martedì 25 agosto 2015

NOTE SULLO SFONDO COSMOLOGICO DEL TETRAMORFO DI EZECHIELE





      Ezechiele (Ez.- i. 1-29) narra la visione dei misteriosi ‘Quattro Viventi’, quadricefali, ciascuno simultaneamente con volto di Leone, di Toro, di Aquila e di Angelo, dichiarando: –Ed il loro aspetto e la loro struttura era come se una Ruota fosse in mezzo ad un’altra Ruota (ibîd., vs. 16).–  Appare ivi per la prima volta nell’ambito della tradizione ebraica il Tetramorfo sumerico ed iranico.  I quattro simboli che saranno più tardi adottati nel Nuovo Testamento per designare gli Evangelisti canonici, il Cristo tenendo il luogo del ‘Trono di Zaffiro’, si riferiscono ai Quattro Elementi con tutte le accezioni recondite ad essi connesse (le ‘Quattro Lettere’ fondamentali del Sacro Nome, i ‘Quattro Fiumi’ paradisiaci etc.); mentre il ‘Trono di Zaffiro’, che corrisponde al Nome Divino nella propria interezza ossia nell’indivisibile Potenza ad esso inerente, ha analoga funzione a quella dell’Etere, la Quintessenza da cui gli altri Quattro Elementi dipendono.  È lecito supporre a questo riguardo, interpretando cosmologicamente la famosa visione di Ezechiele, che la “Ruota nella Ruota” non sia solo la Ruota dei Segni sîc et simpliciter; ché, altrimenti, non si parlerebbe nel testo di una ‘Doppia Ruota’.  Bensí dovremmo intendere piú acconciamente l’espressione nel senso che la Ruota dello Zodiaco, essendo determinata dai Quattro Elementi ed avendo l’Etere per Centro a proprio perenne sostegno di Età in Età, causa secondariamente una variazione di dominio degli stessi attraverso il moto precessionale.  Di piú.  Siccome il Leone alato equivale evidentemente al Leone zodiacale, il Toro alato di nuovo al Toro zodiacale, l’Aquila all’Acquario e l’Angelo allo Scorpione (crediamo almeno, andando per esclusione negli accostamenti e pensando invero agli Uomini-scorpioni o Uomini-serpenti, insomma ai Demoni semizoomorfici della tradizione mesopotamica) sarà d’uopo accostare codesto motivo iconografico veterotestamentario alla tematica induistica degli Yuganta; i Segni coi quali a dispetto del nome, indicante il loro portare a termine (anta) i cicli (yuga) precedenti, iniziano immancabilmente le quattro fasi del Caturyuga (‘Quattro Epoche’).  Tali Segni all’inizio della presente Età, il Kaliyuga, dovettero coincidere oltretutto con la croce solstiziale-equinoziale; sì d’assumere in aggiunta un’importante valenza stagionale, in base al punto di vista siderale (1).  Si vedrà inoltre come gli stessi Segni, che nel comune linguaggio astrologico occidentale ed orientale vengono indicati non per nulla quali Segni Fissi (o Sattvici), finiscano inevitabilmente per trovarsi in una posizione cardinale all’inizio delle Quattro Età cicliche; dato che, secondo quanto sopra riferito, l’uno o l’altro di essi – la loro distanza reciproca nel Cerchio Zodiacale essendo di 90° – trovasi necessariamente al Punto Vernale ogni 6.000-7.000 anni c. (metaforicamente equivalenti ad “1 giorno divino”).
         Che l’accostamento tra le suddette tradizioni sia del tutto lecito, e la corrispondenza supposta effettiva, è provato iconologicamente dal fatto che nell’arte iranica il Tetramorfo presenti caratteristiche nettamente astrali; con lo Scorpione che sostituisce l’Angelo nel ritratto composito di un animale dalle ‘Quattro Nature’: leonina, taurina, aquilina e scorpionica.  Ci riferiamo, naturalmente, alla scultura achemenide del Palazzo di Persepoli noto come ‘Trono di Jamšîd’; ove addirittura questo Mostro (dell’Ordine Cosmico) quadrinaturato, che è rappresentato nell’atto di essere annientato sacrificalmente da un Avversario Divino, possiede in più una ‘Quinta Natura’: quella dell’Unicorno.  L’Eroe culturale, alias Jamšîd (equivalente tardoiranico di Yima, l’Adamo avestico), afferra l’animale per il Corno alla maniera dell’Uomo Selvaggio degli arazzi medievali occidentali; colà tuttavia, più cruentemente, la Bestia è trapassata al ventre da un’arma da taglio (2).  A nostro giudizio il ‘Mostro’ in questione, di cui abbiamo dei paralleli nell’arte assira, ove esso compare con gli stessi simboli della visione di Ezechiele ma con la ‘Quinta Natura’ rappresentata da una ‘Quinta Gamba’ anziché dal ‘Trono’ o dall’Unico Corno (3), potrebbe essere Zurvân, appellativo persiano del nume presiedente ai cicli del Divenire temporale.  Questi è talora concepito quale essere androginico, ma comunque spesso tetramorfo (4); con evidente riferimento all’Anno Sacro (av. Yasna), vale a dire ai Solstizî e agli Equinozî.  Esattamente come lo Yajña hindu, raffigurato quadricefalo in quanto ipostasi di Brahmâ-Prajâpati.
