Premessa
Non si può credere, come si usa fare in sede divulgativa (1),
che i Babilonesi furono i primi a capire la periodicità dei fenomeni
astronomici ed i primi ad applicare la matematica alle loro predizioni. Ciò è completamente falso, anche pur intendendo
per <babilonese> – come fa l'introduzione alla voce relativa
all'astronomia in 'Wikipedia' – l'assieme di Sumeri, Accadi, Assiri e
Babilonesi medesimi (2). Accettare tale affermazione sarebbe come
asserire, essendo Dei e Titani strettamente legati vicendevolmente alle
costellazioni zodiacali e ai pianeti, che l'Ebdomade Planetario, lo Zodiaco
Solare e lo Zodiaco Lunare siano tutti e tre d'origine <babilonese>. Un'assurdità, insomma, che non vale neanche
la pena di contestare! Perché negherebbe validità gnoseologica all'intera mitologia di tutti i popoli e
renderebbe la preistoria un mero avvicendamento di fatti materiali. Come si fa a pensare che all'improvviso,
senza nessuna ragione valida, sia scoppiato l'interesse per il Cielo? Quasi che
i culti preistorici fossero tutti ispirati alla Terra e, coll'inizio della
civiltà urbana, immediatamente si accendessero i lumi della ragione umana. Troppo demenziale tale presupposto per prendere sul serio
codesta tesi. Diciamo che è la vecchia
teoria culturale pan-mesopotamica, d'evidente matrice biblico-abramitica,
applicata all'astronomia; per cui, divinamente, da quella terra fra i due fiumi
sarebbe nato tutto: caste, scrittura, astronomia e chi ne ha piú ne metta. Questo pan-babilonismo ha fatto ormai il suo
tempo ed è ora di porlo da parte definitivamente, se vogliamo davvero indagare
sui prodromi dell'astronomia.
L'astronomia, d'altronde, anticamente non era distinta dall'astrologia,
com'è avvenuto sino a tempi recenti in India.
Proprio le scoperte delle scienze contemporanee, unite alle nuove forme
di culture ad esse associate, hanno dimostrato l'esatto contrario rispetto alla
suddetta tesi pan-babilonese. Il
paleantropologo svizzero Raphael Girard (1898-1982) in una sua celebre opera (3)
ha spiegato anni fa come gli antenati dei Toltechi abbiano tramandato il loro
passaggio culturale attraverso 4 o 5 Ere cicliche (4), che molto
rassomigliano a quelle della letteratura indo-europea (5). Per questa ragione si rinvengono dati
cosmologici non dissimili in tutta la zona indo-mediterranea
e, piú in là, in Cina; ma in quest'ultimo caso abbiamo a che fare con una
differente tradizione, parzialmente autonoma (6).
1. Gli studi di Tilak e
Schlegel sul finire del XIX secolo
Poiché non hanno avuto alcun rapporto tra di loro, che si sappia,
affronteremo questo confronto fra i due grandi studiosi di Fine Ottocento in 2 articoli separati. Pigliamo in esame ivi in primo luogo l'autore indiano, poi ci occuperemo dello scrittore tedesco; in entrambi i casi pigliamo a pretesto una singola opera, The Orion or Researches on the Antiquity of the Vedas per quanto riguarda Tilak (1856-1920) ed Uranographie Chinoise per quel che concerne Gustave Schlegel (1840-1903). Questi due scritti appaiono assai diversi nel contenuto, nella voluminosità e nello stile di scrittura. L'opera di Schlegel è un ampio volume di 923 pagine, pubblicato a Leida nel 1875 da E.J. Brill; ed è stato ripubblicato a Milano, nel 1977, da parte della So-wen in una splendida edizione. L'opera di Tilak conta invece soltanto 243 pagine, è uscito nel 1893 ed è stato ripubblicato in un'edizione modesta nel 1972 (7).
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affronteremo questo confronto fra i due grandi studiosi di Fine Ottocento in 2 articoli separati. Pigliamo in esame ivi in primo luogo l'autore indiano, poi ci occuperemo dello scrittore tedesco; in entrambi i casi pigliamo a pretesto una singola opera, The Orion or Researches on the Antiquity of the Vedas per quanto riguarda Tilak (1856-1920) ed Uranographie Chinoise per quel che concerne Gustave Schlegel (1840-1903). Questi due scritti appaiono assai diversi nel contenuto, nella voluminosità e nello stile di scrittura. L'opera di Schlegel è un ampio volume di 923 pagine, pubblicato a Leida nel 1875 da E.J. Brill; ed è stato ripubblicato a Milano, nel 1977, da parte della So-wen in una splendida edizione. L'opera di Tilak conta invece soltanto 243 pagine, è uscito nel 1893 ed è stato ripubblicato in un'edizione modesta nel 1972 (7).
Era da qualche tempo che volevamo attuare un confronto, ma purtroppo la
nostra precedente scarsa conoscenza personale del francese ce lo aveva impedito. D'altronde, mentre dello scrittore marathi
abbiamo approntato una traduzione con tanto di prefazione e commento, l'autore
olandese (d'origine sassone) non l'avevamo quasi mai preso in considerazione
nei nostri scritti.
2. Le osservazioni del
Pingree negli Anni '60 e quelle di Padre Heras un decennio prima
Il Pingree, studioso in sede accademica di Storia della Scienza e delle
sue influenze culturali, in un suo articolo uscito all'inizio degli Anni Sessanta (8),
notava giustamente come le interrelazioni fra il mondo greco, il mondo
babilonese e quello indo-iranico fossero venute alla luce esclusivamente in
anni allora recenti. Quantunque,
oggigiorno, non si possa piú dire altrettanto.
