Nella pittura paesaggistica cinese che
andava dai T’ang ai Sung, già trattata (1), vigeva in genere la constatazione di tipo pre-iniziatico che la Bruma avvolgesse
maternamente il Tutto e la
Dualità fosse soltanto apparente, frutto delle vicendevoli
alternanze del dominio dello Yin e dello Yang. Essa in senso stretto era il frutto
chiaramente di un’influenza taoista, sebbene tal arte fosse praticata anche dai
buddhisti, i quali identificavano il Tao (la Via) alla Çûnyatâ (la Vacuità). Da notare che lo Çûnya (il Vuoto) in
ambito hindu ha sempre rappresentato il numero zero, emblema del Brahman (2). L’India d’altronde, che del buddhismo è stata
la culla in quanto elemento spurio dell’induismo, pur concependo la Dualità come qualcosa di
per sé irreale (3) l’ha affrontata
post-iniziaticamente quale Mostro da debellare; ovvero quale Avversario per
eccellenza da annientare, al fine di poter riottenere la visione unificante
originaria. Fra queste due diverse
visioni, è il caso d’ammettere, c’è di mezzo la Caduta e la Cacciata dall’Eden, che
in termini cosmologici generali – fatte le debite proporzioni fra il Vicino ed
il Medio Oriente – può essere collocata alla fine del IV Ciclo Avatarico. Ossia, detto in termini cosmografici, fra la
fine del Ciclo Sud-orientale (melanesiano-micronesiano) e l’inizio di quello
Sudeano (austronesiano), di cui la cultura indiana piú antica è da considerare
erede attraverso certo shivaismo. Dallo
shivaismo codeste istanze post-paradisiache sono state trasmesse al buddhismo
mahayanico. Ecco perché talvolta nella
pittura cinese d’Ep. Ming, palesemente influenzata dall’arte ch’an
piú che non da quella taoista (cfr. certa paesaggistica del confuciano Shen
Chou), sarà un luogo paradisiaco leggendario, il T’ao-yüan, a funger
da soggetto espressivo. Siffatto
richiamo paradisiaco non era invece presente nella pittura taoista, che non ne
necessitava, poiché si rifaceva a due cicli entrambi anteriori a ciò che
biblicamente chiamasi la ‘Caduta’ (4):
da un lato il Ciclo Nord-orientale (paleoasiatico), in termini indiani
equivalente al Ciclo della Tartaruga, la quale oltre ad esser la semiforma
zoomorfa del Kûrma Avatâra era uno degli
emblemi attribuiti al cinese P’an-ku; dall’altro il Ciclo Orientale (quello polinesiano), paragonabile al
Ciclo del Verro (5), attribuito al Varâha
2
Avatâra. Questi due cicli, nella cosmologia indd appartenenti all’Età Paradisiaca (o Aurea che dir si voglia), costituiscono la lontana base preistorica di quel che in età post-neolitica è stato definito ‘taoismo’. La dottrina taoista si rifà infatti ad una precedente ontologia dai tratti shamanici, chiamata wuismo, dal termine wu (designante la shamana in epoca arcaica); ove erano le femmine piuttosto che i maschî a dominare la scena, come è accaduto in parte nel taoismo medesimo (6).
2
Avatâra. Questi due cicli, nella cosmologia indd appartenenti all’Età Paradisiaca (o Aurea che dir si voglia), costituiscono la lontana base preistorica di quel che in età post-neolitica è stato definito ‘taoismo’. La dottrina taoista si rifà infatti ad una precedente ontologia dai tratti shamanici, chiamata wuismo, dal termine wu (designante la shamana in epoca arcaica); ove erano le femmine piuttosto che i maschî a dominare la scena, come è accaduto in parte nel taoismo medesimo (6).
Ci ricorda lo Speiser (7) fra le 3 scuole d’importazione
indiana ma di revisione cinese del buddhismo (IV-VI sec. d.C.) era comunque
soprattutto la filo-taoista Scuola di Meditazione (ch’an deriva dal scr.
