le due figure piú tenebrose della mitologia greco-latina,
con Appendice sui Misteri dei Cabiri
Sul piano mitico Plutone fra i Latini era uno dei tre dèi fratelli del Triregno, insieme a Giove e Nettuno. I Greci analogamente avevano Zeus, Ade e Poseidone. Il fatto che i Latini abbiano usato piú spesso un’altra trimorfia (scr. trimūrti) al posto di quella testé indicata prova indirettamente quanto da noi abbiamo altrove sostenuto (1). Cioè che Marte era già un doppione di Plutone per gli antichi, indipendentemente dalla scoperta del decimo pianeta. La cd. “triade capitolina” – in realtà, come il triregnum sopraddetto, può esser assimilata ad una trimorfía di tipo indiano – è formata da Giove, Marte e Quirino (o Romolo, cui secondo alcuni s’identificherebbe) e corrisponde a grandi linee all’altra meno nota. Dato che il primo termine dei due ternarî, Giove, è il medesimo. Quest’ultimo, in quanto signore del Primo Regno, aveva a che fare col Sacerdozio e i sacerdoti costituivano anche a Roma la prima e piú importante classe dal punto di vista sociale. Il secondo termine della trimorfia, Marte, equivale perfettamente a Plutone; difatti, nell’ambito del Triregno, il Secondo Regno è assegnato al Patriziato. E che cosa caratterizzava i Padri se non il Fallo o i Testicoli? Da ciò deriva da un lato la venerazione pre-romana dei Penati dei Quattro mitici Antenati (Giano, Saturmo, Pico e Fauno), ossia la versione latina dei signori delle Quattro cicliche Età; e dall’altro l’ossequio ai Lari, protettori del focolare (2). Costoro non sono che in generale le anime dei deceduti, ormai passate nel Regno dell’Oltretomomba; dai Greci chiamato appunto Hadês (‘Invisibile’), non meno del dio presiedente ad esso. Ora, i testicoli rimandavano da un punto di vista immaginifico all’Uovo del Mondo, composto di due metà, l’una visibile e l’altra invisibile; esattamente come il fallo rappresentava, emblematicamente, il principio che li trascendeva.
Il terzo termine è in un caso Quirino e, nell’altro, Nettuno. Che
c’entra Quirino con Nettuno? Ebbene, c’entra, non fosse altro che per il
doppio riferimento sociale all’Artigianato. Onde comprendere l’equivalenza
supposta bisogna tener conto che il Dumézil (3), in un suo
noto saggio, ha dimostrato l’equipollenza di Quirino con Romolo. Avendo tale identificazione per punto di partenza, si
noterà che il Triregno poggia simbolicamente sopra una
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base elementale (Aria, Fuoco, Acqua). Vale a dire sugli abbinamenti Zeus/ Folgore, Plutone/ Scettro e Nettuno/ Tridente. La Folgore Tricuspidata rimandava al Cielo, quindi all’Elemento Aria; lo Scettro Tripartito, che era una verga in origine di legno, al Fuoco. Il Tridente, usato crudelmente nella pesca ai tonni, all’Acqua. I Tre Elementi sovraterreni hanno a che fare nel mondo di lingua indoeuropea – si sa – con quelle tre caste che l’India definisce gli Dvīja, letteralmente i ‘Rinati’ (iniziaticamente, giacché solamente a loro erano riservati certi riti). Nella trimorfia capitolina Marte, essendo il dio della guerra, si può ben dire che abbia a che fare colla classe aristocratico-militare (4). E Quirino, un alter-ego di Mercurio, con la classe mercantile; appaiata socialmente a quella artigianale, di cui non era che una sottocasta. Tutti gli eroi eponimi come Enea od eziologici quale Romolo appartengono a loro volta alla medesima classe produttrice, visto che il grande filosofo Platone lo testimoniava nei proprî Dialoghi asserendo l’affinità dei termine ‘Eroi’ con l‘Eros quale principio di fecondità. Perciò ecco dimostrata l’affinità concettuale, indiretta, fra il Signore del Mare (Nettuno) e quello della Produttività (Romolo-Quirino). Plutarco, a suo modo, lo conferma dissertando in un suo ‘Dialogo’ sull’etimo del termine ‘Tritone’ e spiegandone il significato alla stessa maniera.
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base elementale (Aria, Fuoco, Acqua). Vale a dire sugli abbinamenti Zeus/ Folgore, Plutone/ Scettro e Nettuno/ Tridente. La Folgore Tricuspidata rimandava al Cielo, quindi all’Elemento Aria; lo Scettro Tripartito, che era una verga in origine di legno, al Fuoco. Il Tridente, usato crudelmente nella pesca ai tonni, all’Acqua. I Tre Elementi sovraterreni hanno a che fare nel mondo di lingua indoeuropea – si sa – con quelle tre caste che l’India definisce gli Dvīja, letteralmente i ‘Rinati’ (iniziaticamente, giacché solamente a loro erano riservati certi riti). Nella trimorfia capitolina Marte, essendo il dio della guerra, si può ben dire che abbia a che fare colla classe aristocratico-militare (4). E Quirino, un alter-ego di Mercurio, con la classe mercantile; appaiata socialmente a quella artigianale, di cui non era che una sottocasta. Tutti gli eroi eponimi come Enea od eziologici quale Romolo appartengono a loro volta alla medesima classe produttrice, visto che il grande filosofo Platone lo testimoniava nei proprî Dialoghi asserendo l’affinità dei termine ‘Eroi’ con l‘Eros quale principio di fecondità. Perciò ecco dimostrata l’affinità concettuale, indiretta, fra il Signore del Mare (Nettuno) e quello della Produttività (Romolo-Quirino). Plutarco, a suo modo, lo conferma dissertando in un suo ‘Dialogo’ sull’etimo del termine ‘Tritone’ e spiegandone il significato alla stessa maniera.