Il fattore che aveva determinato tale tipo di studi veniva indicato,
sulla scorta dell'Aaboe (9), nella scoperta di
tecniche mesopotamiche presenti tanto in Grecia nei testi astronomici od
astrologici nonché nei papiri, quanto in India nei trattati sanscriti ovvero
nelle tradizioni scritte delle lingue dell'India Meridionale. Il Pingree, appoggiandosi a Neugebauer (10)
e a Thibaut (11), segnalava in
aggiunta come la perdita di familiarità col sanscrito nella prima metà del XX
sec. avesse spinto qualcuno (12) ad ipotizzare
erroneamente un ruolo intermediario del Periodo Sassanide nella trasmissione del
pensiero astronomico greco in India, quando invece risulterebbe il
contrario. Sarebbe cioè la cultura
sassanide ad aver attinto pienamente alle fonti indiane.
Personalmente crediamo che le teorie diffusioniste abbiano fatto il loro
tempo, seppure non nel senso che debbano esser criticate a tutti i costi: vi è certamente del vero nel fatto che la civiltà sumero-accadica prima e quella assiro-babilonese poi abbiano direttamente influenzato la Grecia da un lato e l'India dall'altro. A livello di cultura generale, non solamente nel campo trattato da Pingree. È pur vero, d'altronde, che la visione giudeo-centrica per cui tutto viene dalla Mesopotamia è superata da un pezzo. Come abbiamo già stabilito, piú addietro, nella nostra Premessa. Gli studi paletnologici e paleoantropologici sull'intero globo hanno infatti suggerito che ci potrebbero esser stati in passato vari centri culturali di sviluppo, non un centro unico. Basta pensare alla Cina, oppure alla Mesoamerica. Riguardo alla prima, secondo lo Schlegel (13), tutto sarebbe partito da là anziché dalla Mesopotamia; e se ciò è lecito affermare per altri elementi culturali quali il Tripode, perché non lo si potrebbe ipotizzare analogamente per l'argomento in questione? Sennonché, in tal modo, si rientrerebbe nello schema del centro unico prima criticato. Il fatto che le varie civiltà (cinese, indiana, amerinda) siano giunte a soluzioni diverse per quanto riguarda il calendario astrologico ed astronomico dell'ultima Era implica, indirettamente, che si siano prodotti centri di sviluppo culturale indipendenti tra di loro. Che esistano altresí delle influenze da parte del mondo indiano sull'intera area indo-mediterranea sono stati gli studi di Padre Heras a provarlo, anche se gli studiosi accademici tendono ad ignorarlo per partito preso, piú o meno come si fa con Tilak, illustri eccezioni a parte. Nei confronti di Padre Heras sono state fatte ingiuste accuse, che confondono le assunzioni valide da parte del monaco d'origine ispanica con la polvere inevitabile agglomerata in essa. Pure la scuola mediterraneista del Pestalozza & C. mise in luce tali connessioni, benché in senso inverso; ma probabilmente bisognerebbe parlare di una koinè etnoculturale le cui aree si sono reciprocamente rapportate in varie epoche storiche a partire dai tempi preistorici, s'intende mesolitici e neolitici (14). Non sarebbe giusto dunque considerare l'incipit proprio di una data regione, poiché al di fuori di quest'area le cose cambiano; crediamo che la Cina (15) e la Mesoamerica (16) abbiano avuto uno sviluppo culturale indipendente, quantunque soltanto nel primo caso sia tracciabile un comune terreno coll'area indo-mediterranea (17). Giacché il calendario lunare non è mai esistito, se non a livello di conteggio di lune, in America Precolombiana. Egualmente deve essere avvenuto in zona austronesiana (18).
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tempo, seppure non nel senso che debbano esser criticate a tutti i costi: vi è certamente del vero nel fatto che la civiltà sumero-accadica prima e quella assiro-babilonese poi abbiano direttamente influenzato la Grecia da un lato e l'India dall'altro. A livello di cultura generale, non solamente nel campo trattato da Pingree. È pur vero, d'altronde, che la visione giudeo-centrica per cui tutto viene dalla Mesopotamia è superata da un pezzo. Come abbiamo già stabilito, piú addietro, nella nostra Premessa. Gli studi paletnologici e paleoantropologici sull'intero globo hanno infatti suggerito che ci potrebbero esser stati in passato vari centri culturali di sviluppo, non un centro unico. Basta pensare alla Cina, oppure alla Mesoamerica. Riguardo alla prima, secondo lo Schlegel (13), tutto sarebbe partito da là anziché dalla Mesopotamia; e se ciò è lecito affermare per altri elementi culturali quali il Tripode, perché non lo si potrebbe ipotizzare analogamente per l'argomento in questione? Sennonché, in tal modo, si rientrerebbe nello schema del centro unico prima criticato. Il fatto che le varie civiltà (cinese, indiana, amerinda) siano giunte a soluzioni diverse per quanto riguarda il calendario astrologico ed astronomico dell'ultima Era implica, indirettamente, che si siano prodotti centri di sviluppo culturale indipendenti tra di loro. Che esistano altresí delle influenze da parte del mondo indiano sull'intera area indo-mediterranea sono stati gli studi di Padre Heras a provarlo, anche se gli studiosi accademici tendono ad ignorarlo per partito preso, piú o meno come si fa con Tilak, illustri eccezioni a parte. Nei confronti di Padre Heras sono state fatte ingiuste accuse, che confondono le assunzioni valide da parte del monaco d'origine ispanica con la polvere inevitabile agglomerata in essa. Pure la scuola mediterraneista del Pestalozza & C. mise in luce tali connessioni, benché in senso inverso; ma probabilmente bisognerebbe parlare di una koinè etnoculturale le cui aree si sono reciprocamente rapportate in varie epoche storiche a partire dai tempi preistorici, s'intende mesolitici e neolitici (14). Non sarebbe giusto dunque considerare l'incipit proprio di una data regione, poiché al di fuori di quest'area le cose cambiano; crediamo che la Cina (15) e la Mesoamerica (16) abbiano avuto uno sviluppo culturale indipendente, quantunque soltanto nel primo caso sia tracciabile un comune terreno coll'area indo-mediterranea (17). Giacché il calendario lunare non è mai esistito, se non a livello di conteggio di lune, in America Precolombiana. Egualmente deve essere avvenuto in zona austronesiana (18).