      Il termine Zurvân è secondo noi perfettamente equivalente dal punto di vista etimologico al lat. Sâturnus, gr. Krónos, scr. Kâla; tutte denominazioni rispettive in varie culture indoeuropee del locale dio del tempo.  Sotto l’aspetto filologico già all’inizio del secolo vi era chi osservava la stretta affinità tra il lat. Sâ-t-ur-n-us, var. Sa-vi-t-ur-n-us, ed il scr. Sa-vi-t-/ ar, uno dei tanti nomi indiani del dio solare (5).  Se analizziamo d’altronde la sottile relazione esistente fra le due suddette deità non ci sfuggirà come il Sole e Saturno siano le facce planetarie, l’una luminosa e l’altra oscura, di un’unica divinità dal carattere ambivalente; la quale assumeva gli astri situati per posizione spaziale agli antipodi della sfera celeste come modelli archetipici di una sorta di Alpha ed Omega.  Ciò a causa della naturale ed evidente relazione simbolica intercorrente tra le idee di centralità e di principialità da una parte ovvero, dall’altra, tra i concetti di estremità e di finalità – quella finalità che porta necessariamente a consumazione le cose, al modo del Sole e del Divenire ciclico.  Il De Santillana (6) segnala le affinità mitologiche tra le figure di Zurvân, Saturno, Crono e Kâla; ma non si azzarda ad andare oltre, pur mostrando una notevole e positiva disinvoltura nella comprensione e nell’interpretazione di siffatte analogie.  In verità però appare evidente come un’unica base ie. *s -, denotante i significati correlati di ‘cielo, spazio; tempo, sole’ (probabilmente solo in seguito differenziatisi l’uno dall’altro, ma con notevoli persistenze qua e là in area indoeuropea dei valori lessicali indicati), debba aver accomunato in passato gli epiteti divini sopra riportati.  A riprova di tale persistenza vedi ancor oggi il ted.m. Zeit, (‘tempo’), dall’a.t. zît (id.).  Nell’a.ir. Z-ur-v-ân la z iniziale, lettera che è formata foneticamente da t + s , sembra provenire dall’inversione al grado zero dell’apofonia vocalica delle consonanti radicali, poi fuse in unico suono.  Il suff. -ur- è invece lo stesso del lat. Sâ-t-ur-n-us, voce che giustamente il Calonghi (7) collega al vr. ser-o, is, sê-v-i, sa-t-um, ser-ere (‘coltivare; seminare, piantare; produrre, generare’); donde anche il s.n. sê-m-en (‘seme’), gr. sî-t-os (‘grano’), scr. si-t-y-a (id.).  Da notare la var. ser-o, is, ser-u-i, ser-t-um, ser-ere (‘annodare, connettere; intessere’).  Si badi che l’allungamento della vocale nel prf. sê-v-i deriva dalla caduta della liquida, con la conseguente semiconsonantizzazione della vocale del suffisso, secondo quanto mostra la voce ser-u-i dalla quale si è probabilmente differenziata; analogamente, il sup. sa-t-um proviene a nostro giudizio dalla medesima perdita della -r-.  Il vr.lat. ser-o nella doppia accezione di ‘coltivare’ od ‘annodare’ non è in definitiva, variante a parte, che un parallelo sul piano filologico di col-o (appunto ‘coltivare’, nello stesso senso rintracciabile nel s.m. col-us = ‘conocchia’, ossia di ‘girare attorno’); cfr. da un lato col scr. çri (‘fluire, manifestare’) e, dall’altro, con kal/ kri (‘coltivare; venerare; conoscere’).
      Pigliando in rassegna comparativamente nell’ambito delle lingue indoeuropee i molteplici nomi divini assunti dal pianeta Saturno, osserviamo in India il scr. Çâ-n-i, forse affine etimologicamente a certe voci osco-umbre come Sa-n-c-us e Se-m-o; che sicuramente designavano delle ipostasi del nume romano delle sementi, con valenze naturalmente cielisolari e/o lunisolari. (8).  Inoltre si analizzino le forme norreniche correlate Sa-th-ur, Su-r-th-ur e Sû-r-t-r, nonché l’a.ir. Kšaêta; appellativo di Yima – cfr. col scr. Yama, il norr. Ymir ed il lat. Iânus (9) – tardivamente fuso con il nome principale in Jam-šîd, mitico civilizzatore e possessore di una celebre Coppa Oracolare (al modo del Giuseppe biblico-coranico) nella quale egli era capace di scorgere tutto ciò che desiderava.  Tale ‘Coppa’ è la medesima cosa ovviamente del ‘Terzo Occhio’ di Çiva-Mahâkâla, il quale simboleggia la capacità yogico-shamanica di scorgere l’Anima Suprema (Âtmâ) nell’Anima individuale (Jîvâtmâ).  Cfr. per analogia le attitudini profetico-oracolari delle figure di Crono e Saturno, Ermete e Mercurio, Elio ed Apollo nella tradizione greco-romana.  Anche il titano norrenico prima menzionato possiede funzioni similari, per non parlare delle valenze dello Zurvân iranico.  La base *kl/ kr-, donde il scr. Kâl-a ed il gr. Kr-ón-os, non è che la var. kentum del tema parallelo *s/ s- ( forma satƏm ), da cui si hanno il lat. Sô-l / Sav-it-ur-n-us ed il scr. Sû-r-y-a/ Sav-it-.  Pure nel mondo semitico esiste codesta dicotomica identità tra un’immagine divina dal carattere luminoso ed una avente viceversa un carattere tenebroso.  Si pensi al fenicio El, che Filone identifica a Krónos (10); in tale comparazione il primo nome ha valenza solare ed il secondo saturnina.  Da notare che l’appellativo divino cananeo El (11), var. Êl, è radicalmente equivalente all’ebr. El-ôh-îm (12); nonostante il plurale, forse un tempo riferito ai Sette Soli’ (13) di un arcaicissimo calendario esastagionale (o bimestrale, se preferiamo), di cui possibilmente il Primo Sole ed il Settimo – la voce elu significa ‘sette’ in dravidico, ceppo linguistico appartenente alla famiglia camitica secondo Padre Heras – erano concepiti ipostaticamente in funzione suprema.
