(versione integrale dell'articolo)
È nota l’importanza che
ha nella leggenda graalica la figura del Roi Pêscheur (il King Fisher
degl’inglesi), da tutti gli studiosi messo in relazione seppure solo
parzialmente con un nume gallico, il misterioso Bran. Quantunque, in realtà, la definizione
s’estenda ben al di là del mondo celtico-cristiano. Dato che la si ritrova del
pari nell’epica hindu, precisamente nel Lib.I del Mahâbhârata, opera
attribuita a Vyâsa e compilata all’incirca fra il II sec. a.C. ed il II
d.C. Non sto qui ad analizzare il
significato dettagliato del titolo, né la trama del poema per intero o le
varianti testuali. Vorrei piuttosto prender in
considerazione esclusivamente le analogie nell’ambito della mitologia hindu e
di quella cristiana fra la figura del Fisher-king (Re Pescatore)
graaliano ed il corrispondente Dâçârâja (id.) mahabharatiano.
Il Daçaraja dell’epica hindu
Tale personaggio, sarà
bene precisarlo, nell’ambito dell’induismo compare soltanto nell’epica e
all’interno di questa unicamente nel Mahabharata. Non altrove.
O meglio, ricorre pure in ambito folclorico, ma non con chiari
connotati. Tuttavia, sebbene in tal caso
il ruolo del personaggio sia un po’ scheletrico, un fattore decisivo viene
aggiunto: il nome. Ed il nome, a chiare
lettere, è Satyavrata (lett. “alla verità-votato); piú noto come Manu
Satyavrata, o semplicemente Manu, cioè l’Adamo indiano. Famoso per la saga del Grande Pesce (Mahâmatsya),
posto dapprima per le minuscole dimensioni in un piccolo vaso e poi per il
continuo aumento delle proporzioni in contenitori sempre maggiori. Ivi non tratto del Pesce, se non per i brevi
riferimenti necessari alla comprensione del soggetto; la discussione a seguire
vertirà esclusivamente sul Re Pescatore, vale a dire il protagonista umano
della saga. Il Kathâsaritsâgara
(Vol.II, Lib.V, Cap.XXV), nella trad. del Tawney, lo descrive sommariamente
quale “ricco re dei Nishâda”.
Ecco il fattore decisivo che permette d’identificarlo al suddetto
Daçaraja. Sarebbe troppo lungo in
codesta sede spiegarne le ragioni. Onde
non posso far altro che rimandare tale compito a 2 miei libri ancora inediti:
a) Il Re Pescatore e il Pesce d’Oro, b) L’Uomo e il Pesce. Il succit. testo kashmiro ad esser sinceri
adotta l’espressione “king of the fishermen” alternativamente a quella di
“fisher-king”, ma lo stesso problema si riscontra nella trad. del
Mahabharata. D’altronde, che si tratti
d’un attribuzione simbolica è provato indirettamente dal fatto che nel
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contesto
dell’opera di Somadeva (XI sec.) il possente sovrano di Utsthala viene
contattato da Çaktideva – brahmanico protagonista del racconto – al fine
di poter rintracciare Kanakapurî, la Città Aurea. Satyavrata colla sua nave conduce il giovane
brahmano, giunto a lui dopo esser uscito indenne dal ventre d’un grosso pesce,
fino ad un grande albero che s’erge su un gorgo marino. Quivi scompare in mezzo ai flutti, sparendo
alla vista. A sera però grossi uccelli
simili ad avvoltoi vanno a posarsi sul gigantesco albero ed allora Çaktideva
che nel frattempo ha ottenuto la capacità di capire la lingua degli uccelli, si
nasconde fra le ali d’uno di essi ed ottiene cosí la possibilità di raggiungere
l’agognata meta. In Kanakapuri il
neofita incontra, dormiente come morta, la principessa Kanakarekhâ (Vena
d’oro) che era stata promessa dal re di Vardhamâna – certo Paropakârin
– a chi avesse potuto visitare di persona la Città Aurea. Tornato alfine a Vardhamana, Çaktideva si
