Paralleli fra Bran e Brahma, nonché Varuna
e Urano
Vi è un personaggio
particolarmente significativo seppure un po’ desueto nella letteratura di
lingua indoeuropea, tanto importante quanto misconosciuto, o meglio
semiconosciuto. Nel senso che solamente
la letteratura tardo-medievale nord-europea lo riconosce come tale. Per il resto o è ignoto, oppure compare sotto
altra forma e non è quindi inteso nel giusto senso. Questi è il Re Pescatore. Ufficialmente appartiene esclusivamente alla
letteratura graaliana, ma in realtà codesta figura – come ebbe già modo di
segnalare a suo tempo Coomaraswamy (1) – ricorre tanto nel mondo celtico
quanto nel mondo indiano, sebbene non in quelli affini iranico e
germanico. In quest’ultimo era
rappresentato in origine dal dio celtico Bran,
designato per trasposizione mitologica signore dell’età aurea, non meno di
Crono e Saturno presso i Greci e i Latini.
L’epica medievale cristiana, di stampo franco-merovingico, ne ha fatto
però un discendente di Giuseppe d’Arimatea.
Cioè, secondo la libera interpretazione di qualcuno (2), del
fratello maggiore di Gesú; altrimenti noto col nome di Giacomo e fondatore
della prima comunità ecclesiastica, la Chiesa di Gerusalemme (3),
equivalente terreno di quella ‘Nuova Gerusalemme’ cui allude S.Giovanni nell’Ap.-
xxi. 1-4 (4). Brillantemente però
l’esimio autore britannico ha dimostrato, in suo successivo saggio (5),
che la linea dinastico-rituale dei possessori del Santo Vasello – vale a
dire del Graal – si salda da un lato con
quella di Giuseppe, figlio di Giacobbe e detentore d’una famosa ‘Coppa
Oracolare’; dall’altro attraverso Mosé ovvero Akhenaton (leggi
Ekhnatón), secondo quanto hanno dimostrato gli studî della seconda
metà del XX sec., con la tradizione egizia del Vaso Sacrificale o Canopo (6). Nel mondo iranico viceversa la ‘Coppa’ è
stata attribuita a Jamšīd, versione tarda di Yima Kšaēta, ad un
tempo ‘Primo Uomo’ in senso archetipico –
fungente da aureo re-sacerdote, eroe civilizzatore nonché istitutore
delle quattro caste (7) – e
‘Primo Dio’ (Creatore). Il che ci fa
rammentare come anche Manu Rāja (il Settimo Manu, detto anche
Satyavrata o Vaisvasvata), alter-ego dell’equivalente indiano Yama
Rāja, disponga sostanzialmente d’analoghe attribuzioni (8). Compreso l’emblema della Coppa, seppure
mascherato dal mitologhema della crescita a dismisura del contenuto (9). Alludiamo ovviamente al contenitore, ogni
volta variante di forma, in cui egli raccoglie il Pesciolino d’Oro e che è
costretto a sostituire man mano che il Pesce dall’Aureo Corno aumenta di
dimensioni (10).
Nell’iconografia il Matsya
Avatāra è quasi sempre in parte umano e in parte pescino (solo variano le
proporzioni da icona ad icona delle due
2
componenti) allorché è opposto a Bali,
l’Avversario avatarico, oppure principia la serie dei Dāśavatāra. Sono piuttosto infrequenti al contrario le
rappresentazioni interamente teriomorfiche della incarnazione umana di Viṣṇu,
com’è d’altronde logico capire, poiché questa costituiva in realtà
la forma originaria di Brahmā. Quando in alcune occasioni il I Avatāra
compare invece assieme a Manu, assistiamo allora ad una raffigurazione
teriomorfica del Pesce, che però non presenta mai neanche in tal caso
alcun corno a livello figurativo, fungendo semplicemente da cavalcatura del
primo uomo. Si tratta in sostanza d’una
composizione piuttosto rara, che i testi riportano unicamente in due
esemplificazioni. L’una, reperita dal
Rev. Heras (11), varia comunque rispetto all’altra segnalata da Iyer (12)
per una minor complessità. Nell’immagine
di Naurangi Darwaza (un rilievo forse a tutto tondo, dal contesto che la
riporta non si comprende bene) Manu
è, diversamente da come ricorre nella saga letteraria, a cavalcioni del
Pesce. Mentre in quella di Bhatkal,
formulata in doppia sequenza sebbene in un singolo riquadro, dopo una
presentazione del tema – Manu ritto
in piedi, con la mano destra alla bocca (non si capisce bene cosa regga) e la
sinistra sul mitico ‘Fiasco’ – si assiste ad una speciale bipolarizzazione fra Manu e l’Avatara Pescino, che in tutta
chiarezza è mostrato esserne il ‘Messaggero’.
Cosí interpretata l’icona darebbe tuttavia a Manu un significato brahmanico, che non pare qui adeguato,
trattandosi d’una scultura avatarica e dunque vishnuita. Quest’ultima immagine parrebbe a prima vista
una ripetizione della medesima formula iconografica precedente di Forte Raichur
(di datazione incerta), sennonché la figura umana del Tempio di Ketaparanārāyaṇa
(XVII-XVIII sec.) non cavalca quella pescina, ma semplicemente le sta sul
dorso. O forse piú probabilmente, se la
duplice sequenza scultorea in bassorilievo non c’inganna costituendo una
semplice ripetizione del personaggio stesso di Manu, trattasi d’uno sdoppiamento ulteriore fra il mitico Matsya
– evidentemente la Divinità in Sé, cioè Viṣṇu
nel contesto – e l’Avatāra nella sua ‘Prima Discesa’ in veste
antropomorfica. Fatto peraltro piú unico
che raro nell’ambito dell’iconografia induista.
Normalmente il Matsyāvatāra compare infatti in veste
semi-ittiomorfica, a volte quasi una figura umana che esce dalla ‘Bocca del
Pesce’ sino alla cintola. Oppure è
ritratto solamente il Pesce del Diluvio, con accanto i Quattro Veda in forma di
Ṛṣi
(13). In questo caso,
è problematico capire se si tratta di Viṣṇu
o d’un emblema della sua prima manifestazione plenaria. La nostra seconda interpretazione è quindi
sicuramente piú corretta della prima, visto che il riquadro ove sono contenute
le due icone è unico. Una duplice scena
realmente sequenziale avrebbe richiesto, evidentemente, due
3
riquadri
separati. La prima interpretazione non è
in ogni caso del tutto scorretta, dato che Manu a parte la sua
connotazione umana primeva non è in realtà diverso da Brahmā, da cui
discende secondo il V.P.- i. 7 per bipolarizzazione in Svāyambhuva
(14) e Śatarūpā (lett.
‘dalle ‘Cento Forme’) aliâs Sāvitrī. Onde, il suddetto ‘Vaso’ contenente il Matsyāvatāra altro non è che è il
‘Vaso della Saggezza’, di cui è considerato portatore Brahmā
in persona (15).
D’altra parte sappiamo che
la dimora del Brahmapura è in Cielo, ossia sulla <Vetta> del Merupārvata; equivalente alla
<Vetta> del Monte Sion, situato all’Estremo Nord – del globo e non della
Palestina, come intendono certuni, cosa che non avrebbe senso alcuno se non
d’un rimando geografico indiretto al vero 'Estremo Nord' – ed ospitante la cd.
