con paralleli in Iran, in Giappone e in
America
Tutto cominciò da Airāvata, l’Elefante Celeste (delle Nuvole),
bianco pachiderma nato dallo sbattimento dell’Oceano di Latte. Cosa fosse tale oceano non è mai stato ben
chiaro agli studiosi d’induismo, ma affrontando il tema senza la solita
pregiudiziale accademica – come hanno fatto a suo tempo certuni (1) – arriveremmo a scoprire che il
leggendario sbattimento altro non sarebbe in realtà che la trasposizione mitica
d’un fenomeno di spostamento dei poli il quale, pigliando in prestito
un’espressione del Grossato, potremmo definire “pendolarismo polare”. Senza però limitarci al parziale riduzionismo
astronomico dei due autori citati, che pur ottimi nella loro analisi testuale
peccavano di scientismo; infatti, nonostante il riconoscimento dell’importanza
nell’antichità dell’astrologia, non facevano di conseguenza lo sforzo
necessario per distinguerla dall’astronomia.
Il pendolarismo polare, ha messo ben in evidenza la scuola hancockiana
con efficaci e documentate videoregistrazioni, è strettamente connesso alla
precessione equinoziale; un fenomeno di retrogradazione che, a sua volta, fa
retrocedere lo Zodiaco Solare (o Lunare che sia) di 1° ogni 72 anni e che quindi
può essser facilmente preso ad indice del trascorrere dei millennî. Il problema, tuttavia, è che nemmeno dopo
aver aggiunto tale spiegazione le cose finiscono qui. Ossia, la dinamica astrale – usiamo questa
terminologia neutra per non accreditare ad Ipparco, presunto scopritore
ellenico della legge processionale attorno al 130 a.C. secondo gli storici
della scienza, ed all’astronomia greca la scoperta d’un fenomeno celeste già
invero lungamente noto tanto al Veda
quanto all’Ermetismo – non aveva in passato un senso puramente descrittivo; ma
era invece collegata a determinati cicli temporali, che la delimitavano
appropriatamente e ne evidenziavano l’intrinseca potenzialità simbolica, atta a
sollecitare una vasta conoscenza del cosmo.
In altre parole, l’intera vicenda dello sbattimento oceanico inerisce ad
un quadro d’eventi primordiale che è precisamente il II Ciclo Avatarico. Vedi al riguardo il nostro articolo
sull’argomento (2). Se in essa è coinvolto il serpente Vāsuki, var. di Ṣeṣa-Ananta, è per implicito rimando al Dragone
del Nord, l’asterismo circumpolare dominante il perno artico della volta
celeste in quel ciclo e posto in generale al centro del suddetto movimento
pendolare. Secondo quanto si può dedurre
da un semplice calcolo astronomico. All’esaurimento
di detto ciclo, cosí com’è avvenuto ai tempi nostri nel Duemila (quantunque
l’apparenza c’inganni), vi è stato un passaggio di dominio dal Dragone alla
Polare. Ovviamente, con tutte le
implicazioni mitiche relative. La base
cosmologica nell’Apocalisse giovannea
del sorgere della Bestia a 10 Corna, incarnazione di Chrónos-Aiôn, è tutta qui.
Benché la fuorviante
2
interpretazione allegorica del testo stesso alluda a 10 città. Fuorviante, è naturale, per i miscredenti oppure per i profani quali i semplici credenti; che, se sanno andar oltre la lettera, lo fanno solamente su questo piano. Se Vasuki era appunto il Dragone, l’Oceano non poteva esser che l’Artico. Come e dove fosse possibile la vita colà o nei paraggî e quali fossero le terre emerse in quei millennî (il II ciclo fa riferimento al Nordest del mondo, non alla Terra Iperborea, ovvero ad un arco geografico ideale che va grossolanamente dalla Siberia Orientale sin quasi alla Polinesia e da quella zona fino all’Alaska) non è nostro compito ivi stabilire. Il periodo di datazione da tenere in considerazione, astralmente calcolato, corrisponde all’incirca a 56-50.000 anni a. l’E.V. Né si possono manipolare i temi scritturali a proprio piacimento: l’essenziale è cercare d’intenderli nei loro profondi significati, pur attenenendosi formalmente alla lettera. Il tema che qui affrontiamo è dunque semplicemente uno, la cronologia natale di Airavata e quindi del simbolo elefantesco. Abbiamo spiegato altrove (3) che ciò che appare in India quale attribuzione peculiare di quella terra costituisce al di là d’ogni illusorio etnocentrismo un motivo dotato indubbiamente d’una valenza generale. Visto che si riferisce a tempi nei quali ancora non esistevano gli stati territoriali e, secondo quanto ci confermano tanto lo studio filologico della Bibbia quanto quello moderno della Preistoria, non era ancora avvenuta la “confusione delle lingue”; in altre parole, traducendo il tema in termini a noi comprensibili, l’eclissamento parziale del linguaggio simbolico universale. È ad una cultura shamanica generalizzata nell’intero globo (4) che, naturalmente, ci riferiamo. In base all’assioma avatarico nell’ambito d’ogni ciclo vi sarebbe una data Direzione dominante, che si sposterebbe di volta in volta in senso solare. Ripetiamo, la Direzione in questo caso sarebbe quella Nordorientale. Se vogliamo capire i miti dobbiamo attenerci alla logica ad essi inerente anziché stabilire se corrispondano a verità o meno, il che uno studioso serio