      I ‘Sette Soli’, espressione designante probabilmente nei vetusti culti astrali di varie contrade i Sette Numi planetarî preposti ai suddetti momenti calendariali (le sei stagioni, piú una di rinnovamento annuale), vengono descritti nel gveda in un passo ingiustamente contestato in veste immaginifica di ‘Sette Tori’.  Si badi ancora che la lettera con cui inizia l’alfabeto ebraico, l’Aleph, individua graficamente una sorta di pittogramma della costellazione di Orione (dagli Indiani chiamata Mgaçiras, lett. ‘Testa di Cervo’, e ritenuta un’effigie stellare del ‘Signore delle Creature’), corrispondente all’incirca all’ultima Decade del Toro Celeste ed ad una piccola porzione della prima Decade dei Gemelli.  Nel caso del greco, invece, l’Alpha è in realtà una testa di toro rovesciata lateralmente.  Tutto questo ci mostra che la sostituzione del culto dell’Ariete a quello del Toro è un fatto simbolico che non deve essere avvenuto esclusivamente in Grecia, in Mesopotamia, in Persia, in India od in Egitto; ma, di sicuro, anche presso gli Ebrei.  Ragion per cui la parabola del Vitello d’Oro, il cui racconto interviene biblicamente nell’Esodo, si riferisce in verità ad un tentativo di riattualizzazione operato dal sacerdote Aronne d’un antico culto non necessariamente d’origine straniera, bensì appartenente a tutto il mondo semitico e camitico.  L’Età astronomica del Toro è infatti il momento ciclico in cui si apre la ‘Quarta Era’ d’indoeuropea memoria e non.  Insomma il famigerato Kaliyuga, dagli Hindu descritto come un’epoca d’estrema decadenza e confusione delle Caste (Vara ).  La Bibbia giudaico-cristiana descrive siffatto momento come un’era di ‘confusione delle lingue’ ossia, oltre l’allegoria, di misconoscenza del valore originario dei sacri simboli; il cacciatore Nimrod, costruttore leggendario della fatale Torre di Babele (dal babil. Bâb-ili = ‘Porta di Dio’, ma con significato trasposto di Ianua Inferi), non essendo altri che la versione biblica del cacciatore ellenico Orione.  Un testo persiano conferma codesta identificazione, dato che collega Nimrod all’omonimo asterismo lunare (gr. Ôríôn).  E di nuovo l’India ci aiuta a capire il significato di tale comparazione, definendo Mgaçiras (vide suprâ) Kâlapurua ovverosia letteralmente ‘Signore del Tempo’; in altre parole del Cielo, dei Cicli cosmici.
      Rimane comunque il fatto che neppure la religione cristiana abbia disdegnato il simbolo della Ruota accanto a quello della Croce, la quale certamente deve avere in qualche modo a che fare con la croce solstiziale-equinoziale dell’Anno Sacro pagano e dunque con il sacrificio di matrice zodiacale dell’Agnello (precedentemente del Vitello e successivamente del Pesce) ad esso connesso.  Anche il sacrificio biblico ha peraltro delle basi astrali, checché se ne dica; sappiamo, infatti, come all’interno della tradizione ebraica vigessero due calendarî.  Il più antico di questi, d’origine noaica, era determinato dal simbolismo solare tridenario e veniva particolarmente seguito dagli Esseni; ai quali paiono del resto ricollegarsi i primordî del Cristianesimo e soprattutto la misteriosa figura del Battista, il cd. “maestro di Gesù”, il sacramento battesimale non essendo altro che una probabile trasformazione in chiave devozionale di un’antica pratica di rinnovamento della vita attraverso una fonte iniziatica.
      La Ruota di Ezechiele – ne deduciamo alfine – ha quindi lo stesso valore della Croce sul piano simbolico, l’una e l’altra riferendosi tanto all’Essenza Divina quanto alla Sostanza della Creazione.  D’altronde bisogna pure ricordare che detta Ruota del V.T., in quanto emblema zodiacale, evoca direttamente l’immagine della Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse giovannea ossia della sede dei Santi nel Giorno del Giudizio (14).  Intendendo codesta Ruota come il riflesso principiale della Divinità a livello cosmico, possiamo comprendere perché mai il medesimo contrassegno – con Dodici Uccelli in luogo dei Dodici Soli zodiacali – sia effigiato nel Battistero di Albenga (VI sec. d.C.) ed altrove nell’Urbe in una raffigurazione più tarda.  Una leggenda ermetica d’imprecisabile data associa infatti San Pietro all’Aventino (15), quasi a voler suggerire che egli abbia contemplato sul colle similmente a Remo i famosi Sei Uccelli. Da ciò ricaviamo indirettamente che la figura di Cristo ha assunto per la cristianità il valore paradigmatico incarnato presso la romanità da Romolo, l’eroe eziologico che aveva avvistato i Dodici Uccelli (16) sul Palatino.  Che poi questi volatili risultino essere dei Colombi nel caso del Cristianesimo e degli Avvoltoi nel caso della religione romana è puro dettaglio sul quale non vale la pena di soffermarci troppo, considerando l’atteggiamento generalmente venereo della cultura cristiana e quello prevalentemente marziale di quella latina.
      In conclusione, segnaliamo un’insolita raffigurazione di Cristo con la Ruota Cosmica, similmente a Kâla nella rappresentazione del Kâlacakra buddhista, con la Bocca quale elemento dinamico che muove l’Axis Mundi attraverso la profferta del Verbo. Si noti che la figura cristica presenta a volte dei tratti per così dire demonici (17) nell’ambito della tradizione cristiana.  Questo, lungi dal costituire un’eresia o peggio uno scandalo, è un fattore di concordanza spirituale con altre tradizioni parallele quali ad es. il Krishnaismo hindu.  Nella Bhagavad Gîtâ infatti Ka ovvero Keçava – secondo quanto è colà denominato il IX Avatâra – assume il volto asurico vale a dire demonico di Kâla, il Dio della Morte.  Insomma di Çiva-Mahâdeva, il Demone per eccellenza, ma anche il ‘Grande Dio’.  Entro la Bocca spalancata di Keçava entrano all’impazzata i cavalieri morenti in battaglia, a mo’ di falene che si gettino nel fuoco delle torce notturne, inconsapevolmente ansiosi di ricongiungersi in un abbraccio supremo alla Divinità.  Com’era già prima della Creazione del mondo...