meraviglia di trovare la figlia del re viva e vegeta, ma costei gli spiega di
essere in quella forma umana per la maledizione d’un eremita. Fatto sta che, secondo l’intreccio tipico dei
raccoglitori di fiabe indiane sul modello del Pañcatantra (in seguito
trasmesso dall’India al mondo musulmano e piú oltre fino all’Europa
tardomedievale), la principessa svanisce e torna alla Città Aurea. Nel vano tentativo di ritrovare la sua
promessa sposa, Çaktideva raggiunge di nuovo Utsthala; sennonché quivi è imprigionato
dai figli del Re Pescatore, che l’accusano d’aver condotto a morte il loro
padre. Per vendicarlo vorrebbero sacrificare il giovane viaggiatore a Durgâ,
tuttavia la loro sorella Vindumatî s’innamora di lui a prima vista e
finisce per farsi sposare, ma nemmeno questa è la soluzione finale; poiché
inseguendo un demone (daitya) in forma di enorme verro che imperversa
attorno a lui il neofita, armatosi
cavaliere con lancia in mano, raggiunge una grotta ove incontra Vindurekhâ. Anche costei induce il brahmano a sposarla,
in tal caso per riconoscenza, essendo la principessa stata salvata dalle
grinfie del demone. Ma finisce per
sparire pure lei dopo esser rimasta gravida ed aver visto il proprio feto
d’otto mesi sacrificato dal marito, che a causa di ciò diviene un veggente
ovvero un possessore della conoscenza soprannaturale (vidyâdhara),
superiore alla naturale gnosi (jñana).
Ed ecco che giunge poi immancabile, da parte della figlia del Re
Pescatore, la spiegazione di tutti gli strani eventi e la soluzione
riparatrice. Ossia Vindumati rivela allo
sposo d’esser la sorella di Kanakarekha e di Vindurekha, ond’è costretta a
partire alla volta di Kanakapuri, dove una quarta
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sorella l’attende. Çaktideva però per via dei suoi raggiunti
poteri shamanici è ora in grado di seguirla in volo e colà, nella Città d’Oro,
diverrà alla maniera indiana il marito di tutte e quattro le sorelle. Compresa la piú vecchia, Candraprabhâ
(Lustro della luna). Ed otterrà da Çaçikhandapada,
re dei Vidyadhara, lo scettro di quel reame col nuovo nome di Çaktivega. Un approfondimento di questa storia
iniziatica chi vorrà lo troverà nel secondo dei miei due libri
summenzionati. Orbene, quanto ci narra
il Mahabharata apparentemente è molto diverso, ma s’osservano alcuni punti in
comune. Come già rilevato, il nome
proprio del Daçaraja non vien fatto.
Comunque la figlia adottiva è denominata Satyavatî, il che la
collega strettamente a Satyavrata, persino sul piano filologico. Il Re Pescatore non è altro infatti che Manu,
come tale equivalente a Varuna, il Signore delle Acque tardivamente
spodestato in codesta funzione da Indra o Vishnu. Ed è significativo che ella sia denominata
alternativamente Kâlî (la
Vergine, non la
Vegliarda), o meglio Matsyakâlî. Vale a dire la forma ittio-uranica e primeva
della dea Kali. Del resto l’altro nome
alternativo di Satyâ la designa, chiaramente, quale dea del Satyayuga
(Età della Verità = Aurea). Ed
analogamente il fatto d’esser gemella di Matsyarâja, figura che funge
nel poema da doppione del Matsyâvatâra, ne fa un corrispettivo di Parçu
(Eva), la figlia-sposa di Manu (Adamo).
Che dire poi di Çantanu, il marito della figliastra del Daçaraja
(mitica progenitrice dei Kuru e dei Pândava, le due stirpi
apparentate affrontantisi nella fratricida guerra narrata nell’epico poema), se
non che egli personifica Sâgara o Samudra (l’Oceano) e che perciò
rappresenta la trasposizione umana di Varuna.
