lunedì 15 dicembre 2014

IL RE PESCATORE, SOVRANO UNIVERSALE DELLE ACQUE, NELLA LETTERATURA INDO-EUROPEA



Paralleli fra Bran e Brahma, nonché Varuna e Urano




                   Vi è un personaggio particolarmente significativo seppure un po’ desueto nella letteratura di lingua indoeuropea, tanto importante quanto misconosciuto, o meglio semiconosciuto.  Nel senso che solamente la letteratura tardo-medievale nord-europea lo riconosce come tale.  Per il resto o è ignoto, oppure compare sotto altra forma e non è quindi inteso nel giusto senso.  Questi è il Re Pescatore.  Ufficialmente appartiene esclusivamente alla letteratura graaliana, ma in realtà codesta figura – come ebbe già modo di segnalare a suo tempo Coomaraswamy (1) – ricorre tanto nel mondo celtico quanto nel mondo indiano, sebbene non in quelli affini iranico e germanico.  In quest’ultimo era rappresentato in origine dal dio celtico Bran, designato per trasposizione mitologica signore dell’età aurea, non meno di Crono e Saturno presso i Greci e i Latini.  L’epica medievale cristiana, di stampo franco-merovingico, ne ha fatto però un discendente di Giuseppe d’Arimatea.  Cioè, secondo la libera interpretazione di qualcuno (2), del fratello maggiore di Gesú; altrimenti noto col nome di Giacomo e fondatore della prima comunità ecclesiastica, la Chiesa di Gerusalemme (3), equivalente terreno di quella ‘Nuova Gerusalemme’ cui allude S.Giovanni nell’Ap.- xxi. 1-4 (4).  Brillantemente però l’esimio autore britannico ha dimostrato, in suo successivo saggio (5), che la linea dinastico-rituale dei possessori del Santo Vasello – vale a dire del  Graal – si salda da un lato con quella di Giuseppe, figlio di Giacobbe e detentore d’una famosa ‘Coppa Oracolare’; dall’altro attraverso Mosé ovvero Akhenaton (leggi Ekhnatón), secondo quanto hanno dimostrato gli studî della seconda metà del XX sec., con la tradizione egizia del Vaso Sacrificale o Canopo (6).  Nel mondo iranico viceversa la ‘Coppa’ è stata attribuita a Jamšīd, versione tarda di Yima Kšaēta, ad un tempo ‘Primo Uomo’ in senso archetipico –  fungente da aureo re-sacerdote, eroe civilizzatore nonché istitutore delle quattro caste (7)  e ‘Primo Dio’ (Creatore).  Il che ci fa rammentare come anche Manu Rāja (il Settimo Manu, detto anche Satyavrata o Vaisvasvata), alter-ego dell’equivalente indiano Yama Rāja, disponga sostanzialmente d’analoghe attribuzioni (8).  Compreso l’emblema della Coppa, seppure mascherato dal mitologhema della crescita a dismisura del contenuto (9).  Alludiamo ovviamente al contenitore, ogni volta variante di forma, in cui egli raccoglie il Pesciolino d’Oro e che è costretto a sostituire man mano che il Pesce dall’Aureo Corno aumenta di dimensioni (10).
                   Nell’iconografia il Matsya Avatāra è quasi sempre in parte umano e in parte pescino (solo variano le proporzioni da icona ad icona delle due 



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componenti) allorché è opposto a Bali, l’Avversario avatarico, oppure principia la serie dei Dāśavatāra.  Sono piuttosto infrequenti al contrario le rappresentazioni interamente teriomorfiche della incarnazione umana di Viṣṇu, com’è d’altronde logico capire, poiché questa costituiva in realtà la forma originaria di Brahmā.  Quando in alcune occasioni il I Avatāra compare invece assieme a Manu, assistiamo allora ad una raffigurazione teriomorfica del Pesce, che però non presenta mai neanche in tal caso alcun corno a livello figurativo, fungendo semplicemente da cavalcatura del primo uomo.  Si tratta in sostanza d’una composizione piuttosto rara, che i testi riportano unicamente in due esemplificazioni.  L’una, reperita dal Rev. Heras (11), varia comunque rispetto all’altra segnalata da Iyer (12) per una minor complessità.  Nell’immagine di Naurangi Darwaza (un rilievo forse a tutto tondo, dal contesto che la riporta non si comprende bene) Manu è, diversamente da come ricorre nella saga letteraria, a cavalcioni del Pesce.  Mentre in quella di Bhatkal, formulata in doppia sequenza sebbene in un singolo riquadro, dopo una presentazione del tema – Manu ritto in piedi, con la mano destra alla bocca (non si capisce bene cosa regga) e la sinistra sul mitico ‘Fiasco’ – si assiste ad una speciale bipolarizzazione fra Manu e l’Avatara Pescino, che in tutta chiarezza è mostrato esserne il ‘Messaggero’.  Cosí interpretata l’icona darebbe tuttavia a Manu un significato brahmanico, che non pare qui adeguato, trattandosi d’una scultura avatarica e dunque vishnuita.  Quest’ultima immagine parrebbe a prima vista una ripetizione della medesima formula iconografica precedente di Forte Raichur (di datazione incerta), sennonché la figura umana del Tempio di Ketaparanārāyaa (XVII-XVIII sec.) non cavalca quella pescina, ma semplicemente le sta sul dorso.  O forse piú probabilmente, se la duplice sequenza scultorea in bassorilievo non c’inganna costituendo una semplice ripetizione del personaggio stesso di Manu, trattasi d’uno sdoppiamento ulteriore fra il mitico Matsya – evidentemente la Divinità in Sé, cioè Viṣṇu nel contesto – e l’Avatāra nella sua ‘Prima Discesa’ in veste antropomorfica.  Fatto peraltro piú unico che raro nell’ambito dell’iconografia induista.  Normalmente il Matsyāvatāra compare infatti in veste semi-ittiomorfica, a volte quasi una figura umana che esce dalla ‘Bocca del Pesce’ sino alla cintola.  Oppure è ritratto solamente il Pesce del Diluvio, con accanto i Quattro Veda in forma di Ṛṣi (13).  In questo caso, è problematico capire se si tratta di Viṣṇu o d’un emblema della sua prima manifestazione plenaria.  La nostra seconda interpretazione è quindi sicuramente piú corretta della prima, visto che il riquadro ove sono contenute le due icone è unico.  Una duplice scena realmente sequenziale avrebbe richiesto, evidentemente, due 