dovrebbe sempre dare per scontato. Non a caso gli antichi concepivano il mito quale storia vera, seppur condita d’elementi fantastici. A riprova della veridicità di siffatto mitologhema del Rimestamento Oceanico sta il fatto che una mitologia affine sia rintracciabile in aree attigue a quella sommariamente delineata: Medio Oriente, Asia Centro-meridionale, Asia Orientale ed America Settentrionale. Basta pensare al dīv Akvān neoiranico (av. Aka Manah), demone dalla testa elefantina e dalle molte zanne, nonostante le miniature persiane lo ritraggano come generico mostro (5); del Deccan abbiamo già detto, ma anche in area nipponica e nordamericana si conoscono da tempo dei racconti che rammentano da presso il corrispondente mito indiano (6). Sennonché in quest’ultimo caso era stata scambiata maldestramente da parte degli studiosi della cultura pre-colombiana una testa elefantina per una testa di tapiro, non essendo ancora avvenuto in America il rinvenimento di fossili di mammuth, sicuramente trasmigrati colà per vie artiche. Dopodiché l’enigma è stato chiarito senza piú bisogno di
3
ricorrere all’Atlantide, argomento che in un primo tempo aveva pregiudicato il dovuto riconoscimento della presenza di pachidermi nell’arte maya. Il sol fatto d’essere entrata nel dibattito sull’ubicazione e l’esistenza del continente perduto aveva sino ad allora impedito alla questione d’essere risolta con senno (7).
2
interpretazione allegorica del testo stesso alluda a 10 città. Fuorviante, è naturale, per i miscredenti oppure per i profani quali i semplici credenti; che, se sanno andar oltre la lettera, lo fanno solamente su questo piano. Se Vasuki era appunto il Dragone, l’Oceano non poteva esser che l’Artico. Come e dove fosse possibile la vita colà o nei paraggî e quali fossero le terre emerse in quei millennî (il II ciclo fa riferimento al Nordest del mondo, non alla Terra Iperborea, ovvero ad un arco geografico ideale che va grossolanamente dalla Siberia Orientale sin quasi alla Polinesia e da quella zona fino all’Alaska) non è nostro compito ivi stabilire. Il periodo di datazione da tenere in considerazione, astralmente calcolato, corrisponde all’incirca a 56-50.000 anni a. l’E.V. Né si possono manipolare i temi scritturali a proprio piacimento: l’essenziale è cercare d’intenderli nei loro profondi significati, pur attenenendosi formalmente alla lettera. Il tema che qui affrontiamo è dunque semplicemente uno, la cronologia natale di Airavata e quindi del simbolo elefantesco. Abbiamo spiegato altrove (3) che ciò che appare in India quale attribuzione peculiare di quella terra costituisce al di là d’ogni illusorio etnocentrismo un motivo dotato indubbiamente d’una valenza generale. Visto che si riferisce a tempi nei quali ancora non esistevano gli stati territoriali e, secondo quanto ci confermano tanto lo studio filologico della Bibbia quanto quello moderno della Preistoria, non era ancora avvenuta la “confusione delle lingue”; in altre parole, traducendo il tema in termini a noi comprensibili, l’eclissamento parziale del linguaggio simbolico universale. È ad una cultura shamanica generalizzata nell’intero globo (4) che, naturalmente, ci riferiamo. In base all’assioma avatarico nell’ambito d’ogni ciclo vi sarebbe una data Direzione dominante, che si sposterebbe di volta in volta in senso solare. Ripetiamo, la Direzione in questo caso sarebbe quella Nordorientale. Se vogliamo capire i miti dobbiamo attenerci alla logica ad essi inerente anziché stabilire se corrispondano a verità o meno, il che uno studioso serio dovrebbe sempre dare per scontato. Non a caso gli antichi concepivano il mito quale storia vera, seppur condita d’elementi fantastici. A riprova della veridicità di siffatto mitologhema del Rimestamento Oceanico sta il fatto che una mitologia affine sia rintracciabile in aree attigue a quella sommariamente delineata: Medio Oriente, Asia Centro-meridionale, Asia Orientale ed America Settentrionale. Basta pensare al dīv Akvān neoiranico (av. Aka Manah), demone dalla testa elefantina e dalle molte zanne, nonostante le miniature persiane lo ritraggano come generico mostro (5); del Deccan abbiamo già detto, ma anche in area nipponica e nordamericana si conoscono da tempo dei racconti che rammentano da presso il corrispondente mito indiano (6). Sennonché in quest’ultimo caso era stata scambiata maldestramente da parte degli studiosi della cultura pre-colombiana una testa elefantina per una testa di tapiro, non essendo ancora avvenuto in America il rinvenimento di fossili di mammuth, sicuramente trasmigrati colà per vie artiche. Dopodiché l’enigma è stato chiarito senza piú bisogno di
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ricorrere all’Atlantide, argomento che in un primo tempo aveva pregiudicato il dovuto riconoscimento della presenza di pachidermi nell’arte maya. Il sol fatto d’essere entrata nel dibattito sull’ubicazione e l’esistenza del continente perduto aveva sino ad allora impedito alla questione d’essere risolta con senno (7).