Ovviamente non va confuso il simbolismo marzial-plutonico con quello
quirino-nettuniano. Se abbiamo riferito il primo al principio fecondatore
lo abbiamo fatto in senso astrologico, mentre l’altro riferimento è di tipo
sociale. Abbiamo altresí spiegato in nota (5) come in realtà
le coppie omologhe greco-latine Zeus/ Giove, Plutone/ Marte e Nettuno/ Quirino
facessero parte di un'unica categoria castale, per quanto differenziabile in
tre sottocategorie correlate ciascuna ad una delle prime tre caste (le due piú
elevate, sacerdoti e patrizî, nonché quella in considerazione); vale a dire, la
casta borghese dei produttori. Nell’iconologia figurativa le valenze
corrispondono realmente a quelle illustrate nella letteratura mitologica.
Ad un esame iconografico troviamo infatti che Plutone ha davvero in mano
lo Scettro (6), fattore che volendo può esser considerato in
quanto emblema assiale una trasposizione etica del Fallo: i Testicoli non ci
sembra siano mai stati impiegati direttamente come simbolo nella tradizione
greco-romana, a differenza che in India od in Egitto. Lo Scettro, o
meglio la Verga, era stato in
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principio il contrassegno per eccellenza dell’ambivalente nume dal duplice volto che i Latini denominavano Iānus e gl’indiani Yama; la voce sanscrita, non per niente, significa ‘Gemello’. E abbiamo altresí provato (7) un rapporto d’identità fra questi due numi ed il greco Urano, ciò comportando che il mitico ‘Fallo’ di Urano donde è nata Afrodite Urania abbia un’accezione assiale oltreché astrale. A ben vedere potremmo interpretare la cosa intendendo l’Asse Celeste, i.e. l’Axis Mundi, quale contrassegno della prima divinità ossequiata nella storia umana. Dal primum nūmen per antonomasia, quel Giano-Urano venerato dai sacerdoti romani ed ellenici a livello sovramondano (Ovidio permettendo), la Verga o Penate è passata prima a designare l’aristocratico Saturno-Crono in senso mondano-temporale e poi il borghese Zeus-Pico (8) in senso agrario-pluviale (9). La Verga/ Scettro di Pico/Plutone è allora nient’altro che un’applicazione del medesimo principio in ambito produttivo-fecondativo.
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principio il contrassegno per eccellenza dell’ambivalente nume dal duplice volto che i Latini denominavano Iānus e gl’indiani Yama; la voce sanscrita, non per niente, significa ‘Gemello’. E abbiamo altresí provato (7) un rapporto d’identità fra questi due numi ed il greco Urano, ciò comportando che il mitico ‘Fallo’ di Urano donde è nata Afrodite Urania abbia un’accezione assiale oltreché astrale. A ben vedere potremmo interpretare la cosa intendendo l’Asse Celeste, i.e. l’Axis Mundi, quale contrassegno della prima divinità ossequiata nella storia umana. Dal primum nūmen per antonomasia, quel Giano-Urano venerato dai sacerdoti romani ed ellenici a livello sovramondano (Ovidio permettendo), la Verga o Penate è passata prima a designare l’aristocratico Saturno-Crono in senso mondano-temporale e poi il borghese Zeus-Pico (8) in senso agrario-pluviale (9). La Verga/ Scettro di Pico/Plutone è allora nient’altro che un’applicazione del medesimo principio in ambito produttivo-fecondativo.
Ecco perché etimologicamente il nome del dio latino Plūtôn (gr.Πλούτων),
figlio di Crono e di Rhea, si rifà sia a quello del dio ellenico Ploûtos;
dio dell’abbondanza (gr. ploûtos = ‘pienezza, ricchezza’), figlio
di Demetra e di Giasio (uno dei Dieci Dattili), che si può valutare un
alter-ego di Apollo. Avendo in una tappa successiva l’antico dio pagano –
per la verità un misto fra Plutone e Saturno – prestato i suoi connotati mitico-figurativi
ad un demonio tenebroso anticristiano d’origine semito-camitica (Satana)
connesso col male e la morte, l’abbondanza ha perso i propri legami simbolici
con gli stati interiori elevati ai quali essa in un tempo anteriore alludeva ed
è rimasta unicamente un fattore plutocratico. Quale peraltro si riscontra
ancor oggi laddove la cultura euro-cristiana è giunta facendo proseliti, ad es.
in America Latina. In certe grotte si allestisce difatti l’icona d’un
demone munito di sigaro e con corna caprine (Plutone è signore del Segno dello
Scorpione, anticamente del Segno della Capra), procacciatore di ricchezze per coloro che nella loro vita ambiscono esclusivamente al Potere.
Sposa di Plutone e Regina degl’Inferi è Proserpina, la greca Persefone
(lett. ‘Apportatrice di distruzione’), figlia di Demetra e di Zeus, raffigurata
in una vecchia leggenda ingiustamente rigettata dai mitografi odierni non meno
del sovrano dell’Averno coi serpenti attorcigliati ai piedi; similmente ai
germi della vegetazione, tutti
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attorcigliati nell’atto di spuntar dalla terra.
Il Graves (10) giustamente interpreta il mito del ratto di Proserpina da
parte di Plutone, o meglio di Persefone da parte di Ade, come un mito
solar-annuale e lunar-mensile. Da parte nostra rammentiamo un parallelo
sumerico nella nota discesa di Ištar nell’Arallū (Inferi),
in cui la dea è costretta a cedere le sue ‘Sette Vesti’ di fronte a ciascuna
delle ‘Sette Porte’. Tuttavia lo scrittore si contraddice, ponendo in
relazione alla Luna Piena (nel ruolo di Ninfa o Madre) tal volta Demetra,
tal’altra Persefone. Anche se è possibile che i nomi siano stati
interscambiabili, man mano presso le varie tradizioni e i disparati autori, è
meglio porre Demetra dall’aspetto di giumenta quale immagine della Luna Piena.