Infatti, come acutamente segnala E.W. Hopkins in Epic Mythology
(Delhi et al. 1974), l’Oceano è presentato nei testi quale attendente di
Varuna, l’Urano indiano. Anche Platone
in effetti, nel Timeo, subordina Okéanos ad Ouranós,
mentre nella cosmogonia orfica il secondo funge da doppione del primo ed è Érôs
a svolgere un ruolo primario. Hopkins,
illuminandoci sull’argomento, spiega che Varuna viene in genere considerato
allotipo di Yama, benché l’uno sia associato cosmologicamente alla Prakriti
(Sostanza) e l’altro al Purusha (Essenza). Tant’è che il dio delle acque – un tempo
celesti, poi marino-fluviali – ha come emblema la Conchiglia (Çankha)
o l’Oca Selvatica (Hamsa), trasmesso anche al figlio Vala/Bala
(o Vali/Bali) ed alla figlia Varunânî (cioè Ouranía,
la quale per metatesi consonantica è divenuta la latina Venere); invece il dio
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dei morti e primo morto (al pari di Manu/Adamo) possiede la Verga, che lo rende simile
al nostro Iânus. In base a quanto
appena osservato, si capirà quindi perché il Daçaraja per via della sua
universale sovranità sulle acque presieda a fiumi e correnti. Tra l’altro Çantanu, alter-ego di Satyavrata,
tramite la dea Gangâ è altresí padre di Bhîshma (l’Achille
indiano), cui è dedicata la cd. Bhîshma Gîtâ; intermezzo di carattere
çaiva
alternativo nella forma e nei contenuti alla vaishnava e piú celebre Bhagavad,
tesa ad esaltare la figura morente d’un invincibile guerriero alleato ai futuri
vinti. E non a caso in Grecia il
“Tetide” Achille è parallelamente figlio d’una nereide avente quasi lo stesso
nome della consorte del titano Oceano.
Il Roi Pescheur
dell’epica cristiana
Similmente all’Oriente
in Occidente la stirpe di re pescatori – denominati alternativamente “ricchi pescatori” – è legata alla discendenza da un antenato illustre,
Hebron, cognato di Giuseppe d’Arimatea; che, essendo parente di Gesú (Gardner
l’identifica al fratello Giacomo, fondatore della Chiesa di Gerusalemme),
connette la loro stirpe al Cristo medesimo.
In India invece, abbiamo visto, Il Re Pescatore è l’equivalente d’Adamo
e la sua sede è un’isola paradisiaca.
Sede del culto cristiano viceversa è il Castello Avventuroso, dapprima
identificato a quello non ben localizzabile di Corbenic e tardivamente trasferito
al pirenaico Munsalwaesche (Môns Salvâtiônis). Nei testi franco-britannici, facenti capo al Lancelot-St.Graal
(XIII sec.), il depositario del culto è Re Pelles. La bellissima figlia di costui (Elena),
andata sposa a Ser Lancillotto del Lago, genererà al prode cavaliere l’ascetico
Galaad; ma la trascuratezza del padre, invaghito di Ginevra, determinerà la
drammatica morte della soave dama lunare.
Ciononostante sarà il mondano Lancillotto ad avvicinarsi per primo al
mistero, la Voce
(Interiore) promettendogli che avrebbe esaudito lo scopo della cerca da lui
intrapresa analogamente ad altri compagni d’avventura. E difatti, apertasi la sacra soglia del
castello, egli scorge la Tavola
d’Argento del Graal ricoperta di seta rossa; ma, ben presto, tutto dispare ed
il cavaliere sviene. Peggio ancora
succede ad Estor delle Paludi, fratello di Lancillotto, cui si serrano tutte le
porte. Mentre a Galaad, indossante una
cotta rossa di valore alchemico, si schiuderà alfine ogni mistero. Gli altri cavalieri possono solo contemplare
il Graal ricoperto di tela bianca fluttuare magicamente per l’aere, essendo
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incapaci per loro natura di penetrare il significato recondito della
visione. Il trio eletto invece,
Bohors-Parsifal-Galaad, dopo l’avventura sull’incorruttibile Vascello di
Salomone – che sta al Santo Vasello come la Confraternita
(allusione ai Templari) sta al Cuore (purificato dal Santo Spirito) – e
l’incontro colla “Pulzella-che mai-non mente” (Vêritâs) – la quale