dhyana = “meditazione”, anche se imprecisamente alcuni come il Luk lo
hanno tradotto con “mente”) che piú s’approssimava alla mentalità propria della
Cina, rispetto alla Scuola di Amida ed alla T’ien-t’ai. Giacché si rifceva, in modo esplicito,
all’antica dottrina del Tao e la riplasmava ad uso del nuovo modello importato
affinché non apparisse come improprio al suolo cinese e venisse per tal ragione
rigettato. Fra il VII ed il IX sec. è avvenuta
cosí la penetrazione della neo-dottrina ed il buddhismo ha cominciato seppur
faticosamente la sua ascesa, pur essendo a quel tempo assai osteggiato a causa
della sua inevitabile antisocialità (monachesimo, celibato), in contrasto
peraltro colle tradizioni confuciane. La Scuola Ch’an (cfr. lo
splendido ritratto d’un maestro da parte di Shih K’o, X sec.)(8), a differenza delle altre, oltre ad
avviare rapidamente all’Illuminazione senza troppi passaggi intermedî ebbe il
merito di rivolgersi infatti anche a chi era coniugato e non osservava perciò
strettamente i precetti buddhisti, facendo a meno oltretutto di conventi e
scritture. Di qui la scarsa simpatia da
parte del Ch’an e del suo equivalente giapponese, lo Zen, per ogni forma
letteraria. Anche se poi in definitiva,
contrariamente ai presupposti, i maestri di codeste scuole non han fatto
mancare ai loro discepoli scritti d’impostazione ch’an e zen.
3
L’apogeo
del ch’an fra i Sung Settentrionali e Meridionali
È
riconosciuto in genere che l’XI sec., sotto i Sung del Nord, sia stato il
momento di maggior livello dell’intera storia della pittura cinese. È in tale secolo che s’è sviluppata tra
l’altro la tecnica semi-calligrafica della raffigurazione monocroma del mo
chou (bambú, lett. ‘bambú ad inchiostro’), pianta la quale col vuoto
interno della sua canna simboleggiava apertamente la Çûnyatâ. Il maggior maestro in proposito, a detta
del collega Su Shih (XI-XII
sec.), fu Wên T’ung (XI). Sebbene
la tradizione attribuisse al grande Wu (VIII sec.) o alla Dama Li
(X sec.) l’invenzione del tema. Di quest’ultima si vociferava che avesse
cercato d’imitare le ombre della pianta provocate di notte dalla luna.
L’osservazione
del bambú, a parte Wen T’ung che si dedicò esclusivamente a questo genere di pittura,
divenne un classico tema di meditazione non meno dei paesaggî e delle altre
bellezze naturali. C’informa del resto
Su Shih, nei suoi scritti, che il maestro Wen
quando dipingeva il bambú era
talmente immerso nella disciplina pittorica da dimenticare anche il proprio
ego. E s’identificava totalmente
coll’oggetto della sua arte, in tal caso la pianta, di cui realizzava un
modello dapprima nella sua mente, poi procedendo con pochi tocchi di pennello
sicuri ed esperti. Gesto tipico
dell’artista che traeva la sua vocazione non da un’ispirazione mondana, bensí
da un fuoco di celeste natura, quel che in Occidente chiamiamo furore
dionisiaco.
Altro
tema favorito era il susino in fiore, considerato idoneo a determinare la cd.
“illuminazione del chiaro di luna”.
Questo tipo di samâdhi veniva ottenuto, per grazia visiva, contemplando
l’ombra proiettata dal susino fiorito o dal bambú su una finestra illuminata
fungente da schermo. Allo scopo vi era
chi come il venerabile pittore ch’an Hua Kuan Jên (XII sec.)
faceva trasportare il suo letto in giardino durante le notti di luna,
declamando in seguito versi criptici che pigliavano presto forma attraverso la
pittura, capace di ricreare sulla seta o sulla carta prima dell’alba
l’atmosfera suggestiva del chiarore lunare.
4
Invece con i Sung del Sud prevalsero l’accademismo ed il classicismo, affievolendosi la spinta morale e la vocazione individuale, ma ciò permise almeno di tener vivo il mestiere. Come sempre accade in epoche di decadenza, vennero meno le ambizioni estetiche, cosicché le opere d’arte diminuirono di valore. E trionfarono per contro il virtuosismo tecnico ed il decorativismo. Stilisticamente i soggetti delle composizioni si ridussero all’essenzialità, con appesantimento della linea ed oscuramento del colore. Hang-chou (9), la cui bellezza e magnificenza è stata esaltata anche da M.Polo, divenne un centro frequentato da maestri del Per.Sung Settentrionale (Li Ti, Ma Fê‘n). Del primo abbiamo già parlato trattando della pittura taoista (10). Il secondo (I metà del XII sec.) è il primo rappresentante della grande Famiglia Ma – donde proverranno nel secolo successivo Ma Yüan e Ma Li – ed è reputato l’autore de Le cento oche selvatiche (11), un’opera straordinaria in inchiostro su carta, la cui autenticità è però messa in dubbio. Oggi il rotolo vierne attribuito, di preferenza, ai Sung Meridionali. Il volo degli uccelli, naturalmente, si disperde nella nebbia come accadeva coi pittori precedenti. Colla differenza che qua, al di sotto dei volatili, campeggiano degli esili bambú emergenti dall’acqua ad insegnarci che è dalla Vacuità e non dal Tao che principia il Tutto (12).