La Vergine Core fungerà allora da incarnazione della Luna Crescente e la
Vegliarda Ecàte (11) della Luna Calante. La prima delle due ha
pure il nome di Io, se viene adombrata in forma vaccina; ma se, in alternativa,
viene effigiata in forma caprina chiamasi in questo caso Amaltea. La
seconda di esse presenta invece la forma suina, anziché di lupa o cagna, quando
ha nome Adrastea; quest’ultima è equiparabile altresí a Nemesi, travestita
nella leggenda della nascita di Elena prima da pesce e poi da oca selvatica (12).
Ecàte medesima assume talvolta le vesti di Core e di Demetra ed è perciò
designata come triforme, al pari della dea latina Diana Trivia.
Persefone, la Regina dell’Oltretomba, è identificabile d’altra parte in quanto
giovinetta lunare a Semele, Selene o Helénē (Elena).
Nei Misteri Eleusini la figura che la delinea Persefone si richiama
iniziaticamente ai segreti dell’Inverno, inteso quale emblema stagionale
dell’Inferno. I ‘Sette Chicchi di Melagrana’ che ella mangia e per i
quali lo sposo-rapitore si rifiuterà di riportarla da Demetra, secondo la
richiesta della madre presso Zeus, costituiscono chiaramente un parallelo ellenico dei ‘Sette Veli’ (13)
che il portinaio dell’Arallū toglie di
dosso ad Ištar prima che costei si presenti nuda dinanzi alla
sorella Ereš-ki-gal
nel mito assiro-babilonese (14). Non per niente l’iconografia ci
mostra Ištar
talora avvolta da 7 involucri, talora nuda. Il riferimento del simbolo
non può che essere al Settenario cosmico-planetario, attraverso cui l’iniziato
deve passare al fine di salire… al Settimo Cielo ed ottenere cosí il
perfezionamento dell’Essere. I tre quarti annuali del periodo trascorso
da Persefone con la madre Demetra, signora dell’agricoltura ed in particolare
delle
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sementi parimenti alla dea latina Cerere, alludono probabilmente ai Tre Quarti del Verbo Divino immanifesto conosciuti soltanto dai mistagoghi, l’altro quarto stagionale passato all’Averno aveva a che fare viceversa coll’unico quarto manifestato che il mýst‘ē si trovava a dover superare nella propria difficile discesa attraverso le Tenebre.
In alcune isole egee (Samotracia, Lemno, Imbro, Thaso) e in Beozia
esistevano distintamente anche dei veri e proprî Misteri di Persefone, allestiti
dai Cabirî (dall’attributo fenicio Kabirīm = ‘Grandi’), i sacerdoti del
culto a lei dedicato. Quale fosse esattamente la funzione della dea in
questo caso non ci è bene dato di sapere. Unicamente è noto che Persefone
era ivi definita la ‘Santa’ (evidente allusione alla sapienza esoterica, cioè
alla Gnosi). Il Kerényi a proposito dei Misteri di Samotracia – affini
comunque a quelli Eleusini, tanto che il Pettazzoni ed il Turchi li trattano
nelle loro opere sui misteri antichi in appendice ad essi (15) – rileva
che il velamento di Persefone era essenziale alla Hierogamía con Ade (16).
A parere del Turchi, d’altronde, niente è risaputo sull’organizzazioni di tali
misteri. Unicamente sappiamo che oltre a Demetra e a Persefone fra
i ‘Quattro Cabirî’ andavano annoverati anche Ade, assimilato a Dioniso, ed
Ermète; poiché il termine ‘Cabirî’ è propriamente una designazione delle
quattro divinità alla base del culto, donde l’applicazione della stessa ai
gerofanti. Secondo Erodoto (Hist.- ii. 51) quel tipo di misteri fu
fondato dai Pelasgi, fatto che ne comprova la relativa vetustà. Ci
tramanda inoltre Euripide che in quei misteri si svolgeva un dramma
liturgico-sacrale apparentabile a quello nei Misteri di Eleusi della ricerca
della Figlia (la ‘Sapienza Santa’) da parte della Madre (l’Anima). Solamente che in questo caso era Armonia a ricercare lo
sposo Cadmo, come faceva del resto Iside con Osiride nei cd.‘Misteri di Iside’.
Il Cabiro-padre in tale contesto era rappresentato da Ade/ Dioniso, elevato
alla funzione adamica secondo il cristiano Ippolito. Adamo non fu il
Primo Morto e pertanto concepibile quale Signore dei Morti, alla maniera di
Minosse fra i cretesi e Yama fra gl’indiani? Il Cabiro-figlio lo
individuava per contro Ermète, raffigurato come un dio itifallico che ad Imbro
a giudizio del Pettazzoni era conosciuto per Imbramos, non diverso
dall’eroe attico Orthánnēs. Cosa
può aver rappresentato nei Misteri Cabirici il ‘Fanciullo’ (gr.País)
ovvero, oseremmo dire, il “Figlio della Vedova’ se non l’iniziato nella sua
ricerca della purezza
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umana originaria? Demetra in effetti in quanto madre di Pluto, il quale in un modo o nell’altro identificavasi a Plutone e cioè ad Ade/ Dioniso, aveva visto morire il marito Giasio per mano del fratello Dardano. Quivi ella sta perciò per Iside nei Misteri Osirici. Chi fosse Dardano, antenato di Enea e da dove provenisse il Palladio che il dattilo recò a Troia e da là fu trasferito a Roma, è una diversa storia, da scoprire in altro scritto (17).
Gli studî accademici (18)
si sono limitati a descrivere gli aspetti esteriori di codesti Misteri, ma non
hanno mai cercato di comprenderli nella loro dimensione trascendente.
Orbene, è evidente che la funzione di Ermete ivi è la stessa di Edipo, ossia
individua l'uomo decaduto dell'Età del Ferro (19). Edipo infatti
risulta capace di risolvere l'indovinello della Sfinge (20), e non meno
del 'Gatto cogli Stivali' della fiaba di C.Perrault, avendo ucciso il proprio
'Padre' costituisce l'incarnazione del 'Figlio della Vedova' (21).