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riquadri separati.  La prima interpretazione non è in ogni caso del tutto scorretta, dato che Manu a parte la sua connotazione umana primeva non è in realtà diverso da Brahmā, da cui discende secondo il V.P.- i. 7 per bipolarizzazione in Svāyambhuva (14) e Śatarūpā (lett. ‘dalle ‘Cento Forme’) aliâs Sāvitrī.  Onde, il suddetto ‘Vaso’ contenente il Matsyāvatāra altro non è che è il ‘Vaso della Saggezza’, di cui è considerato portatore Brahmā in persona (15).
                   D’altra parte sappiamo che la dimora del Brahmapura è in Cielo, ossia sulla <Vetta> del Merupārvata; equivalente alla <Vetta> del Monte Sion, situato all’Estremo Nord – del globo e non della Palestina, come intendono certuni, cosa che non avrebbe senso alcuno se non d’un rimando geografico indiretto al vero 'Estremo Nord' – ed ospitante la cd. ‘Gerusalemme Celeste’ (16).  Cfr. la figura di Brahmā, anche etimologicamente, col Bran celtico.  Il Vaso, che secondo certuni (17) non meno dell’Uovo del Mondo costituiva primordialmente una raffigurazione schematica dell’intero Universo (in cui il Divino è ubiquitariamente contenuto, in senso trascendente e non panteistico), è posto giustamente in relazione (18) con i maṇḍala vedici nei quali è stata racchiusa dai veggenti primordiali la fruizione della Sapienza Divina.  Sta di fatto che Manu nella scultura di Bhatkal  tiene in mano davvero il leggendario ‘Fiasco’, quasi fosse il suo cuore.  La spiegazione degli Stutley non è però a nostro parere del tutto convincente.  L’Universo non può esser concepito come ‘Cuore della Divinità’, perché questa sarebbe una forma di panteismo, a meno d’intendere il Tutto in modo ermetico quale forma vivente dell’Uno.  Insomma secondo la formula classica dello ῍Εν-τὸ-πᾶν, nella quale l’intero mondo è dinamizzato come ūni-versus, in rapporto a quel principio unitario donde esso è dominato.  Semmai dovremmo parlare del ‘Vaso’ quale ‘Cuore dell’Universo’ e, perciò, contrassegno della Divinità.  Un attributo iconografico corrisponde infatti per intero all’immagine raffigurata, non ne è una connotazione parziale (19).  In base a codesta spiegazione si può allora concepire la ‘Brocca di Manu’ quale variante iconologica del ‘Vaso di Brahmā’.  In altre parole, Manu può esser concepito quale detentore della Sapienza Universale, essendo totalmente identificato a quel Divino che percepiva spontaneamente nel suo cuore di uomo.  Non per nulla la leggenda afferma che è dopo aver fatto gli arghya, le libagioni a base d’acqua (nel senso ovviamente metaforico dell’Acqua di Vita, se vogliamo intendere esotericamente, con allusione cioè alla meditazione sull’Au), che egli è venuto in contatto col Matsya.  Ossia dopo aver annullato mentalmente la presenza della Manifestazione.  E, di conseguenza, può esser considerato – perché no? – un pantocratore.  Manu 



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è inoltre associato all’Arca, oltreché alla Coppa; tale duplice contrassegno non può non rammentarci l’analogo simbolismo rispettivamente di Melchisedeq e Noè, i leggendarî fratelli biblici (associati per l’appunto l’uno alla Coppa e l’altro all’Arca, ma distintintamente), seppure in questo caso il riferimento sia a tempi non piú primordiali.
                   Una volta stabilita l’affinità indubbia fra Brahmā e Bran, potrà a tal punto parere strana la concordanza filologico-tematica sopra supposta fra Re Bran e Re Krónos, visto che nel contempo abbiamo paragonato fin dal titolo Bran a Varua e ad Ouranós; ma in realtà anche il nume celtico presenta caratteri agrarî similmente a Crono, accanto a quelli piscatorî di tipo brahmanico e a quelli marini di tipo uranico.  Cfr. nel primo caso l’ipostasi celto-cristiana alternativa di Re Ban, l’epico ‘Cavaliere Verde’ graalico; padre di Lancelot du Lac e consorte della ‘Dama del Lago’, identificabile a propria volta all’antica Morrigan, la ‘Regina del Mare’.  Egli viene chiamato altrove Uther Ben, o Uther Pen-dragon, allorché funge da padre di King Arthur.  Il Drago (lett. l’appellativo significa al completo ‘Testa del Dragone del Nord’, con allusione all’asterismo circumpolare che funge alternativamente all’Orsa Minore e alla Stella Vega da perno boreale), non meno del Serpente, è d’altronde in genere un emblema agrario; giacché a differenza del Pesce, primevo contrassegno dell’Unità Divina, indica la moltiplicazione dapprima quinaria e poi settenaria dei Nomi della Divinità, conseguente all’avvenuta conoscenza a livello tradizionale delle principali fasi temporali.  Sebbene esistano da un lato una’effigie intermedia di Drago Marino, che in zona estremo orientale s’identifica al Coccodrillo (donde l’immagine cinese del Tao T’ien); ed in area europea, dall’altro, un meno informe Mostro del Mare rappresentato dal serpente cornuto Achelóo o dal Kraken nordico.  Nel secondo caso si esamini inoltre la storia culturale della figura di Poseidone (20), presso cui – come dimostriamo in una nostra opera che speriamo di pubblicare prossimamente (21) – delle Corna primarie d’origine titano-ciclopica e di valenza ciclico-ctonia si trasformano secondariamente in Tridente di valore marino-piscatorio. 
                   Egualmente Kāla, in forma di Śiva, rappresenta nell’induismo il  ‘Cornuto’ per eccellenza al pari di Crono. Dei reperti mesolitici rinvenuti da Frobenius in area afro-mediterranea c’insegnano indirettamente che le Corna e le Gambe di Toro (cfr. in questo secondo caso colla tesi del Parpola)(22) erano infatti considerate fin dalla preistoria umana un attributo del Signore del 



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Tempo, poiché esse costituivano emblematicamente una stilizzazione grafica delle due fasi temporali di crescita e decrescita della vegetazione.  Ciò spiega la reale affinità etimologica e concettuale in greco – seppur in passato negata –  fra Κρόνος e Χρόνον, come prova indirettamente il significato del lat. hornus  La ragione semplice è che  persino a livello faunistico, e non solo grafico quindi, i palchi dei cervidi seguono l’andamento ciclico annuale.  Ecco perché sono emblemi atavici del nume temporale.   Non per nulla il Cervo costituisce, a livello iconografico, un emblema tanto di Crono-Saturno quanto di Shiva nell’arte medievale (rispecchiante sicuramente un passato assai lontano) rispettivamente europea ed indiana.  Tuttavia nei culti indonesiani pre-islamici vi è parallelamente un omonimo Kāla, che non è un demone agrario, ma al modo di Poseidone (23) funge da nume oceanico.  Dato che parallelamente al mondo greco-pelasgico (i Pelasgi erano i corrispettivi mediterranei dei Paleo-dravidi indiani, d’origine occidentale)(24) le corna taurine del Proto-Shiva – o meglio Proto-Kala – si sono trasformate nell’India pre-vedica esattamente come nella Grecia pre-omerica in un Tridente (Triśūla), è da supporre che al di là del rituale corrispondente tale arma fosse utilizzata nella pesca entro una vasta koiné indo-mediterranea.  La cosa ovviamente suggerisce che un Signore delle Acque (marine e fluviali) postumo, ossia post-agrario e posto in rapporto con le vie commerciali, si sia originato da un primordiale Signore del Mare pre-agrario attraverso una fase intermedia propriamente agraria, secondo quanto postula il mito aureo druidico-dravidico ed egizio-pelasgico del Re Pescatore e della leggendaria Coppa.  L’ascendenza camitica di tale figura, anziché iafetica, spiega in modo palese la sua presenza in certa letteratura indoeuropea e non in altra.  Presso cioè quei ceppi iafetici quali Celti, Greci ed Indiani, mescolatisi con ceppi camitici; ma non invece presso altri (sono la maggioranza) quali Germani, Latini ed Iranici, fra i quali questi due simboli o non compaiono in nessun caso o non coesistono (25).  In siffatta interpretazione s'inserisce allora anche la vecchia definizione etimologica coniata da Padre Heras dei Dravida quali 'Figli delle Acque' (non stiamo qui a riportare per brevità l'intera ricostruzione dell'etimo fatta altrove)(26), vale a dire dediti al commercio oceano-fluviale nonché alla pesca.  Egli riconobbe giustamente una fondamentale componente etno-culturale camitica sia nei Dravidi sia nei Pelasgi (detti alternativamente Termili o Minî)(27), nonché fra i Sumeri ( chiamati un tempo Caldei) ed i Celti (28).  Circa costoro sono direttamente le tradizioni irlandesi a confermarcelo attraverso il mito dei Fomori, venuti da sud.  Altrimenti non si spiegherebbe come mai delle tribú di guerrieri nomadi provenienti da est e praticamente 