‘Gerusalemme Celeste’ (16). Cfr.
la figura di Brahmā, anche etimologicamente, col Bran celtico. Il Vaso, che secondo certuni (17) non
meno dell’Uovo del Mondo costituiva primordialmente una raffigurazione
schematica dell’intero Universo (in cui il Divino è ubiquitariamente contenuto,
in senso trascendente e non panteistico), è posto giustamente in relazione (18)
con i maṇḍala vedici nei quali è stata
racchiusa dai veggenti primordiali la fruizione della Sapienza Divina. Sta di fatto che Manu nella scultura di Bhatkal tiene in mano davvero il leggendario
‘Fiasco’, quasi fosse il suo cuore. La
spiegazione degli Stutley non è però a nostro parere del tutto
convincente. L’Universo non può esser
concepito come ‘Cuore della Divinità’, perché questa sarebbe una forma di
panteismo, a meno d’intendere il Tutto in modo ermetico quale forma vivente
dell’Uno. Insomma secondo la formula
classica dello ῍Εν-τὸ-πᾶν, nella quale l’intero mondo è dinamizzato come
ūni-versus, in rapporto a quel principio unitario donde esso è
dominato. Semmai dovremmo parlare del
‘Vaso’ quale ‘Cuore dell’Universo’ e, perciò, contrassegno della Divinità. Un attributo iconografico corrisponde infatti
per intero all’immagine raffigurata, non ne è una connotazione parziale (19). In base a codesta spiegazione si può allora
concepire la ‘Brocca di Manu’ quale variante iconologica del ‘Vaso di Brahmā’. In altre parole, Manu può esser concepito quale detentore della Sapienza Universale,
essendo totalmente identificato a quel Divino che percepiva spontaneamente nel
suo cuore di uomo. Non per nulla la
leggenda afferma che è dopo aver fatto gli arghya, le libagioni a base
d’acqua (nel senso ovviamente metaforico dell’Acqua di Vita, se vogliamo
intendere esotericamente, con allusione cioè alla meditazione sull’Auṁ), che egli è venuto in contatto col Matsya. Ossia dopo aver annullato mentalmente la
presenza della Manifestazione. E, di conseguenza,
può esser considerato – perché no? – un pantocratore. Manu
4
è inoltre associato all’Arca, oltreché alla Coppa; tale duplice contrassegno
non può non rammentarci l’analogo simbolismo rispettivamente di Melchisedeq e
Noè, i leggendarî fratelli biblici (associati per l’appunto l’uno alla Coppa e
l’altro all’Arca, ma distintintamente), seppure in questo caso il riferimento
sia a tempi non piú primordiali.
Una volta stabilita
l’affinità indubbia fra Brahmā e Bran, potrà a tal punto parere strana la
concordanza filologico-tematica sopra supposta fra Re Bran e Re Krónos,
visto che nel contempo abbiamo paragonato fin dal titolo Bran a Varuṇa e ad Ouranós; ma in realtà anche il nume celtico presenta
caratteri agrarî similmente a Crono, accanto a quelli piscatorî di tipo
brahmanico e a quelli marini di tipo uranico.
Cfr. nel primo caso l’ipostasi celto-cristiana alternativa di Re Ban,
l’epico ‘Cavaliere Verde’ graalico; padre di Lancelot du Lac e consorte
della ‘Dama del Lago’, identificabile a propria volta all’antica Morrigan,
la ‘Regina del Mare’. Egli viene
chiamato altrove Uther Ben, o Uther Pen-dragon, allorché funge da
padre di King Arthur. Il Drago
(lett. l’appellativo significa al completo ‘Testa del Dragone del Nord’, con allusione
all’asterismo circumpolare che funge alternativamente all’Orsa Minore e alla
Stella Vega da perno boreale), non meno del Serpente, è d’altronde in genere un
emblema agrario; giacché a differenza del Pesce, primevo contrassegno
dell’Unità Divina, indica la moltiplicazione dapprima quinaria e poi settenaria
dei Nomi della Divinità, conseguente all’avvenuta conoscenza a livello
tradizionale delle principali fasi temporali.
Sebbene esistano da un lato una’effigie intermedia di Drago Marino, che
in zona estremo orientale s’identifica al Coccodrillo (donde l’immagine cinese
del Tao T’ien); ed in area europea, dall’altro, un meno informe Mostro
del Mare rappresentato dal serpente cornuto Achelóo o dal Kraken
nordico. Nel secondo caso si esamini
inoltre la storia culturale della figura di Poseidone (20), presso cui –
come dimostriamo in una nostra opera che speriamo di pubblicare prossimamente (21)
– delle Corna primarie d’origine titano-ciclopica e di valenza ciclico-ctonia
si trasformano secondariamente in Tridente di valore marino-piscatorio.
Egualmente Kāla, in
forma di Śiva, rappresenta nell’induismo il ‘Cornuto’ per eccellenza al pari di Crono.
Dei reperti mesolitici rinvenuti da Frobenius in area afro-mediterranea
c’insegnano indirettamente che le Corna e le Gambe di Toro (cfr. in questo
secondo caso colla tesi del Parpola)(22)
erano infatti considerate fin dalla preistoria umana un attributo del
Signore del
5
Tempo, poiché esse costituivano emblematicamente una stilizzazione
grafica delle due fasi temporali di crescita e decrescita della vegetazione. Ciò spiega la reale affinità etimologica e
concettuale in greco – seppur in passato negata – fra Κρόνος e Χρόνον, come prova
indirettamente il significato del lat. hornus La ragione semplice è che persino a livello faunistico, e non solo
grafico quindi, i palchi dei cervidi seguono l’andamento ciclico annuale. Ecco perché sono emblemi atavici del nume
temporale. Non per nulla il Cervo
costituisce, a livello iconografico, un emblema tanto di Crono-Saturno quanto
di Shiva nell’arte medievale (rispecchiante sicuramente un passato assai
lontano) rispettivamente europea ed indiana.
Tuttavia nei culti indonesiani pre-islamici vi è parallelamente un
omonimo Kāla, che non è un demone agrario, ma al modo di Poseidone (23)
funge da nume oceanico. Dato che
parallelamente al mondo greco-pelasgico (i Pelasgi erano i corrispettivi
mediterranei dei Paleo-dravidi indiani, d’origine occidentale)(24) le
corna taurine del Proto-Shiva – o meglio Proto-Kala – si sono trasformate
nell’India pre-vedica esattamente come nella Grecia pre-omerica in un Tridente
(Triśūla), è da supporre che al di là del rituale corrispondente tale
arma fosse utilizzata nella pesca entro una vasta koiné
indo-mediterranea. La cosa ovviamente
suggerisce che un Signore delle Acque (marine e fluviali) postumo, ossia
post-agrario e posto in rapporto con le vie commerciali, si sia originato da un
primordiale Signore del Mare pre-agrario attraverso una fase intermedia
propriamente agraria, secondo quanto postula il mito aureo druidico-dravidico
ed egizio-pelasgico del Re Pescatore e della leggendaria Coppa. L’ascendenza camitica di tale figura, anziché
iafetica, spiega in modo palese la sua presenza in certa letteratura
indoeuropea e non in altra. Presso cioè
quei ceppi iafetici quali Celti, Greci ed Indiani, mescolatisi con ceppi
camitici; ma non invece presso altri (sono la maggioranza) quali Germani,
Latini ed Iranici, fra i quali questi due simboli o non compaiono in nessun
caso o non coesistono (25). In siffatta interpretazione s'inserisce
allora anche la vecchia definizione etimologica coniata da Padre Heras dei Dravida
quali 'Figli delle Acque' (non stiamo qui a riportare per brevità l'intera
ricostruzione dell'etimo fatta altrove)(26), vale a dire dediti al
commercio oceano-fluviale nonché alla pesca.
Egli riconobbe giustamente una fondamentale componente etno-culturale
camitica sia nei Dravidi sia nei Pelasgi (detti alternativamente Termili o
Minî)(27), nonché fra i Sumeri ( chiamati un tempo Caldei) ed i Celti (28). Circa costoro sono direttamente le tradizioni
irlandesi a confermarcelo attraverso il mito dei Fomori, venuti da
sud. Altrimenti non si spiegherebbe come
mai delle tribú di guerrieri nomadi provenienti da est e praticamente
6
indistinguibili da quelle germaniche abbiano fondato in breve una civiltà tanto
importante, assai stimata persino dai Romani, e radicata sul territorio. Anche il De Vries ha ipotizzato a suo tempo
assennatamente che i culti druidici
fossero pre-indodeuropei. L'etimo
del termine ‘druido’ dal gr. drys = 'quercia' e dalla rad.ie. *wid
= 'conoscere' è peraltro visibilmente un misto fantasioso fra l'ermeneutica
latina, che faceva derivare comprensibilmente quasi tutto dal greco, e la
glottologia moderna. Non è avvenuta la
stessa cosa nell’Egeo, in Anatolia ed in Mesopotamia, o nella Persia e nel
Deccan? Pure colà una casta nomade
prevalentemente guerriera e dedita alla razzia siccome addestrata all'uso del
cavallo delle steppe, di pelle piú chiara e di lingua affine al latino (genti
acheo-omeriche, hittito-mitanniche e avestico-vediche), hanno occupato zone
camitiche abitate da agricoltori sedentarî e commercianti-pescatori
semi-sedentarî assimilandone a lungo andare la cultura.