Egualmente Ermete incarna il gerofante, il quale nel suo percorso oltremondano –
ossia nei 'Misteri Maggiori' – deve essere in grado d'identificarsi alfine alla
Gran Madre (Demetra). Sotto tale aspetto i Misteri Cabirici paiono
rassomigliare ai Misteri Eleusini, ma in questo caso si tratta d'una via mista
che fa uso sia di simboli femminei che di simboli mascolini. Un po' come
capita anche in India, ove emblemi shaktici si mescolano talora con simboli
shivaiti (22). A cosa corrisponderanno invece le altre due figure,
Persefone e Ade? Semplice! Se Ippolito sosteneva che Ade aveva un ruolo adamico, in relazione ovviamente ai Misteri Minori', è
chiaro che Persefone per forza di cose doveva avere un ruolo evaico di
'Tentatrice' in opposizione a quello di 'Consolatrice' da parte della Madre
Demetra. Non c'è scampo. Quindi proiettando su un Cerchio, emblema
della Ruota del Mondo, le quattro suddette figure porremo: Ermete ovvero il
Fanciullo-neofita (23), nell'atto di discendere agl'Inferi,
all'Equinozio d'Autunno (0° della Bilancia); Persefone, la Regina degl'Inferi
(perciò 'Prima Morta'), al Solstizio Invernale (0° del Capricorno);
Ade-Dioniso, il Re degl'Inferi (in quanto 'Primo Morto') all'Equinozio di Primavera
(0° dell'Ariete); ed infine Demetra, la Gran Madre di entrambi (cioè tanto di
Pluto-Plutone/ Ade-Dioniso quanto di Persefone) al Solsizio Estivo (0° del
Cancro)(24). E il gioco è fatto.
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Note
(1) Cfr. H.Mriga, (pseud.), Nel Regno di Plutone- Nel Regno Perduto della… (www.kataweb.it).
(2) Mentre i Penati sono connessi visibilmente all’idea di ‘pene’ in senso etnico-epocale (in una parola, diremmo, shamanico), i Lari appaiono semplicemente le anime coeve a quelle dei mitici antenati, le quali non hanno ricevuto un nome distintivo ma sono state egualmente ossequiate. Perciò, ne deduciamo, esse non sono altro che l’aspetto post-mortem dei famosi genî della stirpe; numi tutelari considerati dal dott.Albrile (com.or.) giustamente, a nostro parere, in rapporto ai genitali. Anche in India il dio supremo Prajāpati, che amoreggia indelicatamente con la figlioletta (immagine esoterica della Sophía ) ed è per tale primordiale incesto punito dalla ‘Collera degli Dei’ trascesa nella persona divina di Rudra, vien colpito ai testicoli e cosí costretto a versar il proprio seme sul mondo (cioè a generare…). Quantunque una parte del seme rimanga forzatamente nell’Assoluto. Prajāpati significa appunto ‘signore delle creature’, da prajā (lat. pro-gēnies = ‘progenie’) e pati (gr. potis = ‘signore’). E d’altronde Rudra (lett. il ‘Rosso’), talvolta identificato ad Agni (il ‘Fuoco’), altro non è che un alter-ego di Prajāpati medesimo e come tale identificasi al Sole. Anche i Latini concepivano infatti le anime, prima e dopo la morte, come raggî solari in senso sia spirituale che astrale. Il personaggio mitico di Prajāpati ha particolare importanza se si pensa che, mutatis mutandis, viene reputato dalla tradizione greca (sotto nome di Giapeto) e da quella ebraica (nei panni di Japhet),
il capostipite
dell’etnia di lingua indoeuropea; esattamente come Elleno e Latino lo sono, piú
limitatamente, nei confronti vicendevoli di quella ellenica o latina.
(3) Il Dumézil – pur essendo stato uno dei miti della nostra giovinezza – secondo quanto è successo ad altri nostri colleghi di studî – va comunque stigmatizzato avendo respinto come “primitivismo” la dottrina ciclica romana che poneva Giano quale dio aureo (cfr. in proposito G.Acerbi, La Fenomenologia Evoliana- Simmetria on line, N°36, Ott. 2014, p.7, n.17), creando di fatto una pseudo-mitologia indoeuropea, per smentire la quale sarebbe bastato rivisitare i Sāturnālia di Macrobio. Anche se ovviamente nelle comparazioni fra le varie tradizioni e nei dettagli, nonostante la sua chiara pregiudiziale etno-giuridica di stampo positivista, spesso come nel caso dell’omologia fra Romolo e Quirino ci ha assolutamente azzeccato. Sulla vera posizione di Giano all’interno della tradizione latina cfr. anche R. del Ponte, Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica- Ecig, Genova 1985. Il Professore, sfruttando forse
(3) Il Dumézil – pur essendo stato uno dei miti della nostra giovinezza – secondo quanto è successo ad altri nostri colleghi di studî – va comunque stigmatizzato avendo respinto come “primitivismo” la dottrina ciclica romana che poneva Giano quale dio aureo (cfr. in proposito G.Acerbi, La Fenomenologia Evoliana- Simmetria on line, N°36, Ott. 2014, p.7, n.17), creando di fatto una pseudo-mitologia indoeuropea, per smentire la quale sarebbe bastato rivisitare i Sāturnālia di Macrobio. Anche se ovviamente nelle comparazioni fra le varie tradizioni e nei dettagli, nonostante la sua chiara pregiudiziale etno-giuridica di stampo positivista, spesso come nel caso dell’omologia fra Romolo e Quirino ci ha assolutamente azzeccato. Sulla vera posizione di Giano all’interno della tradizione latina cfr. anche R. del Ponte, Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica- Ecig, Genova 1985. Il Professore, sfruttando forse