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indistinguibili da quelle germaniche abbiano fondato in breve una civiltà tanto importante, assai stimata persino dai Romani, e radicata sul territorio.  Anche il De Vries ha ipotizzato a suo tempo assennatamente che i culti druidici  fossero pre-indodeuropei.  L'etimo del termine ‘druido’ dal gr. drys = 'quercia' e dalla rad.ie. *wid = 'conoscere' è peraltro visibilmente un misto fantasioso fra l'ermeneutica latina, che faceva derivare comprensibilmente quasi tutto dal greco, e la glottologia moderna.  Non è avvenuta la stessa cosa nell’Egeo, in Anatolia ed in Mesopotamia, o nella Persia e nel Deccan?  Pure colà una casta nomade prevalentemente guerriera e dedita alla razzia siccome addestrata all'uso del cavallo delle steppe, di pelle piú chiara e di lingua affine al latino (genti acheo-omeriche, hittito-mitanniche e avestico-vediche), hanno occupato zone camitiche abitate da agricoltori sedentarî e commercianti-pescatori semi-sedentarî assimilandone a lungo andare la cultura.
                   Resta ora da esaminare piú approfonditamente la comparazione fra il dio greco Urano, ovvero il Signore dell’Asse Cosmico dal cui ‘Fallo’ immerso nelle ‘Acque Celesti’ si genera Afrodite Urania, e l’indiano Varua (29).  Cominciamo col rilevare che la nascita di Afrodite nella mitologia ellenica non avviene diversamente da come Eva è generata da Adamo secondo certe leggende ebraiche apocrife, le quali postulano quale elemento fecondante dell’uomo per antonomasia la ‘Coda’ anziché una ‘Costola’.  A. Urania possiede altresí come alter-ego iconologico  A. Anadiomene, la quale a differenza della prima detiene per paredro non il padre-sposo Urano, bensí il figlio-sposo Eros, ossequiato dagli orfici.  Fra i due vi è la differenza che passa in India fra Varua e Kāma, aventi entrambi per veicolo il Pesce (Matsya) o il Drago Marino/ Fluviale (Makara, animale composito traente elementi simbolici tanto dal coccodrillo o dal gaviale gangetico quanto dal pescecane o dal delfino)(30).  Ed è significativo, a tal proposito, che proprio Eros in Grecia sia accompagnato parallelamente o dal Delfino – che è in realtà un Kétos, cioè un’immagine del Mostro del Mare (31) – o dal Coccodrillo.  Cosa che è stata trasmessa, attraverso il  Cristianesimo, persino all’iconografia dei nostri cimiteri monumentali.  Il ‘Fallo’ di Urano – non a caso l’organo maschile di riproduzione dicesi anche ‘verga’ nella nostra lingua – corrisponde d’altra parte a quel che in India è il Kāladaṇḍa (lett. la ‘Verga del Tempo, insomma l’Axis Mundi), un simbolo contrapposto sul piano complementare al Kālapāśa (chiamato, piú semplicemente, pāśa), vale a dire il ‘Laccio’ che permette al Cielo in forma di Varua (Rgv.- vi. 74. 4) o di Yama di riacchiappare le anime perdutesi nella Manifestazione.  In una funzione che potremmo cioè definire di ‘Traghettatore’, sebbene altre mitologie usino a tal uopo l’immagine meno cruda del



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‘Nocchiero’ con tanto d’imbarcazione (32).  Per la verità questa è presente persino nella cultura hindu, se è vero che lo stesso Satyavrata appare come tale nel Mahābhārata, pur sotto celato nome (33).  La ‘Barca’ in questione, benché intesa nel contesto dichiarato in funzione opposta rispetto all’altra precedente (ovvero in senso creativo anziché dissolutivo)(34), non è diversa dall’Arca del Diluvio, in cui si riassumono entrambe le funzioni.  Infatti Manu Satyavrata da un lato traghetta ciò che è salvabile del Caturveda e della vita intera dal I Ciclo Avatarico al II, dall’altra porta a consumazione l’intero primo ciclo di manifestazione.  In altre parole, quel che resta è la Tradizione Primordiale, la quale a causa della parziale perdita cui è andata soggetta rispetto alla corrispettiva precedente Rivelazione (vale a dire, l’Au puramente inteso)(35), rappresenta già una prima ‘Caduta’.  La Bibbia non offre testimonianza di questo momento ciclico se non attraverso la frammentazione dell’Uomo Androginico in una coppia umana.  Analogamente, del resto, alla tradizione iranica.  Con la conseguente scoperta della polarità e di tutto quel che ad essa concerne.  Vedi leggenda dell’Albero Gnostico (del Bene e del Male), dove il Serpente svolge un ruolo simile a quello di Vāsuki – intermediatore fra Deva e Dānava nonché procacciatore del Soma nel mito sub-artico del Samudramathana (‘Rimestamento dell’Oceano’), di cui è rilevabile altresí una traccia significativa pure nell’America Pre-colombiana.  Probabilmente tale racconto di creazione secondaria rispecchia cosmologicamente il passaggio periodico del Polo Artico dalla Stella Vega (36) alla costellazione del Dragone.  Non a caso dal ‘Rimestamento’ nasce Vāruī, la figlia di Varua; che altri non è se non V.Urania, cioè Afrodite.  O, se preferiamo Eva (ebr. Hawwā) (37).  Altra progenie sono le Apsaras, cioè le Sirene (38); nei confronti delle quali Vāruī può sicuramente esser considerata sovrana, cosí come il padre Varuṇa è signore dei Gandharva (39).  

                                                                   Giuseppe Acerbi





Note



(1)                A.K. Coomaraswamy, Yakas- Munshiram M., N.Delhi 1971 (ed.or. Smithsonian Institute, Washington 1928), P.II, Cap.II, §§ 2, p.35 e 3, p.37 ss.



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 (2)                L.Gardner, La linea di sangue del Santo Graal.  La storia segreta…- Newton & Compton, Roma 1997 (ed or. Bloodline of the Holy Graal- Chev. Labhràn, U.K. 1996; rev. edita da H.Collins, U.K. 2002), C.VII, pp. 86-7.
(3)                Sicuramente tale εκκλησία, in origine una semplice adunanza di devoti, non deve essere interpretata come una delle varie chiese che poi si opposero l’una all’altra in area mediterranea nel tentativo ognuna d’imporre il proprio predominio culturale sulle consorelle tramite i loro vescovati, ma semmai è da intendere in senso gnostico quale assemblea eletta degli uomini di luce che facevano capo agl’insegnamenti del Nazareno.  E quindi può esser reputata, checché se ne possa dire, come la prima vera Chiesa Apostolica o –  se preferiamo – Gnostica.
(4)                I vv. 5-9 successivi alludono al Padre Celeste (Colui-che siede-sul Trono) come all’Alpha e all’Omega, poiché un “nuovo cielo” e una “nuova terra” subentrano al “vecchio cielo” e alla “vecchia terra” (vs.1); Egli costituisce una Fonte dispensatrice dell’Acqua della Vita’ per gli “assetati” (gli eletti), chiamati i ‘Figli di Dio’.  Cose entrambe che invece nei ‘Vangeli’ sono attribuite a Gesú.  Da notare che nella mitologia sumerica sono Anu (il Cielo personificato in senso uranico) e la sua paredra a svolgere tale funzione di dispensatori dell’acqua di grazia.  Sempre nello stesso passo, al vs.9, si menzionano i ‘Sette Angeli’ (cfr. con gli ‘Arconti’ gnostici) con le ‘Sette Coppe’; fornitori al contrario di equivalenti flagelli e contrapposti ai ‘Dodici Angeli’ del vs.12, presiedenti alla ‘Città Santa’, discesa dal Cielo sul Monte Sion (vs.10).  In questo caso abbiamo a che fare colla <Vetta> della Terra Paradisiaca, ma altre volte in analogia col Monte Meru della tradizione indiana la cima di Sion indica alternativamente la <Vetta> dell’Empireo.  La ‘Nuova Gerusalemme’ ha 12 perle come <Porte> e possiede mura fatte di pietre preziose  (vv. 11-4).  La piazza centrale e tutta la città è d’oro, ma d’un oro trasparente come cristallo (vv. 15-21).  L’Angelo della visione, identificabile crediamo all’Arcangelo Michele, tenendo in mano una Canna D’Oro traccia la misura della ‘Città’, che è quadrangolare: 12.000 stadî (vs.16).  Poiché, a parte l’idea di stabilità connessa ad una forma relativamente perfetta, 4 sono gli Eoni (cicli di 6.480 anni) che formano l’Età Aurea e 12.000 a grandi linee gli anni che la dimezzano, vale a dire intercorrenti nel I Grande Anno di platonica memoria.  In xxii.1-2 il concetto si amplia ed allora si comprende che la ‘Sorgente della Vita’ discende dal <Trono> di Dio e dell’Agnello, precedentemente descritti come la <Lampada> della ‘Nuova Gerusalemme’.  Tale <Fiume di Vita>, che sotto un certo aspetto può anche esser concepito in senso temporale, è però di acqua cristallina e fulgente al pari della cd. ‘Acqua-che brucia’ di certe tradizioni pre-colombiane, e lambisce l’<Albero della Vita>, posto in mezzo alla piazza della ‘Città Santa’.  Da quest’albero provengono 12 raccolti mensili.  Ciò significa che esso altro non è che l’Axis Mundi, cioè il perno polare dello Zodiaco Solare, le cui stazioni annuali sono date dalle 12 <Porte> della ‘Nuova Gerusalemme’.  Di per sé non diversa dal Liber Vitae, in cui sono iscritti i Giusti.  E il ‘Libro’ suddetto può anche esser considerato infatti similmente al 