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3. Nostra critica a
posteriori
Ciò precisato, occorre aggiungere che quanto ha cercato di dimostrare il
Pingree nell'articolo sopra menzionato oltre a palesare i soliti preconcetti di
tipo scolastico, non menzionando mai lo scrittore marathi, si basava su
postulati falsi. Innanzitutto, non è
vero che "i primi testi indiani a noi noti
– i Veda, I Brāhmaṇa e le Upaniṣad – trattino raramente i fenomeni
astronomici se non i più ovvi; e quando li trattino davvero, ne parlino con
un'oscurità di linguaggio e di pensiero (tali) da rendere impossibile
un'adeguata esposizione delle nozioni riguardanti il materiale celeste cui
gli autori si rifanno." Come si fa
poi a dir con sicurezza che l'Anno Sacro di 360° del Ṛgveda sia d'origine babilonese, quando il Ṛgveda contiene nozioni – ormai è stato
dimostrato – risalenti al tempo in cui era presente sul suolo del Deccan la Sarasvatī,
il fiume rinsecchitosi c.5.000-6.000 anni fa?
Evidentemente per pregiudizio, quel pregiudizio che spingeva a far della
Mesopotamia la casa-madre di tutte le idee del mondo contemporaneo. Oggi sappiamo che non è piú lecito ragionare
cosí. In quanto al resto, ad esempio che
la lista dei 28 Nakṣatra sarebbe
stata elencata per la prima volta all'inizio del I mill. dell'E.V., nell'Atharvaveda e nei Brāhmaṇa, non regge. Abbiamo
dimostrato fin dalla nostra tesi di laurea (19) che il Kālavāda non è
d'origine mesopotamica o zurvanita, secondo quanto pretendeva il Wesendonck, né
tanto meno buddhista. Semmai è il buddhismo che ha tratto spunto
dall'induismo, quantunque non esistano testi propriamente dedicati al Kālacakra nel mondo hindu. Se ne parla però diffusamente già nel Mahābhārata e non come di una novità, ma
di qualcosa ben presente ed accettato dall'intero Bharatavarṣa (20). Notava
d'altronde il Pingree stesso che non era mai stata reperita alcuna tavoletta
cuneiforme sulla cui base si potesse formulare un parallelo babilonese della
dottrina degli asterismi lunari, pur
essendovi traccia viceversa di altre culture.
Il Pingree, peraltro, confondeva la lista dei 27 Nakṣatra indiani con quella araba dei 28 Asterismi; tant'è che ne additava 28 anche in India (21),
ma erano in realtà 27 (22). Avesse consultato Tilak (23),
non sarebbe caduto in questo ed altri errori.
4. Il punto di vista di
Tilak
Tilak infatti, in modo chiaro e netto,
cominciava il penultimo capitolo della
5
sua prima importante opera sul Veda (24) con queste sagge ed erudite parole: "Si dice non sia lecito supporre che i bardi vedici fossero esperti anche dei piú elementari movimenti dei corpi celesti. L'asserzione, comunque, è troppo generale e vaga per essere criticata ed esaminata. Se si intende interpretarla nel senso che il complesso meccanismo d'osservazione posseduto dagli astronomi moderni ed i risultati conseguenti da loro ottenuti fossero sconosciuti in quei lontani giorni, riteniamo dunque che di ciò non si possa dubitare. Ma se si vuole significare che i poeti vedici fossero inesperti riguardo ogni cosa, ad eccezione del sole e dell'aurora, inesperti dei Nakshatra, inesperti del mese, degli ayana (25), degli anni e cosí via, allora non vi è alcuna testimonianza in appoggio a tale supposizione nel Ṛigveda. Al contrario, ...alcuni dei Nakshatra sono specificatamente nominati, come accade ...nel Ṛig.- x. 85, 13, mentre lo stesso inno tratta in generale i Nakshatra, nonché i moti della luna e del sole, che causano le stagioni. Nel Ṛig.- i. 164 abbiamo parecchi riferimenti alle stagioni, all'anno e ai giorni in esso contenuti (verso 48) e secondo Yâska forse pure agli ayana (Nirukta- vii. 24)." Alla seconda nota a piè pagina (26) abbiamo osservato, da parte nostra, che al vs. 2/b del Ṛig.- x. 85 Soma (Orione) viene considerato anche se non espressamente il conduttore dei Nakṣatra e al vs.2/a il sostenitore degli Āditya. Gli Āditya, in genere 7 0 12, non son altro a ben vedere che i Soli archetipali sui quali si modellano i 7 Pianeti e le 12 Costellazioni solari. Questo significa in modo definitivo che in un solo inno rigvedico, anzi in un unico verso, sono contemplati tanto il Grāhamaṅḍala ('Cerchio dei Pianeti', donde la concezione dei 7 Daitya piglia le mosse) quanto il Rāśicakra ('Ruota dei Segni'). Se in un verso del piú antico dei Veda, la cui stesura a livello orale va posta in base alla tradizione indiana poco prima dell'inizio del Kaliyuga e non com'è uso affermare müllerianamente 3.200 anni fa circa, come si può scientificamente pensare che il Veda non conoscesse l'astronomia se non in minima parte? Ha già risposto Tilak a suo tempo, in maniera egregia, al quesito. I testi vedici utilizzavano il Jyotiṣa (Astrologia ed Astronomia indistinte), che è un vedaṅga (cioè un membro del Veda, al pari della Matematica, della Grammatica, della Logica e di altre due branche del sapere antico), per scopi spirituali. È sul Jyotiṣa, infatti, che poggia l'intero edificio vedico. Del resto i nostri numeri derivano, per mediazione araba, dalla cultura indiana. Lo Zero medesimo (27), su cui si basa l'uso scientifico che ne ha fatto l'Occidente dal Rinascimento in poi, risale alla concezione metafisica dell'Immanifesto (scr.Avyakta) come assenza di ogni forma di creazione; concetto non presente in Europa e nel Mediterraneo, nonché in Mesopotamia, donde l'utilizzo romano dei numeri dall'I al X, anziché
6
dallo 0 al 9 (28). S'intravede nell'espressione grafica dei numeri d'origine indo-arabica, sebbene solamente lo zero sia rimasto eguale nel tempo, la volontà intrinseca di descrivere il Cielo in relazione allo spazio cosmico, sia pur inteso quale 'Uovo Cosmogonico' (29). Serve a poco allora andare alla ricerca, storicisticamente, dei piú antichi testi astronomici indiani. Giacché non vi è sapere in India che non sia modellato sul Veda, Tantra a parte. Il Jyotiṣa, lo prova a chiare lettere il summenzionato concetto di vedaṅga, non è d'origine tantrica. La principale ragione per cui non si accettano in sede accademica i ragionamenti di Tilak è perché si vuol continuare a disquisire in termini storicistico-eruditi, ma l'erudizione in un sapere che vale deve sempre apparire subordinata alla spiritualità.