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Note




1)          L’alterità fra lo Zodiaco siderale e quello tropicale dipende dal fatto che il primo è a Segni mobili, che si spostano precessionalmente al Punto Vernale; mentre il secondo è a Segni immobili, che cominciano in Ariês e terminano in Pisces.
2)          Vedi R. Ettinghausen, Studies in Muslim Iconography. The Unicorn- Smiths. Instit., Fr.Gall. of Art/ Occasional Papers, Washington 1950, Vol.I, N°3, Cap.VIII ( n.num. ), pp. 67-8 e tav.31 ( a destra ).
3)          Cfr. A. Parrot, Gli Assiri- Rizzoli, Milano 1970 (ed.or. Assur- Gallimard, Parigi 1961), Cap.I, p.30, fig.34/ A.
4)          Cfr. R. Ghirshman, Arte persiana. Proto-iranici, Medi e Achemenidi- Rizzoli, Milano 1964 (ed.or. Perse. Proto-iraniens, Mèdes, Achéménides- Gallimard, Parigi 1963), pp. 51-2.
5)          M. Kerbaker, Saturno-Savitar e la leggenda dell’Età dell’Oro- Regia Univ., Napoli 1890, pp. 11-2.
6)          G. de Santillana & H. von Dechend, Il Mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo- Adelphi, Milano 1983 (ed.or. Hamlet’s Mill. An essay on myth and the frame of time, 1969), App.12, pp.431-4.
7)          F. Calonghi, Dizionario Latino-Italiano- Rosemberg & Sellier, Torino 1967, I ed. 1950, s.v. SÂTURNUS, pp. 2461-2.
8)          Personalmente concordiamo con l’opinione del De Santillana, il celebre storico della scienza moderna cit. alla n.6, che l’Astrologia non sia un fenomeno tardo.  Per quanto gli studiosi occidentali tendano a cercare di dimostrare il contrario.  In India, dov’essa (scr. Jyotisha) è uno dei ‘Sei Membri’ del Veda, è considerata uno strumento arcaicissimo risalente unitamente al Sacrificio alla fine dell’Età Paradisiaca.  Colà si ritiene infatti siffatto mezzo d’indagine indispensabile per conoscere il vero significato della Rivelazione impartita a Manu, il Primo Uomo (nell’Induismo il prototipo umano è anche il Primo Dio, con sfumature varie di dualismo o meno a seconda delle scuole shivaite o vishnuite), che le tradizioni gitane guardacaso identificavano ad Adamo.  Notiamo per inciso che anche nella Genesi la prima forma dell’Uomo è quella perfetta, fatta ad immagine dell’Altissimo.  E che al di là della metafora del Serpente, dove certamente è adombrato un misterico senso legato alla soggezione dell’anima nei confronti del temporale, solamente la perdita dello stato paradisiaco provoca la ‘Caduta’.  La conoscenza astrale, la quale primieramente era tutt’uno con la cultura in senso lato intesa quale ‘coltivazione di sé’ (cfr. a tal proposito l’etimo del lat. col-o e del scr. kal, verbi che testimoniano simultaneamente come la prima scienza fosse di matrice celeste, essendo nata in correlazione con una primordiale orticoltura), sembra essere apparsa quindi – secondo varî punti di vista – come un bene rivelato all’uomo decaduto onde potesse comprendere la natura del proprio decadimento.
9)          Il palestinese Yam, da taluno collegato all’ebraico Yahweh tramite la forma intermedia Yaw, testimonia che nelle lingue semitiche si sono conservate tradizioni analoghe a quelle del mondo indoeuropeo.  Anche i Sumeri ed i Proto-dravidi dell’antica Civiltà della Valle dell’Indo, che dal Rev. H. Heras – gesuita spagnolo anglicizzatosi in terra indiana – sono stati all’inizio degli Anni Cinquanta ingegnosamente accostati agli Egizî dei tempi predinastici e dunque assegnati etnicamente alla grande famiglia camitica, adoravano un primevo dio denominato An (var. Ân) e raffigurato con ‘Testa Taurina’.  Abbiamo altrove dimostrato – vide G. Acerbi, Le arcaiche figure tricorni nella glittica della Civiltà del l’Indo e nell’arte rupestre del subcontinente indiano- CCSP (Temù, Atti dell’XI Simp. Int. di Arte Preist. e Tr., 6/ 11-10-1993), Capo di Ponte (ined.), Sez. b, § 4. ii; affidato tempo fa alle stampe come Le Vie di accesso al Paradiso- I Quaderni di Algiza, Chiavari 1999, P.II, ma poi dirottato altrove con diverso titolo – che l’etimo dei nomi indoeuropei Yama, Yima, Ymir e Iânus risale alle medesima radice delle forme camitiche An e Ân; o meglio queste ultime provengono dal suff. -an/ am-, denotante ‘signoria, paternità’.  Ond’è chiaro che il nome semitico sopra citato s’avvicina maggiormente dal punto di vista dell’etimo all’indoeuropeo più che al camitico.  Il fatto che nell’antica cultura palestinese Yam appaia nei panni di un Drago Setticipite, al pari del Serpente paradisiaco nella tradizione islamica (cfr. ad es. F. Attâr nel romanzo epico tardomedievale La Lingua degli Uccelli), non significa assolutamente nulla; se è vero che l’omologo Yama in India viene demonizzato e retrocesso da nume aureo (cioè primo dio, equivalente a Brahmâ) a nume argenteo (un signore degl’Inferi equiparabile a Çiva, con testa e veicolo taurini ), nonché da Primo Uomo (identico in ciò a Manu, il prototipo androginico dalla cui metà nasce Parçu, la Prima Donna) ad Antenato (Pitr) per antonomasia.  Sarebbe come dire che egli svolge          nell’Induismo il ruolo primigenio che la Genesi attribuisce parallelamente a Yahweh e a Âdâm, sia quello sacrificale e post-paradisiaco che la stessa assegna ad Elôhîm e a Qayin.  Curiosamente anche Caino, non         diversamente da Çiva (o meglio dall’alter-ego di questi, Mârîca), è dipinto in un testo apocrifo ebraico qual Cervo Unicorne ucciso da un mitico Cacciatore; vale a dire Lamêk, una figura solare affine al Râmacandra         hindu in funzione d’ipostasi venatoria della vittima sacrificale.  E non è certo a caso che i Rabbini identificassero Qayin a Šâtân, come dire che quegli va identificato a Crono-Saturno (nel senso che ne è il corrispettivo umano archetipico), il nume argenteo greco-romano preposto al Sacrificio agrario.  Sicché potremmo interpretare il fratello – piú specificatamente, gemello per altri testi non canonici – Hebel come una versione ebraica (di nuovo in senso tipologico) di Apollo, pastore di mandrie.  Insomma a ben vedere il         prototipo umano di Elôhîm, come Qayin lo è di Šâtân ed Âdâm di Yahweh.