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Graal (vedi la relazione etimologica fra i termini medievali gradale e grasale) una Sacra Coppa, giacché rappresenta l’ennesima metafora del Paradiso Celeste o se vogliamo del Paradiso Terrestre.  Talvolta nell’esoterismo cristiano la Suprema Realtà è adombrata, per contro, nel simbolo d’un Sacro Fiore.  Trasferendo il simbolismo cosmologico apocalittico su un piano ontologico, bisogna viceversa interpretare l’Arbor Vitae e l’Aqua Vitae quali emblemi rispettivamente dell’Unità di Dio e della Luce Divina.  Da notare che pure in India vi è un’identificazione concettuale sul piano emblematico fra il Sacro Calice, il Sacro Veda (in senso celestiale), il Sacro Loto, la Civitas Dei  o Brahmapura/ Brahmapurī  (‘Rocca del Brahma’) e il Brahmacakra (la Ruota del Brahma; i quali tutti sul piano microcosmico sono un immagine del Cuore, il centro spirituale a livello umano, mentre sul piano macrocosmico indicano il ‘Centro dell’Universo’.
(5)                L.Gardner,  Le misteriose origini dei Re del Graal- Newton & Compton, Roma 2000 ( ed.or. Genesis of the Grail Kings – Bantam B., ? 1999 ), passim.
6)                 Certamente il Vaso del Sacrificio egizio, detto ‘Canopo’, ha a che fare – non fosse che per il nome – con l’asterismo omonimo circumpolare antartico.  Tale asterismo si riporta periodicamente in sede polare ogni 6.480 anni, al modo della Stella del Dragone nell’altro emisfero.  Ossia, trovandosi in linea mediana piú o meno con Sirio e la Croce del Sud, di cui grosso modo costituisce il mezzo (per quanto non si debba pretendere la precisione assoluta da questo tipo di assunzioni simboliche, come d’altronde succede anche col cerchio zodiacale solare), raggiunge con movimento pendolare il Polo Antartico all’inizio di ben 5 cicli avatarici (o giorni divini) su 10.  Ossia al principio del II, del IV, del VI, dell’VIII e del X.  Non essendo propriamente regolare la linea di spostamento ciclico, ma leggermente concava, si può concepire vagamente l’intero movimento come racchiuso in un triangolo con la punta in basso; ovvero piú sommariamente, tracciando un segmento immaginario che congiunga gli estremi di detta linea tripuntata, in una coppa.  Da tale circostanza astronomica è probabile sia derivata la simbologia a livello cosmologico del Vaso Sacrificale, che caratterizza le tradizioni rifacentesi ai poli.  Per questo i Canopi in Egitto come in India gli equivalenti Kalaśa, appartenenti ai Ṛṣi Vaiṣṭha e Viśvāmitra, erano due.  Nelle tradizioni del nord invece il Vaso è uno solo, con riferimento artico, non essendovi mai state presso di esse relazioni storiche precise con l’Antartide.  Ma anche in questo caso, se proprio volessimo, potremmo tracciare benissimo un analogo rapporto col Polo Sud, non solo attraverso la relazione storica fra l’antico Israele e l’antico Egitto; ma piú direttamente, considerando che la figura profetica di Gesú rappresenta una prefigurazione non meno di altre associate al monoteismo dei tempi storici (Mosè, Zoroastro, Buddha, Maometto) – sebbene con circoscrizione piú limitata – del ‘Maestro’ apocalittico.  Gl’indiani direbbero di Kalki Avatāra.  D’altra parte il Cristo del ‘Secondo Avvento’ presenta chiaramente caratteri corrispondenti a quelli del X Avatara indú.  Infatti la ‘Testa di Cavallo’ di cui si fregia Kalki in certa iconografia od il ‘Cavallo Bianco’, ch’egli talora monta non 



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meno del Cristo escatologico giovanneo o del Mahdī islamico, sono attributi che ci rimandano alla costellazione di Canopo.  Cfr. G.Acerbi, Il mito del Gokarna ed il drammatico agone fra Perséo e Medusa- Alle pendici del Monte Meru (blog, 17-01-13), p.14, n.27.
(7)                A.Rogers (a c. di), The Shah-namah of Fardusi- Saeed International, N.Delhi  1989, p.16 ss.
(8)                Per l’interpretazione di tale fenomenica simbolica rimandiamo a G.Acerbi, Il Druidismo e il ‘Calice Ripieno’. Annotazioni ulteriori sulla mitologia e l’iconografia di Bran-Brahma e Urano-Varuna- Alle pendici del Meru (blog., 30-01-15).
(9)                Per la verità, a parte la corrispondenza arcinota presso la cultura indo-iranica fra i gemelli androginici (di nome e di fatto) Yama e Yima, che ha peraltro un parallelo in Europa – non segnalato o segnalato solo parzialmente dagli storici delle religioni – presso la cultura latino-germanica nell’Ymír norrenico e nello Iānus latino (entrambi, guardacaso, androgini), ne esiste un’altra meno facilmente rilevabile fra Manu e il tardo Mašyē.  Quest’ultimo termine iranico (pahlavico) è forse connesso filologicamente all’ir. mas (‘pesce’), scr. matsya (‘pesce’).  Si potrebbe ipotizzare una lontana provenienza elamita del termine.  Difficile dirlo, solo un esperto d’iranistica potrebbe confermare o meno la nostra tesi.  Però sicuramente il sinonimo mīna, di probabile origine dravidica, sta alla base d’un éthnos che gli storici greci (cfr. n.24) chiamavano Minýai e facevano evidentemente risalire al capostipite mitico Minýas, padre di Atamante.  I Minî altro non erano in realtà che i Pelasgi, dai quali sarebbero discesi secondo l’attestazione indiretta di Erodoto (Hist.- i. 171-3) – attraverso una migrazione nell’Asia Minore (Licia), dove erano chiamati Termili – i Dravidi.  Ora è chiaro che stando cosí le cose, siccome al di là delle nostre supposizioni etimologiche è indubbia l’affinità etnica di tipo camitico fra gli egeo-pelasgi, i minoico-cretesi, gli egizio-nilotici, gl’irano-elamiti e gl’indo-dravidi (i neologismi delle nostre definizioni sono tesi semplicemente ad evidenziare la natura marittimo-fluviale delle summenzionate civiltà), non risulta difficile trarre un ulteriore parallelo fra i personaggî greci di Mīnōs / Minýas e quelli indiani di Manu / Mīnanātha (nome del primo iniziato shivaico in quanto primevo Signore dello Yoga, disceso nel ‘Ventre del Pesce’ per portare al mondo il Jñana ovvero la la Gnosi).  Notiamo altresì all’interno della sfera induista una stretta relazione, sia dal punto di vista mitologico che filologico, fra l’Uomo-re satyayughico nonché il suo erede tretayughico (Manu, Mīnanātha) ed il Pesce (Matsya o Mīna che dir si voglia, l’uno in rapporto al <padre> Brahmā, l’altro al <figlio> Śiva).  Anche in Egitto del resto si racconta (ii. 4, 2) d’un primo re denominato Mīn, lo stesso cui Manetone attribuisce il nome di Menes.   A tale nume, ossequiato a Chemmi, l’iconografia attribuisce similmente allo Shiva indú tre caratteri fra di loro solidali: unicornía, itifallismo e unipedía.  Ecco perché i Greci lo equiparavano a Egipan (figlio di Amaltea, la Capra Unicorne), omologo dell’Ajaikapāda