La ribellione illuministica della Ragione al Cuore, il cuore spirituale
in senso cristico e non quello degradato un secolo dopo sentimentalmente dal
Romanticismo, ci ha condotto a tale atteggiamento di sofferenza verso quel che
si ritiene irrazionale ed invece è sovrarazionale. La deità presiedente a ciascun graha, rāshi o nakṣatra, è
un'immagine plastica dell'Arché
(Principio) corrispondente; vale a dire appunto del Sole archetipico, ipostasi
di quell’<Unico Sole> che è la Divinità senza nome (anāma) e senza forma (arūpa). Di qui tutta la serie di auspici, benefici e
malefici che la cosa comporta, colla relazionabile sessione sacrificale, che è
possibile siano state influenzate dai Babilonesi o da altri. Ma si tratta di considerazioni d’ordine
secondario, seppure siano queste che piacciono particolarmente agli storici
delle religioni e della cultura. Per
quale motivo non è ivi il caso di ripetere.
Non si ha a che fare con superstizioni, se non nel senso letterale del
termine, ma piuttosto con dei presupposti o dei marchingegni magico-sacrali, mediante
i quali si favoriscono le influenze positive del cosmo riducendo quelle
negative. Palliativi culturali, insomma,
i quali nei momenti storici di degenerazione spirituale divengono purtroppo i
fattori determinanti d’un epoca. Cosí è accaduto in tempi buddhisti, nonostante il buddhismo abbia cercato di per sé di riportarli al loro signifcato teurgico originario, come tende a fare ogni religione che si rispetti nei confronti di un'altra religione che per decadenza dei tempi stia venendo meno.
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sua prima importante opera sul Veda (24) con queste sagge ed erudite parole: "Si dice non sia lecito supporre che i bardi vedici fossero esperti anche dei piú elementari movimenti dei corpi celesti. L'asserzione, comunque, è troppo generale e vaga per essere criticata ed esaminata. Se si intende interpretarla nel senso che il complesso meccanismo d'osservazione posseduto dagli astronomi moderni ed i risultati conseguenti da loro ottenuti fossero sconosciuti in quei lontani giorni, riteniamo dunque che di ciò non si possa dubitare. Ma se si vuole significare che i poeti vedici fossero inesperti riguardo ogni cosa, ad eccezione del sole e dell'aurora, inesperti dei Nakshatra, inesperti del mese, degli ayana (25), degli anni e cosí via, allora non vi è alcuna testimonianza in appoggio a tale supposizione nel Ṛigveda. Al contrario, ...alcuni dei Nakshatra sono specificatamente nominati, come accade ...nel Ṛig.- x. 85, 13, mentre lo stesso inno tratta in generale i Nakshatra, nonché i moti della luna e del sole, che causano le stagioni. Nel Ṛig.- i. 164 abbiamo parecchi riferimenti alle stagioni, all'anno e ai giorni in esso contenuti (verso 48) e secondo Yâska forse pure agli ayana (Nirukta- vii. 24)." Alla seconda nota a piè pagina (26) abbiamo osservato, da parte nostra, che al vs. 2/b del Ṛig.- x. 85 Soma (Orione) viene considerato anche se non espressamente il conduttore dei Nakṣatra e al vs.2/a il sostenitore degli Āditya. Gli Āditya, in genere 7 0 12, non son altro a ben vedere che i Soli archetipali sui quali si modellano i 7 Pianeti e le 12 Costellazioni solari. Questo significa in modo definitivo che in un solo inno rigvedico, anzi in un unico verso, sono contemplati tanto il Grāhamaṅḍala ('Cerchio dei Pianeti', donde la concezione dei 7 Daitya piglia le mosse) quanto il Rāśicakra ('Ruota dei Segni'). Se in un verso del piú antico dei Veda, la cui stesura a livello orale va posta in base alla tradizione indiana poco prima dell'inizio del Kaliyuga e non com'è uso affermare müllerianamente 3.200 anni fa circa, come si può scientificamente pensare che il Veda non conoscesse l'astronomia se non in minima parte? Ha già risposto Tilak a suo tempo, in maniera egregia, al quesito. I testi vedici utilizzavano il Jyotiṣa (Astrologia ed Astronomia indistinte), che è un vedaṅga (cioè un membro del Veda, al pari della Matematica, della Grammatica, della Logica e di altre due branche del sapere antico), per scopi spirituali. È sul Jyotiṣa, infatti, che poggia l'intero edificio vedico. Del resto i nostri numeri derivano, per mediazione araba, dalla cultura indiana. Lo Zero medesimo (27), su cui si basa l'uso scientifico che ne ha fatto l'Occidente dal Rinascimento in poi, risale alla concezione metafisica dell'Immanifesto (scr.Avyakta) come assenza di ogni forma di creazione; concetto non presente in Europa e nel Mediterraneo, nonché in Mesopotamia, donde l'utilizzo romano dei numeri dall'I al X, anziché
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dallo 0 al 9 (28). S'intravede nell'espressione grafica dei numeri d'origine indo-arabica, sebbene solamente lo zero sia rimasto eguale nel tempo, la volontà intrinseca di descrivere il Cielo in relazione allo spazio cosmico, sia pur inteso quale 'Uovo Cosmogonico' (29). Serve a poco allora andare alla ricerca, storicisticamente, dei piú antichi testi astronomici indiani. Giacché non vi è sapere in India che non sia modellato sul Veda, Tantra a parte. Il Jyotiṣa, lo prova a chiare lettere il summenzionato concetto di vedaṅga, non è d'origine tantrica. La principale ragione per cui non si accettano in sede accademica i ragionamenti di Tilak è perché si vuol continuare a disquisire in termini storicistico-eruditi, ma l'erudizione in un sapere che vale deve sempre apparire subordinata alla spiritualità.