10)        El era raffigurato nell’iconografia vicino orientale con testa taurina e del pari Krónos nella tradizione egeo-cretese.
11)        In un testo hurrita rinvenuto a Râs Šamra El viene identificato a Kumarbi, mentre quest’ultimo è equiparato al dio mesopotamico Enlil in un testo bilingue trovato a Bogazköy (J. Fontenrose, Python. A Study of the Delphic Myth and Its Origin- Univ. of Calif., Berkeley-L.Angeles-Londra 1959, Cap.IX, p.213).  Che vi sia dunque identità tra El ed Enlil è dunque indirettamente provato.  D’altra parte l’equivalenza tra costoro e quella reciproca di ciascuno dei due con Crono è sostenuta da altri autori (ibîd., CC. VII, p.132 e VIII, p.157, n.24).  Orbene, siccome Enlil (lett. Il ‘Figlio di Anu’, paleodrav. Anil) presso i Sumeri e gli Accadi costituisce la persona divina intermedia di una trimorfia erroneamente definita triade che comprende Anu ed Ea (da parte loro rispettivamente comparabili funzionalmente ad Urano e Zeus in Grecia), è lecito arguire che anche il semitico El rappresenti una figura di mezzo tra un nume appartenente ad un ciclo ‘aureo’ ed uno più modestamente legato ad un ciclo ‘bronzeo’; insomma, una figura di tipo saturnio-solare, subentrata ad una primeva divinità uranica di carattere monadico ( in senso assiale ) assai simile a quelle dell’Urano ellenico e del Giano latino.  Ovvero, Yam.
12)        Che Elôhîm non fosse il Primum Nômen Dei è dimostrato indirettamente oltreché dalla pluralità di cotale epiteto (da Elôah), generatosi evidentemente in tempi – dopo la ‘Caduta’ – nei quali la Non Dualità primordiale del Nome Divino si era già trasformata in un’Unità dai molteplici aspetti, da un assunto dell’Alighieri (Par.- xxvi. 133-4).  È da supporre difatti secondo quanto suggerisce il poeta fiorentino, correggendo l’impostazione precedente (De Vulg. Eloq.- i. 4, 4), che l’emblema romano della cifra designante l’unità matematica – il che è avvenuto pure in India e in Cina con segni grafici o pittogrammi analoghi – si riferisca alla prisca concezione del Polo Celeste quale Axis Mundi in tempi adamitici, vale a dire aurei.  Le tradizioni di molti popoli additano palesemente nella Terra Artica la cd. ‘Terra Iperborea’ dei Greci e dei Latini, ossia la patria mitica dell’intera umanità (vedi sul tema il nostro art. Il concetto di patria nel Mahâbhârata- Arkete [A.II, N°3], Roma 2001, pp. 11-24 sgg).  Persino la cultura ebraica, che pone l’Eden in Oriente, attraverso la leggenda dell’Albero del Bene e del Male insegna in proposito.  Nei secoli scorsi il termine Eden è stato interpretato da alcuni autori (vedi ad es. il Dupuis), secondo noi accortamente, come una corruzione di Eren (= Iran, con riferimento alla leggendaria sede umana descritta nell’Avesta, l’Airyâna V., dond’è derivato il nome alternativo della Persia).  Non per niente anche l’ebr. Pardês (‘Paradiso’), voce certamente ereditata dall’ir. Pairi-daêza, scr. Para-deça (‘Terra Suprema’, cioè ubicata all’Estremo Nord, similmente all’Uttarâkuru = id.), riconduce alla medesima fonte cosmologica.  E che dire del Monte Siyyôn, sulla cui cima è da parte dei Salmi e di Isaia posto Yahweh (nome derivato dalla base *Yaw/ Yam, poiché la w e la m sono interscambiabili in accadico), se non che esso raffigura nel prospetto ebraico delle Cinque Montagne del Mondo tracciato dall’apocrifo Libro dei Giubilei ciò che il Sumeru rappresenta nel quadro cosmografico indiano.  In altre parole il ‘Vertice Celeste’, in senso assiale, del Polo Artico ovvero secondo gli Indiani del Paradiso Terrestre.  È oltremodo significativo che ancora una volta l’Alighieri ci venga in aiuto, collocando cristianamente siffatto luogo su un Monte.  Il che fa pendant con la concezione giudaica del Golgota come ‘Monte del Teschio’ di Adamo.  Nella prospettiva semitica di Gerusalemme quale ‘Città Santa’ questa viene ad identificarsi col ‘Centro del Mondo’, la terra adamitica.  E più specificatamente il Golgota ne costituisce il Vertice Sommo (come in India il Sumeru rispetto all’Ilâvarta, la ‘Selva –  o Terra – Nascosta’ agli occhi degli uomini), dove l’Uomo Perfetto attraverso il Sacrificio di Sé ha indicato ai non ebrei la Via della Perfezione.  Il Sacrificio dell’Unto è avvenuto sulla Croce, emblema dell’Anno Sacrificale in chiave solstiziale-equinoziale, che nelle allegorie pittoriche del Cristianesimo medievale assumerà a volte la parvenza di Albero del Mondo.