Resta ora da esaminare piú
approfonditamente la comparazione fra il dio greco Urano, ovvero il Signore
dell’Asse Cosmico dal cui ‘Fallo’ immerso nelle ‘Acque Celesti’ si genera
Afrodite Urania, e l’indiano Varuṇa (29). Cominciamo col rilevare che la nascita di
Afrodite nella mitologia ellenica non avviene diversamente da come Eva è
generata da Adamo secondo certe leggende ebraiche apocrife, le quali postulano
quale elemento fecondante dell’uomo per antonomasia la ‘Coda’ anziché una
‘Costola’. A. Urania possiede altresí
come alter-ego iconologico A.
Anadiomene, la quale a differenza della prima detiene per paredro non il
padre-sposo Urano, bensí il figlio-sposo Eros, ossequiato dagli orfici. Fra i due vi è la differenza che passa in
India fra Varuṇa e Kāma, aventi entrambi
per veicolo il Pesce (Matsya) o il Drago Marino/ Fluviale (Makara, animale
composito traente elementi simbolici tanto dal coccodrillo o dal gaviale
gangetico quanto dal pescecane o dal delfino)(30). Ed è significativo, a tal proposito, che
proprio Eros in Grecia sia accompagnato parallelamente o dal Delfino – che è in
realtà un Kétos, cioè un’immagine del Mostro del Mare (31)
– o dal Coccodrillo. Cosa che è stata
trasmessa, attraverso il Cristianesimo,
persino all’iconografia dei nostri cimiteri monumentali. Il ‘Fallo’ di Urano – non a caso l’organo
maschile di riproduzione dicesi anche ‘verga’ nella nostra lingua – corrisponde
d’altra parte a quel che in India è il Kāladaṇḍa (lett. la ‘Verga del
Tempo, insomma l’Axis Mundi), un simbolo contrapposto sul piano
complementare al Kālapāśa
(chiamato,
piú semplicemente, pāśa), vale a dire il
‘Laccio’ che permette al Cielo in forma di Varuṇa (Rgv.- vi. 74. 4) o di Yama di riacchiappare
le anime perdutesi nella Manifestazione.
In una funzione che potremmo cioè definire di ‘Traghettatore’, sebbene
altre mitologie usino a tal uopo l’immagine meno cruda del
7
‘Nocchiero’ con
tanto d’imbarcazione (32). Per la
verità questa è presente persino nella cultura hindu, se è vero che lo stesso Satyavrata
appare come tale nel Mahābhārata, pur sotto celato
nome (33). La ‘Barca’ in
questione, benché intesa nel contesto dichiarato in funzione opposta rispetto
all’altra precedente (ovvero in senso creativo anziché dissolutivo)(34),
non è diversa dall’Arca del Diluvio, in cui si riassumono entrambe le
funzioni. Infatti Manu Satyavrata da
un lato traghetta ciò che è salvabile del Caturveda e della vita intera
dal I Ciclo Avatarico al II, dall’altra porta a consumazione l’intero primo
ciclo di manifestazione. In altre
parole, quel che resta è la Tradizione Primordiale, la quale a causa della
parziale perdita cui è andata soggetta rispetto alla corrispettiva precedente
Rivelazione (vale a dire, l’Auṁ
puramente inteso)(35), rappresenta già una prima ‘Caduta’. La Bibbia non offre testimonianza di
questo momento ciclico se non attraverso la frammentazione dell’Uomo
Androginico in una coppia umana.
Analogamente, del resto, alla tradizione iranica. Con la conseguente scoperta della polarità e
di tutto quel che ad essa concerne. Vedi
leggenda dell’Albero Gnostico (del Bene e del Male), dove il Serpente svolge un
ruolo simile a quello di Vāsuki – intermediatore fra
Deva e Dānava nonché procacciatore
del Soma – nel mito sub-artico del Samudramathana (‘Rimestamento
dell’Oceano’), di cui è rilevabile altresí una traccia significativa pure
nell’America Pre-colombiana.
Probabilmente tale racconto di creazione secondaria rispecchia
cosmologicamente il passaggio periodico del Polo Artico dalla Stella Vega (36)
alla costellazione del Dragone. Non a
caso dal ‘Rimestamento’ nasce Vāruṇī, la figlia di Varuṇa;
che altri non è se non V.Urania, cioè Afrodite. O, se
preferiamo Eva (ebr. Hawwā) (37). Altra progenie sono le Apsaras, cioè
le Sirene (38); nei confronti delle quali Vāruṇī
può sicuramente esser considerata sovrana, cosí come il padre Varuṇa è signore dei Gandharva (39).
Giuseppe
Acerbi
Note
(1) A.K. Coomaraswamy, Yakṣas-
Munshiram M., N.Delhi 1971 (ed.or. Smithsonian Institute, Washington 1928),
P.II, Cap.II, §§ 2, p.35 e 3, p.37 ss.
8
(2) L.Gardner, La linea di sangue del
Santo Graal. La storia segreta…- Newton
& Compton, Roma 1997 (ed or. Bloodline of the Holy Graal- Chev.
Labhràn, U.K. 1996; rev. edita da H.Collins, U.K. 2002), C.VII, pp. 86-7.
(3) Sicuramente tale εκκλησία, in
origine una semplice adunanza di devoti, non deve essere interpretata
come una delle varie chiese che poi si opposero l’una all’altra in area
mediterranea nel tentativo ognuna d’imporre il proprio predominio culturale
sulle consorelle tramite i loro vescovati, ma semmai è da intendere in senso
gnostico quale assemblea eletta degli uomini di luce che facevano capo
agl’insegnamenti del Nazareno. E quindi
può esser reputata, checché se ne possa dire, come la prima vera Chiesa
Apostolica o – se preferiamo – Gnostica.
(4) I vv. 5-9 successivi alludono al Padre
Celeste (Colui-che siede-sul Trono) come all’Alpha e all’Omega, poiché un
“nuovo cielo” e una “nuova terra” subentrano al “vecchio cielo” e alla “vecchia
terra” (vs.1); Egli costituisce una Fonte dispensatrice dell’Acqua della Vita’
per gli “assetati” (gli eletti), chiamati i ‘Figli di Dio’. Cose entrambe che invece nei ‘Vangeli’ sono
attribuite a Gesú. Da notare che nella
mitologia sumerica sono Anu (il Cielo personificato in senso uranico) e
la sua paredra a svolgere tale funzione di dispensatori dell’acqua di
grazia. Sempre nello stesso passo, al
vs.9, si menzionano i ‘Sette Angeli’ (cfr. con gli ‘Arconti’ gnostici) con le
‘Sette Coppe’; fornitori al contrario di equivalenti flagelli e contrapposti ai
‘Dodici Angeli’ del vs.12, presiedenti alla ‘Città Santa’, discesa dal Cielo
sul Monte Sion (vs.10). In questo caso
abbiamo a che fare colla <Vetta> della Terra Paradisiaca, ma altre volte
in analogia col Monte Meru della tradizione indiana la cima di Sion indica
alternativamente la <Vetta> dell’Empireo.
La ‘Nuova Gerusalemme’ ha 12 perle come <Porte> e possiede mura
fatte di pietre preziose (vv.