L’Elefante Bianco nell’induismo e nel buddhismo
In India la leggenda del Samudra e dell’Amṛtama(n)thana, il Rimestamento oceanico e la conseguente
produzione d’Ambrosia da parte del Kūrmavatāra,
compare dapprima nei Brāhmaṇa, poi nell’epica ed in numerosi purāṇa. È
il Serpente (Vāsuki)
a svellere il Merumandara, la Montagna Cosmica
adoperata da zangola per frullare l’oceano come se fosse latte onde ottenere
burro, e la Tartaruga
(Kūrma) a far da perno inferiore. Il primo funge altresí da corda nello
sbattimento, mentre Deva
(Costellazioni) ed Asura (Pianeti) ne
tengono rispettivamente capo e coda. Il
significato cosmologico essendo già stato elementarmente chiarito, risulta
evidente quale possa essere il senso spirituale dell’operazione al di là della
lettera; visto che Kurma è il II Avatara, avente il compito di mantenere quasi
intatto il Dharma nonostante lo scombussolamento
generale. Meno facile invece è
comprendere quale sia il senso dei doni secondarî, Ambrosia a parte. Ossia la venuta alla luce del Cavallo Bianco,
Uccaiḥśravas, di certo in origine un onagro simile all’<asino>
avestico a giudicare dall’espressione.
Il riferimento vicendevole va comunque a Canopo, quale polo antartico
opposto al Dragone. Airavata, il Bianco
Mastodonte a 4 Zanne, allude viceversa ai solstizî e agli equinozî, divenuti
allora per la prima volta evidentemente oggetto di culto. Altri doni, che non stiamo ivi a discutere
per brevità, sono infatti: il Sole, la
Luna, la Vacca
dell’Abbondanza (Surabhi, immagine
probabile d’una nuova terra, primo tesoro uscito dal Rimestamento), la
paradisiaca Dea dell’Abbondanza (Śrī, la Dea delle Acque (Vāruṇī, cioè Venere) e le Apsaras (Sirene, in quanto essenze delle
acque). Oltre ovviamente, come
surriferito, all’Amṛta (Immortalità) o Soma
(Luce) che dir si voglia ed al Kaustubha
(la Gemma dei
Desiderî = Cuore). Ciò indica la prima
forma, attiva, di meditazione e conseguente contemplazione. Per contro simultaneamente spunta fuori il Kālakūta,
un terribile veleno recante la distruzione dell’intero universo se non fosse
bevuto da Śiva;
tale veleno, secondo J.Gonda, non sarebbe altro che “il mortale principio della
vita naturale”. In concomitanza i testi
parlano d’una conflagrazione con venti pieni di fumo e di fiamme, che oggi
diremmo piroplastici, solo in seguito temperata da abbondanti piogge; e,
conseguentemente, d’una notevole moría
4
d’animali terrestri ed acquatici. Ricordiamo a scanso d’equivoci che la cosmologia hindu prevede eventi del genere ogni 6.480 anni circa, cioè alla fine degli Yuga (Eoni), allorché i Sette Pianeti (Saptagraha) si riuniscono tutti nel segno zodiacale del Toro. Com’è avvenuto, di recente, nel Duemila. In Giappone si ha una versione del mito ricalcante quella indiana, forse giunta per via buddhista; ma pure nel contesto shintoista, vedi Ko-ji-ki e Nihon-gi, troviamo la coppia demiurgica Izanagi-Izanami intenta a rimestare le acque primeve affinché caglino e formino la terra. Trattasi anche qui della tipica leggenda