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indiano, ennesima forma di Śiva.  Erodoto (ibid., 46 ) cita ancora il Dio-capra di Mendes – uno dei vetusti ‘Otto Dei’, prototipi di quei ‘Dodici Dei’ coltivati dai Pelasgi medesimi (ib., 52-3) ma raffigurati in forme scultoree primieramente in Egitto – come altro equivalente diretto.  E forse non a caso gli egizî veneravano pesci sacri filiformi quali il Lepidòto e l’Anguilla (72).  Tanto per chiudere il cerchio, rammentiamo che nella mitologia germanica è attestato da Tacito un dio primordiale Mannus, che evidentemente doveva fare il paio fra i Proto-germani con il succitato Ymír.  Che dire poi dei Latini?  Possibilmente Numa, il “lunare Numa” come lo definiva non a caso Evola, a sillabe invertite costituirebbe una figura di sovrano assai precedente a quella di Rōmulus e del gemello Rēmus; nomi questi ultimi derivati rispettivamente, per via troiana (la loro madre latina Ilia è allegoricamente una personificazione di Ilium, cioè di Troia), dal gr. Rhōmos-Rhēmos.  Invertendo l’ordine dei nomi, costoro non sono altro in termini indú che Rāmacandra (‘Rama della Luna’) e Balarāma (‘Rama-fanciullo’), ossia i due Lamech del culto biblici. Insomma, il VII e l’VIII Avatāra, stando all’induismo.  Benché nel contempo il mito romano dei Gemelli al di là dei nomi utilizzati costituisca la trasposizione in forma latina dei gemelli vishnuiti Balarāma e Kṛṣṇa del ciclo successivo (IX Ciclo Avatarico), assunti in tale veste allorché la costellazione dei Gemelli  dominava il Punto Vernale (6.640-4.480 a.C.).  Ed è a questa lontana data, piú che non al Segno Gemelli del ciclo annuale, che paiono richiamarsi nell’iconografia relativa riportata dal Cook – vedi l’ampio materiale del suo studio su Zeus, che non stiamo qui a citare – le due stelle poste sulla capanna ove sono stati affidati dopo l’abbandono materno i Gemelli latini.  Codesto abbandono è di sicuro un’altra allusione ad una mitica Troia immediatamente precedente all’Età del Ferro, cui pare d’altro canto andare colla memoria non a caso Esiodo, poiché in tutta evidenza il vate non si riferisce alla vicenda storica della seconda metà del II mill. a.C.   Il nome del ‘Secondo Re’ romano può diversamente essere riportato di per sé al gr. Nómos, in tal caso risultando un doppione della figura saturnio-lunare di Remo; la quale si contrappone planetariamente al simbolismo saturnio-solare di Romolo, chiaro corrispondente in base a codesta interpretazione oltreché del  Balarāma indú anche del Melchisedeq biblico.  Cosí come Remo, sulla stessa base logica, sarebbe da riportare vicendevolmente non solo a Rāmacandra, ma pure a Seth.  Ora, dato che i ‘Sette Re’ di Roma sono una evemerizzazione spinta e deformata all’uopo di ciò che nella mitologia induista raffigurano i ‘Sette Manu’, possiamo tranquillamente affermare in sintesi che il ‘II Re’ di Roma (Numa) non funge solo da Manu del VII Manvantara (l’Uomo-re dell’Età dell’Oro); bensí pure da signore dell’Età del’Argento, esattamente come il ‘I Re’ impersona ad un tempo l’VIII ed il IX Avatāra.  In altre parole Remo, coi suoi 7 Avvoltoi (cfr. con Pico Feronio), ha funto analogamente a Balarāma da Signore dello Zodiaco per identificazione ad Ercole (cfr. con Pico Marzio).  In India una equivalente identificazione è possibile da un lato fra Rāmacandra e Agni (nel senso asurico-planetario di titanico nume della vegetazione), dall’altro fra Balarāma e Kṛṣṇa-Jagannātha (alter-ego devaico-zodiacale



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di Indra, il capo dei Marut, in qualità di nume pluviale del precedente ciclo avatarico).
(10)              Ciò, ovviamente, è suscettibile di varie interpretazioni, tutte d’altronde lecite, seppure su diversi piani.  Sotto un certo aspetto l’aumento di dimensioni del Pesce, emblema delltmā, indica la riproposizione della stessa in forme diverse, via via più complesse.  Al riguardo però bisognerebbe offrire ulteriori spiegazioni, che solo in uno scritto a sé    rimandiamo perciò a G. Acerbi, I numi erano numeri: carattere matematico della vetusta astrologia e della conseguente teogonia- Alle pendici del Monte Meru (blog, 24-07-11).
(11)              H.Heras, Studies in Proto-Indo-Mediteranean Culture- I.H.R.I.- Bombay 1953, C.IV, p.415, fig.276.
(12)              K. Bharatha Iyer,  Animals in Indian Sculture- Taraporevala, Bombay 1977 C.IX, tav.132 ( a mezzo fra le pagg. 56 e 57 ). L’autore purtroppo non spiega nei dettaglî le immagini, limitandosi esclusivamente nel C.XI ( p.73) a commentare il motivo iconografico su base leggendaria.
(13)              Iyer, op.cit., tav.131.
(14)              Svāyambhuva , il I Manu, è figlio di Svāyambhū.  Ossia l’<Esistente-di per Sé>, che è un epiteto evidentemente di Brahmā.  Cfr. con Yahweh, il quale afferma nell’apparizione a Mosé (Akhenaton) sul Sinai (Ex.- iii. 13-6) “Io sono Colui che sono!”.  Nella lingua ebraica l’espressione  suona: Ehyē Asher Ehyē.  Cfr. al riguardo la discussione in nota ai versi posta in E.Galbiati et al. (a c. di), Antico Testamento- Utet, Torino 1973, Vol.I, pp. 86, col.a e 87, col.b., seppure troppo teologizzante e riduttiva; il curatore, in tutta evidenza, confonde il piano ermeneutico con quello etimologico.  Anche nella tradizione egizia precedente a Mosé compariva d’altronde un nume autogeneratosi, con le stesse prerogative demiurgiche (separanti Cielo e Terra), sotto forma di Ptah.  I buddhisti mahayanici l’hanno chiamato invece Ādibuddha o semplicemente Svabhāva.  Il termine Svāyambhūnātha, impiegato dal buddhismo tantrico  o tantrismo buddhista che dir si voglia), parrebbe di primo acchito esserne un altro equivalente.  Ma probabilmente i tre termini ora citati non si equivalgono esattamente  ed allora i primi due si riferiscono al principio metastorico, mentre il terzo è forse un equivalente di quello del I Manu.  Tant’è che il vr. nāth, donde deriva il s.m. nāth-a (‘maestro’), significa ‘possedere, aver maestria su’.  Quindi, è logico dedurne che quest’ultimo termine indichi il Purua e non Puruottama.  Di qui ha preso nome il grande tempio-monastero sorto in un colle presso Kāthmaṇḍu, dato che ogni tempio è per gl’indiani un simbolo del Purua.  Da notare che sullo harmikā (plinto, ovvero la base cubica al di sopra della cupola emisferica reggente la piramide a 13 cerchî concentrici degradanti, omologa alla medesima a gradini del Tempio di Bodhinātha) dello stūpa sono sommariamente dipinti 4 volti, ma se ne deve immaginare un quinto invisibile e 