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alcuni nostri suggerimenti epistolari (allora, ahinoi, non eravamo ancora laureati) oltreché logicamente per sua competenza personale d’insegnante e studioso di Storia della Letteratura Latina, parlava nel testo (ibîd., Cap.II sgg) semplicemente di dio <iniziatore> e come tale lo paragonava sulla scorta di Guénon a Gaṇeśa; osservazione inoppugnabile, condivisa peraltro da figure di tipo accademico quali Alice Getty, benché quest’ultima avesse il torto di limitare il paragone al Gaṇeśa ed al Giano artigianali. Se possiamo permetterci una critica all’illustre studioso, tuttavia, si potrebbe argomentare che il prof.Del Ponte in quell’analisi rimaneva in sospeso fra la normale attribuzione a Giano di signore dell’età aurea – non a caso il prof.Grossato ne aveva fatto in suo vecchio art. un corrispettivo di Brahmā – e la corrispondente attribuzione di stampo <ermetico> a Saturno (ib., p.57); sicché la figura di Giano veniva accreditata da un lato d’inaugurare la tradizione primordiale (p.55) e dall’altro di precedere (metafisicamente, s’intende) la condizione ciclica e quindi l’Età dell’Oro stessa (p.57). Mentre Saturno pigliava il posto sia di inauguratore dell’aurea aetas (p.57 e Cap.III passim), che di nume incivilitore per eccellenza; cosa che si contraddice in sé, a meno di considerare valida la doppia valenza aurea ed argentea, come del resto è accaduto anche con Giano. Fatto che è avvenuto un po’ dappertutto, tanto che i due personaggi sono stati se non proprio identificati, almeno posti in diretta correlazione. Si pensi allo Yima-Kšaeta iranico (in India equivale a due divinità distinte, Yama e Savitar), primo dio e primo uomo nel contempo, od allo Yahweh-Elohîm della Genesi, ove il secondo termine non è altro che l’El-Kronos di Filone. Quantunque, ovviamente, per provenienza e significato, Crono e Saturno differiscano alquanto. Visto che l’uno arriva dai Mari del Sud, similmente al Kala indonesiano ed al Kāla indiano, d’origine sicuramente pre-indoeuropea; e l’altro dal Sudamerica pre-atlantideo, non meno del Seth ebraico, del Sath fenicio, del Set egizio, del Savitar indiano e del Surtr norrenico. In termini avatarici i due cicli indicati appartengono, rispettivamente, al V ed al VII Periodo Avatarico; ossia, all’Ecumene del Sud-est il primo ed all’Ecumene del Sud-ovest il secondo. La confusione fra i due cicli e le due ecumeni è avvenuta a causa del fatto che, secondo quanto testimoniano le tradizioni ebraiche apocrife (ma vi è traccia pure nella Bibbia di esse), dei Cainiti appartenenti al V Ciclo Avatarico si sono spinti ad un certo punto del loro sviluppo sino alle propaggini meridionali del continente americano. Ovviamente, a quel tempo dovette esistere un quadro geografico diverso da quello attuale. Costoro, dei quali non si trova traccia attraverso la ricostruzione antropica degli spostamenti etnici nella cultura accademica, si sarebbero amalgamati con grande difficoltà ai Sethiti; piuttosto
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diversi da
loro per culto, attività lavorativa e conformazione fisica, essendo i primi (i
pigmei cainiti) dediti ad un’orticoltura primitiva ricavata dal bastone da
scavo nonché a culti orgiastici ad essa ispirati e i secondi invece si
sarebbero dedicati a culti solari differenti su base pastorale. Da
codesto connubio eterogeneo ne è probabilmente derivata sul piano sociale,
oltreché quella decadenza dei costumi sconfinata in seguito nel titanismo
degenere che sogliamo definire <satanismo> ed aborrita dalla tradizione
ebraica, una forma d’orticoltura avanzata ricavata dal bastone trapiantatoio;
che, ereditata dall’Atlantide vera e propria (l’VIII Ciclo Avatarico, insomma,
quantunque altri – ad es. la dottrina sibillina latina, d’origine sumerica per
via ellenica – lo conoscesse sotto altro nome) e trasmessa ai superstiti
diluviali secondo la leggenda ellenica, ha creato i presupposti nella nuova
situazione economico-sociale determinatasi in area mediterranea all’inizio del
Mesolitico per lo sviluppo umano che è giunto sino alla condizione odierna.
Per tali ragioni non possiamo esser d’accordo col Del Ponte nel respingere
l’etimologia del nome Sāturnus da sātor
(‘seminatore’), etimo che viceversa sottoscriviamo; proprio perché il nume si
riferisce non solo al Sole (scr.Savitar), bensí
pure al pianeta Saturno (scr.Śāni), il quale al
pari della Luna e del Sole governa la vegetazione. Che la filologia
classica avesse ragione, checché ne pensassero il Brelich et al., è
dimostrato indirettamente dal fatto nel contempo che Śāni figuri nella
mitologia indiana quale figlio di Savitar –
identificato al Saviturnus
latino in lontani tempi dal Kerbaker - e che tal nome sia un epiteto di Sūrya (lat.Sōl, gr.Hêlios).
Riguardo la <Prora della Nave> attribuita mumismaticamente ancora a
Saturno (p.71), dovremmo rifarci di nuovo al mito diluviale. Ritenendo al
modo biblico gli Japheti portatori della tradizione sethito-noaica, per estensione
del termine al ciclo precedente ovvero considerando l’intero IV Grande Anno
potremmo definirla <atlantidea>, come del resto soleva fare Guénon.
Si può addirittura immaginare che codesta attribuzione risalga piú addietro nel
tempo e costituisca un lascito di emigrazioni antichissime da nord a sud,
avvenute per mezzo di primitive ma efficaci imbarcazioni, da parte di genti
sub-artiche; che genericamente definiremmo Adamiti o Sethiti anteriori
(rispetto ai Sethiti ibridatisi coi Cainiti in terre sub-antartiche americane),
praticanti forme di pesca e di caccia ai grossi cetacei affini a quelle sino a
nom molto tempo fa dei Pellerossa della Costa Nord-occidentale della California.