11-4). La piazza centrale e tutta la
città è d’oro, ma d’un oro trasparente come cristallo (vv. 15-21). L’Angelo della visione, identificabile
crediamo all’Arcangelo Michele, tenendo in mano una Canna D’Oro traccia la
misura della ‘Città’, che è quadrangolare: 12.000 stadî (vs.16). Poiché, a parte l’idea di stabilità connessa
ad una forma relativamente perfetta, 4 sono gli Eoni (cicli di 6.480 anni) che
formano l’Età Aurea e 12.000
a grandi linee gli anni che la dimezzano, vale a dire
intercorrenti nel I Grande Anno di platonica memoria. In xxii.1-2 il concetto si amplia ed allora
si comprende che la ‘Sorgente della Vita’ discende dal <Trono> di Dio e
dell’Agnello, precedentemente descritti come la <Lampada> della ‘Nuova
Gerusalemme’. Tale <Fiume di
Vita>, che sotto un certo aspetto può anche esser concepito in senso
temporale, è però di acqua cristallina e fulgente al pari della cd. ‘Acqua-che
brucia’ di certe tradizioni pre-colombiane, e lambisce l’<Albero della
Vita>, posto in mezzo alla piazza della ‘Città Santa’. Da quest’albero provengono 12 raccolti
mensili. Ciò significa che esso altro
non è che l’Axis Mundi, cioè il perno polare dello Zodiaco Solare, le
cui stazioni annuali sono date dalle 12 <Porte> della ‘Nuova
Gerusalemme’. Di per sé non diversa dal Liber
Vitae, in cui sono iscritti i Giusti.
E il ‘Libro’ suddetto può anche esser considerato infatti similmente al
9
Graal (vedi la relazione etimologica fra i termini medievali gradale e grasale)
una Sacra Coppa, giacché rappresenta l’ennesima metafora del Paradiso Celeste o
se vogliamo del Paradiso Terrestre.
Talvolta nell’esoterismo cristiano la Suprema Realtà è adombrata, per
contro, nel simbolo d’un Sacro Fiore.
Trasferendo il simbolismo cosmologico apocalittico su un piano
ontologico, bisogna viceversa interpretare l’Arbor Vitae e l’Aqua
Vitae quali emblemi rispettivamente dell’Unità di Dio e della Luce
Divina. Da notare che pure in India vi è
un’identificazione concettuale sul piano emblematico fra il Sacro Calice, il
Sacro Veda (in senso celestiale), il Sacro Loto, la Civitas Dei o Brahmapura/ Brahmapurī (‘Rocca del Brahma’) e il Brahmacakra
(la Ruota del Brahma; i quali tutti sul piano microcosmico sono un
immagine del Cuore, il centro spirituale a livello umano, mentre sul piano
macrocosmico indicano il ‘Centro dell’Universo’.
(5) L.Gardner, Le misteriose origini dei Re del Graal-
Newton & Compton, Roma 2000 ( ed.or. Genesis of the Grail Kings –
Bantam B., ? 1999
), passim.
6) Certamente il Vaso del Sacrificio
egizio, detto ‘Canopo’, ha a che fare – non fosse che per il nome – con
l’asterismo omonimo circumpolare antartico.
Tale asterismo si riporta periodicamente in sede polare ogni 6.480 anni,
al modo della Stella del Dragone nell’altro emisfero. Ossia, trovandosi in linea mediana piú o meno
con Sirio e la Croce del Sud, di cui grosso modo costituisce il mezzo (per
quanto non si debba pretendere la precisione assoluta da questo tipo di
assunzioni simboliche, come d’altronde succede anche col cerchio zodiacale
solare), raggiunge con movimento pendolare il Polo Antartico all’inizio di ben
5 cicli avatarici (o giorni divini) su 10.
Ossia al principio del II, del IV, del VI, dell’VIII e del X. Non essendo propriamente regolare la linea di
spostamento ciclico, ma leggermente concava, si può concepire vagamente
l’intero movimento come racchiuso in un triangolo con la punta in basso; ovvero
piú sommariamente, tracciando un segmento immaginario che congiunga gli estremi
di detta linea tripuntata, in una coppa.
Da tale circostanza astronomica è probabile sia derivata la simbologia a
livello cosmologico del Vaso Sacrificale, che caratterizza le tradizioni
rifacentesi ai poli. Per questo i Canopi
in Egitto come in India gli equivalenti Kalaśa, appartenenti ai Ṛṣi
Vaṣiṣṭha e
Viśvāmitra, erano due. Nelle
tradizioni del nord invece il Vaso è uno solo, con riferimento artico, non
essendovi mai state presso di esse relazioni storiche precise con
l’Antartide. Ma anche in questo caso, se
proprio volessimo, potremmo tracciare benissimo un analogo rapporto col Polo
Sud, non solo attraverso la relazione storica fra l’antico Israele e l’antico
Egitto; ma piú direttamente, considerando che la figura profetica di Gesú
rappresenta una prefigurazione non meno di altre associate al monoteismo dei
tempi storici (Mosè, Zoroastro, Buddha, Maometto) – sebbene con circoscrizione
piú limitata – del ‘Maestro’ apocalittico.
Gl’indiani direbbero di Kalki Avatāra. D’altra parte il Cristo del ‘Secondo Avvento’
presenta chiaramente caratteri corrispondenti a quelli del X Avatara indú. Infatti la ‘Testa di Cavallo’ di cui si
fregia Kalki in certa iconografia od il ‘Cavallo Bianco’, ch’egli talora
monta non
10
meno del Cristo escatologico giovanneo o del Mahdī islamico,
sono attributi che ci rimandano alla costellazione di Canopo. Cfr. G.Acerbi, Il mito del Gokarna ed il
drammatico agone fra Perséo e Medusa- Alle pendici del Monte Meru (blog,
17-01-13), p.14, n.27.
(7) A.Rogers (a c. di), The
Shah-namah of Fardusi- Saeed International, N.Delhi 1989, p.16 ss.
(8) Per l’interpretazione di tale
fenomenica simbolica rimandiamo a G.Acerbi, Il Druidismo e il ‘Calice
Ripieno’. Annotazioni ulteriori sulla
mitologia e l’iconografia di Bran-Brahma e Urano-Varuna- Alle pendici del Meru
(blog., 30-01-15).
(9) Per la verità, a parte la
corrispondenza arcinota presso la cultura indo-iranica fra i gemelli
androginici (di nome e di fatto) Yama e Yima, che ha peraltro un
parallelo in Europa – non segnalato o segnalato solo parzialmente dagli storici
delle religioni – presso la cultura latino-germanica nell’Ymír norrenico
e nello Iānus latino (entrambi,
guardacaso, androgini), ne esiste un’altra meno facilmente rilevabile fra Manu
e il tardo Mašyē.
Quest’ultimo termine iranico (pahlavico) è forse connesso
filologicamente all’ir. mas
(‘pesce’), scr. matsya (‘pesce’).
Si potrebbe ipotizzare una lontana provenienza elamita del termine. Difficile dirlo, solo un esperto d’iranistica
potrebbe confermare o meno la nostra tesi.
Però sicuramente il sinonimo mīna, di probabile origine
dravidica, sta alla base d’un éthnos che gli storici greci (cfr. n.24)
chiamavano Minýai e facevano evidentemente risalire al capostipite
mitico Minýas, padre di Atamante.