5. Considerazioni al riguardo
È indubbio però – come bene sostiene in tal caso il Pingree – che,
7
allorquando Dario di Persia nel VI sec. a.C. invase la Valle dell'Indo e la conquistò, aprí la strada alle successive invasioni dei Macedoni, degli Sciti, dei Pahlava e dei Kuṣāna (30), favorendo in tal modo anche i contatti culturali fra Oriente e Occidente. Circa il fatto che ciò abbia spinto gli astrologi indiani ad adeguare i loro standard conoscitivi in materia astronomica a quelli babilonesi, giungendo ad osservazioni astronomiche piú significative di quelle precedenti sui nakṣatra rimaniamo scettici da parte nostra. Lasciamo dunque codesto tipo di considerazioni a coloro che, al pari del Pingree, interpretano classicamente lo sviluppo del pensiero antico recenziore come il non plus-ultra del pensiero umano. Eppure, proprio nella cultura giudaico-cristiana che ci è propria, troviamo un mito (31) che da solo è sufficiente a smentire cotale asserzione. Lo sfaldamento delle vetuste nozioni sui 27 Asterismi lunari (32), avrà pur portato l’India alle illustri vette del pensiero babilonese, ma simultaneamente l’ha condotta ad una dispersione delle proprie tradizioni. Giacché è sugli Āditya ed i Nakṣatra che si fonda la conoscenza vedica, non su altri accidenti della fenomenologia siderea. Il Pingree voleva metter in dubbio l’importanza del Veda, magari, colla scusa dell’ammodernamento del pensiero scientifico? Temiamo proprio di sí, purtroppo, e ce ne dispiace. Per lui ovviamente. Tilak da parte sua ha mostrato l’esatto contrario ed è per questo che viene dai piú sottovalutato, per non dire osteggiato, a livello universitario (33). Non è vero, del resto, che il calendario luni-solare (34) compaia per la prima volta nel Jyotiṣa-vedāṅga di Lagadha nel V sec. a.C. Come ha dimostrato Tilak, esso esisteva fin dalla preistoria neolitica, ossia dal 4.000 a.C. c. È chiaro che i testi vedici non eran dei trattati di jyotiṣa. Questo tipo di scritti fan parte di quella letteratura che il Botto (35) designava come post-vedica. Non è neppure vero che le formulazioni astrologiche ed astronomiche del Veda siano andate definitivamente perdute nei meandri dell’ermetismo poetico. Anche in ciò Tilak ha dimostrato che si può esser esegeti di quei versi persino ai nostri tempi, basta non avere pregiudizi di sorta.
7
allorquando Dario di Persia nel VI sec. a.C. invase la Valle dell'Indo e la conquistò, aprí la strada alle successive invasioni dei Macedoni, degli Sciti, dei Pahlava e dei Kuṣāna (30), favorendo in tal modo anche i contatti culturali fra Oriente e Occidente. Circa il fatto che ciò abbia spinto gli astrologi indiani ad adeguare i loro standard conoscitivi in materia astronomica a quelli babilonesi, giungendo ad osservazioni astronomiche piú significative di quelle precedenti sui nakṣatra rimaniamo scettici da parte nostra. Lasciamo dunque codesto tipo di considerazioni a coloro che, al pari del Pingree, interpretano classicamente lo sviluppo del pensiero antico recenziore come il non plus-ultra del pensiero umano. Eppure, proprio nella cultura giudaico-cristiana che ci è propria, troviamo un mito (31) che da solo è sufficiente a smentire cotale asserzione. Lo sfaldamento delle vetuste nozioni sui 27 Asterismi lunari (32), avrà pur portato l’India alle illustri vette del pensiero babilonese, ma simultaneamente l’ha condotta ad una dispersione delle proprie tradizioni. Giacché è sugli Āditya ed i Nakṣatra che si fonda la conoscenza vedica, non su altri accidenti della fenomenologia siderea. Il Pingree voleva metter in dubbio l’importanza del Veda, magari, colla scusa dell’ammodernamento del pensiero scientifico? Temiamo proprio di sí, purtroppo, e ce ne dispiace. Per lui ovviamente. Tilak da parte sua ha mostrato l’esatto contrario ed è per questo che viene dai piú sottovalutato, per non dire osteggiato, a livello universitario (33). Non è vero, del resto, che il calendario luni-solare (34) compaia per la prima volta nel Jyotiṣa-vedāṅga di Lagadha nel V sec. a.C. Come ha dimostrato Tilak, esso esisteva fin dalla preistoria neolitica, ossia dal 4.000 a.C. c. È chiaro che i testi vedici non eran dei trattati di jyotiṣa. Questo tipo di scritti fan parte di quella letteratura che il Botto (35) designava come post-vedica. Non è neppure vero che le formulazioni astrologiche ed astronomiche del Veda siano andate definitivamente perdute nei meandri dell’ermetismo poetico. Anche in ciò Tilak ha dimostrato che si può esser esegeti di quei versi persino ai nostri tempi, basta non avere pregiudizi di sorta.