illustrante una creazione secondaria. Presso i Toltechi, come palesa il Codice Cortes, appare lo stesso scenario mitico; però il ruolo della Tartaruga e della Serpe è direzionalmente invertito (l’una in alto e l’altra in basso), a dimostrazione che il vero senso originario si era irrimediabilmente perduto (8). Capo e coda della serpe, a mo’ di corda, sono tenuti per l’occasione da un nume a testa d’elefante (Chac, dio della pioggia) da un lato e da due divinità oscure dall’altro. Alla corda è connesso un simbolo solare (Kin). Nei miti degli Zuni, tribú pellerossa del New Mexico di stirpe pueblo, è una dea madre a frullare l’oceano colla sua mano. Colla differenza che la montagna, non diversamente dalla pianta-del latte (in Messico identificata all’agave), è in tal caso un’assunzione di forma da parte di lei e persino l’oceano-di latte è una sostanza vitale da costei emanata colla propria saliva sputando in un vaso. Altri codici maya presentano d’altronde varianti mitiche che associano la suddetta pianta alla tartaruga ed al dragone. Nell’Avesta (Yt- xix. 46) un’analoga battaglia coinvolge da un lato Aka Manah, Ashma Dæva, Azhi Dahāka (accoliti di Aṅgra Mainyu) e dall’altro Vohu Manah, Asha Vahishta ed Atār (accoliti di SpƏnta Mainyu) per il possesso della XvarƏnah (‘Gloria’)(9). In quanto all’Akvān-e-dīv firdusiano, occorre precisare che la trasformazione demonica avvenuta a carico di cotale figura dalla testa elefantina ricalca l’attitudine avestica a scambiar di ruolo dæva ed ahura. Spiega l’Albrile che siffatta fisionomia segue ad altre quali l’assunzione di testa d’onagro (l’iconografia lo rende del tutto teriomorfico), fatto che in base alla nostra interpretazione di cui sopra, si chiarisce esaurientemente. Oltretutto, Akvān viene decapitato da Rostam (10); e ciò richiama alla mente direttamente Gaṇeśa, il secondo figlio di Śiva. Sebbene in parallelo si sia diffusa nel continente indiano una mitologia concernente Airāvata (var.Airāvaṇa), con caratteri elefantini anziché mastodontici. Questa leggenda dell’Elefante Bianco ha finito per esser associata ad Indra (Pico Marzio), il re degli dèi, che in virtú di dio delle piogge è subentrato all’anziano dio delle acque Varuṇa (Urano). E dall’induismo è passata al buddhismo. Quivi il Bianco Elefante, privato del suo orizzonte mitico originario, è stato assunto ad emblema dei Cakravarti; figure di sovrani universali originariamente ispirate nelle steppe centro-asiatiche dalla visione notturna della St.Polare e di poi tramutatesi nei millennî a noi prossimi in modelli imperiali che hanno influenzato le corti d’Asia e d’Europa, dalla
5
Persia alla Macedonia. Come insegna Shakespeare nel suo Julius Caesar, ove si paragona Cesare alla Polare. Dal nome del primo imperatore romano derivano letteralmente sia l’idea austro-asburgica di Kaiser che quella russo-ortodossa di Czar. L’Elefante Bianco ha funto inoltre da contrassegno dei Bodhisattva, personaggî salvifici affiancati ai Buddha e svolgenti compiti analoghi a quelli avatarici.