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trascendente, alla maniera della testa verticale dello Śiva Pañcamukha.  Che tali volti abbiano a che fare con i 5 Dhyāni-buddha della Scuola Vajrayāna lo dimostra il fatto stesso che siffatte figure della meditazione (dhyāna) siano presenti simultaneamente nel contesto segnalato entro appositi pannelli cuspidati posti in direzione dei 5 Punti Cardinali (i quattro nostri, nonché il loro centro comune in funzione quintessenziale).  Cfr. M.Bussagli, Architettura Orientale- Electa, Venezia 1973, p.269 (cap. sulla regione himalayana, a c. della prof.sa C. Silvi Antonini Colucci).  Indubbiamente i 4 ‘Volti’ orizzontali – suggerenti nell’ordine decrescente luni-solare Amoghasiddhi (Verde), Ratnasambhava (Giallo), Amitābha (Rosso), Akobya (Blu) – rappresentano l’onniveggenza dell’Ādi-Buddha, cosí come accade nell’induismo con le 4 ‘Teste’ di Brahmā.  Mentre l’Unico Volto centrale, relativo a Vairocana (Bianco), allude al Purua in sé.  Ed è significativo, a questo proposito, che in realtà il potere creativo di codesta forma non originata della Mente Universale si esplichi attraverso la manifestazione di 7 Dhyāni-buddha, anche se solitamente ne vengono considerati soltanto 5 in rapporto agli Elementi (Bhūta).  Ai 7 Buddha celesti, sicuramente corrispettivi dei 7 Manu celesti ed in relazione segreta coll’Ebdomade planetario, corrispondono del resto 7 Dhyāni-bodhisattva; che ne costituiscono l’aspetto attivo ed a loro volta emanano i 7 Buddha umani nell’ambito delle 7 Sovrarazze, radici della nostra umanità.  Anche in tal caso il paragone coi Manu terreni è doveroso.  I Bodhisattva, invece, vanno paragonati agli Avatāra.  Pure gli Avatāra d’altronde erano 7 in origine e non 10, visto che venivano equiparati ai Pianeti; in altre parole avevano relazione coll’aspetto sottile dei Manu, quantunque poi siano passati a designare la forma terrena dei medesimi.  E, siccome nell’ambito d’ogni manvantara i varî avatāra non sono che forme via via progressive del Manu presiedente ad esso, ecco che la precedente applicazione si è rivolta al manvantara stesso.  Il Settimo Avatāra, cioè l’ultimo di essi, era considerato Rāmacandra ovvero Balarāma; avente molti tratti comuni col Set/Seth egizio-ebraico, analogo al Saturno latino.  Poi sono stati aggiunti due altri avatāra, aventi lo stesso nome, come i Nodi Lunari.  Ciò ha peraltro portato ad una certa confusione nelle interpretazioni cicliche, giacché ha spinto taluni ad identificare erroneamente il I al X Avatāra, con la scusa dei Navagraha (i 7 Pianeti piú i 2 nodi Lunari).  Infine ne è stato aggiunto un decimo, prima della sua venuta terrena, in riferimento non si sa bene a cosa.  Nell’astrologia moderna dopo la scoperta di altri 3 pianeti, checché ne pensino i tradizionalisti letterali, il suddetto problema è stato risolto.  Giacché i Pianeti sono diventati 10 di numero, come gli yuga d’ogni manvantara.   E vane sarebbero le argomentazioni sulla presenza possibile di altri pianeti trans-plutoniani in base agli studî astronomici recenti, quasi certamente sbagliati.  Il Manvantara dopo il 2000 è già terminato.  Vale comunque il precedente stato di cose.  Risulta lecito pertanto ipotizzare che il numero degli avatāra, non possa essere soggetto a ulteriori variazioni, dato che i cicli periodici sub-manvantarici sono effettivamente 10.  La presenza dei 3 pianeti trans-plutoniani, al contrario, concorda con i risultati empirici delle speculazioni degli antichi,



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inserendosi perfettamente nel quadro delle influenze da loro teorizzate in passato.  Visto che Urano, Nettuno e Plutone hanno preso sul piano nominale – nonostante l’incongruenza dei nomi, il primo dal greco e gli altri due dal latino – il posto vicendevolmente del Saturno aquariano, del Giove pescino e del Marte arietino.  Altra cosa è viceversa l’aggiunta nell’oroscopo delle stelle fisse o degli asteroidi.  La loro influenza non può che essere minima e quindi il loro valore simbolico risulterà assolutamente secondario, in ispecie quello dei pianetini.  Chi nega gli aggiornamenti astrologici crede solamente al valore emblematico dei simboli, ma la verità è maggiormente profonda.  Il Tantrismo afferma non per nulla: yathā pinde, tathā Brahmāṇḍe.  Ciò fa il paio con la nota formula dell’Ermetismo: cosí in alto, cosí in basso.
(15)              M. & J. Stutley, Dizionario dell’Induismo- Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A Dictionary of Hinduism- Routledge & Keegan, Londra 1977), s.v. kalaśa, p.199, col.b.
(16)              Cfr. G.Acerbi, Note sullo sfondo cosmologico del Tetramorfo di Ezechiele- on line (http://allependicidelmeru.blogger.com), Alle pendici del Meru (17-04-06), n.12  Ripubblicato, riveduto, in Alle pendici del Monte Meru (blog, 25-08-15).
(17)              Stutl., op.cit., col.a
(18)              Op.cit, coll.a-b.
(19)              Esattamente come avviene col Vaso Eucaristico, che è un vaso di grazia riposto nel Tabernacolo, essendo ripieno del Liquor Vitae.
(20)              D’origine libica secondo Erodoto, cretese (il Tridente almeno) secondo altri.          
(21)              G.Acerbi, Il Re Pescatore e il Pesce d’Oro- Simmetria, Roma 2017? (pres. alle Ed. ‘Il Cinabro’ di Catania nel ‘99, ma rimasto inedito per problemi editoriali ed ora in fase di rimodellamento), Cap.-VII sgg.
(22)              A.Parpola, Sanskrit kāla- «time», Dravidian «kāl» leg and the mythical cow of the four yugas- Ind.T. (Vol.  III-IV, 1975-6), P.Two, pp. 361-78.
(23)              L’equiparazione è solamente formale, visto che il ruolo del nume oceanico indonesiano è maggiormente arcaico; risale al II Mahāyuga, ovvero Magnus Annus, ciclicamente parlando.  Mentre il dio greco appartiene al IV.
(24)              Attestazione da parte dello storico Pausania (II sec. d.C.) nel Quarto Libro del suo Periegeo  o ‘Descrizione della Grecia’, compilato nel periodo 170-80 d.C.  Vide, per una discussione del problema, Ac., op.cit., C.IV, n.10.  Cfr. inoltre n.9.  Erodoto (i. 146) aveva parlato invece precedentemente dei Minî Orcomeni come di una delle stirpi pelasgiche scacciate dagli Elleni, essenzialmente i Dori, in Miliade (la terra anatolica prima abitata dai Solimi).  Che Pelasgi e Minî fossero però la stessa cosa dei Termili ai quali si è sopra accennato, ossia degli antenati egei dei Dravid, è provato dal fatto che avessero costumi materlineari (ibid., 173) del tutto simili a quelle riscontrabili presso le genti dravidiche in