6. Il problema delle
Tithi
Altra inesattezza è che il preteso uso delle Tithi (tredicesimi del mese sinodico) risalga per forza a Lagadha. La serie di 27 Nakṣatra lo prova, ma per errore il Pingree scriveva 28 ed i calcoli perciò non potevano tornare (36).
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Comunque anche il Pingree pareva dubbioso riguardo l’esatta
origine del concetto. Una precisa
origine è assai difficile da definire, poiché dipende da quella dei Nakṣatra. Come si constata i Babilonesi e Lagadha non sono andati molto oltre. Differentemente da quel che immaginava l’autore
(37), in dissacordo con Kane (38). E,
purtroppo, anche Tilak, il quale decretava che “un siffatto artificioso metodo
potrebbe essere stato adottato in tempi piú
recenti” rispetto alla suddivisione in asterismi (39). Dallo Schlegel deduciamo che la suddivisione era in 4 quadranti contenenti ciascuno 7 asterismi.
Dunque questo, contrariamente a quanto
abbiamo sempre ritenuto, deve essere stato il piú
antico calendario lunare. Donde gli
Arabi si sono abbeverati. Il calendaro
lunare indiano, però, facendo riferimento anch’esso ad Orione (40), dovrebbe essere un
adattamento quasi simultaneo del calendario lunare cinese. Altrimenti bisognerebbe pensare che i Sumeri
(non i Babilonesi) ne abbiano inventato uno parallelo a quello della Cina, con una costellazione in meno (e perché mai?), e che sia stato trasmesso in seguito all'India. Non è credibile, d'altronde, una trasmissione diretta delle proprie nozioni astrologiche ed astronomiche dalla Cina alla Mesopotamia. Difficimente si può pensare pure il contrario, a meno che il calendaro lunare indiano sia stata una creazione autonoma e abbia influenzato tanto l'Asia Orientale quanto quella Occidentale. Disgraziatamente non esistono tradizioni che ne spieghino l'origine, accreditandola a qualche regione in particolare. È evidente, quindi, che l'ipotesi maggiormente probabile è la prima, vale a dire che l'India paleodravidica abbia mutuato il calendario lunare dalla Cina; ed avendo una matematica piú sviluppata (41), l'abbia adattato al proprio standard culturale. Dopodiché esso è stato trasmesso in altre zone culturali, dall'Elam alla Mesopotamia. Neanche in questo modo, tuttavia, si spiega la ragione per cui la Mesopotamia avesse 28 costellazioni e l'India 27. Siamo sicuri che i camitici Sumeri avessero un calendario lunare simile a quello dei semitici Bailonesi? Il calendario lunare dei Semiti (Ebrei, Arabi) è di origine cinese, non ci sono dubbi. Per questo la suddivisione in tithi non faceva parte del loro sistema, esattamente come in Cina. In tutta questa congerie di ipotesi qual era il ruolo dell'Iran? Prossimo
evidentemente a quello dell’India, dell’Egitto e della Grecia, vista
l’importanza della Stella Sirio (42) in queste quattro tradizioni, tutte basate su un
inrocio etnoculturale fra il ceppo camitico e quello iafetico (43). Ciò significa che l’origine di tale
tipo di calendario (44) è camitica e le culture iafetiche (di lingua indoeuropea) l’hanno
semplicemente ereditato (45).
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7. La vera datazione del Kaliyuga
Che le specuazioni del Pingree fossero inesatte, è dimostrato chiaramente dall'accostamento storicistico che egli faceva fra la dottrina indiana degli Yuga, che egli attribuiva assurdamente al Periodo Gupta, e la corrispondente dottrina ciclica babilonese del Periodo Seleucide (46). Come se la nozione del tempo ciclico non fosse esistita già presso Sumeri, Accadi, Assiri ed Elamiti. E presso le etnie di lingua indoeuropea (47), oltreché fra i Pelasgi, i Cretesi, i Palestinesi e gli Ebrei. In breve, presso tutti i popoli di origine noaica: Camiti, Semiti e Iafeti. Le denominazioni di 'Asianici' e di 'Indoeuropei', attribuite con eccessiva spavalderia vicendevolmente a Camiti e Iafeti, non ha fatto che creare confusione disgregando il ricordo della loro comune derivazione da un continente oltreatlantico; di cui le Americhe attuali costituiscono ciò che rimane dopo lo scioglimento dei ghiacci e lo sprofondamento di un parte di litorale alla Fine del Paleolitico.