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d’animali terrestri ed acquatici. Ricordiamo a scanso d’equivoci che la cosmologia hindu prevede eventi del genere ogni 6.480 anni circa, cioè alla fine degli Yuga (Eoni), allorché i Sette Pianeti (Saptagraha) si riuniscono tutti nel segno zodiacale del Toro. Com’è avvenuto, di recente, nel Duemila. In Giappone si ha una versione del mito ricalcante quella indiana, forse giunta per via buddhista; ma pure nel contesto shintoista, vedi Ko-ji-ki e Nihon-gi, troviamo la coppia demiurgica Izanagi-Izanami intenta a rimestare le acque primeve affinché caglino e formino la terra. Trattasi anche qui della tipica leggenda illustrante una creazione secondaria. Presso i Toltechi, come palesa il Codice Cortes, appare lo stesso scenario mitico; però il ruolo della Tartaruga e della Serpe è direzionalmente invertito (l’una in alto e l’altra in basso), a dimostrazione che il vero senso originario si era irrimediabilmente perduto (8). Capo e coda della serpe, a mo’ di corda, sono tenuti per l’occasione da un nume a testa d’elefante (Chac, dio della pioggia) da un lato e da due divinità oscure dall’altro. Alla corda è connesso un simbolo solare (Kin). Nei miti degli Zuni, tribú pellerossa del New Mexico di stirpe pueblo, è una dea madre a frullare l’oceano colla sua mano. Colla differenza che la montagna, non diversamente dalla pianta-del latte (in Messico identificata all’agave), è in tal caso un’assunzione di forma da parte di lei e persino l’oceano-di latte è una sostanza vitale da costei emanata colla propria saliva sputando in un vaso. Altri codici maya presentano d’altronde varianti mitiche che associano la suddetta pianta alla tartaruga ed al dragone. Nell’Avesta (Yt- xix. 46) un’analoga battaglia coinvolge da un lato Aka Manah, Ashma Dæva, Azhi Dahāka (accoliti di Aṅgra Mainyu) e dall’altro Vohu Manah, Asha Vahishta ed Atār (accoliti di SpƏnta Mainyu) per il possesso della XvarƏnah (‘Gloria’)(9). In quanto all’Akvān-e-dīv firdusiano, occorre precisare che la trasformazione demonica avvenuta a carico di cotale figura dalla testa elefantina ricalca l’attitudine avestica a scambiar di ruolo dæva ed ahura. Spiega l’Albrile che siffatta fisionomia segue ad altre quali l’assunzione di testa d’onagro (l’iconografia lo rende del tutto teriomorfico), fatto che in base alla nostra interpretazione di cui sopra, si chiarisce esaurientemente. Oltretutto, Akvān viene decapitato da Rostam (10); e ciò richiama alla mente direttamente Gaṇeśa, il secondo figlio di Śiva. Sebbene in parallelo si sia diffusa nel continente indiano una mitologia concernente Airāvata (var.Airāvaṇa), con caratteri elefantini anziché mastodontici. Questa leggenda dell’Elefante Bianco ha finito per esser associata ad Indra (Pico Marzio), il re degli dèi, che in virtú di dio delle piogge è subentrato all’anziano dio delle acque Varuṇa (Urano). E dall’induismo è passata al buddhismo. Quivi il Bianco Elefante, privato del suo orizzonte mitico originario, è stato assunto ad emblema dei Cakravarti; figure di sovrani universali originariamente ispirate nelle steppe centro-asiatiche dalla visione notturna della St.Polare e di poi tramutatesi nei millennî a noi prossimi in modelli imperiali che hanno influenzato le corti d’Asia e d’Europa, dalla
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Persia alla Macedonia. Come insegna Shakespeare nel suo Julius Caesar, ove si paragona Cesare alla Polare. Dal nome del primo imperatore romano derivano letteralmente sia l’idea austro-asburgica di Kaiser che quella russo-ortodossa di Czar. L’Elefante Bianco ha funto inoltre da contrassegno dei Bodhisattva, personaggî salvifici affiancati ai Buddha e svolgenti compiti analoghi a quelli avatarici.
Gaṇeśa, il dio decapitato
Di norma è Skanda il primo figlio di Mahādeva e Gaṇeśa fa da secondo,
ma in certe icone familiari piú complete vien aggiunto Bhairava, che precede in linea ereditaria entrambi. Assieme le 5 divinità rappresentano i 5 Mahāyuga (‘Grandi Anni’, il doppio dei comuni Yuga), ciascun nume presiedendo ad uno
di essi. La serie ciclica è aperta da
Mahadeva e chiusa dalla consorte. Con in
mezzo i 3 figli a far da tramite fra l’inizio e la fine del Manvantara. Perciò Gaṇeśa, fungendo da
terzo figlio, di norma si richiama al IV Grande Anno; coincidente
cronologicamente col G.A. atlantideo, conclusosi nel 10.960 a.C. Quel che in termini vishnuiti va sotto la
denominazione di VII ed VIII Ciclo Avatarico rispettivamente dominati da Rāma e Kṛṣṇa). Orbene in tal veste Gaṇeśa si presenta ai
fedeli quale dio monodono ispiratore delle arti, letteratura compresa, e dei
commercî. Il Dumézil parlerebbe di “terza
funzione”, benché in tal caso si possa constatare d’esser al di fuori del
tipico ambito un po’ forzatamente definito indoeuropeo. L’assimilazione a Giano Bifronte da parte
della Getty (11) è tuttavia
pertinente, tanto piú che a volte pure il figlio di Śiva iconograficamente
assume doppio volto. Il Courtright (12) ha tuttavia mostrato l’indubbia
connessione del Signore degl’Inizî e Rimotore degli Ostacoli con altri
personaggî affini della mitologia indiana, vale a dire il demone Gajāsura/ Gajendra/ Gajānana
ed il succitato Airavata, i quali si rifanno apparentemente a tempi
maggiormente arcaici. In sintesi, è
possibile affermare che Gaṇeśa
nasce dall’El.Etere e che quindi raffigura anch’egli un nume primordiale. L’Elefante era una volta la cavalcatura di Iśvara, che
l’ha ceduta a Śiva; quest’ultimo
indossa testa e pelle di pachiderma avendo sconfitto Gajāsura in qualità di Gajāntaka, dopodiché dona una delle 2 zanne a Gaṇeśa
e l’altra gliela concede quale scettro.