Se cosí fosse, si potrebbe anche andar più oltre e far risalire il simbolo
direttamente all’<Arca di Giano>, che il Professore in un suo altro
scritto ci pare si ostinasse una volta a negare. Eppure essa compare,
benché in forma recondita, sotto forma di <Arca di Numa>
rinvenuta nel II sec. a.C. nei pressi del Gianicolo accanto a dei
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libri sacri;
ce l’insegna incoerentemente lo stesso Del Ponte (Id., La religione dei
Romani. La religione e il sacro in Roma antica- Rusconi, Milano 1992,
Cap.III, p.96 ss),
identificando giustamente Nūma a Manu. Ma,
dato che Manu
in India è un alter-ego umanamente di Yama (per certi
versi il Giano indiano, il cui nome significa ‘gemello’, seppur vi sia anche un
Janhu) e
divinamente di Brahmā,
se ne deve dedurre che Numa e Giano siano un unico personaggio dalla doppia
natura, umana e divina. Il Primo Nume ed il Primo Uomo s’identificavano
infatti nella dottrina non-duale primeva tanto del Lazio quanto dell’India, la
metafisica di Giano corrispondendo a quella di Brahmā (checché
ne dica il prof.Introvigne, che l’ha posta assurdamente nell’ambito del
Satanismo nostrano); però nell’Età dell’Argento Yama è stato
demonizzato, similmente allo Yima iranico
(divenuto Ahriman)
e all’Adamo biblico (divenuto Lucifero). Tale è il <Peccato di Yima> secondo
l’Avesta
zoroastriana, equivalente al ‘Peccato Originale’ della Genesi, dove Yahweh lascia il
posto al Demonio; giacché avviene una rottura dell’Unità fra Uomini e Dei,
colla conseguente caduta verso la dualità tra principio creativo e creatura.
In altre parole, si passa dalla Visione (scr.Vidyā) unificante
alla Gnosi (scr.Jñana) separativa. Nell’Età del Bronzo
gli Indo-arî (vedi Mahābhārata)
hanno cambiato i simboli, postulando quale dio aureo Kṛṣṇa (assimilato a Nārāyaṇa) od il gemello Bala-rāma. Kṛṣṇa equivale ad Ercole, come già sapevano gli antichi;
mentre Rama corrisponde a Romolo, che i Romani concepivano non per niente in
veste di re-àugure (il che è come dire Rex-sacerdos) e
primo fra i ‘Sette Re’. Gli Ebrei conoscevano tali personaggî sotto i
nomi di Noè e Melchisedek. Al posto di Visnu-Nārāyaṇa si trova in certi passi un’elevazione a dio aureo di Indra, non
dissimile da quella del Pico Marzio romano; un’analoga
inversione è successa presso gli Iran-arî, con Gayomart –
assimilabile a Mithra
– od un riciclato Yima,
da confrontare con lo Iānus-Quirīnus romano. Per questo la
controparte femminile del dio Giano, Venīlia (un nome di Venere, a giudicare
dall’etimo, quale incarnazione della Sapienza Aurea) passa da Giano a Pico, o
se vogliamo dal Giano aureo a quello bronzeo; per finire infine, a detta di
Virgilio, a fungere da consorte a Fauno.
(4) Seppure, a maggior approfondimento, occorra aggiungere che il Triregno non rappresenta veramente le tre originarie caste; poiché all’autorità di queste presiedevano un tempo in ordine decrescente Giano, Saturno e Giove. E per i Greci parallelamente Urano, Crono e Zeus. Si noti che Pico, a cui abbiamo sostituito Giove nella sequenza dei Penati, ad esser precisi è un’ipostasi di Marte; non per niente è chiamato Pīcus Mārtius, avendo quale corrispettivo l’Indra hindu, che del pari ha talora forma aviaria. Il motivo della nostra sostituzione è dovuto al fatto che i Romani erano soliti appaiare Giove a Marte,
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per ragioni strettamente astrologiche (di a e w, si potrebbe dire); giacché lo Zodiaco Solare si concludeva nel 30° dei Pesci, ma coincideva in realtà col 1° nell’Ariete e perciò entrambi gli dèi ricoprivano il medesimo ruolo di signori zodiacali. Piú o meno quel che è avvenuto, in parallelo, in India con Dyaus Pitar (alfine messo in sordina) e Indra. Possiamo intuire in definitiva che i Tre Regni divini fungessero in ogni caso da adattamento, in senso borghese-produttivo, delle tre caste o classi sociali che dir si voglia. Una sorta di proiezione nell’Età del Bronzo – quella mitica, si badi bene, non l’omonima archeologica – delle due Età precedenti, cosa che evidentemente al Dumézil è sfuggita del tutto, nonostante i suoi acuti presentimenti…
(5) Cfr. n.prec.
(6) La voce mīl-es (‘milite’), ritenuta d’etimo incerto dal Diz.Calonghi di Latino-Italiano, vien fatta risalire dal Devoto alla base *mil-o = ‘gruppo’ (nel senso di colui che cammina in gruppo); ma, di questo passo, ogni stuolo di persone dovrebbe essere ritenuto una milizia. No, siamo dell’idea che il vocabolo vada correlato al lat.Mārs, in quanto signore della vita (fecondità) e della morte (guerra). Basterebbe capire che il Mitra-Mithra indo-iranico non è che Marte in una forma maggiormente ampia ed arcaica e che il significato primario del nome del dio indoeuropeo in cui tutte e tre le forme nominali dovrebbero riconoscersi per derivazione era quello di ‘colui che unisce’ (scr. mil = ‘unire, riunire, collegare’, il cui freq.mīl ha il valore di ‘essere riunito, esser collegato’). Stesso etimo ha il vr.ingl. to meet (‘unire’). L’unione si esplica in varie forme, quella erotica principalmente, donde Marte/ Pico Marzio si presenta quale dio della fecondità in veste di uccello solare; e poi le altre, dall’unione come patto alla milizia vera e propria in quanto riunione di militi.
(7) G.Acerbi, Il Druidismo ed il ‘Calice ripieno’: annotazioni ulteriori sulla mitologia e l’iconografia di Bran-Brahma e Urano-Varuna- Alle pendici del Monte Meru (30-01-15), pp. 16-7, n.7.
(8) Esisteva anche un Pico Feronio, che però equivaleva a Crono.