13)        Deduciamo questo dal fatto che El/ Êl è una voce visibilmente apparentata, al di là del ceppo linguistico differente, al gr. Hêl-i-os; secondo quanto è dimostrato dalla reciprocità cultuale fra questi e Krónos, che i Fenici equiparavano appunto ad El.  Cfr. in India i rapporti paralleli tra Sûrya e Kâla, quest’ultimo risultando una sorta di ‘Sole Nero’; ovvero un demonio solare dagli occhi ofidici, che altri non è se non il taurino Çiva sotto forma di deità del tempo e della morte.  Similmente il Sâturnus latino – si rammenti in conformità a quel che abbiamo già specific4ato il rapporto di cotale nume con il Savitar indiano, alter-ego di Sûrya – è un dio agrario-solare, che s’alterna a Càelus; di per sé erroneamente considerato un dio tardo-imperiale e dai tratti, invece, saturnio-celesti.  D’altra parte il lat.arc. càelum (‘cielo, tempo’)  si ricollega filologicamente al scr. kâl-a (‘tempo’).  Esistono analogie fra le coppie opposte degli dèi menzionati ed il binomio norrenico Sûrtr-Loki, ma in questo caso la funzione solare e quella saturnina parrebbero invertite, in chiave totalmente demonica.  Pure tenebrosa è la figura femminile di Hel, la Regina degli Inferi.  Nella cultura giudaico-cristiana incontriamo una bipolarità non dissimile in Satana e Lucifero, piú o meno con le stesse prerogative.  La scomparsa della solarità originaria del Principe delle Tenebre traspare manifestamente nella leggenda della Caduta Angelica, ciò che costituisce un parallelo celeste di quella adamitica.  Probabilmente in principio Lucifero (lett. ‘Latore di Luce’) era solo un’ipostasi di Elôhîm, in senso luminoso; come insegna del resto chiaramente la vicenda mitica della perdita da parte del medesimo dello ‘Smeraldo’ frontale durante la suddetta ‘Caduta’, con allusione all’identità primigenia tra l’Angelo della Luce e quel che cabbalisticamente viene definito Kether (lett. ‘Corona’, s’intende dell’Altissimo).  Anche nel mondo egizio ci troviamo di fronte ad una dicotomia tra Horus e Seth.  Tuttavia l’uno ha sempre conservato una parvenza solare e l’altro una oscura.  In generale, l’equivoco lessicale tra i due termini apparentemente antagonistici – ma a ben vedere complementari – delle varie serie numinose elencate nasce dal fatto che in latino a differenza del greco il pianeta Saturno è appellato con una voce che invero possiede una valenza solare, più che saturnina.  Una breve comparazione fra il latino, il sanscrito e le lingue dell’antico Vicino Oriente varrà però a dimostrare che in più idiomi l’etimo dei nomi degli astri contrapposti del sistema solare – siano essi il Sole e Saturno oppure il Sole e la Luna – coincide pressappoco, a parte una lieve dissimilazione: lat. Sôl (‘Sole’), scr. Sûrya (id.), kass. Šûryaš (id.), acc. Šamaš/ Šawaš (id.); scr. Soma (‘Luna’), acc. Sin (id.); scr. Çâni (‘Saturno’). Un’ulteriore differenziazione deve essere avvenuta tra il concetto di Cielo e quello di Sole etc., come prova in sanscrito la var. Kâla, riferibile ad entrambi gli elementi delle supposte antinomie: Sole-Luna, Sole-Saturno e Sole-Cielo.
14)        Cfr. con il Brahmapûra, la ‘Rocca di Brahmâ’ della mitologia induista.
15)        U. Grancelli, Il simbolismo ermetico nella Vita di Cristo- Frat. Melita, Genova 1987, Cap.IV (n.num.), pp. 194-5.
16)        Si deve porre ad ogni modo una netta distinzione fra i Dodici Soli (Uccelli Solari), che altro non sono sostanzialmente che un unico Sole (Uccello Solare) nelle sue diverse inclinazioni annuali con le implicazioni simboliche facilmente immaginabili, ed i 12 Segni dello Zodiaco.  Questi ultimi non sono che stazioni solari e la loro funzione è quella di esprimere degli archetipi in atto della totalità cosmica, in relazione alle fasi annuali della germinazione agricola del seme.  I Soli costituiscono invece degli archetipi in potenza dell’Unità Divina in rapporto alla manifestazione dell’Essere Supremo, che è rappresentato dal Centro della Ruota ossia dall’Elemento Eterico.  Non per nulla nell’iconografia neotestamentaria le 4 figure del Tetramorfo coi rispettivi 4 Evangelisti, ai quali esse sono state attribuite emblematicamente, contornano in certe sacre immagini l’effigie del Cristo fungente da Asse invisibile della Ruota in senso dinamico.  È oltremodo significativo pertanto che il Toro, il Leone, l’Angelo e l’Aquila siano stati assunti sia dal V. sia dal N. Testamento come contrassegni delle quattro fasi salienti di ogni ciclo cosmico.  Tale quadruplicità corrisponde elementalmente ai molteplici aspetti nei quali si presenta il Quaternario in ambito giudaico-cristiano: 4 Lettere del Tetragramma, 4 Fiumi Paradisiaci, 4 Volti di Adamo, 4 Bracci della Croce.
17)        Il Daímôn in Grecia incarnava una potenza neutra, che poteva trasformarsi in benefica (Agathodaímôn) o malefica (Kakodaímôn) in base alle circostanze.  Nell’ottica esiodea i Daímônes rappresentavano la Stirpe Argentea, la quale venerava i Sette Titani dal carattere agrario-solare e faceva sacrificî di sangue agli antenati; tale generazione, susseguita alla Stirpe Aurea degli Theoí, precedeva a sua volta la Stirpe Bronzea degli Hérôes, ossequiante con un sacrificio di tipo vegetale i Dodici Dei solari e pluviali.  La religione cristiana, utilizzando l’Eucarestia ossia un sacrificio incruento, mostra indubbie affinità rituali con il culto greco-romano dei Dodici Dei; più uno supremo, tardivamente latinizzato in Deus Pâter.  Un fattore tuttavia ‘demonico’ del Cristianesimo è ad es. il sacrificio cruento del Redentore, sia pure per un fine provvidenziale.  Ciò a causa ovviamente dell’incomprensione degli uomini, che rende l’oblazione del figlio dell’Uomo ad un tempo necessaria ed inevitabile.  Se guardiamo però ad altre tradizioni quali il Buddhismo o l’Islamismo (fa eccezione il Manicheismo), ci accorgiamo che la figura profetica colà non funge da vittima sacrificale, pur operando un analogo raddrizzamento spirituale nell’ambito della propria epoca.               