Oltretutto il Pingree non teneva minimamente conto dell’interpretazione dei
dati cosmologici propugnata da Guénon (48),
per cui pigliava sul serio quelli fuorvianti elencati nei testi. E da tali dati ovviamente non ne ricavava nulla, se non il tentativo di formulazione d'una vaga teoria diffusionista. Certamente il contatto coll'India, avvenuto prima e dopo l'inizio dell'E.V., ha prodotto risultati anche in campo astrologico ed astronomico. Sarebbe irrazionale pensare il contrario. È il nome di testi quali il Romakasiddhānta a provarcelo, senz'ombra di dubbio. Di qui a pensare che il Jyotiṣa prima di questo
contatto non esistesse, o quasi, significherebbe ridurre di portata il
significato dei Veda. Il fatto che Pingree sia stato cosí presuntuoso da non citare gli studi di Tilak
prova una cosa, il partito preso di tal tipo di ricerche unilaterali. Infatti il secondo è stato capace a differenza
del primo di spiegarci la vera dimensione dei testi vedici, dimensione che –
come insegna la dottrina induista – si basa sui quattro quarti della Parola. Non su un’unica accezione, donde è incluso
pure il significato cosmogonico. A riprova di quanto da noi sostenuto, come c’informa il Pingree, furono i
buddhisti sotto i Sassanidi ad introdurre il calendario lunare in Iran e in Asia Centrale (49). Secondo
quanto si deduce dal Bundahišn- ii. 2 (50). In Iran si diffusero in questo periodo
traduzioni di opere astrologiche greche e sanscrite sotto dei regnanti
compiacenti. Dopodiché le opere
indo-iraniche furono trasmesse a Bisanzio (VIII sec.) tramite gli scritti dello
Pseudo-Stefano di Alessandria e Teofilo di Edessa (51). Solo dal XII sec. in poi raggiunsero la
latinità cristiana.
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L’ingenuità del prof.Pingree è ancora una volta evidenziata, nonostante l’indubbia erudizione accademica, dal fatto che menzioni l’inizio del Kaliyuga in base alla tradizione scritta, ossia il 3.101. In tale data sarebbe avvenuta secondo l’induismo, una settemplice congiunzione planetaria a 0° dell’Ariete. La data ufficiale, lo aveva già spiegato il Guénon (52) prima dell’articolo del Pingree, è una data fasulla ovvero semplicemente letteraria; che non corrisponde a nulla di vero sul piano ciclico (53), poiché cade 1.380 prima dell’inizio reale. Quest’arco di tempo copre c.20° di regressione zodiacale del P.V., ma non è una datazione precisa come quella ebraica (54). In piú, va precisato che i pianeti non possono mai congiungersi assieme se non nel Segno del Toro (55); per questo s’impiega in sanscrito l’espressione <Toro del Dharma> e la Legge in altre lingue, ebraico compreso, ha a che fare col Toro (56).
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L’ingenuità del prof.Pingree è ancora una volta evidenziata, nonostante l’indubbia erudizione accademica, dal fatto che menzioni l’inizio del Kaliyuga in base alla tradizione scritta, ossia il 3.101. In tale data sarebbe avvenuta secondo l’induismo, una settemplice congiunzione planetaria a 0° dell’Ariete. La data ufficiale, lo aveva già spiegato il Guénon (52) prima dell’articolo del Pingree, è una data fasulla ovvero semplicemente letteraria; che non corrisponde a nulla di vero sul piano ciclico (53), poiché cade 1.380 prima dell’inizio reale. Quest’arco di tempo copre c.20° di regressione zodiacale del P.V., ma non è una datazione precisa come quella ebraica (54). In piú, va precisato che i pianeti non possono mai congiungersi assieme se non nel Segno del Toro (55); per questo s’impiega in sanscrito l’espressione <Toro del Dharma> e la Legge in altre lingue, ebraico compreso, ha a che fare col Toro (56).
La
settemplice congiunzione ad un punto esclusivo dello Zodiaco – cosa
astrologicamente impossibile sul piano astronomico letterale – indica semmai che
la congiunzione è avvenuta all’Equinozio di Primavera. È in effetti in Toro che si trovava il P.V.
all’inizio (vero) del Kaliyuga (4.480
a.C.)(57). Può darsi che la data sopra indicata dagli
Hindu equivalga ad un particolare punto del calendario lunare, ma non è su
questo che si basano le Ere cicliche. Corrispondendo
ad una retrogradazione di quasi 20° rispetto a quella effettiva appena indicata,
la data ufficiale cade a 11° del Toro, cioè in termini di calendario lunare
indiano all’inizio dell’asterismo di Rohiṇī (Aldebaràn),
la stella venerata in tutto il Vicino e Medio Oriente (58). Giacché
la ripartizione delle Tithi si ha da 0°dell’Ariete in poi (59).
Si noti altresí che il P.V. a 0°dell’Ariete
(scr.Ayanāmśa) è caduto in epoca assai
tarda, secondo Tilak quella di Varāhamihira (ufficialmente vissuto fra il 499 e il 587 d.C., al tempo del collega Āryabhaṭa)(60), astrologo di
discendenza iranica (pahlava) al dire
di Pingree (61). Questo dato non pare però coincidere
colla realtà storica, giacché il P.G. trovavasi al grado suddetto fra il 232 e il
160 a.C. (62). A meno d’intendere la cosa come
un riferimento piuttosto vago, ad occhio nudo, giacché la seconda metà di Revatī è trascorsa retrograda vernalmente fra
il160 a.C. e il 320 d.C. Risulta difficile risolvere la questione in
mancanza di dati maggiormente specifici. Varāhamihira –
come già rilevato – discendeva ad ogni modo dalla tribú iranica dei Pahlava (63), presto integratisi nella societià indiana; ad essa va collegata
probabilmente la dinastia dei Pallava, fiorita nell'India Meridionale
fra il III e il IX sec. d.C.
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8. Datazione del Diluvio
e Settemplici Congiunzioni astrali
C'è una cosa però sulla quale Pingree ci pare possa esser preso sul serio, quando attraverso Abū Ma'sher, il maggior trasmettitore delle opere astrologiche indo-iraniche, pone il Diluvio nel 3101 a.C. (64). A.M. attribuiva la notizia, a sua volta, al gr.Abydenos.