(9) Pure l’agricoltura rientrava secondo la concezione degli antichi nel novero dei mestieri artigianali, essendo reputata una vera e propria arte.
(10) R.Graves, I miti greci- Longanesi, Milano 1979 (ed.or. Greek Myths- Penguin B., Londra-Harmondsworth 1955), passim.
(11) Il dott. Albrile, a nostro parere correttamente, usa riportare codest’appellativo ellenico al noto concetto indiano di Śakti (‘Potenza’). Altri fanno derivare il sostantivo fenmminile da hekatón (‘cento’ ), scr. śatam, lat. centum; ma forse non si tratta di due diverse etimologie, perché il numero in questione può esser un indicatore generico di potenza, come si usa altrimenti
12
col mille. Vedi il s.f. hecatómbe, formato dall’aggettivo numerale di cui sopra + il s.m. boûs, riferentesi ai cento capi di bestiame un tempo utilizzati per i sacrifici. Altri ancora rimandano il termine all’a.m. hécatos (‘che colpisce infallibilmente’), forse con allusione alla terza delle Moire.
(12) Grav., op.cit., § 62.a, p.184.
(13) Cfr. con la simbologia equivalente del ‘Velo’ di Isis egizia o della Māyā hindu.
(14) Per l’interpretazione di tale mitologema cfr. A. di Nola, ASSIRO-BABILONESI, § 6c, p.672/ col.b (apud AA.VV., Enciclopedia delle Religioni- Vallecchi, Firenze 1970, Vol.1). L’autore vede nella spogliazione progressiva delle vesti da parte della dea, certamente in correlazione colla privazione dell’involucro vegetale da parte del seme durante la sua gestazione nel terreno invernale, la progressiva spogliazione dell’anima da tutti gli accidenti ed i fardelli umani nel suo desiderio di perfezionamento. Nel poemetto Nêrgal ed Ereshkigal, raccolto da G.Furlani in ‘Poemetti mitologici babilonesi ed assiri’- Sansoni, Firenze 1954, pp. 22-5) Nergal prima di arrivare agl’Inferi deve passare per 14 Porte, anziché 7.
(15) Cfr. N.Turchi, Le religioni dei misteri nel mondo antico-Fr. Melita, Genova 1987, App. al Cap.V, p.85 ss. e R.Pettazzoni, I misteri. Saggio di una teoria storico-religiosa- Zanichelli, Bologna 1923, Cap.II, § 3, p.71 ss.
(16) K.Kerényi, Miti e misteri- Boringhieri, Torino 1979, pp. 143-82.
(17) G.Acerbi, L’Uomo e il Pesce, Cap.IV, pross.
(18) Sul concetto di Accademia, dalla sua fondazione nel 387 a.C. ad opera del guerriero Academo che donò allo scopo un terreno fuori del perimetro urbano di Atene trasformato in giardino per le dissertazioni filosofiche da parte di Platone e dei discepoli fino alla Nuova Accademia di Firenze ed alle proprie diramazioni moderne e contemporanee, cfr. Wikipedia, L'Enciclopedia libera, s.v.ACCADEMIA.
(19) G.Acerbi, Edipo e l'enigma della Sfinge tebana- Heliodromos (aut. '98-Inv. '99), Catania 1999, p.10.
(20) Ac., art.cit., pp. 10-1.
(21) Art.cit., p.11.
(22) Cfr. G.Acerbi, Mrigeshvara. Ricognizioni su un'eccezionale icona del tempio di Pâçupatinâtha in Nepâl- Alle pendici del Monte Meru (blog, 10-05-14), p.11, n.15.
(23) Non a caso la I 'Lama' dei Tarocchi marsigliesi presenta Ermete in veste di gerofante, con 4 emblemi, equivalenti alle 'Armi' del Gigante Orione; dato che tale asterismo, come ha dimostrato a suo tempo Tilak in The Orion (passim),
13
veniva considerato nei tempi antichi la sede della Luce Celeste.
(24) Qui abbiamo indicato il simbolimo astrologico tropicale, ma avremmo potuto sostituirlo con quello siderale, in relazione ad un dato millennio.
(4) Seppure, a maggior approfondimento, occorra aggiungere che il Triregno non rappresenta veramente le tre originarie caste; poiché all’autorità di queste presiedevano un tempo in ordine decrescente Giano, Saturno e Giove. E per i Greci parallelamente Urano, Crono e Zeus. Si noti che Pico, a cui abbiamo sostituito Giove nella sequenza dei Penati, ad esser precisi è un’ipostasi di Marte; non per niente è chiamato Pīcus Mārtius, avendo quale corrispettivo l’Indra hindu, che del pari ha talora forma aviaria. Il motivo della nostra sostituzione è dovuto al fatto che i Romani erano soliti appaiare Giove a Marte,
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per ragioni strettamente astrologiche (di a e w, si potrebbe dire); giacché lo Zodiaco Solare si concludeva nel 30° dei Pesci, ma coincideva in realtà col 1° nell’Ariete e perciò entrambi gli dèi ricoprivano il medesimo ruolo di signori zodiacali. Piú o meno quel che è avvenuto, in parallelo, in India con Dyaus Pitar (alfine messo in sordina) e Indra. Possiamo intuire in definitiva che i Tre Regni divini fungessero in ogni caso da adattamento, in senso borghese-produttivo, delle tre caste o classi sociali che dir si voglia. Una sorta di proiezione nell’Età del Bronzo – quella mitica, si badi bene, non l’omonima archeologica – delle due Età precedenti, cosa che evidentemente al Dumézil è sfuggita del tutto, nonostante i suoi acuti presentimenti…
(5) Cfr. n.prec.