mostra loro la Corona
d’Oro e il Letto a Tre Fusi (Verde, Bianco, Rosso), proveniente dal paradisiaco
Albero della Conoscenza – riesce nell’intento di portare a termine la cerca nel
Castello del Graal. I 3 colori indicano
la triplice fase realizzativa della trasformazione interiore: Viriditas,
Albêdô e Rubêdô. Essa è
connessa colle tappe principali dell’iniziazione ermetica: Risalita, Rinascita
ed Illuminazione. Galaad, che già aveva
retto la Spada
di Salomone (immagine della Coscienza dell’Unità Divina), riunisce alfine le
due metà della Spada Spezzata (la
Conoscenza degli Opposti) con cui era stato ferito Giuseppe
d’Arimatea; al dire di De Boron (XII sec.), il primo custode della Coppa
dell’Ultima Cena, posta in un’arca e denominata in seguito Graal. La storia narrata dal chierico borgognone differisce
da quella del ciclo vulgato. Entrambe le
versioni concordano comunque che Giuseppe fu imprigionato dai giudei in un
sotterraneo, ma la prima fonte aggiunge anche della fuga di Nicodemo; inoltre
per il chierico è Gesú che gli porta direttamente la Sacra Coppa di
nascosto in carcere, mentre per l’anonimo è Giuseppe che se la procura nella
casa ove era stata consumata l’Ultima Cena il giovedí prima di Pasqua. In entrambi i testi non si fa menzione di
Longino. Da una parte è il Redentore a
raccogliere il proprio sangue nel calice, dall’altra è Giuseppe a convogliarlo
in esso dalle ferite stillanti. Quasi
che il corpo del Cristo fosse ancora vivo dopo la deposizione dalla croce, come
peraltro paiono sottintendere gli Apocrifi allorché insegnano che la vera
Resurrezione può avvenire soltanto in vita, non in morte. Tant’è che secondo De Boron (iv), il quale
del resto a differenza della fonte anonima – piú ambigua ancorché piú esplicita
– mette in rapporto la
Vergine Madre non collo Spirito Santo bensí col Padre, la
coppa è il simbolo della morte di Gesú.
Una morte soltanto simbolica, dunque, poiché il Figlio è increato;
sebbene l’anonimo incongruentemente attribuisca a Giuseppe, per volontà del
Cristo risorto, il voler farsi credere morto “affinché la sua riapparizione
assumesse la natura di un evento al di là dell’ordine naturale delle
cose”. Eppure del Figlio di Dio è
scritto, proprio in De Boron, che “apparve a Maria Maddalena, ai Suoi Apostoli,
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ai Suoi seguaci… in carne ed ossa”. Come
se sulla Croce, col pretesto d’una rappresentazione rituale di carattere
iniziatico, fosse scemata esclusivamente la natura corporea del Cristo e non lo
spirito vitale. Il ferimento rituale del
primo possessore della santa reliquia, poi ripetuto nei confronti del Re
Magagnato a mezzo di Lancia, aveva reso perciò tutta la dinastia dei Ricchi
Pescatori dei re paralitici; o zoppi, se vogliamo. Ad imitazione del Maestro. Onde rappresentare materialmente lo stato di
necessità in cui trovavasi l’uomo decaduto e bisognoso di purificazione,
lontano dal regno edenico. Quel che
catechisticamente chiamasi “Peccato Originale”.
I tre cavalieri scelti all’interno del Castello del Graal hanno la
visione di Gioseppo, il primo vescovo, figlio di Giuseppe d’Arimatea. La veste rossa del Re Pescatore, qual è
tratteggiata nelle descrizioni varie del personaggio, è quella stessa
vescovile. Trattasi tuttavia, in tal
caso, d’un vescovo gnostico. Gioseppo
era stato l’unico ad avere il privilegio di ricevere il sacramento dell’ordine
direttamente da Cristo nel Palazzo Spirituale della città di Sarraz, in
Mesopotamia, laddove era passato il profeta Daniele cogli altri ebrei condotti
schiavi a Babilonia da Nabucodonosor.
Colà, aprendo l’arca istituita dal padre aveva avuto a sua volta la visione
dell’Uomo Rosso, di veste e di carne. Ed
aveva ricevuto i paramenti sacri: la bianca mitria, la veste rossa nonché
l’anello del pescatore ed il pastorale.