Ecco perché il figlio del Gran Dio ha una zanna soltanto. Le 2 Zanne, sinceramente, ci paiono
un’allusione al microcosmo ed al macrocosmo, oltreché ai 2 Poli Celesti. La medesima sorte di Gajasura capita a
Gajendra o ad Airavata, che viene decapitato da Nandin (luogotenente shivaico talora in forma taurina) oppure da Viṣṇu, ed anche in questo frangente la testa è
offerta a Gaṇeśa. Piú direttamente è Iśvara
talvolta che riporta in
5
vita il dio decapitato offrendogli la testa del proprio elefante, cioè la propria (per l’identità originaria del nume col proprio veicolo, principio valido in tutta l’iconologia religiosa), e qua il cerchio si chiude. Letteralmente Gaṇeśa significa infatti ‘Signore dei Genî’, la cosa rimandandoci chiaramente all’epoca preistorica in cui tutti gli enti delle foreste o delle acque erano attribuiti ad un genio. Il capo dei genî aveva giurisdizione su ogni altro ed era dunque il signore di tutti. Ora il termine Īśa, donde la voce Gaṇeśa deriva (<Gaṇa-īśa) per contrazione vocalica, è a sua volta collegata ad Īś (Spirito od Essere Supremo); la base da cui proviene con aggiunta del suff. –vara (giardino, recinto) il nome Īśvara (‘Signore’), paragonabile all’Ys (‘Signore’) siberiano. Come si può allora non identificare Gaṇeśa ad Īśvara? Non solo, la funzione semiparadisiaca svolta da Airavata è pari a quella svolta da Gaṇeśa, dato che l’uno ha la testa dell’altro. Richiamandoci al parallelo nume romano, faremo notare che il primo compito di Giano, antecedentemente al riadattamento a terzo elemento del triregnum capitolino (in veste di Quirino), era la reggenza primeva. Proprio come per il vero Gaṇeśa, il quale non per nulla in ambito hindu – vedi Mahābhārata – è associato all’Auṁ, il sacro monosillabo richiamantesi in segreto all’attitudine contemplativa delle genti paradisiache. L’Aum, del resto, è ottenuto ancor oggi colla piú segreta e primordiale delle tecniche di meditazione indiane. Che non è bene rivelare a chiunque, perché, come dice il Veda, gli Dei amano il segreto. Sebbene, in realtà, essa sia citata nelle Upaniṣad.
5
vita il dio decapitato offrendogli la testa del proprio elefante, cioè la propria (per l’identità originaria del nume col proprio veicolo, principio valido in tutta l’iconologia religiosa), e qua il cerchio si chiude. Letteralmente Gaṇeśa significa infatti ‘Signore dei Genî’, la cosa rimandandoci chiaramente all’epoca preistorica in cui tutti gli enti delle foreste o delle acque erano attribuiti ad un genio. Il capo dei genî aveva giurisdizione su ogni altro ed era dunque il signore di tutti. Ora il termine Īśa, donde la voce Gaṇeśa deriva (<Gaṇa-īśa) per contrazione vocalica, è a sua volta collegata ad Īś (Spirito od Essere Supremo); la base da cui proviene con aggiunta del suff. –vara (giardino, recinto) il nome Īśvara (‘Signore’), paragonabile all’Ys (‘Signore’) siberiano. Come si può allora non identificare Gaṇeśa ad Īśvara? Non solo, la funzione semiparadisiaca svolta da Airavata è pari a quella svolta da Gaṇeśa, dato che l’uno ha la testa dell’altro. Richiamandoci al parallelo nume romano, faremo notare che il primo compito di Giano, antecedentemente al riadattamento a terzo elemento del triregnum capitolino (in veste di Quirino), era la reggenza primeva. Proprio come per il vero Gaṇeśa, il quale non per nulla in ambito hindu – vedi Mahābhārata – è associato all’Auṁ, il sacro monosillabo richiamantesi in segreto all’attitudine contemplativa delle genti paradisiache. L’Aum, del resto, è ottenuto ancor oggi colla piú segreta e primordiale delle tecniche di meditazione indiane. Che non è bene rivelare a chiunque, perché, come dice il Veda, gli Dei amano il segreto. Sebbene, in realtà, essa sia citata nelle Upaniṣad.
Giuseppe Acerbi
Note
(1) G. De Santillana& H. von Dechend, Il Mulino di Amleto- Adelphi, Milano 1983 (ed.or. Hamlet’s Mill. An Essay On Myth
and the Frame Of Time- Harvard U.P.,
Harvard 1969).