I Minî altro non erano in realtà che i Pelasgi, dai quali sarebbero
discesi secondo l’attestazione indiretta di Erodoto (Hist.- i. 171-3) – attraverso una
migrazione nell’Asia Minore (Licia), dove erano chiamati Termili – i
Dravidi. Ora è chiaro che stando cosí le
cose, siccome al di là delle nostre supposizioni etimologiche è indubbia
l’affinità etnica di tipo camitico fra gli egeo-pelasgi, i minoico-cretesi, gli
egizio-nilotici, gl’irano-elamiti e gl’indo-dravidi (i neologismi delle nostre
definizioni sono tesi semplicemente ad evidenziare la natura marittimo-fluviale
delle summenzionate civiltà), non risulta difficile trarre un ulteriore
parallelo fra i personaggî greci di Mīnōs / Minýas e quelli indiani di Manu / Mīnanātha
(nome del primo iniziato shivaico in quanto primevo Signore dello
Yoga, disceso nel ‘Ventre del Pesce’ per portare al mondo il Jñana ovvero la la Gnosi). Notiamo altresì all’interno della sfera
induista una stretta relazione, sia dal punto di vista mitologico che
filologico, fra l’Uomo-re satyayughico nonché il suo erede tretayughico (Manu,
Mīnanātha) ed il Pesce (Matsya o Mīna che dir si
voglia, l’uno in rapporto al <padre> Brahmā,
l’altro al <figlio> Śiva). Anche in Egitto del resto si racconta (ii. 4,
2) d’un primo re denominato Mīn, lo stesso cui Manetone attribuisce il
nome di Menes. A tale nume,
ossequiato a Chemmi, l’iconografia attribuisce similmente allo Shiva indú tre
caratteri fra di loro solidali: unicornía, itifallismo e unipedía. Ecco perché i Greci lo equiparavano a Egipan
(figlio di Amaltea, la Capra Unicorne), omologo dell’Ajaikapāda
11
indiano,
ennesima forma di Śiva. Erodoto (ibid.,
46 ) cita ancora il Dio-capra di Mendes – uno dei vetusti ‘Otto Dei’, prototipi
di quei ‘Dodici Dei’ coltivati dai Pelasgi medesimi (ib., 52-3) ma raffigurati in forme scultoree primieramente in
Egitto – come altro equivalente diretto.
E forse non a caso gli egizî veneravano pesci sacri filiformi quali il
Lepidòto e l’Anguilla (72). Tanto per
chiudere il cerchio, rammentiamo che nella mitologia germanica è attestato da
Tacito un dio primordiale Mannus, che evidentemente doveva fare il paio
fra i Proto-germani con il succitato Ymír. Che dire poi dei Latini? Possibilmente Numa, il “lunare Numa”
come lo definiva non a caso Evola, a sillabe invertite costituirebbe una figura
di sovrano assai precedente a quella di Rōmulus e del gemello Rēmus; nomi
questi ultimi derivati rispettivamente, per via troiana (la loro madre latina Ilia è allegoricamente una
personificazione di Ilium, cioè di
Troia), dal gr. Rhōmos-Rhēmos. Invertendo l’ordine dei nomi, costoro
non sono altro in termini indú che Rāmacandra (‘Rama della Luna’) e Balarāma (‘Rama-fanciullo’), ossia
i due Lamech del culto biblici.
Insomma, il VII e l’VIII Avatāra, stando all’induismo. Benché nel contempo il mito romano dei
Gemelli al di là dei nomi utilizzati costituisca la trasposizione in forma
latina dei gemelli vishnuiti Balarāma e Kṛṣṇa del ciclo successivo (IX Ciclo Avatarico), assunti in tale
veste allorché la costellazione dei Gemelli
dominava il Punto Vernale (6.640-4.480 a.C.).
Ed è a questa lontana data, piú che non al Segno Gemelli del ciclo
annuale, che paiono richiamarsi nell’iconografia relativa riportata dal Cook –
vedi l’ampio materiale del suo studio su Zeus, che non stiamo qui a citare – le
due stelle poste sulla capanna ove sono stati affidati dopo l’abbandono materno
i Gemelli latini. Codesto abbandono è di
sicuro un’altra allusione ad una mitica Troia immediatamente precedente all’Età
del Ferro, cui pare d’altro canto andare colla memoria non a caso Esiodo,
poiché in tutta evidenza il vate non si riferisce alla vicenda storica della
seconda metà del II mill. a.C. Il nome
del ‘Secondo Re’ romano può diversamente essere riportato di per sé al gr. Nómos,
in tal caso risultando un doppione della figura saturnio-lunare di Remo; la
quale si contrappone planetariamente al simbolismo saturnio-solare di Romolo,
chiaro corrispondente in base a codesta interpretazione oltreché del Balarāma indú anche del Melchisedeq
biblico. Cosí come Remo, sulla stessa
base logica, sarebbe da riportare vicendevolmente non solo a Rāmacandra, ma pure a Seth. Ora, dato che i ‘Sette Re’ di Roma sono una
evemerizzazione spinta e deformata all’uopo di ciò che nella mitologia induista
raffigurano i ‘Sette Manu’, possiamo tranquillamente affermare in sintesi che
il ‘II Re’ di Roma (Numa) non funge
solo da Manu del VII Manvantara (l’Uomo-re dell’Età
dell’Oro); bensí pure da signore dell’Età del’Argento, esattamente come il ‘I
Re’ impersona ad un tempo l’VIII ed il IX Avatāra. In altre parole Remo, coi suoi 7 Avvoltoi
(cfr. con Pico Feronio), ha funto analogamente a Balarāma da Signore
dello Zodiaco per identificazione ad Ercole (cfr. con Pico Marzio). In India una equivalente identificazione è
possibile da un lato fra Rāmacandra e
Agni (nel senso asurico-planetario di titanico nume della vegetazione),
dall’altro fra Balarāma e Kṛṣṇa-Jagannātha (alter-ego devaico-zodiacale
12
di Indra, il capo dei Marut, in qualità di nume pluviale del
precedente ciclo avatarico).
(10) Ciò, ovviamente, è suscettibile di varie interpretazioni,
tutte d’altronde lecite, seppure su diversi piani. Sotto un certo aspetto l’aumento di
dimensioni del Pesce, emblema dell’Ᾱtmā, indica la
riproposizione della stessa in forme diverse, via via più complesse. Al riguardo però bisognerebbe offrire
ulteriori spiegazioni, che solo in uno scritto a sé –
rimandiamo perciò a G. Acerbi, I numi erano numeri: carattere
matematico della vetusta astrologia e della conseguente teogonia- Alle pendici del Monte Meru (blog,
24-07-11).
(11) H.Heras, Studies in
Proto-Indo-Mediteranean Culture- I.H.R.I.- Bombay 1953, C.IV, p.415, fig.276.
(12) K. Bharatha Iyer, Animals in Indian Sculture-
Taraporevala, Bombay 1977 C.IX,
tav.132 ( a mezzo fra le pagg. 56 e 57 ). L’autore purtroppo non spiega nei
dettaglî le immagini, limitandosi esclusivamente nel C.XI ( p.73) a commentare
il motivo iconografico su base leggendaria.
(13) Iyer, op.cit., tav.131.
(14) Svāyambhuva , il I Manu, è
figlio di Svāyambhū. Ossia
l’<Esistente-di per Sé>, che è un epiteto evidentemente di Brahmā. Cfr. con Yahweh, il quale afferma
nell’apparizione a Mosé (Akhenaton) sul Sinai (Ex.- iii. 13-6)
“Io sono Colui che sono!”. Nella lingua
ebraica l’espressione suona: Ehyē
Asher Ehyē. Cfr. al riguardo la
discussione in nota ai versi posta in E.Galbiati et al. (a c. di), Antico
Testamento- Utet, Torino 1973, Vol.I, pp. 86, col.a e 87, col.b.,
seppure troppo teologizzante e riduttiva; il curatore, in tutta evidenza,
confonde il piano ermeneutico con quello etimologico. Anche nella tradizione egizia precedente a
Mosé compariva d’altronde un nume autogeneratosi, con le stesse prerogative
demiurgiche (separanti Cielo e Terra), sotto forma di Ptah. I buddhisti mahayanici l’hanno chiamato
invece Ādibuddha o semplicemente Svabhāva. Il termine Svāyambhūnātha, impiegato
dal buddhismo tantrico o tantrismo
buddhista che dir si voglia), parrebbe di primo acchito esserne un altro
equivalente. Ma probabilmente i tre
termini ora citati non si equivalgono esattamente ed allora i primi due si riferiscono al
principio metastorico, mentre il terzo è forse un equivalente di quello del I Manu.
Tant’è che il vr. nāth, donde deriva il s.m. nāth-a (‘maestro’),
significa ‘possedere, aver maestria su’.