Quest’ultimo simboleggiava simultaneamente il Rigore e la Misericordia,
l’anello l’Unione con Dio e colla Chiesa, la mitria la purezza ottenuta colla
confessione dei peccati; il color rosso alludeva invece alla Câritâs,
ovvero all’Amore Divino, che a mo’ di fuoco spirituale scioglie i limiti d’ogni
individualità e trasforma il prossimo in noi stessi. I tre cavalieri dunque vedono recare nel
castello da parte di 4 Angeli una lancia-grondante-sangue e il vescovo la posa
nel Sacro Calice. È per conservare la
preziosa reliquia che è stata edificata la roccaforte di Corbenic, cui presiede
appunto la figura enigmatica del Re Pescatore.
Da Gioseppo attraverso Hebron, Alano il Grosso ed altri, sono discesi
Pellehan e Pelles. Fra Gioseppo ed Alano
si colloca il summenzionato Re Paralitico (ossia Re Evalac, detto lo
“Sconosciuto” poiché nulla sapeva delle proprie origini), il quale dopo la
visione trinitaria degli Alberi dall’unico fogliame e la conseguente
conversione assume il nome di Mordrain. Un
po’ diversa sarà l’impostazione della narrazione nella letteratura tedesca
tardomedievale, attestante una situazione posteriore di culto; allorché il
Castello del Graal
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si sposterà in una regione piú meridionale, addirittura
ispanica. Tale sarà il castello di
Anfortas (storpiatura letteraria per Alfonso d’Aragona, re di Spagna), alla
corte del quale non giungerà Galaad in compagnia degli altri due eletti; bensí
il solo Parsifal, detto non per niente il “Cavaliere Rosso”. Ed allora si capisce quale debba esser stato
il Sacro Calice nelle funzioni cerimoniali medievali: quello ovviamente a forma
di doppia coppa – corrispondente nella sagoma al Sigillo di Salomone – ora
conservato nella Cattedrale di Valencia ed ossequiato in un viaggio pontificio
persino da Papa Woityla, sebbene la Chiesa Cattolica affermi dal suo punto di vista
(legittimo, ma non vincolante) l’inesistenza del Graal. Un’ultima cosa resta da dire sul simbolismo evangelico del Pesce. A codesto
emblema si richiama quel passo della Cerca in cui non sono “pesci e
pani” ad esser moltiplicati per sfamare gli astanti, come nei Sinottici, ma un
unico Grosso Pesce. È il dodicesimo
figlio di Hebron, Alano, a pescarlo un dí in Gran Bretagna su ingiunzione di
Gioseppo dopo il trasferimento dalla Palestina in terre settentrionali
dell’Europa. Questo “pesce di
notevolissime dimensioni” si richiama al tema del pesce piú grande non
rigettato dal pescatore intelligente a differenza dei piccoli, ricorrente in un
passo (vii ) del Vang. di Tommaso ed illustrante il Salvatore in dimensione
gnosticheggiante. Di tale pesce allusorio, relativo
all’espandersi incontrollato dell’evangelizzazione su un doppio piano interiore
ed esteriore, asserisce infatti il rimaneggiamento epico ottocentesco del
Boulanger che “crebbe di modo che tutti coloro che avevano fame poterono
saziarsi come se avessero avuto davanti a sé le migliori carni del mondo”. In memoria di ciò Alano è stato denominato il
“Ricco Pescatore” per eccellenza, dopodiché l’appellativo è passato a tutti gli
altri discendenti a seguire.
Giuseppe Acerbi
Illustrazioni
1. Ritratto di Vyasa, autore
del Mahabharata (miniatura indiana).
2. Manu a cavalcioni del Mahâmatsya
del Diluvio Primevo (scultura
indiana, Naurangi Darwaza, Forte Raichur, Museo Archeologico, Hyderabad).
3. Manu Satyavrata, il re
pescatore indú, col Matsyavatara (miniatura nepalese, copertina, Prajñâpâramitâ, N. & A.
Heeramaneck Coll.).
