il Kurmāvatāra induista.

(4)              Abbiamo avuto occasione di assistere a tal tipo di rito in un documentario televisivo tempo fa, cosa che ovviamente non può non apparire aberrante ai nostri occhi di civilizzati.  I popoli di lingua indoeuropea (insomma i Giafeti della Bibbia), benché in seguito a numerose commistioni etno-culturali, discendono pur sempre a differenza delle genti estremo-orientali dal I Ciclo Umano, che rispettava maggiormente gli animali rispetto al III.  Seppur oggi nella società civilizzate si faccia di peggio, in fatto di crudeltà gratuita, verso gli animali.  Le crudeltà rimangono in ogni caso quello che sono, la Tradizione – o meglio la vera Tradizione, non 



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quella luciferina…– le ha mai giustificate.  Come direbbe il Mahābhārata, i “giusti” del Krtayuga (il Primo Ciclo) – notare l’affinità del concetto con quello corrispettivo presente nel mondo ebraico – per nessuna ragione le avrebbero compiute.  Anche nella tradizione cinese d’altro canto si fa ammenda di quanto avvenuto, indicando nel venir meno del senso di pietà la causa dei futuri mali dell’umanità.

(5)              La Prima Parte del testo è stata inviata all’Ed. ‘Il Cinabro’, di Catania, fin dal 1999.  Poi sono state contattate indirettamente, attraverso un intermediario (l’ing.Fontecedro), le Edizioni ‘Atanòr’.  Purtroppo, per svariati motivi – compresi quelli strettamente tipografici, data la precedente stesura del testo colla grafica CWP dell’Olivetti – il libro non ha potuto ancora essere pubblicato.  Speriamo ora di poterlo far uscire, entro il prossimo anno.  La Seconda Parte verrà tuttavia tralasciata, per ricevere in seguito un altro titolo e una differente edizione.

(6)              Vedi P.K. Agrawala, Pūrna Kalaśa or the Vase of Plenty- Prithivi Pr., Benares 1965, sgg.

(7)              Siccome esiste nella lingua celtica una var.Vran, sebbene con connotati sinistri.  Non è sbagliato neppure connettere sethianamente Bran con Kronos, come solitamente si fa da parte di Graves et al., pur d’intendere per esso il Crono/ Saturno aureo.  D’altronde questo etimo deriva dall’altro per gutturalizzazione (k-) della semivocale iniziale (v-), previa trasformazione della labiale (b-) in semivocale (v-).  A sua volta la v/ v- (o w/ w-) in sanscrito, ed altrove nelle lingue indoeuropee, presuppone quale momento intermedio fra la forma labiale (*b/ b-)  e quella gutturale (*k/ k-) una mutazione parziale in labiovelare (kw-/ kw--); sebbene accademicamente si pretenda di far derivare da questa entrambe le forme, il che non pare lecito, essendo in contraddizione colla differenziazione generazionale dei nomi divini.  Nell’epica hindu troviamo ad es. Vala oppure Bala (anche con la lunga) quale figlio di Varua (Urano), ma il personaggio comunque si chiami non può essere identificato a Kāla (Crono), poiché si tratta di generazioni divine distinte.  Nel caso di Vala si può riportarlo a Śiva, di cui il Varunide ed i suoi omologhi appaiono un travestimento, essendo quegli figlio di Brahmā ossia del Primo Nume; in quanto a Kāla è evidente che questi vada identificato a Bhīma, alter-ego di Kārtikeya quale figlio di
Śantanu, equiparabile a Sāgara e quindi a Varua.  Per una delucidazione ampia di codeste figure cfr. G.Acerbi, Il Re Pescatore e il Pesce d’Oro- Simmetria, Roma 2015 (in prep. il testo definitivo, dopo una gestazione di ben 22 anni!), Cap.I sgg.   Da notare che il titolo di ‘Figlio’ può essere apposto non solamente al ‘Secondo Nume’, ma pure al ‘Primo Uomo’ in quanto creato dal ‘Padre’.  Pitamāha (‘Grande Padre, Primo Antenato’) è difatti il soprannome per antonomasia di Brahmā.  Abbiamo altrove dimostrato d’altronde che anche lo Yahweh biblico, derivato da un precedente Yaw, costituisce mitologicamente l’omologo ebraico di Giano.  Per questo nei Collegia