Quindi, è logico dedurne che quest’ultimo termine indichi il Puruṣa
e non Puruṣottama. Di qui ha
preso nome il grande tempio-monastero sorto in un colle presso Kāthmaṇḍu,
dato che ogni tempio è per gl’indiani un simbolo del Puruṣa. Da notare che sullo harmikā (plinto,
ovvero la base cubica al di sopra della cupola emisferica reggente la piramide
a 13 cerchî concentrici degradanti, omologa alla medesima a gradini del Tempio
di Bodhinātha) dello stūpa sono sommariamente dipinti 4 volti, ma
se ne deve immaginare un quinto invisibile e
13
trascendente, alla maniera della
testa verticale dello Śiva Pañcamukha.
Che tali volti abbiano a che fare con i 5 Dhyāni-buddha della
Scuola Vajrayāna lo dimostra il fatto stesso che siffatte figure della
meditazione (dhyāna) siano presenti simultaneamente nel contesto
segnalato entro appositi pannelli cuspidati posti in direzione dei 5 Punti
Cardinali (i quattro nostri, nonché il loro centro comune in funzione
quintessenziale). Cfr. M.Bussagli, Architettura
Orientale- Electa, Venezia 1973, p.269 (cap. sulla regione himalayana, a c.
della prof.sa C. Silvi Antonini Colucci).
Indubbiamente i 4 ‘Volti’ orizzontali – suggerenti nell’ordine
decrescente luni-solare Amoghasiddhi (Verde), Ratnasambhava
(Giallo), Amitābha (Rosso), Akṣobya (Blu) – rappresentano
l’onniveggenza dell’Ādi-Buddha, cosí come accade nell’induismo con le 4
‘Teste’ di Brahmā. Mentre l’Unico
Volto centrale, relativo a Vairocana (Bianco), allude al Puruṣa
in sé. Ed è significativo, a questo
proposito, che in realtà il potere creativo di codesta forma non originata
della Mente Universale si esplichi attraverso la manifestazione di 7 Dhyāni-buddha,
anche se solitamente ne vengono considerati soltanto 5 in rapporto agli Elementi (Bhūta). Ai 7 Buddha celesti, sicuramente
corrispettivi dei 7 Manu celesti ed in relazione segreta coll’Ebdomade
planetario, corrispondono del resto 7 Dhyāni-bodhisattva; che ne
costituiscono l’aspetto attivo ed a loro volta emanano i 7 Buddha umani
nell’ambito delle 7 Sovrarazze, radici della nostra umanità. Anche in tal caso il paragone coi Manu terreni è doveroso. I Bodhisattva,
invece, vanno paragonati agli Avatāra. Pure gli Avatāra d’altronde erano 7 in origine e non 10, visto
che venivano equiparati ai Pianeti; in altre parole avevano relazione
coll’aspetto sottile dei Manu,
quantunque poi siano passati a designare la forma terrena dei medesimi. E, siccome nell’ambito d’ogni manvantara i varî avatāra non sono
che forme via via progressive del Manu
presiedente ad esso, ecco che la precedente applicazione si è rivolta al manvantara stesso. Il Settimo Avatāra, cioè
l’ultimo di essi, era considerato Rāmacandra ovvero Balarāma;
avente molti tratti comuni col Set/Seth egizio-ebraico, analogo al
Saturno latino. Poi sono stati aggiunti
due altri avatāra, aventi lo stesso nome, come i Nodi Lunari. Ciò ha peraltro portato ad una certa
confusione nelle interpretazioni cicliche, giacché ha spinto taluni ad
identificare erroneamente il I al X Avatāra, con la scusa dei Navagraha
(i 7 Pianeti piú i 2 nodi Lunari).
Infine ne è stato aggiunto un decimo, prima della sua venuta terrena, in
riferimento non si sa bene a cosa.
Nell’astrologia moderna dopo la scoperta di altri 3 pianeti, checché ne
pensino i tradizionalisti letterali, il suddetto problema è stato risolto. Giacché i Pianeti sono diventati 10 di
numero, come gli yuga d’ogni manvantara. E vane sarebbero le argomentazioni sulla
presenza possibile di altri pianeti trans-plutoniani in base agli studî astronomici
recenti, quasi certamente sbagliati. Il Manvantara
dopo il 2000 è già terminato. Vale
comunque il precedente stato di cose.
Risulta lecito pertanto ipotizzare che il numero degli avatāra,
non possa essere soggetto a ulteriori variazioni, dato che i cicli periodici
sub-manvantarici sono effettivamente 10.
La presenza dei 3 pianeti trans-plutoniani, al contrario, concorda con i
risultati empirici delle speculazioni degli antichi,
14
inserendosi perfettamente
nel quadro delle influenze da loro teorizzate in passato. Visto che Urano, Nettuno e Plutone hanno
preso sul piano nominale – nonostante l’incongruenza dei nomi, il primo dal
greco e gli altri due dal latino – il posto vicendevolmente del Saturno
aquariano, del Giove pescino e del Marte arietino. Altra cosa è viceversa l’aggiunta
nell’oroscopo delle stelle fisse o degli asteroidi. La loro influenza non può che essere minima e
quindi il loro valore simbolico risulterà assolutamente secondario, in ispecie
quello dei pianetini. Chi nega gli
aggiornamenti astrologici crede solamente al valore emblematico dei simboli, ma
la verità è maggiormente profonda. Il
Tantrismo afferma non per nulla: yathā pinde, tathā Brahmāṇḍe. Ciò fa il paio con la nota formula
dell’Ermetismo: cosí in alto, cosí in basso.
(15) M. & J. Stutley, Dizionario
dell’Induismo- Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A Dictionary of Hinduism-
Routledge & Keegan, Londra 1977), s.v. kalaśa, p.199, col.b.
(16) Cfr. G.Acerbi, Note sullo
sfondo cosmologico del Tetramorfo di Ezechiele- on line (http://allependicidelmeru.blogger.com),
Alle pendici del Meru (17-04-06), n.12 Ripubblicato, riveduto, in Alle pendici del Monte Meru (blog, 25-08-15).
(17)
Stutl., op.cit., col.a
(18)
Op.cit, coll.a-b.
(19) Esattamente come avviene col Vaso
Eucaristico, che è un vaso di grazia riposto nel Tabernacolo, essendo ripieno
del Liquor Vitae.
(20) D’origine
libica secondo Erodoto, cretese (il Tridente almeno) secondo altri.
(21) G.Acerbi, Il Re Pescatore e il
Pesce d’Oro- Simmetria, Roma 2017? (pres. alle Ed. ‘Il Cinabro’ di Catania
nel ‘99, ma rimasto inedito per problemi editoriali ed ora in fase di
rimodellamento), Cap.-VII sgg.
(22)
A.Parpola, Sanskrit kāla- «time», Dravidian «kāl» leg and the mythical cow of the four yugas- Ind.T.
(Vol. III-IV, 1975-6), P.Two, pp.
361-78.
(23) L’equiparazione è solamente formale,
visto che il ruolo del nume oceanico indonesiano è maggiormente arcaico; risale
al II Mahāyuga, ovvero Magnus Annus, ciclicamente parlando. Mentre il dio greco appartiene al IV.
(24) Attestazione da parte dello storico Pausania
(II sec. d.C.) nel Quarto Libro del suo Periegeo o ‘Descrizione della Grecia’, compilato nel
periodo 170-80 d.C. Vide, per una
discussione del problema, Ac., op.cit., C.IV, n.10. Cfr. inoltre n.9. Erodoto (i. 146) aveva parlato invece
precedentemente dei Minî Orcomeni come di una delle stirpi pelasgiche scacciate
dagli Elleni, essenzialmente i Dori, in Miliade (la terra anatolica prima
abitata dai Solimi). Che Pelasgi e Minî
fossero però la stessa cosa dei Termili ai quali si è sopra accennato, ossia
degli antenati egei dei Dravid, è provato dal fatto che avessero costumi
materlineari (ibid., 173) del tutto
simili a quelle riscontrabili presso le genti dravidiche in
15
India. Lo storico dorico del V sec. a.C. ci narra
pure della loro discendenza cario-cretese, descrivendo la cacciata in Asia di
Sarpedone e della propria stirpe da parte del fratello Minosse. A questo primo contingente se ne aggiunse un
altro formato dai discendenti di Lico, figlio di Pandione (assimilabile a
livello onomastico al Pāṇḍu indú, anch’egli noto nella
mansione di leggendario fratello), mitico re ateniese scacciato pure lui dal
fratello Egeo. I Carî, discendenti di
Care, erano anch’essi d’origine cretese prima di stabilirsi in Attica e svolsero
un ruolo dominante nella Grecia arcaica (ib.,
171). Da Lico furono poi chiamati Lici
(173). Altre tribú loro affini erano i
Cauni, pur esse provenienti da Creta (172); nonché i Misi ed i Lidi, in quanto
Miso e Lido erano fratelli di Care (171 ).