4. Satyavati, la figlia del
re pescatore (illustrazione contemporanea
da antichi modelli, S.B.P. Pratinidhi, India).
5. Re Çantanu innamorato di
Matsyagandha aliâs Satyavati (pitt.ind., R.R. Varma, Epoca Contemporanea).
6. Ganga, sposa alternativa
di Çantanu, su Makara
(pittura popolare, dett., Gujarat, coll. J.Appasamy, Delhi, India).
7. Bali, figlio di Varuna,
fuoriuscente dallo Çanka (min.ind.,
dett., India).
8. Il titano Oceano, munito
di chele sul capo (mosaico pavimentale
romano, dett., Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, II sec. d.C.)
9. Giuseppe d’Arimatea colla
Coppa del Graal (Anon., dis.cont., 1939).
10. La Nave di Salomone ( Anon., min.franc., Biblioteca Nazionale, Parigi).
11. Lancillotto dinanzi al Castello di Corbenic (E.H. Garrett, dis.cont., Boston 1901).
12. Il Re Magagnato, sovrano di Sarraz, ferito da lancia
ad una coscia (Anon., min.med., Le Roman du Saint-Graal, Francia, XIV sec. ).
13. Elena, la figlia di Pelles, il re pescatore (G.Doré, dis.cont, XIX sec).
14. Galaad, Parsifal e
Bohors nel Castello Avventuroso (W. Russell Flint, ill.cont., 1927).
15. Pelles, sovrano
della Terra Desolata, il re pescatore cristiano (ill.cont.?).
16. Parsifal
incontra il Re Pescatore, infermo su una barca, presso il Montsalvat (ill.cont.?).
17. Parsifal, il
Cavaliere Rosso, giunge al Montsalvat (M.Wiegand, ill.cont., Londra).
18. La Sacra Coppa del Graal
(Anon., oggetto rituale
antico, Cattedrale, Valencia, Spagna, dat.inc.).
Fonti
1.
R.Gnoli-L.P.
Mishra, Storia della letteratura indiana- Fabbri, Milano 1971, p.29,
tav. n.num.
2.
H.Heras, Studies
in Proto-Indo-Mediterranean Culture-
I.H.R.I., Bombay 1953, p.415, fig.276.
3.
P.Pal, The Arts of Nepal- E.J. Brill, Leida-Colonia 1978,
tav.22.
4.
V.S. Sukthankar, The Mahabharata-
Bh.O.R.I., Poona 1933, Vol..I, a fr. di p.250, ill. al passo i. 57. 56.
5.
On line.
6.
H.Mode-S.Chandra, Indian
Folk Art- D.B. Taraporevala, Bombay 1985, fig.218.
7. K.C. & S. Aryan, Rural Art
of Western Himalayas- Rekha, N.Delhi 1985, p.92, fig.85.
8.
A.Morelli, Dei e
miti. Enciclopedia di mitologia universale-
E.L.I., Torino ?, sv.OCEANO, p.362.
9.
On line.
10. Anon. del XIII sec., La storia del Santo Graal- Alkaest, Genova 1981, Vol.I, copert.ant.
11.
On line.
12.
On line (TEMPLARI E GRAAL).
13. On line.
14. On line.
15. On line (THE FISHER KING).
16. On line, id.
17. On line.
18. On line.
Fig.1
Fig.2
Fig.3
Fig.4
Fig.5
Fig.6
Fig.7
Fig.8
Fig.9
Fig.10
Fig.11
Fig.12
Fig.13
Fig.14
Fig.15
Fig.16
Fig.17
Fig.18
(15-12-14)
(15-12-14)
Link: G.Acerbi, Il Re Pescatore, sovrano universale delle acque, nella letteratura indo-europea (15-12-14).
Questo art. è stato già pubblicato nella Riv. 'Hera', di Binasco (Pv;) ma è qui presentato nella versione integrale, ridotta per motivi editoriali e di convenienza da parte dell'Editore.
RispondiEliminaLe illustrazioni aggiunte in data odierna sono tutte quelle originali della versione integrale, mentre in 'Hera' ne erano state pubblicate solo alcune, con integrazione di ulteriori foto da parte della rivista.
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