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India.  Lo storico dorico del V sec. a.C. ci narra pure della loro discendenza cario-cretese, descrivendo la cacciata in Asia di Sarpedone e della propria stirpe da parte del fratello Minosse.  A questo primo contingente se ne aggiunse un altro formato dai discendenti di Lico, figlio di Pandione (assimilabile a livello onomastico al Pāṇḍu indú, anch’egli noto nella mansione di leggendario fratello), mitico re ateniese scacciato pure lui dal fratello Egeo.  I Carî, discendenti di Care, erano anch’essi d’origine cretese prima di stabilirsi in Attica e svolsero un ruolo dominante nella Grecia arcaica (ib., 171).  Da Lico furono poi chiamati Lici (173).  Altre tribú loro affini erano i Cauni, pur esse provenienti da Creta (172); nonché i Misi ed i Lidi, in quanto Miso e Lido erano fratelli di Care (171 ).  Naturalmente, bisogna ricordare che la superficie insulare di Creta prima del Diluvio di Deucalione era assai pid estesa di quella odierna geograficamente parlando.  
(25)             Il fatto che i tre simboli del Pesce, della Coppa e del Re Pescatore compaiano unicamente presso quelle genti iafetiche che hanno avuto contatti con quelle camitiche, prova che la loro presenza nella letteratura indo-europea non è strettamente legata al ceppo maggioritario.  Ecco la ragione per cui non si trovano fra i Latini, dove Giano – il primo uomo-dio – detiene contrassegni equivalenti agli emblemi di Yama e di Yima, ma non a quelli di Manu ; né fra i Germani, presso i quali si ha un primevo Mannus, di cui però non conosciamo alcun particolare attributo.  Quasi la stessa cosa si può dire nonostante la loro probabile parentela culturale cogli Elamiti degli Iranici (cfr. n.9), che hanno Coppa e Pesce, peraltro distinti e non in relazione vicendevole, ma non il Re Pescatore.  A meno che si ritenga valido quanto postulato a proposito di Masye.  Mentre invece troviamo tutti e tre i simboli in Egitto, con Mīn-Menes (ad un tempo Pesce Unicorne, nume primordiale della pesca nonché primo re) ed il Vaso Canopico (raddoppiato o meno che sia). 
 (26)             G.Acerbi, La mitica terra dei Dravida- Algiza ( N°13, nov. ‘99 ), Chiavari 1999, pp. 12.
(27)             Her., op.cit., C.V sgg.
(28)             Ac., art.cit., p.11.
(29)             Questi due nomi sono sul piano strettamente filologico visibilmente apparentati al celt. Bran, se si considera che in alcune lingue indo-europee la consonante labiale tematica b si sovrappone facilmente alla semiconsonante v.  Nel gr. Ουρανός si può immaginare la caduta del digamma iniziale, con trasformazione della suddetta semiconsonante nel ditt. Ου- ed aggiunta del suff. –ος (nel celtico con compare mai alcuna desinenza); mentre nel scr. Varua la metatesi vocalica fra le due prime sillabe del nome (Vu- e -ra-) determina uno sdoppiamento fra la semiconsonante v- e la vocale -u-, con suff. finale in –a tipico delle lingue ‘satəm’.  Tuttavia è chiaro che gli stessi termini Κρόνος e Kāla posseggono, al di là delle apparenze, un etimo assolutamente equivalente.  In quanto la gutturale K- ha sostituito ciclicamente nel passaggio di riferimento dall’Età dell’Oro a quella dell’Argento la semiconsonante velare.  La vocalizzazione della prima sillaba e la perdita



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della terza consonante tematica -n-, con trasformazione della liquida -r- in -l- nell’antica lingua indiana è solo un fatto eufonico; come dimostra il gr.Krόn-os, seppure in questo caso si abbia la var.voc. a>o.  Circa il sost. Brahmā possiamo postulare una derivazione dalla rad. *bram= ‘rivolgimento di stelle’, donde i verbi brahm (‘andare, muovere verso’) e bhram (‘’volger attorno, causar moto, produrre rivolgimento’) – connessi a loro volta rispettivamente a bhr (‘generare, produrre, mantenere in equilibrio’) e brh/ brnh (‘espandere’) – nonché il sost.m. bhram-a (‘rivolgimento, rotazione  di astri, cerchio’).  È chiaro che i concetti di Varua (un tempo dio delle Acque celesti) e di Urano (che i Greci definivano ¢στερόentoς = ‘ricoperto di stelle’) vanno di pari passo con quello di un Brahmā similmente inteso.  Altrettanto dicasi per Kāla e Crono.
(30)             Coom, op.cit., tavv. XV ( fig.2 ), XVI ( fig.3 ), XLIII ( fig.7 ) e XLV ( fig.3 ).  Nella prima immagine (Amarāvatī) menzionata il ‘Mostro del Mare’ ha corpo, coda e scaglie pescine (forse di delfino), ma gambe e muso da coccodrillo e testa taurina; viceversa, nella seconda (Mathurā), la testa allungata e gli occhi prominenti sono da gaviale.  Nel terzo caso (Bodhgayā) invece  la bocca è da coccodrillo, il muso proboscidato elefantino ed il corpo a spire dragonico; ma nel quarto (Besnagar) l’intera sagoma è da squalo.     
(31)             Il kētos (mostro del mare, grosso pesce; delfino, squalo, balena), donde il lat. cētus/ cētos (id.) e per dissimilazione di significato il nostro termine ‘cetaceo’, non indicava per nulla una categoria riproduttiva in senso biologico come oggi noi la intendiamo; ma, piuttosto, faceva distinzione fra i pesci di piccole dimensioni ed i grandi.  Tanto che anche il tonno era classificato come ‘kétos’.  Il termine, inteso invece in senso archetipico, non si riferiva ad una particolare classe biologica.  Designava al contrario il capostipite mitico dei pesci, il quale secondo le concezioni arcaico-tribali di molti popoli era rappresentato da un grosso animale delle acque con tratti variegati.  Si può notare infatti ancor oggi che il classico Delfino delle fontane, si accompagni ad Eros o a Nettuno o ad altre figure marine come i Tritoni ecc., è reputabile un delfino soltanto nella forma; nella dentatura, al contrario, è un pescecane o tutt’al piú un’orca.  Un’ultima considerazione valga per l’etimo, che appaia da un lato le suddette voci greco-latine e dall’altro il lat. squal-us all’ingl. shark.  Si nota chiaramente che nell’ultima voce latina indicata la gutturale finale del tema indo-europeo (-k) è stata retratta per fondersi eufonicamente colla sibilante iniziale ( s-), la quale però ha perso la propria aspirazione (-h-) e l’ha rilasciata alla gutturale cui si è associata, sR da formare il nuovo gruppo sq-.  La liquida (-r- > -l-), invece,  è rimasta invariata.  Ciò denota tra l’altro a livello glottologico – sia detto per inciso – che il segno greco χ equivale al lat. q, oltreché alla gutturale aspirata kh di altre lingue indo-europee quale il sanscrito.  Infatti la base originaria di tutte le parole citate è sicuramente *k(h)ar, secondo quanto mostrano nella filologia iranica i termini avestici kara (pesce mitico, in origine probabilmente monodono) e khara  (asino unicorne a 3 gambe).  La trasformazione della liquida in dentale (l > t), col passaggio concomitante da vocale forte in media, appare dunque tardivo in latino



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(cet-) ed in greco (ket-).
(32)             Vedi ad es. la figura di Caronte nella tradizione etrusca, trasmessa per via della letteratura tardo-medievale in volgare ( tramite l’Alighieri ) anche a quella cristiana.
(33)             Ciò lo si deduce indirettamente, oltreché da altri fattori che sarebbe al momento impossibile spiegare in breve spazio, dal personaggio d’una fiaba kashmira; ove ricorre sebbene in un contesto abbastanza diversificato il medesimo Dāśarāja; ossia il ‘Re Pescatore’, ma si potrebbe altrettanto correttamente definirlo ‘Re Traghettatore’, apparso assai prima nel Mahābhārata.  Cfr. in proposito G.Acerbi, La figura del Re Pescatore in India e nel Nordeuropa- Hera (A.XI,N°121, 7-02-10), Binasco [Pv] 2010, pp. 54-6.   Riproposto successivamente, in forma completa, in Alle pendici del Monte Meru (blog, 19-12-12).