Naturalmente, bisogna ricordare che la superficie insulare di Creta
prima del Diluvio di Deucalione era assai pid
estesa di quella odierna geograficamente parlando.
(25) Il fatto che i tre simboli del
Pesce, della Coppa e del Re Pescatore compaiano unicamente presso quelle genti
iafetiche che hanno avuto contatti con quelle camitiche, prova che la loro
presenza nella letteratura indo-europea non è strettamente legata al ceppo
maggioritario. Ecco la ragione per cui
non si trovano fra i Latini, dove Giano – il primo uomo-dio – detiene
contrassegni equivalenti agli emblemi di Yama
e di Yima, ma non a quelli di Manu ; né fra i Germani, presso i quali
si ha un primevo Mannus, di cui però
non conosciamo alcun particolare attributo.
Quasi la stessa cosa si può dire nonostante la loro probabile parentela
culturale cogli Elamiti degli Iranici (cfr. n.9), che hanno Coppa e Pesce,
peraltro distinti e non in relazione vicendevole, ma non il Re Pescatore. A meno che si ritenga valido quanto postulato
a proposito di Masye. Mentre invece troviamo
tutti e tre i simboli in Egitto, con Mīn-Menes (ad un tempo Pesce Unicorne, nume primordiale della
pesca nonché primo re) ed il Vaso Canopico (raddoppiato o meno che sia).
(26) G.Acerbi, La mitica terra dei Dravida- Algiza (
N°13, nov. ‘99 ), Chiavari 1999, pp. 12.
(27) Her.,
op.cit., C.V sgg.
(28) Ac., art.cit., p.11.
(29) Questi due nomi sono sul piano strettamente filologico
visibilmente apparentati al celt. Bran, se si considera che in alcune
lingue indo-europee la consonante labiale tematica b si
sovrappone facilmente alla semiconsonante v. Nel gr. Ουρανός si può immaginare la
caduta del digamma iniziale, con trasformazione della suddetta semiconsonante
nel ditt. Ου- ed aggiunta del suff. –ος (nel celtico con compare
mai alcuna desinenza); mentre nel scr. Varuṇa la metatesi
vocalica fra le due prime sillabe del nome (Vu- e -ra-)
determina uno sdoppiamento fra la semiconsonante v- e la vocale -u-,
con suff. finale in –a tipico delle lingue ‘satəm’. Tuttavia è chiaro che gli stessi termini Κρόνος
e Kāla posseggono, al di là delle apparenze, un etimo assolutamente
equivalente. In quanto la gutturale K-
ha sostituito ciclicamente nel passaggio di riferimento dall’Età dell’Oro a
quella dell’Argento la semiconsonante velare.
La vocalizzazione della prima sillaba e la perdita
16
della terza
consonante tematica -n-, con trasformazione della liquida -r-
in -l- nell’antica lingua indiana è solo un fatto eufonico; come
dimostra il gr.Krόn-os, seppure in questo caso si abbia la var.voc. a>o. Circa il sost. Brahmā possiamo
postulare una derivazione dalla rad. *bram= ‘rivolgimento di stelle’,
donde i verbi brahm (‘andare, muovere verso’) e bhram (‘’volger
attorno, causar moto, produrre rivolgimento’) – connessi a loro volta
rispettivamente a bhr (‘generare, produrre, mantenere in equilibrio’) e brh/
brnh (‘espandere’) – nonché il sost.m. bhram-a (‘rivolgimento, rotazione di astri, cerchio’). È chiaro che i concetti di Varuṇa (un tempo dio delle Acque
celesti) e di Urano (che i Greci definivano ¢στερόentoς = ‘ricoperto di stelle’) vanno di pari
passo con quello di un Brahmā similmente inteso. Altrettanto dicasi per Kāla e Crono.
(30) Coom, op.cit., tavv. XV ( fig.2 ),
XVI ( fig.3 ), XLIII ( fig.7 ) e XLV ( fig.3 ).
Nella prima immagine
(Amarāvatī) menzionata il ‘Mostro del Mare’ ha corpo, coda e scaglie
pescine (forse di delfino), ma gambe e muso da coccodrillo e testa taurina;
viceversa, nella seconda (Mathurā), la testa allungata e gli occhi
prominenti sono da gaviale. Nel terzo caso
(Bodhgayā) invece la bocca è da
coccodrillo, il muso proboscidato elefantino ed il corpo a spire dragonico; ma
nel quarto (Besnagar) l’intera sagoma è da squalo.
(31) Il kētos (mostro del mare, grosso pesce;
delfino, squalo, balena), donde il lat. cētus/ cētos (id.) e per
dissimilazione di significato il nostro termine ‘cetaceo’, non indicava per
nulla una categoria riproduttiva in senso biologico come oggi noi la
intendiamo; ma, piuttosto, faceva distinzione fra i pesci di piccole dimensioni
ed i grandi. Tanto che anche il tonno
era classificato come ‘kétos’. Il
termine, inteso invece in senso archetipico, non si riferiva ad una particolare
classe biologica. Designava al contrario
il capostipite mitico dei pesci, il quale secondo le concezioni arcaico-tribali
di molti popoli era rappresentato da un grosso animale delle acque con tratti
variegati. Si può notare infatti ancor
oggi che il classico Delfino delle fontane, si accompagni ad Eros o a Nettuno o
ad altre figure marine come i Tritoni ecc., è reputabile un delfino soltanto
nella forma; nella dentatura, al contrario, è un pescecane o tutt’al piú
un’orca. Un’ultima considerazione valga
per l’etimo, che appaia da un lato le suddette voci greco-latine e dall’altro
il lat. squal-us all’ingl. shark.
Si nota chiaramente che nell’ultima voce latina indicata la gutturale
finale del tema indo-europeo (-k) è stata retratta per fondersi
eufonicamente colla sibilante iniziale ( s-), la quale però ha perso la propria
aspirazione (-h-) e l’ha rilasciata alla gutturale cui si è associata, sR da formare il nuovo gruppo sq-. La liquida (-r- > -l-),
invece, è rimasta invariata. Ciò denota tra l’altro a livello glottologico
– sia detto per inciso – che il segno greco χ equivale al lat. q,
oltreché alla gutturale aspirata kh di altre lingue indo-europee
quale il sanscrito. Infatti la base
originaria di tutte le parole citate è sicuramente *k(h)ar, secondo
quanto mostrano nella filologia iranica i termini avestici kara (pesce
mitico, in origine probabilmente monodono) e khara (asino unicorne a 3 gambe). La trasformazione della liquida in dentale (l
> t), col passaggio concomitante da vocale forte in media, appare dunque
tardivo in latino
17
(cet-) ed in greco (ket-).
(32) Vedi ad es. la figura di Caronte
nella tradizione etrusca, trasmessa per via della letteratura tardo-medievale
in volgare ( tramite l’Alighieri ) anche a quella cristiana.
(33) Ciò lo si deduce indirettamente,
oltreché da altri fattori che sarebbe al momento impossibile spiegare in breve
spazio, dal personaggio d’una fiaba kashmira; ove ricorre sebbene in un
contesto abbastanza diversificato il medesimo Dāśarāja; ossia il ‘Re
Pescatore’, ma si potrebbe altrettanto correttamente definirlo ‘Re
Traghettatore’, apparso assai prima nel Mahābhārata. Cfr. in
proposito G.Acerbi, La figura del Re
Pescatore in India e nel Nordeuropa- Hera (A.XI,N°121, 7-02-10), Binasco
[Pv] 2010, pp. 54-6. Riproposto
successivamente, in forma completa, in Alle pendici del Monte Meru (blog, 19-12-12).