domenica 23 agosto 2015

LA VITA È D'ORIGINE EXTRA-TERRESTRE?



di Giuseppe Acerbi



      L’idea che esista la vita al di là dell’orbe terracqueo è sostenuta in primo luogo – anche se non proprio apertamente – dalla scienza, la quale detiene un punto di vista cosmologico eccentrico.  In realtà costituisce un abuso linguistico definire ‘cosmologia’ l’estensione attuale delle conoscenze astronomiche a livello telescopico e l’insieme delle leggi astrofisiche, in pratica lo studio macroscopico dell’indefinito; come lo sarebbe, di pari passo, considerare problemi cosmologici lo studio microscopico delle cellule o delle molecole.  L’indefinito non corrisponde all’Infinito se non per analogia, giacché si trova su un diverso piano: quello materiale anziché spirituale, divisi oltretutto da un piano intermedio (il macrocosmo), non a caso chiamato astrale od astratto.  L’Infinito infatti è un concetto numerico-metafisico con risvolti cosmologici (numerus a nûmine), insomma qualitativo, non geometrico-spaziale o quantitativo-matematico; dal momento che vi è un rapporto non solo linguistico ma strettamente culturale, in latino, fra i numeri e i nûmina.  Seppure nel macrocosmo i numeri possano essere utilizzati, naturalmente, a scopi inferiori e cioè quantitativi.  Altrettanto potremmo dire della relazione analogica fra il microscopico e l’infinitesimale, mediatamente separati fra di loro dal microcosmo.

      Il punto di vista della scienza è che una reazione chimica abbia principiato la vita.  Tale reazione, in base a codesta ottica, sarebbe d’ascrivere allo spazio extra-terrestre.  Insomma, questa reazione potrebbe essere avvenuta altre volte, qui od altrove.  Quale reazione chimica?  La scienza ha scoperto ultimamente come inventare le cellule dalla semplice materia?  Non risulta.  La vita l’ha solamente descritta in termini biologici, tant’è che per clonare necessita forzatamente di cellule vive.  In altre parole, le 



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conoscenze scientifiche sono in grado di permetterci di sostituire ad un processo naturale uno artificiale, ma niente di piú.  Un po’ come si fa coll’aceto o il tamari: è possibile produrli sinteticamente, però non son buoni come gli equivalenti naturali.  In un mondo confusamente dominato dalla borghesia l’artificialità (dal lat. artifex = ‘artefice, artigiano, tecnico, fabbro’) di quel tipo di umanità appartenente alla sottospecie hômo faber non poteva che essere la caratteristica dominante!  Curioso che i Romani con una significativa premonizione chiamassero fabbrica non solo l’edificio ove gli artigiani lavoravano (la moderna fabbrica) e quindi il loro prodotto artigianale, ma anche l’artificio, la frode, l’inganno.  L’invenzione d’una cellula viva rimane comunque, letteralmente, un’utopia.
      Soltanto è permessa allo scientismo contemporaneo (la vera scienza è altra cosa, come mostra il lat. scio = ‘sapere’, connesso nell’etimo per una via non facilmente individuabile all’ingl. sky = ‘cielo’)(1) la creazione piú o meno nascosta di esseri mostruosi in laboratorio, che i bene informati dicono inaccessibili ad occhio umano, almeno ai non-addetti-ai lavori.  Anche questo fa parte, in certo senso, di quell’artificialità di cui parlavasi sopra.  Da dove proviene la vita?  Da una reazione?  Ma chi l’ha stabilito?  L’esistenza non è un esclusivo fatto fisico.  Gli antichi lo sapevano, per questo non spingevano eccessivamente la loro indagine nel suddetto campo.  Solo quanto serviva all’esistenza materiale e nulla piú.  Per rendere maggiormente chiaro il problema sarà utile citare un passo d’un poema turco, che potrebbe essere annoverato tra gli esempî di quel che l’Albrile (2) designava una volta come  “cristianesimo armeno”.

      Dei monaci vivono in un monastero che si narra sia stato fondato nientemeno che dal patriarca Noè, sbarcato sull’Ararat ai 



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tempi del Diluvio.  Dentro al monastero vi è un maestro corrotto, dedito all’uso illecito delle cose sacre; ed un altro reale, il quale però è solamente un ospite venuto da chissadove e privo di qualsiasi forma di possedimento.  Non ha neppure dei cenci per vestirsi.  Pian piano Mirdad, il Vero Maestro, sottrae spiritualmente i monaci all’influenza nefasta del Decano, vale a dire il Falso Maestro.  Questi si chiama Shamadam.  Un giorno tuttavia uno dei monaci appare molto triste: gli è morto il padre, incornato da un toro.  Il Maestro cerca di consolarlo, poiché tutto ciò che ci capita secondo la sua Parola è in realtà voluto da noi a scopo di perfezionamento interiore.  Allora il  monaco, di nome Himbal, gli domanda: –Tu che sai tante cose, dimmi dove ora è mio padre!–  Il Maestro sorride e risponde: –E tu dove sei?–  Indispettito, il monaco risponde: –Sono qui, non mi vedi?–  Mirdad spiega: –Coi piedi sei qui dinanzi a me, lo vedo.  Ma con la testa dove sei?– Himbal rimane ammutolito, non comprende.  Allora continua il Maestro: –Noi coi piedi apparteniamo a questo mondo, ma non col capo.  Tuo padre è dove sei ora tu coi tuoi pensieri (3).