È
in tale momento storico che fioriscono gli apporti della Scuola Ch’an nella
propria rielaborazione in chiave buddhistica della scuola pittorica taoista,
benché introdotta dal punto di vista dottrinale fin dal VI sec. dal monaco Bodhidharma. Prendendo spunto dalla dottrina taoista,
quella buddhista insegnava che ogni aspetto del cosmo, anche minuscolo, era
indirettamente collegato colla natura buddhica ossia colla contemplazione
interiore del Buddha. Onde il
favorire un’intensa meditazione finiva per propiziare l’intervento di
quell’intuizione fulminea che portava alla Bodhi (Illuminazione) od alla
Mahâbodhi
(Grande Illuminazione). Qualcosa insomma
d’assai diverso rispetto alla placida visione wuistico-taoista tipica della
Cina tradizionale, od alla serena contemplazione di tipo yogico-shamanico
propria dell’induismo. Con tale metodo
la mente non s’eclissava pian piano, furtivamente, per
5
rapimento trascendentale; ma improvvisamente, folgorata quasi per corto circuito. Erano cambiati i tempi! Era cosí che il pittore dell’epoca s’immedesimava nell’oggetto della sua pittura, in modo da porre la propria anima all’unisono coi ritmi cosmici; conscio che la buddhità – ossia l’essenza universale – era un quid appartenente a tutti gli esseri, agli uomini come agli animali o ad ogni altro ente naturale. Compito del maestro-artista diveniva pertanto il riverbero nel mondo umano a scopo illuminante del dinamismo spirituale intrinseco ad ogni cosa, affinché scattasse la molla nell’osservatore dell’identità assoluta tra sé e l’altro-da-sé. Nel mondo corrotto dei tempi ultimi l’altro-da-sé aveva adempiuto una funzione d’alienazione, per cui l’ego si era chiuso illusoriamente in una roccaforte; roccaforte che poteva esser presto smantellata riponendosi all’unisono col cosmo, a patto di poter intendere nella maniera giusta il senso di quel che circondava gli esseri.
5
rapimento trascendentale; ma improvvisamente, folgorata quasi per corto circuito. Erano cambiati i tempi! Era cosí che il pittore dell’epoca s’immedesimava nell’oggetto della sua pittura, in modo da porre la propria anima all’unisono coi ritmi cosmici; conscio che la buddhità – ossia l’essenza universale – era un quid appartenente a tutti gli esseri, agli uomini come agli animali o ad ogni altro ente naturale. Compito del maestro-artista diveniva pertanto il riverbero nel mondo umano a scopo illuminante del dinamismo spirituale intrinseco ad ogni cosa, affinché scattasse la molla nell’osservatore dell’identità assoluta tra sé e l’altro-da-sé. Nel mondo corrotto dei tempi ultimi l’altro-da-sé aveva adempiuto una funzione d’alienazione, per cui l’ego si era chiuso illusoriamente in una roccaforte; roccaforte che poteva esser presto smantellata riponendosi all’unisono col cosmo, a patto di poter intendere nella maniera giusta il senso di quel che circondava gli esseri.
Considerato
superficialmente nella sua incostante fenomenicità, il naturale vela le sue
potenzialità espressive. Soprattutto
appunto in tempi che sono lontani dall’origine paradisiaca. Di qui il passaggio scontato dall’ottica
ancestrale taoista a quella piú problematica di carattere buddhista. Il taoismo non necessitava d’un brusco
risveglio, bensí d’un semplice riassoggettamento alla logica universale dello
Yin e dello Yang, passaggio che avveniva tramite l’occultamento parziale degli
enti attraverso la Bruma
quale immagine della Via. Mentre, il
risveglio che l’appercezione improvvisa della vacuità del tutto produceva
buddhisticamente in chi meditava sul disegno ad inchiostro di china, presentava
un aspetto lampeggiante. Non era piú la
natura grossolana degli esseri a contare, ma semmai la loro capacità
vibrazionale denudata agli occhi dello spettatore, che ad essa giungeva tramite
l’acuta sensibilità e le doti intuitive dell’artista propositore del tema. Proprio per questo lo stile pittorico divenne
essenziale, essendo atto a produrre la visione balenante in poche pennellate, e
la policromia si ridusse per lo piú alla monocromia.