(34) Yahweh sacrifica il Leviatan (ebr. Līwejātān
) nel Giardino di Eden (AA.VV., Enciclopedia delle Religioni, Vallecchi,
Firenze 1970, Vol.III, s.v.: GIUDAISMO, a c. di A.Toaff, p.351),
concedendolo in pasto ai Giusti, al modo in cui il suddetto Dāśarāja
sacrifica il Matsya (un’Apsaras) pescato nella Yamunā. Nel primo caso si tratta d’un pesce maschio,
nel secondo d’una femmina; ma la sostanza non cambia di molto, dato che anche
nella tradizione assiro-babilonese una figura analoga, la Tiāmat (ebr. Tëhōm
= ‘Caos’), è affine all’uno
e all’altra. Infatti è la sposa di Apsu,
sum. Abzu = ‘Abisso’. Codeste due
figure oceaniche primordiali sono d’altronde la stessa cosa dei due Leviatan,
maschio e femmina (probabilmente alludenti alla Balena, la piú grande creatura
marina), che in seguito sono stati ridotti simbolicamente a rettili. Il Leviatan (ibîd., s.v.: Libro di
GIOBBE, a c. di V.Mannucci, p.217) è concepito giustappunto in Is-
xxvii. 1 e nei Ps.- lxxiv. 13-4 come un emblema mostruoso del Caos
Primigenio in forma di Serpente o di Drago Marino, con allusioni ai Nodi
Lunari. Non è in quanto tale diverso (ib.,
s.v. Religione degli EBREI, a c. di A. di Nola, p.834) da quella creatura
chiamata Ltn – da leggere forse Lotan ) – che Ba’al
sopprime in un poemetto rinvenuto a Ras Shamra nel 1930 ed appartenente
alla mitologia ugaritica, al modo come
Yahweh decapita il Leviatan con la Spada.
Il suddetto passo della letteratura cananea corrisponde vagamente alla
citazione in Giob.- iii. 8. In Ez.-
xxix. 1-4 e xxxii. 2 il mostro (tannīn)
è identificato invece al Coccodrillo nilotico, contrassegno egizio dei
Faraoni. In origine, comunque, il
Leviatan era un Grosso Pesce secondo J.C. Cooper, An Illustrated
Encyclopaedia of Traditional Symbols- Thames and Hudson, Londra 1982,
s.v.: FABOLOUS BEASTS, p.64, col.a.
Assumendo veste draco-serpentina, assume Sette Teste alla maniera
dello Yam cananaico, di certo in rapporto con le sette stelle di Drâco. VI è chi lo identifica pertanto al
Setticipite Mostro raffigurato nell’arte sumera, babilonese e hittita. Cfr. R.Graves & R.Patai, I miti
ebraici- Longanesi, Milano 1969 ( ed.or. Hebrew Myths. The
Book of Genesis – International Authors N.V. & R. Patai
), § 5, p.61, n.9.
(35) G.Acerbi, La metafisica dello Zero– Alle pendici
del Meru (blog, 6-10-06). Un
rifacimento dell’art. è stato pubblicato, il 3-11-14, nel blog apparentato ‘Alle pendici del
18
Monte Meru’.
(36) Vega è parte della
costellazione della Lira, la quale pare fosse raffigurata da Arione, il musico
che con tanto di strumento musicale omonimo viene salvato dal Delfino. Sul tema polare si è evidentemente
sovrapposto per interferenza successiva quello del Delfino Salvatore, che ha a
che fare viceversa con un’altra costellazione (extrazodiacale, ma non circumpolare),
appunto del Delfino; prossima al Capricorno, emblema del Solstizio Invernale e
quindi del Nord.
(37) Ancora nel Rinascimento Eva era raffigurata con una mela
in mano non diversamente da Venere, dato che il mito ellenico della ‘Contesa’
equivale mutatis mutandis alla leggenda evaica della ‘Mela’, frutto in
cui sono adombrati nel contempo la Gnosi ed il Cosmo.
(38) Che le Apsaras siano le Sirene, ovvero delle
ninfe-pesci, è dimostrato oltreché dall’etimo (lett. il termine significa
‘essenza delle acque’) da quanto riportato alla n.29. Ufficialmente esse sono note quali
‘Danzatrici’. Tuttavia l’allegoria delle
Sirene come ballerine nel Palazzo del Re del Mare situato sul ‘Fondo delle
Acque’ doveva essere un tempo ben nota in area indo-mediteranea, visto che
ricorre persino in una fiaba pugliese intitolata da Calvino La sposa
sirena. L’autore confessa d’averla
raccolta da G.Gigli, riplasmandola in lingua popolare, ma essa nell’originale –
la tarantina Storia d’una sirena – apparteneva ad un linguaggio piú
aulico. Ed un particolare come la
‘Scopa’ su cui ella volava via alla fine una volta liberata dal maleficio,
purtroppo cambiato arbitrariamente dallo scrittore toscano in ‘Aquila’, ne
connotava la natura fondamentalmente erotica.
In relazione ovviamente all’Eros Protogeno. Non meno della surriferita ninfa-pesce del Mah~bh~rata, che accoglie in bocca il seme d’un
re-sacro. Ad esser sinceri, nel
passo di riferimento del poema epico
indiano l’episodio è collegato anch’esso con l’Aquila, o meglio qualche simile
rapace quale l’Avvoltoio (Garuḍa);
tuttavia occorre aggiungere a tal
proposito che la trasformazione da cetacei (scr. mat-sy-a, gr. kēt-os,
lat. cēt-os) in rapaci (scr. vih-a-ga, gr. o[v]i[s]ōnós, lat. a-vis)
delle due equivalenti categorie divine indiane e greco-latine delle Apsaras e delle Sirene è legata al
passaggio del simbolismo umorale dalle Acque Celesti (soggette
quintessenzialmente all’Etere) alle Piogge (connesse invece elementalmente
all’Acqua). Dato che anche i Deva
indiani, cosí come gli Dei greco-romani, è noto fossero rappresentati in
aspetto oionomorfico, se ne deduce che le ‘essenze delle acque’ (superiori) non
potessero esser altro che stelle del cielo; o meglio le costellazioni, dapprima
intese in senso extra-zodiacale (pisciforme) e poi zodiacale (aviforme). Ciò non significa ovviamente che le Sirene
siano passate a rappresentare le stelle zodiacali, cosa impossibile se non al
massimo per le sirene bicaudate; ma, semplicemente che, per affinità colla
mitologia pluvial-zodiacale, le Sirene siano addivenute emblemi delle stelle
extrazodiacali anziché delle stelle in generale come in origine.
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(39) Pure i Gandharva
sono associati alle acque, vale a dire al Soma Celeste. La loro natura di ‘Musici’ – in relazione al
‘Suono Primordiale’ – equivale a quella etero-uranica del musicante greco
Arione, non per niente appaiato al Pesce.
Cfr. n.36. Come le ‘Danzatrici’
costoro è possibile abbiano mutato ad un certo punto (probabilmente al tempo
dei Deva) la loro fisionomia simbolica in uccelli, ma è da ritenere che
fossero in origine creature interamente o parzialmente ittiomorfiche. Come il veicolo del loro sovrano, Re Varuṇa.
Sebbene non se ne abbia alcuna prova sul piano iconologico. A meno che esistesse, tanto per le Apsaras quanto per i Gandharva, un doppio modo simbolico di
rappresentazione; ittico ed aviario, il che tenendo conto di altri fattori
paralleli quali la denominazione delle genti dell’Età Aurea, è la cosa tutto
sommato più credibile. Si consideri in
tal ottica il rapporto in India, reperibile grosso modo anche in Grecia ed in
Egitto, fra il scr.Manu (‘Uomo’) e
l’omofona voce Mīna (‘Pesce’); nonché
fra il nome della sovracasta primordiale (Haṁsa)
e quello degli omonimi uccelli facenti da vāhana del dio primevo Brahmā.