(2) G.Acerbi, I dieci Avatar e la mitologia induista- Hera (A.XI, N°122, 7-03-10, Binasco [Pv] 2010, pp. 42-5.
(3) Ibîd.
(4) E.Anati, Origini dell’arte e della concettualità- Jaca B., Milano 1989, passim.
(5) Il tema è stato qualche anno fa
oggetto di studî (E.Albrile, Trame
celesti. La malinconia del cosmo nei suoi inferni siderali- Laurentianum, N°51,
2-010, pp. 137-54).
6
(6) D.Mackenzie & C.Squire, Encyclopaedia of Myths and Legends in Art, Religion, Culture and Literature- Caxton P., Delhi 1992, Vol.VII, Cap. XI, pp. 190-2.
(7) Mack. & Sq., op.cit., Cap.III sgg.
(8) Op.cit., Cap.XI, passim.
(9)
Apud ‘ Wikipedia’, s.v.CHURNING OF THE OCEAN.
(10) Il passo è citato nell’Encyclopaedia Iranica, on line, dallo Šāh-nāma (ed.Mohl, Vol.3, p.270 ss).
(11) A.Getty, Gaṇeśa. A Monograph on
the Elephant-faced God- Munshiram M.,
N.Delhi 1971 (I ed. Clarendon P., Oxford 1936), Cap.II, p.14.
(12) P.B. Coutright (Gaṇeśa Lord of
Obstacles, Lord of Beginnings- Oxford
U.P., Oxford
1985, passim.
Fig.10
Fig.11
Fig.12
Fig.13
Fig.14
Fig.15
Fig.16
Fig.17
Fig.18
Fig.19
Fig.20
Fig.22
Fig.23
Fig.24
Fig.25
Fig.26
Fig.27
Fig.28
Fig.29
Fig.30
Fig.31
Fig.32
Fig.33
Fig.34
Fig.35
Fig.36
Indice delle Illustrazioni
1. Il Samudramathana
ad opera di Asura e Deva (bassorilievo,
dett., Mallikarjuna M., Pattadakal).
2.
L’Amritamathana e l’emergere dei ratna
(id., Virupâksha M, Belur).
3. Id., var. (disegno da una pittura n.c.).
4. Limiti della precessione polare
artica (cartina
del cielo boreale).
5. Limiti della precessione polare
antartica (cartina del cielo australe).
6. La Bestia apocalittica venuta
dal Mare, a 7 teste e 10 Corna, immagine di Chrónos-Aiôn (arazzo, dett., J. de Bruges,
Angers, Francia, XIV sec.).
7. Indra, il Re degli Dei,
su Airâvata a 4 zanne (?).
8. Rostam caccia
il dîv Akvân in
sembiante d’onagro (miniatura, M.Ali, Aga Khan Mus., XVI sec.).
9. Akvân in forma di
demone unicorne (.min.,
Shâh Nâmah, Mus.Britann., Londra, XV sec.).
10. Il Dragone Cornuto tolteco col dio Chac nella bocca (scultura amerinda, Santa Rita, Liverpool Mus., arte maya).
11. La Grande Tartaruga (id., Quirigua, id.).
12. Il nume dalla testa di elefante ed il
serpente-controllore delle acque (disegno, id.).
13. Evidenza della presenza di pachidermi sul
suolo americano (dis.
da scult. maya, Centro America )
14. L’elefante nano, scambiato per un tapiro (incisione in
legno, Nord America).
15. La versione tolteca del Frullamento Oceanico
(dis., Codex Cortés, C.America).
16. Mayauel, dea messicana
dell’agave (pianta del latte ovvero d’una bevanda fermentata dall’odore di
burro rancido) con testa elefantina, mentre allatta il Pesce (id., Codex Borgia, Messico).
17. Il Kûrmâvatâra e Vâsuki col Merumandara (?).
18. Indra su Elefante Bianco (altorilievo, grotta n°33, Ellorâ, VIII sec. d.C.).
19. Indra su Airavata Tricipite ( bassoril., Mus.Naz. Guimet d’Arti Asiatiche, Parigi).
20. Idem
( id., dett., Banteai Srei, Tahilandia).
21. Airavata ed
Indra rendono omaggio al Buddha (bassoril., st. Gandhâra, grotta dell’Indraçilâ, Mathurâ).
22. Il sogno di Mâyâdevî del Buddha
discesole in grembo come Elefante Bianco (medaglione litico, stûpa
di Bhârhut, I sec. a.C., Mus.Indiano,
Calcutta).
23. L’Elefante Bianco cavalcatura del Cakravarti
(pittura, dett., India Occid.).