Il
paesaggio assunse in tal modo, rispetto a prima, tratti marcatamente soggettivi. Mu Ch’i e Liang K’ai furono i
due artisti del
6
XIII sec. che maggiormente di altri incarnarono il suddetto ideale. Entrambi si ritirarono in un monastero presso Hang-chou. Del primo rimangono i Sei kaki, su carta, di stile iper-naturalistico (13); le Peonie (14), in inchiostro cromatico su seta, e lo stupendo Monaco in meditazione (15). Tutte le opere sono state conservate in Giappone, dove hanno esercitato una notevole influenza sulla pittura autoctona. Le composizioni di Mu-ch’i presentano un centro d’irradiazione avente un significato contemplativo nel senso sopra rilevato. A partire dallo stesso sfumano tutte le altre pennellate d’inchiostro. La dimensione in cui rientra ciò che è oggetto di raffigurazione supera l’ambito propriamente materiale, funge da invito palese al raccoglimento interiore. Tale l’evidenza della bellezza da esso propagata, che lo spettatore si ritrova subitamente in un mondo ideale di purezza incontaminata, dove ogni cosa rivela i suoi altrimenti insondabili segreti. Oltrepassata in codesto modo la soglia dell’ordinaria percezione, tutto appare in una chiarezza e semplicità allucinante. Ecco la funzione dell’ispirazione artistica presso i maestri ch’an! Liang K’ai è autore del magnifico ritratto posteriormente di fianco del poeta Li T’ai-po e di quello di lieve profilo d’un maestro ch’an (16). Altre opere gli sono attribuite, ma paiono il frutto d’imitazioni posteriori.
6
XIII sec. che maggiormente di altri incarnarono il suddetto ideale. Entrambi si ritirarono in un monastero presso Hang-chou. Del primo rimangono i Sei kaki, su carta, di stile iper-naturalistico (13); le Peonie (14), in inchiostro cromatico su seta, e lo stupendo Monaco in meditazione (15). Tutte le opere sono state conservate in Giappone, dove hanno esercitato una notevole influenza sulla pittura autoctona. Le composizioni di Mu-ch’i presentano un centro d’irradiazione avente un significato contemplativo nel senso sopra rilevato. A partire dallo stesso sfumano tutte le altre pennellate d’inchiostro. La dimensione in cui rientra ciò che è oggetto di raffigurazione supera l’ambito propriamente materiale, funge da invito palese al raccoglimento interiore. Tale l’evidenza della bellezza da esso propagata, che lo spettatore si ritrova subitamente in un mondo ideale di purezza incontaminata, dove ogni cosa rivela i suoi altrimenti insondabili segreti. Oltrepassata in codesto modo la soglia dell’ordinaria percezione, tutto appare in una chiarezza e semplicità allucinante. Ecco la funzione dell’ispirazione artistica presso i maestri ch’an! Liang K’ai è autore del magnifico ritratto posteriormente di fianco del poeta Li T’ai-po e di quello di lieve profilo d’un maestro ch’an (16). Altre opere gli sono attribuite, ma paiono il frutto d’imitazioni posteriori.
Pittura
letteraria e crisi dei valori spirituali in Epoca Yüan
A partire dalla II metà del XIII sec.,
coll’avvento della Din. Yüan (1260-1368) incominciò una fase di regresso
dell’arte pittorica in Cina, che si sarebbe di seguito acuita colla Din. Ming
(1368-1644) per culminare coi Ch’ing (1644-1912). La
Cina in questo periodo rimase sottomessa all’esercito mongolo
e si creò in tal modo una situazione storica – benché piú breve – simile a
quella verificatasi nel X sec. colle Cinque Dinastie. La distruzione inevitabile delle scuole
artistiche spinse però gli artisti ad adottare stili maggiormente
personalistici. In maggior
7
parte essi rifiutarono ogni forma di collaborazione coll’invasore e si ritirarono in solitudine, nostalgicamente ispirandosi all’arte luminosa d’Ep. T’ang. Qui nacque la cd. wê‘n-j‘ên hua (‘pittura dei letterati’), divenuta poi un modello per tutti i secoli successivi sia in Cina che in Giappone. La pittura letteraria perse il senso di trascendenza ed assunse toni naturalistici sempre piú accentuati man mano che si giungeva all’epoca moderna e contemporanea. Come insegna l’Argentieri (17) la spiritualità di cui era connaturata la pittura precedente lasciò il posto alla semplice poeticità, la suggestività subentrò al senso di comunione colla natura, l’ecletticità dei generi sostituí la visione contemplativa. Pur tuttavia s’adottarono nuove soluzioni tecniche e compositive, che arricchivano il panorama artistico e lo rendevano piú variegato, l’ambito generale in cui la pittura si muoveva rimanendo però quello classico. Una pittura di stile letterario non poteva che essere un’espressione mediata, estranea ad ogni spontaneità e novità reale. Le nuove soluzioni adottate perciò, inevitabilmente, rappresentavano accorgimenti manieristici.