(6) La voce mīl-es (‘milite’), ritenuta d’etimo incerto dal Diz.Calonghi di Latino-Italiano, vien fatta risalire dal Devoto alla base *mil-o = ‘gruppo’ (nel senso di colui che cammina in gruppo); ma, di questo passo, ogni stuolo di persone dovrebbe essere ritenuto una milizia. No, siamo dell’idea che il vocabolo vada correlato al lat.Mārs, in quanto signore della vita (fecondità) e della morte (guerra). Basterebbe capire che il Mitra-Mithra indo-iranico non è che Marte in una forma maggiormente ampia ed arcaica e che il significato primario del nome del dio indoeuropeo in cui tutte e tre le forme nominali dovrebbero riconoscersi per derivazione era quello di ‘colui che unisce’ (scr. mil = ‘unire, riunire, collegare’, il cui freq.mīl ha il valore di ‘essere riunito, esser collegato’). Stesso etimo ha il vr.ingl. to meet (‘unire’). L’unione si esplica in varie forme, quella erotica principalmente, donde Marte/ Pico Marzio si presenta quale dio della fecondità in veste di uccello solare; e poi le altre, dall’unione come patto alla milizia vera e propria in quanto riunione di militi.
(7) G.Acerbi, Il Druidismo ed il ‘Calice ripieno’: annotazioni ulteriori sulla mitologia e l’iconografia di Bran-Brahma e Urano-Varuna- Alle pendici del Monte Meru (30-01-15), pp. 16-7, n.7.
(8) Esisteva anche un Pico Feronio, che però equivaleva a Crono.
(9) Pure l’agricoltura rientrava secondo la concezione degli antichi nel novero dei mestieri artigianali, essendo reputata una vera e propria arte.
(10) R.Graves, I miti greci- Longanesi, Milano 1979 (ed.or. Greek Myths- Penguin B., Londra-Harmondsworth 1955), passim.
(11) Il dott. Albrile, a nostro parere correttamente, usa riportare codest’appellativo ellenico al noto concetto indiano di Śakti (‘Potenza’). Altri fanno derivare il sostantivo fenmminile da hekatón (‘cento’ ), scr. śatam, lat. centum; ma forse non si tratta di due diverse etimologie, perché il numero in questione può esser un indicatore generico di potenza, come si usa altrimenti
12
col mille. Vedi il s.f. hecatómbe, formato dall’aggettivo numerale di cui sopra + il s.m. boûs, riferentesi ai cento capi di bestiame un tempo utilizzati per i sacrifici. Altri ancora rimandano il termine all’a.m. hécatos (‘che colpisce infallibilmente’), forse con allusione alla terza delle Moire.
(12) Grav., op.cit., § 62.a, p.184.
(13) Cfr. con la simbologia equivalente del ‘Velo’ di Isis egizia o della Māyā hindu.
(14) Per l’interpretazione di tale mitologema cfr. A. di Nola, ASSIRO-BABILONESI, § 6c, p.672/ col.b (apud AA.VV., Enciclopedia delle Religioni- Vallecchi, Firenze 1970, Vol.1). L’autore vede nella spogliazione progressiva delle vesti da parte della dea, certamente in correlazione colla privazione dell’involucro vegetale da parte del seme durante la sua gestazione nel terreno invernale, la progressiva spogliazione dell’anima da tutti gli accidenti ed i fardelli umani nel suo desiderio di perfezionamento. Nel poemetto Nêrgal ed Ereshkigal, raccolto da G.Furlani in ‘Poemetti mitologici babilonesi ed assiri’- Sansoni, Firenze 1954, pp. 22-5) Nergal prima di arrivare agl’Inferi deve passare per 14 Porte, anziché 7.
(15) Cfr. N.Turchi, Le religioni dei misteri nel mondo antico-Fr. Melita, Genova 1987, App. al Cap.V, p.85 ss. e R.Pettazzoni, I misteri. Saggio di una teoria storico-religiosa- Zanichelli, Bologna 1923, Cap.II, § 3, p.71 ss.
(16) K.Kerényi, Miti e misteri- Boringhieri, Torino 1979, pp. 143-82.
(17) G.Acerbi, L’Uomo e il Pesce, Cap.IV, pross.
(18) Sul concetto di Accademia, dalla sua fondazione nel 387 a.C. ad opera del guerriero Academo che donò allo scopo un terreno fuori del perimetro urbano di Atene trasformato in giardino per le dissertazioni filosofiche da parte di Platone e dei discepoli fino alla Nuova Accademia di Firenze ed alle proprie diramazioni moderne e contemporanee, cfr. Wikipedia, L'Enciclopedia libera, s.v.ACCADEMIA.
(19) G.Acerbi, Edipo e l'enigma della Sfinge tebana- Heliodromos (aut. '98-Inv. '99), Catania 1999, p.10.
(20) Ac., art.cit., pp. 10-1.
(21) Art.cit., p.11.
(22) Cfr. G.Acerbi, Mrigeshvara. Ricognizioni su un'eccezionale icona del tempio di Pâçupatinâtha in Nepâl- Alle pendici del Monte Meru (blog, 10-05-14), p.11, n.15.
(23) Non a caso la I 'Lama' dei Tarocchi marsigliesi presenta Ermete in veste di gerofante, con 4 emblemi, equivalenti alle 'Armi' del Gigante Orione; dato che tale asterismo, come ha dimostrato a suo tempo Tilak in The Orion (passim),
13
veniva considerato nei tempi antichi la sede della Luce Celeste.
(24) Qui abbiamo indicato il simbolimo astrologico tropicale, ma avremmo potuto sostituirlo con quello siderale, in relazione ad un dato millennio.
Illustrazioni
1. Plutone rapisce Proserpina (R.-A. Houasse, Salone di Venere, Grandi Appartamenti del Castello di Versailles, Francia, c.1678).
2. Pinax (tavoletta votiva depositata in un santuario) di Ade e Persefone (Tempio di Persefone, Locri E., Magna Grecia, costa ionica dell'attuale Calabria).
3. Ade col Forcone Bidentato (disegno, M.A. Dwight & T.Lewis, 1876).
Fonti
1. Wikimedia Commons, s.v.Salon de Vénus- PLUTON ENLEVANT PROSERPINE.
2. Ibidem, s.v.LOCRI PINAX OF PERSEPHONE AND HADES.
3. Ibid., s.v.GRECIAN AND ROMAN MYTHOLOGY (1876).
Fig,1
Fig,2
Fig.3