Non stiamo a criticare quel che aggiunge Pingree a proposito della presunta
non-omogeneità dei dati sulla settemplice congiunzione equinoziale della
tradizione indiana e quella solstiziale di cui parlava Beroso (65), il
sacerdote greco-babilonese. Si tratta di sciocchezze, ad ennesima riprova
che quando si ragiona per citazioni, senza capire come sia veramente
strutturata un'antica dottrina, non si fa altro che dello storicismo filologico
a vanvera. Il Pingree (66) tira inoltre fuori altre inesattezze, cercando di spiegare
scolasticamente che avvenendo la grande congiunzione in Ariete (non può essere,
come abbiamo sopra spiegato), essa determina una conflagrazione ignea, non un
diluvio d'acqua. Vero che questa è la visione dei testi, ma la cosa va
presa cum grano salis, non troppo letteralmente. In gergo
astrologico si parla di diluvi di acqua e di fuoco, ma è evidente che i due
fenomeni (piogge torrenziali, fenomeni vulcanici, scioglimenti di ghiacci) si
sovrapongano nella memoria generale dei sopravvissuti; onde si può intendere la
prevalenza di una data fenomenica in rapporto ai due solstizi, non ai due
equinozi. Le Triplicità delle quali scrive il Pingree (67) non c'entrano assolutamente nulla, sono
altra cosa, poiché le grandi congiunzioni avvengono in un Segno solo.
E, diversamente da come ci fa presagire certa
inadeguata teoria astrologica, non è durante la permanenza dei 7 Pianeti in
codesto unico Segno, del resto piuttosto breve, che siffatta fenomenica
diluviale ricorre ciclicamente; bensí in
un periodo relativamente prossimo alla data della grande congiunzione ma
successivo, variabile d'epoca in epoca, da zona a zona. Insomma, la
grande congiunzione astrale impartisce il comando, affinché il fenomeno
avvenga, col ritardo che è necessario perché detto comando (di tipo
geomagnetico) sia trasmesso col tempo dovuto alla fisicità terrestre. Che
le dottrine cosmologiche varie abbiano associato le due cose, il fenomeno
geomagnetico e le conseguenze a lungo andare del fenomeno, è perfettamente
comprensibile; si tratta di eventi riscontrabili in natura durante un lungo
arco di tempo, eppure consequenziali, anche se solamente il trascorrere del
tempo successivo li sovrappone nella memoria umana.
Il Pingree conclude in
bellezza (si fa' per dire...), attestando il fatto che in India non vi sia
traccia della settemplice congiunzione del 3.101 a.C. Infatti si tratta di una data fasulla (68), come
ha spiegato a suo tempo Guénon . Santi
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9. L'apporto di Parpola al dibattito: nostre conclusioni finali
Ora analizzeremo in dettaglio quali sono gli aspetti del suo pensiero che ci
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hanno
convinto maggiormente e quelli che ci convincono di meno. Ovviamente
qualcuno potrebbe asserire malignamente che i primi corrispondono alle nostre
convinzioni in materia e gli altri no, ma questo è ovvio, essendo un
atteggiamento comune a tutti gli studiosi. Chiunque giudica corretto ciò
che lo convince di piú e meno ciò che non
lo convince affatto, è naturale. Il nostro ego mentale si pone sempre
inevitabilmente da filtro in un senso o nell'altro.
In una sua validissima opera (73)
l'autore affronta una disamina della situazione calendariale nel momento
dell'incontro fra la cultura vedica e la cultura indica, stando ai Greci
antichi; o vallinda che dir si voglia, rimanendo all'archeologia
contemporanea. Il capitolo cui facciamo riferimento è intitolato The
astronomical and astrological background, ma il secondo attributo avrebbe
dovuto esser messo per primo; non si deve infatti partire dal pregiudizio che
nell'Antichità le cose stessero come ai nostri gorni, nei quali l'astrologia
appare solamente come una cugina povera e senza credenziali
dell'astronomia. L'Astrologia (scrivendo in questo caso il termine al
maiuscolo) è una scienza molto antica (74),
non un ancella dell'Astronomia, intesa come scienza vera. Filologicamente
i due termini sarebbero dei sinonimi, tant'è che in sanscrito esiste unicamente
una materia che le accomuna senza distinzione alcuna, il Jyotiṣa.
È il mondo greco classico e soprattutto ellenistico che ha finito per
distinguerle, siccome le ha interpretate diversamente dal contesto tradizionale
della Grecia arcaica, in cui il nómos non fungeva da semplice
nomenclatura astrale; cui la scienza moderna e contemporanea a partire da
Galileo in poi ha sovrapposto gli studi astrofisici, trasformandola
completamente. Anzi, se prima l’astrofisica
era una branca dell’astronomia, oggi la prima ha fagocitato la seconda, riducendola
ad uno dei 3 settori astrofisici: l’astrofisica osservativa, che fa pendant coll’astrofifisica teorica e quella di laboratorio. Per giunta, anche la vecchia cosmologia ha
lasciato il posto alla moderna cosmologia, che è un semplice ramo dell’astrofisica
teorica. La vecchia
Astronomia invece era di tipo qualitativo non meno dell'Astrologia, non
quantitativo; e la voce nómos significava 'legge', riferendosi
evidentemente non solo ai movimenti astrali ma pure alle loro influenze sul
mondo, che sono appunto materia nel mondo odierno esclusivamente
dell'Astrologia. Eppure ancora ai tempi di Keplero e di Newton le due
scienze, pur già distinte, erano ancora abbinate.
Ciò chiarito come premessa necessaria, entrando nel dibattito dal vivo sul
culto degli astri in terra indiana, va segnalato il primo problema. Gli
studiosi vari si mostrano incerti nel considerare le origini del calendario
solare zodiacale e del rispettivo calendario lunare. Vi è chi spesso
ritiene il secondo
Link: (continua):