7
parte essi rifiutarono ogni forma di collaborazione coll’invasore e si ritirarono in solitudine, nostalgicamente ispirandosi all’arte luminosa d’Ep. T’ang. Qui nacque la cd. wê‘n-j‘ên hua (‘pittura dei letterati’), divenuta poi un modello per tutti i secoli successivi sia in Cina che in Giappone. La pittura letteraria perse il senso di trascendenza ed assunse toni naturalistici sempre piú accentuati man mano che si giungeva all’epoca moderna e contemporanea. Come insegna l’Argentieri (17) la spiritualità di cui era connaturata la pittura precedente lasciò il posto alla semplice poeticità, la suggestività subentrò al senso di comunione colla natura, l’ecletticità dei generi sostituí la visione contemplativa. Pur tuttavia s’adottarono nuove soluzioni tecniche e compositive, che arricchivano il panorama artistico e lo rendevano piú variegato, l’ambito generale in cui la pittura si muoveva rimanendo però quello classico. Una pittura di stile letterario non poteva che essere un’espressione mediata, estranea ad ogni spontaneità e novità reale. Le nuove soluzioni adottate perciò, inevitabilmente, rappresentavano accorgimenti manieristici.
Tra
i nomi piú illustri del periodo l’unico a distaccarsi dall’accademismo imperante
del suo tempo fu Ch’ien Hsüan (XIII sec.), famoso pittore di fiori ed
uccelli. Di lui si conservano lo Scoiattolo
sul ramo di pesco (18) e Primo
autunno (19), due composizioni su carta in inchiostro
policromatico. Quest’ultima opera si
distingue da ogni altra di qualsivoglia autore per l’attenzione riservata alla
vita brulicante d’uno stagno, ove delle cavallette fan pendant con
libellule, rane, farfalle ed altri insetti in un insieme di colori tenue ed
assai suggestivo. Non si tratta,
ovviamente, di naturalismo ma piuttosto di sacralizzazione della natura anche
nei suoi aspetti meno prossimi all’uomo.
Altri 2 pittori sono da segnalare per la loro vitalità: Chao M‘êng-fu (XIII-XIV
sec.) e Kao K’o Kung (id.). L’uno
era dedito a raffigurazioni equine alla maniera t’ang (vedi Cavalli al guado)(20), rispecchiando un rinnovato interesse per la vita nomade
centrasiatica, evidentemente ispirato all’invasione mongola. Fu naturalmente criticato per il suo
collaborazionismo, essendo stato assunto quale funzionario
8
del nuovo impero. In una composizione in inchiostro su seta il soggetto rappresenta addirittura la Partenza di W‘ên Chi ( nobile signora rapita dagli unni ) dall’accampamento nomade (21). L’altro, riprendendo lo stile sung-settentrionale, s’ispirò a Mi Fei. Vedi ad es. il già analizzato Montagna dopo la pioggia (22). Una composizione isolata d’un maestro anonimo del Per. Yuan, La riva d’un lago in inverno (23), sembrerebbe invece rifarsi in parte alle Cento oche di Ma Fen (24). Benché ispirato allo stile sung-meridionale, potrebbe essere opera dello stesso Kao, il quale visse per parecchio tempo in ambiente lacustre ed era attratto taoisticamente dai paesaggî, infondendo tuttavia in questi atteggiamenti piú sentimentaleggianti ed umani.
8
del nuovo impero. In una composizione in inchiostro su seta il soggetto rappresenta addirittura la Partenza di W‘ên Chi ( nobile signora rapita dagli unni ) dall’accampamento nomade (21). L’altro, riprendendo lo stile sung-settentrionale, s’ispirò a Mi Fei. Vedi ad es. il già analizzato Montagna dopo la pioggia (22). Una composizione isolata d’un maestro anonimo del Per. Yuan, La riva d’un lago in inverno (23), sembrerebbe invece rifarsi in parte alle Cento oche di Ma Fen (24). Benché ispirato allo stile sung-meridionale, potrebbe essere opera dello stesso Kao, il quale visse per parecchio tempo in ambiente lacustre ed era attratto taoisticamente dai paesaggî, infondendo tuttavia in questi atteggiamenti piú sentimentaleggianti ed umani.
Oltre ai nomi citati altri 4 artisti sono da
annoverare, non fosse che per l’influenza da loro esercitata sui successori: Huang
Kung-wang, Wu Ch‘ên, Ni
Tsan e Wang M‘êng; vissuti
i primi due fra la fine del XIII sec. e la prima metà del XIV, gli altri due interamente
nel XIV. Al pazzo taoista Huang, tipico
autore wê‘n-j‘ên, viene attribuito Il villaggio montano (25); un dipinto del 1342 in inchiostro su carta
in cui si notano un’assenza quasi modernistica della prospettiva aerea e degli
effetti chiaroscurali che, a giudizio del Willetts, ricordano da presso la
paesaggistica tardo-impressionistica del provenzale Cézanne nonché quella
espressionistica (priva di particolari) dell’olandese Mondrian. Altrettanto può dirsi dei paesaggî di Wu, ove
però a differenza le linee distintive del disegno paiono eclissarsi (26).