(34)             Yahweh sacrifica il Leviatan (ebr. Līwejātān ) nel Giardino di Eden (AA.VV., Enciclopedia delle Religioni, Vallecchi, Firenze 1970, Vol.III, s.v.: GIUDAISMO, a c. di A.Toaff, p.351), concedendolo in pasto ai Giusti, al modo in cui il suddetto Dāśarāja sacrifica il Matsya (un’Apsaras) pescato nella Yamunā.  Nel primo caso si tratta d’un pesce maschio, nel secondo d’una femmina; ma la sostanza non cambia di molto, dato che anche nella tradizione assiro-babilonese una figura analoga, la Tiāmat (ebr. Tëhōm = ‘Caos’), è affine all’uno e all’altra.  Infatti è la sposa di Apsu, sum. Abzu = ‘Abisso’.  Codeste due figure oceaniche primordiali sono d’altronde la stessa cosa dei due Leviatan, maschio e femmina (probabilmente alludenti alla Balena, la piú grande creatura marina), che in seguito sono stati ridotti simbolicamente a rettili.  Il Leviatan (ibîd., s.v.: Libro di GIOBBE, a c. di V.Mannucci, p.217) è concepito giustappunto in Is- xxvii. 1 e nei Ps.- lxxiv. 13-4 come un emblema mostruoso del Caos Primigenio in forma di Serpente o di Drago Marino, con allusioni ai Nodi Lunari.  Non è in quanto tale diverso (ib., s.v. Religione degli EBREI, a c. di A. di Nola, p.834) da quella creatura chiamata Ltn – da leggere forse Lotan ) – che Ba’al  sopprime in un poemetto rinvenuto a Ras Shamra nel 1930 ed appartenente alla mitologia ugaritica, al modo come Yahweh decapita il Leviatan con la Spada.  Il suddetto passo della letteratura cananea corrisponde vagamente alla citazione in Giob.- iii. 8.  In Ez.- xxix. 1-4 e xxxii. 2  il mostro (tannīn) è identificato invece al Coccodrillo nilotico, contrassegno egizio dei Faraoni.  In origine, comunque, il Leviatan era un Grosso Pesce secondo J.C. Cooper, An Illustrated Encyclopaedia of Traditional Symbols- Thames and Hudson, Londra 1982, s.v.: FABOLOUS BEASTS, p.64, col.a.   Assumendo veste draco-serpentina, assume Sette Teste alla maniera dello Yam cananaico, di certo in rapporto con le sette stelle di Drâco.  VI è chi lo identifica pertanto al Setticipite Mostro raffigurato nell’arte sumera, babilonese e hittita.  Cfr. R.Graves & R.Patai, I miti ebraici- Longanesi, Milano 1969 ( ed.or. Hebrew Myths. The Book of Genesis – International Authors N.V. & R.  Patai  ), § 5, p.61, n.9. 
(35)             G.Acerbi, La metafisica dello Zero– Alle pendici del Meru (blog, 6-10-06).  Un rifacimento dell’art. è stato pubblicato, il 3-11-14, nel blog apparentato ‘Alle pendici del



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Monte Meru’.
(36)             Vega è parte della costellazione della Lira, la quale pare fosse raffigurata da Arione, il musico che con tanto di strumento musicale omonimo viene salvato dal Delfino.  Sul tema polare si è evidentemente sovrapposto per interferenza successiva quello del Delfino Salvatore, che ha a che fare viceversa con un’altra costellazione (extrazodiacale, ma non circumpolare), appunto del Delfino; prossima al Capricorno, emblema del Solstizio Invernale e quindi del Nord. 
(37)             Ancora nel Rinascimento Eva era raffigurata con una mela in mano non diversamente da Venere, dato che il mito ellenico della ‘Contesa’ equivale mutatis mutandis alla leggenda evaica della ‘Mela’, frutto in cui sono adombrati nel contempo la Gnosi ed il Cosmo.
(38)             Che le Apsaras siano le Sirene, ovvero delle ninfe-pesci, è dimostrato oltreché dall’etimo (lett. il termine significa ‘essenza delle acque’) da quanto riportato alla n.29.  Ufficialmente esse sono note quali ‘Danzatrici’.  Tuttavia l’allegoria delle Sirene come ballerine nel Palazzo del Re del Mare situato sul ‘Fondo delle Acque’ doveva essere un tempo ben nota in area indo-mediteranea, visto che ricorre persino in una fiaba pugliese intitolata da Calvino La sposa sirena.  L’autore confessa d’averla raccolta da G.Gigli, riplasmandola in lingua popolare, ma essa nell’originale – la tarantina Storia d’una sirena – apparteneva ad un linguaggio piú aulico.  Ed un particolare come la ‘Scopa’ su cui ella volava via alla fine una volta liberata dal maleficio, purtroppo cambiato arbitrariamente dallo scrittore toscano in ‘Aquila’, ne connotava la natura fondamentalmente erotica.  In relazione ovviamente all’Eros Protogeno.  Non meno della surriferita ninfa-pesce del Mah~bh~rata, che accoglie in bocca il seme d’un re-sacro.  Ad esser sinceri, nel passo  di riferimento del poema epico indiano l’episodio è collegato anch’esso con l’Aquila, o meglio qualche simile rapace quale l’Avvoltoio (Garuḍa); tuttavia  occorre aggiungere a tal proposito che la trasformazione da cetacei (scr. mat-sy-a, gr. kēt-os, lat. cēt-os) in rapaci (scr. vih-a-ga, gr. o[v]i[s]ōnós, lat. a-vis) delle due equivalenti categorie divine indiane e greco-latine delle Apsaras e delle Sirene è legata al passaggio del simbolismo umorale dalle Acque Celesti (soggette quintessenzialmente all’Etere) alle Piogge (connesse invece elementalmente all’Acqua).  Dato che anche i Deva indiani, cosí come gli Dei greco-romani, è noto fossero rappresentati in aspetto oionomorfico, se ne deduce che le ‘essenze delle acque’ (superiori) non potessero esser altro che stelle del cielo; o meglio le costellazioni, dapprima intese in senso extra-zodiacale (pisciforme) e poi zodiacale (aviforme).  Ciò non significa ovviamente che le Sirene siano passate a rappresentare le stelle zodiacali, cosa impossibile se non al massimo per le sirene bicaudate; ma, semplicemente che, per affinità colla mitologia pluvial-zodiacale, le Sirene siano addivenute emblemi delle stelle extrazodiacali anziché delle stelle in generale come in origine.   



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(39)             Pure i Gandharva sono associati alle acque, vale a dire al Soma Celeste.  La loro natura di ‘Musici’ – in relazione al ‘Suono Primordiale’ – equivale a quella etero-uranica del musicante greco Arione, non per niente appaiato al Pesce.  Cfr. n.36.  Come le ‘Danzatrici’ costoro è possibile abbiano mutato ad un certo punto (probabilmente al tempo dei Deva) la loro fisionomia simbolica in uccelli, ma è da ritenere che fossero in origine creature interamente o parzialmente ittiomorfiche.  Come il veicolo del loro sovrano, Re Varuṇa.  Sebbene non se ne abbia alcuna prova sul piano iconologico.  A meno che esistesse, tanto per le Apsaras quanto per i Gandharva, un doppio modo simbolico di rappresentazione; ittico ed aviario, il che tenendo conto di altri fattori paralleli quali la denominazione delle genti dell’Età Aurea, è la cosa tutto sommato più credibile.  Si consideri in tal ottica il rapporto in India, reperibile grosso modo anche in Grecia ed in Egitto, fra il scr.Manu (‘Uomo’) e l’omofona voce Mīna (‘Pesce’); nonché fra il nome della sovracasta primordiale (Haṁsa) e quello degli omonimi uccelli facenti da vāhana del dio primevo Brahmā.