24. Il Bodhisattva in processione come elefante bianco su un vimâna sorretto dai Deva (bassoril., Nâgârjunikonda).
25. Bodhisattva
in forma di mastodonte a 6 zanne (dis. da sc.,
Chaddanta Jâtaka, Nâgârjunikonda).
26. Tirthankara con 2 Elefanti Bianchi (pitt., Kalpasûtra
jaina, Mandu, Mus.Naz., N.Delhi).
27. Ganeça ad una sola zanna, coll’altra in mano (altoril., Vadaval, Guj., Dip. di Museologia, M.S.
Univ., Baroda, IX sec. d.C.).
28. Ganeça-Jayanti a 2 teste (ill., Asiatic Researches of Bengal, 1806).
29. Airavata a 3 teste (arte thai).
30. Ganeça come Koñcananeçvara, a 3 teste e con in mano un elefante
tricipite, in quanto Rimotore d’Ostacoli e Re degli Elefanti (dis., manoscr.siam., Libr. della Sc.Franc. del’E.O.,
Hanoï, Indocina).
31. Ganeça
come Mahâvighneçvara, cioè Gran Signore degi Ostacoli (Guardiano), su Kûrma (id).
32. La normale famiglia shivaita con i 2
figli (immagine
popolare contemporanea).
33.. Gajâsurasamhâramûrti ossia la danza
di Ҫiva-Gajântaka sullo
sconfitto demone Gajâsura, aliâs Gajamukha (pittura, XVIII sec.?).
34. Gajendramoksha ovvero la 'Liberazione del Re degli Elefanti' da parte di Vishnu (bassoril., st. Gupta, Daçâvatâra M, Deogarh, U.P., V sec. d.C.).
34. Ganeça come Ganapati, ovvero signore dei genî (fregio litico, Pangal Nâlgunda, India)
36. Ganeça
coll’Aum (forma esoterica)
Fonti
1. S.K.
Gupta, Elephant in Indian Art And Mytholog- Abhinav, N.Delhi 1983, tav.1.
2. Ibîd., tav.2.
3.
E.Moor, Hindu Pantheon- Asian Educ. Service, N.Delhi 1981 (ed.or. Londra 1810), .tav.49.
4.
G. de Santillana & H. von
Dechend, Il mulino di Amleto- Adelphi, Milano 1983 (ed.or. 1969).,
tav.10.
5. Ibîd., fig.11.
6. P.-M.
Auzas et al., L’Apocalypse d’Angers…-
Office du Livre, Friburgo 1985, p.119, ill. n.num.
7. On line.
8. Ibîd.
9. L.Binyon
et al., Persian Miniature Painting- Dover, N:York 1971 (ed.or. Londra 1933) .,
tav.XXXIX-B.46
10. D.A. Mackenzie-C.Squire, Encyclopaedia of Myth and Legend in
Art, Rel. Cult. And Lit.- Caxton P., N.Delhi 1992 (ed.or. ?), Vol..VII, a
fr. di p.48, supra.
11. Ibîd., infra.
12. Ib., a fr. di p.240, fig.5.
13. A fr. di p.32, fig.2.
14. Fig.6.
15. Ib. come alla 12, fig.6.
16. A fr. di p.180, fig.2.
17.
De Sant., tav.14
18.
Gu., tav.19.
19.
On line.
20.
Ibîd.
21.
Gu, tav.18.
22.
Ibîd., tav.25.
23.
Ib., tav.68.
24.
Tav.26.
25.
P.42, fig.19.
26.
Tav.67.
27. M.Chandra, Nidhiçringa… - P.W.M.B.,
Bombay, tav.33.
28.
A.Getty, Ganeça…- N.Delhi 1971
( ed.or. Oxford 1936), p.14, fig. 1.
29.
Ge.., op.cit., tav.39 a.
30.
On line.
31.
Ge., tav..39 b.
32. On line.
33.
Ibîd.
34.
Gu., tav.21.
35.
Ibîd.,tav.22 a.
36. Ge., p.17, fig.2.
Fig.1
Fig.2
Fig.3
Fig.4
Fig.5
Fig.6
Fig.7
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Fig.10
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Fig.31
Fig.32
Fig.33
Fig.34
Fig.35
Fig.36
Link (altro art. su GANESHA) :
Questo art. era stato pubblicato per ARCANA nel gennaio 2011, N°1, ma siccome è di difficilissima reperibilità (nemmeno il sottoscritto possiede e sa se i dati indicati siano corretti) l'abbiamo ripubblicato ivi riveduto e corretto. Colle foto originali, che in ogni caso non corrispondono a quelle della rivista, purtroppo scomparsa dall'edicola dopo pochi numeri per problemi editoriali.
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