Wu Chen, assieme a Ni Tsan e ad alcuni altri altri pittori «calligrafici»
(Wê‘n T’ung, Yang Wu-chiu, Li K’an, Ku An, Kuan Tao-sh‘êng, e P’u-Ming) (27), fu
inoltre tra i maggiori compositori di mo chu (28), i quali miscelarono esteticamente pittura e calligrafia. davvero splendido, del resto, è il suo Ciuffo di bambú (29). L’opera sua maggiore è
comunque secondo l’Argentieri Il piacere del pescatore, tema sicuramente ripreso da
Il pescatore eremita di Ma
Yuan (30), ove un
remo sembra fungere da stampella al vecchio addormentato su di essa. Ni Tsan, molto stimato stilisticamente al suo
tempo, ritraeva invece paesaggî ideali piuttosto sfumati (31). Di Wang Meng rimane Case
con tetti di paglia sul
9
Monte T’ai (32), in inchiostro policromo su seta, composizione che già prelude a pitture dei tempi successivi. In un laghetto formato da una scoscesa cascata si specchiano i due alberi alla base del dipinto, l’architettura umana perfettamente integrandosi colla rupe prolungante l’effetto di slancio verso l’alto provocato dagli alberi; ma il monte giace quasi incassato nel terreno, avendo forma atipicamente quadrangolare anziché conica.
9
Monte T’ai (32), in inchiostro policromo su seta, composizione che già prelude a pitture dei tempi successivi. In un laghetto formato da una scoscesa cascata si specchiano i due alberi alla base del dipinto, l’architettura umana perfettamente integrandosi colla rupe prolungante l’effetto di slancio verso l’alto provocato dagli alberi; ma il monte giace quasi incassato nel terreno, avendo forma atipicamente quadrangolare anziché conica.
Giuseppe Acerbi
Note
(1) G.Acerbi, La Bruma
e il Tao. Tecnica paesaggistica
della pittura cinese dai T'ang ai Sung- Alle pendici del Meru (31-01-13), su questo stesso blog.
(2) Id., Metafisica
dello Zero- Alle pendici del Meru (6-10-06); purtroppo cancellato
inopportunamente dal blog, ma sarà riproposto in vers.integr. (invano
fornita a ‘Heliodromos’) prossimamente.
(3) Almeno, nel’Advaitavâda Vedânta di tipo çankariano.
(4) Indianamente corrispondente alla fine del Satya Yuga.
(5) Siffatti cicli non sono enumerati solamente nella tradizione indd, ma vengono elencati anche nelle tradizioni oceaniane; e, sotto diverso aspetto (vedi sequenza dei Nove Imperatori, ai quali manca l’ultimo per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare qui), persino in quella taoista. Gli Avatâra non vengono venerati nel buddhismo, avendo i Bodhisattva – seppur assai pid numerosi – idealmente preso il loro posto; tuttavia, pure i buddhisti si rifanno cosmologicamente al Caturyuga.
(3) Almeno, nel’Advaitavâda Vedânta di tipo çankariano.
(4) Indianamente corrispondente alla fine del Satya Yuga.
(5) Siffatti cicli non sono enumerati solamente nella tradizione indd, ma vengono elencati anche nelle tradizioni oceaniane; e, sotto diverso aspetto (vedi sequenza dei Nove Imperatori, ai quali manca l’ultimo per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare qui), persino in quella taoista. Gli Avatâra non vengono venerati nel buddhismo, avendo i Bodhisattva – seppur assai pid numerosi – idealmente preso il loro posto; tuttavia, pure i buddhisti si rifanno cosmologicamente al Caturyuga.
(6)
Rifacendoci alla ‘Genesi’, potremmo
interpretare il wuismo originario del Ciclo del Verro – senza per questo uscir
dal seminato, visto che il tema edenico vetero-testamentario pare d’origine
indo-iranica anziché semitica – in rifermento agli Evaiti. (N.B.- Usiamo la voce ‘Genesi’
al femminile, derivando questa dal greco e non dall’ebraico, come certa erudizione
accademica contemporanea vorrebbe far credere.