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(Fabrôrum) romani, donde sono derivate le Logge massoniche dei Muratori, si finí per identificare il dio latino con quello ebraico.  Non abbiamo a che fare col sincretismo in tal caso, ma con una vera e propria sineresi, assolutamente legittima.  La ‘Doppia Faccia’ della Divinità si richiama alla Sua Androginia, donde provengono il Maschio e la Femmina (scr. Purua e Prakti).  Non è anche Eva nata dalla ‘Costola’, o dal ‘Fallo’  secondo un testo apocrifo ebraico, del ‘Primo dei Viventi’?  In questi contrassegni sono adombrati la Ruota e l’Asse del Mondo, che caratterizzano rispettivamente anche Re Varua e Re Yama.  Un diverso modo d’intendere la bifaccialità è di riferirla al ‘Padre’ e al ‘Figlio’, per i latini il ‘Vecchio’ e il ‘Giovane’.  Nel senso duplice prima esposto, ossia nel senso del Dio/ Uomo oppure del Primo/ Secondo Nume (lo Yahweh-Elohīm ebraico della ‘Genesi’).  Gl’iranici addirittura hanno unito i due nomi di Giano-Saturno, che fra i Latini appaiono separati, in un’unica persona: Yima Kšaēta.  Per un’interpretazione etimologica dell’appellativo ed una collocazione mitica del personaggio, accanto agli omologhi di altre tradizioni, cfr. G.Acerbi, Note sullo sfondo cosmologico del Tetramorfo di Ezechiele- Alle pendici del Meru (17-04-06, blog), passim.

(8)              Vedi etimo in rapporto a Re Saturno, caratterizzato secondo Virgilio non meno di Re Giano da un’effigie fallica, il cd. ‘penate’.

(9)              L’Occhio Oracolare si trova in certe fiabe delle Mille-e-una notte, come quelle di Sinbad il Marinaio.  Figura ivi quale ‘Occhio Frontale’, alla maniera indiana; mentre nella tradizione islamica vera e propria compare in forma di ‘Occhio-nella mano, designato <Occhio di Fatima> dal nome di una delle figlie di Maometto e derivato dall’<Occhio di Miryam> giudaico.  L’origine lontana di tale contrassegno – diffuso soprattutto nella gioielleria ebraica e vicino-orientale col nome di hamsa (dall’ebr.hameš = ‘cinque’) – è        sicuramente oltre-atlantica, dato che lo ritroviamo di pari passo nella Piramide Nera ecuadoregna.  Consultare, in proposito, il seguente link: http://consciousreporter.com/conspiracy-against-consciousness/corruption-sacred-symbols-all-seeing-eye/.  L’All-seeing-eye del ‘Ladro di Bagdad’ di una delle varie versioni cinematografiche nelle quali il film è stato realizzato, pur rispecchiando ispirativamente il mondo fantastico arabo come del resto tutto il contorno nel quale detto motivo simbolico è immerso, costituisce una mera invenzione tematica dell’ambiente massonico hollywoodiano.

(10)             Lo dimostreremo in un libro che stiamo ancora preparando, Il Graal e la Gnosi.  Riassuntivamente, possiamo qui anticipare un passo del succitato romanzo di De Boron, ove si fa cenno alla precisa posizione in cui collocare la Coppa.  Vale a dire, nel centro preciso della Prima Tavola del Graal.  Cosa che corrisponde 



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esattamente al simbolismo della Tavola Solare Rettangolare Tridenaria dei Chorti, attuali discendenti in Honduras dei Maya, e di quella dei loro antenati honduregni.  Al centro della Tavola è posto un Vaso di maggiori dimensioni, simboleggiante il Dio del Centro del Cielo (zenitale), rispetto agli altri due centrali posti marginalmente; effigi, a loro volta, del Padre e del Figlio Minore.  Il Dio del Centro (Cuore) del Cielo funge invece da Figlio Maggiore, ovvero da Dio-tredici; indicando con ciò una funzione solare di tipo astrologico-calendariale prevalente tanto nei confronti degli altri due vasi grandi minori laterali, quanto dei dodici vasi piccoli posti parallelamente in opposizione ai 2 lati maggiori del quadrangolo sacro.  Cfr. in proposito R.Girard, La bibbia maya. Il Popol-Vuh: storia culturale di un popolo- Jaca B., Milano 1976 (ed.or. Le popol-vuh. Histoire culturelle des Maya-quichés- Payot, Parigi 1972), P. prima, Cap.3, pp. 55, fig.10 e 56, fig.11.  Facciamo tuttavia notare che certe espressioni del pur valentissimo paletnografo svizzero (scomparso nel 1982 nella capitale guatemalteca), quali teo-astronomia o cosmo-teogonia, sarebbero propriamente da riprendere; giacché ogni cosmogonia antica è nel contempo una teogonia, visto che ad ogni epoca ciclica corrispondono determinate divinità.  Inoltre, tutte le teologie arcaiche sono basate sull’astrologia, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, non sull’astronomia, la quale del resto non se n’era ancora distaccata.  Ciò avverrà soltanto nel mondo europeo moderno, da Galileo in poi.    