      È infatti allo spazio interiore od intimo che appartengono i morti, non allo spazio esteriore, dove le salme vanno presto in decomposizione biochimico-fisica.  Nel linguaggio sacrale lo spazio rappresenta un simbolo, come tanti altri.  Il Regno dei Cieli, ci spiega reconditamente l’Êvangelium, è dentro di noi.  Quindi affermando che la vita viene dall’alto s’intende dire che proviene dall’interius (comp. di inter = ‘nello spazio di mezzo, entro, fra’), anzi dall’intimum (sup. di inter, in riferimento alla parte suprema di spazio), non già dalla materia; la quale, pure, secondo l’etimologia stessa ne è madre.  Visto che, come insegna l’induismo, la Materia è un’immagine  della Potenza (Śakti) della Divinità.  Al modo in cui il seme genera il frutto e la buccia, insegnavano i Padri della 





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Chiesa, pur non essendo né il frutto né la buccia.  La ragione della fruttificazione è nel seme, non si può trovar ragione di essa nella scorza o nel frutto medesimo, a meno d’intendere quest’ultimo come un tutto unico.

      Affermare che la vita si sia originata da sé nell’ambito di miliardi di galassie, o delle semplici stelle secondo il modello antico, è una contraddizione in termini.  Sarebbe come pensare che abbia potuto aver origine dagl’indefiniti punti scuri delle piastrelle del pavimento della nostra cucina.  Che senso avrebbe un’affermazione del genere?  No, non può essere.  La vita è un fatto psichico e prima ancora spirituale.  L’Esistenza è l’Essere Divino, la Divinità.  Non bisogna confondere la vita e l’esistenza materiale con la Vita e l’Esistenza tout court, che sono più ampie e trascendono il mondo fenomenico e transeunte.  Anche il mondo psichico è in divenire, ma più lentamente, avendo una consistenza e quindi una durata maggiore sul piano cosmico.  La creazione d’un tavolo esige minor tempo della creazione della Tavola Zodiacale, perciò anche la distruzione relativa avviene con un diverso lasso di tempo.  La Creazione è l’intero mondo, ordinato secondo un Piano Divino, cui sogliamo affibbiare l’appellativo di Provvidenza.  Non può esser concepita come una scintilla casuale fra materiali inerti, concetto peraltro che parrebbe la profanazione di un’idea gnostica tardo-antica di tutt’altra portata.  Del resto il caso cosí come lo concepisce la scienza, che lo riduce a delle mere probabilità senza causa (eppure ‘casuale’ nella nostra lingua è l’anagramma di ‘causale’!), è pura fantasia immaginativa.  Il Caso vero per gli antichi non era che il Destino, il Fato in senso ovviamente limitativo, ma vi era un Fato che oltrepassava la Potenza di Padre Zeus, cioè mutatis mutandis il Dio Padre dei cristiani.  La verità è un’altra, assolutamente opposta, secondo 



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quanto insegna l’etimologia: Câsus a Caelo cecidit.

      Se la Vita non è cosa soltanto mondana, ciò significa che l’Esistenza si è automanifestata, dando luogo a miriadi di esseri contingenti.  Gli enti, per l’appunto.  Ma l’Esistenza, aldilà delle distraenti illusioni cosmiche, è sostanzialmente una ed una sola.  Morendo torniamo perciò a quell’Essere che è unico siccome non possiede alcuna forma di dualità né di dualismo, di contrapposizione; ad esso siamo sempre appartenuti, apparteniamo tuttora e sempre apparterremo in futuro.  L’Eternità è tridimensionale, come le Tre Moire o le omologhe Śakti della Trimûrti hindu.

      Già qui il problema della vita extra-terrestre sarebbe risolto, tuttavia la questione implica altre faccende, meno importanti sul piano dialettico ma piú su quello pratico, e pertanto proveremo a risolverle in altra sede.




Note

(1)                    Il vr.lat. scio (letto una volta in maniera gutturale, alla tedesca) è da rapportare inoltre filologicamente al got. sôkjan (‘cercare’), a.sass. sôkian (id.), a.nord. sǿkia (id.), a.ingl. sêcan (id.), ingl. seek (id.).  Da ciò si deduce che la scienza era in origine ricerca in senso eminentemente astrale, per quanto la si possa intendere in quanto designante l’intero sapere umano in modo più elevato (ontologico) o meno (materiale).  Circa l’ingl. sky va aggiunto che il termine risulta collegato, a sua volta, pure col gr. σκíα (‘ombra’) – ne è d’altronde l’anagramma sul piano fonetico – e il scr. chayâ (id.).  Da notare ancora che il s.f. σκíα si collega in greco al vr.ser. σκέπω (‘coprire, ricoprire’), ep. σκεπάω; mentre in sanscrito il s.f. chayâ é apparentato all’a.m. kâla (‘scuro; nero, blu’), donde il lat. caeles (‘celeste; azzurro, divino’)/ var.  caelestis/ coelestis (id.) o



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         câlîgo (‘oscurità, tenebra; caligine, nerezza, velo’) ed il gr. kelainós (‘nero’).  Per molto tempo prima d’un famoso art. di Jean Prziluski si è pensato che nell’antica lingua indiana il s.m. kâla (‘tempo’) non fosse connesso linguisticamente all’a.m. kâla, onde si faceva derivare erroneamente la prima voce dal sanscrito (od antico indiano, la lingua dell’induismo) e la seconda dal pali (o medio indiano, la lingua del buddismo); in effetti, il senso di ‘cielo’ s’è perduto nell’idioma hindu, ma a riprova della giustezza dell’etimo sopra riportato esiste un termine che, all’opposto, indica la terra (khala).  Il che ci autorizza a rapportare il scr. kâla (‘tempo’) al lat. caelum/ coelum (‘cielo’).
(2)                    Il dott. E.Albrile (com.or.) era del parere che uno studioso quale Gurdjeff avesse utilizzato fonti appunto di tale provenienza e personalmente concordiamo con lui, sebbene altri studiosi siano scettici in proposito alla persistenza d’un possibile ramo armeno.  Nel Poema di Mirdad. Un faro ed un porto (pubblicato a Roma dalle Mediterranee nel 1977, ed.or. 1962), di M.Naimy, non si fa ad ogni modo alcuna menzione d’altri profeti se non del padre di Cam, Sem e Jafet; ne vi sono riferimenti storici o contenutistici, sia pur indiretti, a qualsivoglia testo o tradizione religiosa successiva a Noè.
(3)                    Le frasi riportate sono un nostro libero adattamento del testo.