Perché altrimenti di questo passo dovremmo chiamare il Gange la Gange e
via dicendo, dato che in sanscrito i nomi dei
10
fiumi sono tutti femminili. Pure in tal caso, infatti, il nome italiano deriva dal latino e non dal sanscrito…)
10
fiumi sono tutti femminili. Pure in tal caso, infatti, il nome italiano deriva dal latino e non dal sanscrito…)
(7)
W.Speiser,
Cina- Il Saggiatore, Milano 1960 (ed.or. China. Geist
und gesellschaft- Holle V., Baden-baden 1959), Cap.V,
§ 7 (nn.numm.), p.134-5.
(8)
On line.
(9)
Questa città è stata nel XIII sec. la
capitale della Din.Sung Merid. (la vecchia capitale nel X sec. dei Sung Sett.
era Pien, attuale K’ai-feng), così come
oggi lo è del Chekiang, una delle 5 province meridionali della Cina. Meraviglia del posto è il non dustante Lago
Occidentale, attorno cui sono dislocati numerosi templi antichi. Tale lago, insieme ad altri fattori
geografici, ne fa tuttora il principale centro turistico del Paese.
(10) Ibîd. come alla 1.
(11)
W.Willets, Origini dell’arte cinese, dalla
ceramica neolitica all’architettura moderna- Silvana, Milano ? (ed.or. Chinese Art, I ed. Penguin
B., Harmondsworth [Middl.], 1958; II ed.riv. Thames & Hudson, Londra 1958), Cap.VII, p.340, tav.194.
(12) Cfr.
collo Hén-tò-Pân dei Greci.
(13) Will.,
op.cit., p.328, tav.col. 52.
(14) Op.cit., p.341, tav.196.
(15) G.Argentieri ( a c. di), Pittori cinesi-
Mondadori, Milano 1967, p.55, ill.18. Anche
in questo secondo art. confessiamo d’esserci appoggiati a questo testo,
principalmente, per la parte storica e documentativa dell’articolo.
(16) Will., cit.,
p.338, tavv. 189-90.
(17) Arg., op.cit.,
p.124.
(18) Will., cit., p.340, tav.195.
(19) Cit.., pp. 326-7, tav.col. 50.
(20) Arg.,
cit., pp .98, ill.31 e 101, ill.32.
(21) Will.,
cit., p.358, tav.221.
(22) Ibîd. come alla 1, n.10.
(23) Arg.,
cit., p.81, ill.col. 27. Nell’ambito
di tal composizione una coppia di oche selvatiche sosta accanto a due alberi
spoglT, su uno
dei quali sono sospese alcune gazze. In
mezzo agli alberi nudi si staglia, per un contrasto sicuramente voluto, un
sempreverde. Altri volatili sono appollaiati
su un isolotto, mentre un volo d’uccelli s’avvicina in un cielo nebbioso
soffuso di vaga e spenta luce crepuscolare; che tende a confondere tutte le
sagome naturali in un chiaroscuro suggerente una sottile dimensione di vacuità,
con un effetto
11
rispecchiante quello della bruma nella pittura taoista.
11
rispecchiante quello della bruma nella pittura taoista.
(24) Vide n.11.
(25) Will., cit.,
p.359, tav.223.
(26) Arg.,cit.,
p.88, ill.27.
(27) Il genere proviene dalle rappresentazioni
pittoriche buddhiste di Avalokiteçvara aliâs Kuan-Yin, dalle quali una volta estratto ha finito per diventare un
genere a sé stante. Il ‘bambd ad inchiostro’ del periodo sung-meridionale (XII-XIII sec.) e yüan (XIII-XIV sec.) sarebbe nato,
secondo i testi, dal ‘bambú a contorno’ d’epoca t’ang
(VII-X sec.) e sung-settentrionale
(X-XII sec.). Precoci rappresentanti del
bambú a contorno furono al dire del
Willets Li P’o (X sec.), Huang Ch’üan (X-XI sec.), Ts’ui Po (XI sec.) e Wu Yüan-yü (id.). Il pittore di bambú Wen T’ung – attivo nella seconda
metà dell’XI sec. – è ad ogni modo ritenuto il vero iniziatore di questo
modello di pittura (Will., cit., pp.
342-3, tavv.197-8), prima ricorrente soltanto in composizioni isolate da parte
dei pittori minori succitati durante il X sec. e la prima metà del successivo. A seguire l’altrimenti pittore dei susini in
fioreYang Wu-chiu, operante
nella prima metà del XII (ibîd., p.343, tav.199). Appartengono al mo chu, altresì, i 4 grandi maestri d’epoca yüan: Li K’an (XIII-XIV sec.), il maggiore tra costoro (ib., p.244, tav.200); Ku An (XIV sec.), pid formale e prosaico; nonché gli
eccentrici Wu Chen (XIII-IV sec.) e Ni Tsan (XIV sec.). Una variante particolare di
tal tipo di composizioni è rappresentato dal Bambú
nel vento, tema interpretato
in ottica cinese come la capacità da parte degli autoctoni di resistere alla
bufera dell’inavsione mongola; è stato affrontato da Wu Chen (p.348, tav.205) e
Ku An (p.349, tav.206), ma sfruttato ancor meglio da P’u-Ming
(Arg., cit., p.83, ill.26).