(11)  G.Acerbi, La terra mitica dei Dravida- Algiza, Chiavari [Ge] 1999,  pp. 9-10.  Rispetto a quando avevamo scritto negli Anni Novanta quest’articolo oggi sappiamo in aggiunta che un celebre archeologo ed iconologo indiano, il prof. Rao, ha aggiornato il tema svolgendo ricerche su Dvārakā (letto oggi in hindi Dvārkā), la mitica sede di Krsna.  Nell’isola, oggi sommersa, era situata l’antica capitale del Regno degli Yādava (appartenenti alla Dinastia Lunare); tra i reperti oceanici si scorgono anfore e sigilli del tipo di quelli vallindi, segno che la vecchia Civiltà dell’Indo discende dalla cultura krishnaita di epoca pre-diluviale.  Notiamo inoltre che Dvārakā era stata costruita sugli scogli a strapiombo per ragioni strategico-militari, ossia per difendersi dall’espansione in Oriente degli Yavana (Ionici, in principio; poi il nome è passato ai musulmani ed in seguito agli stranieri in genere, divenendo sinonimo di Mleccha, i Fuoricasta).  Gli storici hanno individuato nell’espansione degli Ionî avvenuta nel VI sec. a.C. verso i confini nordoccidentali dell’India una testimonianza storica della veridicità del racconto letterario tradizionale, ma tale espansione dallo Yavana-deśa (Asia Minore) non rappresenta che una tarda migrazione avvenuta in tempi storici, di contro a quella mesolitica.  Personalmente siamo convinti che due flussi abbiano invaso l’Oriente.  Dapprima quello paleo-dravidico degli Yādava, spintosi maggiormente ad est, e poi quello paleo-ionico degli Yavana.  Sicuramente in una lontana antichità i due popoli erano etnicamente connessi, ce lo rivela l’affinità dei nomi coi quali si autodesignavano o venivano designati.  Dobbiamo identificarli ai Pelasgi della tradizione ellenica?  O solamente uno di essi corrisponde a loro?  Crediamo tutti e due, dato che si tratta in 



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ogni caso di Paleo-camiti.  E il termine ‘pelasgo’ ne sembra un equivalente sul piano semantico, significando ‘dalla pelle  scura’; vale a dire, letteralmente, proveniente dalla ‘Terra Scura’, appunto la Pelasgia.  Forse contrapposta alla ‘Terra Bianca’, coperta di ghiacci, delle regioni nordiche.  Il Mediterraneo – financo l’Egitto – raffigurava il “Nord” rispetto all’Africa, ma il “Sud” rispetto al Nord-europa.

(12)  Non a caso una dorsale oceanica esiste davvero in direzione sudoccidentale sotto l’oceano.  Possiamo immaginare che in tempi preistorici collegasse il subcontinente indiano all’Antartide.  La teoria dell’elisione continentale e delle placche tettoniche come conseguenza della rottura in pezzi d’un continente unico chiamato Pangea viene oggi respinta dalle nuove speculazioni geofisiche.

(13)  I dati cronologici ciclici offrono un quadro cosmologico che potrebbe spiegare adeguatamente i rilevamenti avvenuti riguardo il globo terracqueo sulla base del computo temporale lineare.  Oggi è chiaramente dimostrabile difatti che l’Atlantide di I.Donnelly e di altri non è mai esistita, l’unica Atlantide immaginabile con un po’ di senno sul piano oceanografico non essendo altro che l’America, pur diversamente configurata nelle terre emerse rispetto al ‘Nuovo Continente’ attuale.  Dato che ogni ciclo della cosmologia tradizionale corrisponde ad una diversa configurazione continentale dobbiamo necessariamente immaginare, cosa che peraltro fecero già ai lori tempi Guénon ed altri studiosi, due cicli atlantidei; o, se vogliamo, un’Atlantide Meridionale ed una Settentrionale.  Anzi, Centro-Merdionale, quella Settentrionale corrispondendo invero alla cd. ‘Atlantide Iperborea’.  Vide Ac., Il Re P., Cap.II, n.11.   La prima sarebbe durata, stando ai calcoli suddetti (è una pura deduzione matematica, basata però sull’orologio astronomico della precessione equinoziale), dal 23.920 al 17440 a.C.; e la seconda, a noi maggiormente prossima (la vera ‘Atlantide’ di Platone, benché il filosofo greco la confonda colla terza di breve durata), dal  17440 al 10.960.  

(14)  Per la verità è il reperimento della lancia che ha spinto a nuovi studî oceanografici, non viceversa, come abbiamo noi supposto per esigenze nostre.  Un resoconto dettagliato della sensazionale scoperta è contenuto nel doc. Prima di Colombo.  Sebbene piuttosto grossolano nella ricostruzione umana dei fatti – soprattutto in relazione al versante shamanico dell’interpretazione proposta – e nonostante l’attribuzione di un’alimentazione carnivora esclusiva di tipo venatorio all’economia tribale dell’epoca, si deve riconoscere che il filmato in questione ha fatto centro, rivelandosi indubbiamente interessante.