(28) Cit., p.71, ill.col. 23.
(29) Will., cit., p.346, tav.202.
(30)
Cit.,
p.356, tav.219.
(31) P.359, tav.224; inoltre Arg., cit., p.89, ill.28.
(32)
Will., p.360, ta.226.
Illustrazioni
1. Il leggendario T’ao-yüan (Shen Chou, pittura paesaggistica,
dett., Coll.Dubosc, Lugano, Ep.Ming).
2. Idem (id. ).
3. Maestro ch’an con gatto (Shih K’o, ritratto, X sec.).
4. Bambú (Wên
T’ung, inch. su carta, Mus.Naz. del
Pal., Taichung, Taiwan, XI
sec.).
5. Le cento oche
selvatiche (Ma Fên, inch. su carta, Acc. delle Arti,
Honolulu, XII sec.).
6. Ascoltando il
vento sotto i pini (Ma
Li, XIII sec.).
7. Il maestro ch’an Wu-chun (Anonimo, ritr., XIII sec.).
8. Monaco buddhista in
meditazione (Mu
Ch’i, ritratto, Coll.Iwas., Tokyo, XIII sec.).
9. Sei kaki (Mu Ch’i, dett., inch. e col. su
carta, Daitoku-ji, Kyoto, XIII sec.).
10. Peonie (Mu Ch’i, inch. su seta, Daitoku-ji,
Kyoto, XIII sec.).
11. Ritratto (di profilo) del poeta Li T’ai-po (Liang K’ai, inch. su carta, Mus.Naz., Tokyo, XIII
sec.).
12. Scoiattolo sul ramo di
pesco (Ch’ien Hsüan, inc. e col. su carta,
Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIII sec.).
13. Primo autunno (Ch’ien
Hsüan, inc. e col. su carta, dett., Ist. di Arti, Detroit, XIII sec.).
14. Cavalli al guado (Chao
Mêng-fu,dett., dett., Lib.Gall. d’Arte, Washington, XIII-IV
sec.).
15. Partenza di Wên Chi
dall’accampamento nomade (Chao
Mêng-fu, inch. su seta, Mus. del Pal., Taichung,
Taiwan, XIII-IV sec.).
16. La riva d’un lago in inverno (Anon., coll.ign., Per. Yüan).
17. Villaggio montano (Huang
Kung-wang, inch. su carta, Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIV sec. )
18. Il pescatore eremita (Wu
Chên, inch. su carta, XIV sec ).
19. Ciuffo di bambú (Id.,
inc. su seta, Mus.Brit., Londra, XIV sec ).
20. Bambú al vento (Ku An, inc. su seta, Mus.Brit., Londra, XIV sec.).
21.
Bambú (Li K’an, dett., Nels.Gall. of Art, Kansas
C., XIV sec.).
22. Paesaggio (Ni
Tsan, inch. su carta, Lib.Gall. d’Arte, Washington, XIV sec ).
23. Case con tetti di paglia sul
Monte T’ai (Wang Mêng, inch. e col. su carta, Mus. del Pal., Taichung, Taiwan, XIV
sec ).
Fonti
1.
G.Argentieri, Pittori cinesi-
Mondatori, Milano 1967, p.115, ill. 36,
2. Ibîd., p.119, ill.37.
3. On line.
4.
Willets, Origini dell’arte cinese,
p.343, ill..207.
5. Ibîd., p.340, ill.194.
6. On line.
7. On line.
8. Arg., p.55, ill.18.
8. Arg., p.55, ill.18.
9. Will., p.328, tav.52.
10. Ibîd., p.341, ill.196.
11.
Arg., p.34, ill.11.
12.
Ibid., p.340, ill.195.
13.
Ib., p.326, tav.50.
14. Arg., p.101, ill.32.
15. Will., p.358, ill.221.
16.
Arg., p.81, tav.27.
17.
Will., p.359, ill.223.
18. On line.
19. Will., p.346, ill.202.
20.
Ibîd., p.349, ill.206.
21.
Arg., p.69, tav.22.
22.
Will., p.359, ill.224.
23.
Ibîd., p.360, ill.226.
Fig.1
Fig.2
Fig.3
Fig.4
Fig.5
Fig.6
Fig.7
Fig.8
Fig.9
Fig.10
Fig.12
Fig.13
Fig.14
Fig.15
Fig.16
Fig.17
Fig.18
Fig.19
Fig.20
Fig.21
Fig.22
Fig.23