(15)  Un’ulteriore ipotesi è lecita, seppur difficile da sostenere in termini paletnologici, ossia che vi sia stato un 



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flusso diretto dalle zone australi dell’Oceania via Tasmania o Neo Zelanda allo Stretto di Drake e alle coste sudamericane (Capo Horn, Terra del Fuoco).  Sempre attraverso la Terra Antartica, che a differenza di quella Artica non è mai sprofondata.  Per quanto sia stata teorizzata nel secolo scorso da parte degli scienziati l’esistenza di ‘Lemuria’, una specie di continente australe atto a spiegare le affinità biologiche fra le specie floreali e faunistiche dell’Australia e determinate altre del Madagascar.  Il fatto tuttavia che in Madagascar si parli ancor oggi una lingua di tipo indonesiano, attribuita secondo noi erroneamente a storici viaggT di scoperta (ma quali?), si spiega meglio con la nostra supposizione.  Tanto piú se si considera che, sovrapponendo il dato geologico del collegamento continentale dell’Australia con l’Indonesia – perfettamente giustificato dal fatto che il flusso migratorio austronesiano risalirebbe a 40.000 anni fa –  a quello della presenza in tempi successivi d’una dorsale nell’Oceano Indiano magari inoltrantesi nell’Oceano Antartico, non si giunge in effetti ad un quadro generale troppo diverso da quello lemuriano supposto dai biologi.  E non è detto che fra le due vie non vi fosse un interscambio per una via meridionale un tempo piú diretta, se è vero che alcune popolazioni sudafricane (Boscimani, Ottentotti) hanno conservato sino ad oggi tratti che ricordano gli autoctoni australiani (Aborigeni) piuttosto che i Proto-australoidi indiani.  D’altra parte anche i proto-australoidi indiani si differenziano in 2 categorie, una settentrionale di tipo mundarico (Munda ecc.) e l’altra di tipo veddoide  (Vedda ecc.).

(16)  G.Hancock, Impronte degli Dei- Corbaccio, Milano 1996 (ed.or. Fingerprints of the Gods, 1995), P.III, Cap.17, pp. 169-70; inoltre, figg. 25-8.

(17)  Gli Amerindi raccontavano nelle loro tradizioni di terre orientali sommerse, caraibiche o meno, e non d’un intero continente; come attribuí loro il Donnelly, evidentemente influenzato da Platone, che però trovavasi dall’altra parte dell’Atlantico e poteva permettersi dunque maggior approssimazione.

(18)  Sulla II Atlantide cfr. G.Acerbi, L’Atlantide caraibico-andina. Il punto sulle interessanti ricerche di Jim Allen- Il Giardino delle Esperidi (on line,  in prep.); sulla I Atlantide si analizzi invece riassuntivamente tutto quella serie di studî poggiantesi sulle ricerche di C.H. Hapgood, le quali hanno il solo difetto di scambiare il Ciclo Antartico (30.400-23.920 a.C.) di Perseo con i due cicli atlantici suddetti.  E non capiscono cosí che, indipendentemente da ogni spostamento polare effettivo, è la Tradizione che si è trasferita e non la geografia che è mutata.  Che dire d’altra parte dello spostamento polare?  Esso non può che essere di natura pendolare, similmente al variare del Polo Celeste.  E la variazione è per forza di cose indirettamente agganciata anch’essa, perciò, al fenomeno della precessione degli equinozî.  Non un fatto casuale, altrimenti salterebbe l’orologio astronomico tanto venerato in 



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sede tradizionale.  E salterebbe pure tutta la simbologia, compresi i simboli inerenti al Tetramorfo.  Di conseguenza, se ne deduce, la supposizione da parte di alcuni d’una modificazione dell’inclinazione dell’asse terrestre (vedi ad es. la tesi dell’ing.Barbiero in Una civiltà sotto ghiaccio) non può essere considerata mera fantasia.  Anche se a dire il vero tempo fa eravamo scettici su questo punto ed abbiamo ingiustamente criticato un massone, il Bruni, che ce l’aveva fatto osservare su base guénoniana.  Vi sono dunque altre spiegazioni rispetto a quelle fornite da Hapgood circa il variare del clima, a parte la variazione collegata all’influenza del Polo Celeste, la quale si ripercuote sulla terra in una maniera che forse gli antichi conoscevano.  Sugli spostamenti polar-equinoziali e i cicli avatarici conseguenti vedi G.Acerbi, Introduzione al Ciclo Avatarico. Da Matsya a Kalki- Heliodromos N.S. (pr. ’00-02, NN. 16-7), Catania 2000-02, pp. 15-24 sgg.

(19)  Ac., La t.m., pp. 11-2.