b) Il periodo futurista
e dadaista in pittura e in letteratura (1916-22)
Attenendoci strettamente
all’autobiografia letteraria (12),
dovremo dapprima fare un cenno agli esordi del N. in chiave pittorico-poetica. Questi tuttavia non chiarisce bene in essa le
basi della sua cultura artistica e letteraria, onde è stato necessario
rivolgerci altrove al fine di delineare compiutamente il quadro generale delle
influenze che i movimenti pittorici e letterari dell’Ottocento hanno determinato e le
reazioni conseguenti alle stesse prodottesi nei primi due ventenni del Novecento.
Cosí come nella pittura futurista italiana
di Buccioni, del Balla e di E. (13) si dissolve in chiave dinamica (14) quel mondo lunare fatto di candida
semplicità e di terrena consapevolezza evocato dalla pittura verista e divisionista
(15) di Fine Ottocento, esaltante la
vita contadina e paesana che vanno scomparendo dinanzi alle gravissime
conseguenze in campo economico-sociale dell’industrializzazione e
dell’urbanizzazione forzate (16), nondimeno
col Dadaismo si disintegrano senza rimedio le allegorie poetiche ed i proclami
storici del Tardo Romanticismo; votato non piú alla esaltazione nazionalistica
ed eroico-borghese come il Primo Romanticismo, né al realismo storico-sociale
di tipo balzachiano o flaubertiano come il Secondo Romanticismo, bensí alle
familiari e provinciali immagini di carducciana o pascoliana memoria (17).
Nel 1910, quando E. aveva solo 12
anni, fu sottoscritto da 5 artisti (Giacomo Balla, Carlo Carrà, Umbero
Buccioni, Gino Severini e Luigi Russolo) – aventi quasi tutti (almeno i primi 4,
che ne sappiamo) radici nel divisionismo di Fine Ottocento – il ‘Manifesto
tecnico della pittura futurista’. Il
futurismo fu comunque un movimento fondato da F.T. Marinetti in chiave
letteraria nel 1909 in
Italia, ripreso nello stesso anno anche in Francia (ma solo nel 1913 G.Apollinaire propose
un manifesto analogo, L’antitradition
futuriste) ed in Russia, ove nel periodo 1911-4 sulla scia della pittrice
N.S. Gon
arova, del regista
M.F. Larianov e del pittore K.S. Malevi
influenzò anche il poeta V.V.
Majakovskij. E., in un articolo inedito
inviato alla rivista ‘La folgore futurista’ e pubblicato postumo (18) distingueva due forme di
futurismo: il primo (di tipo boccioniano) si era limitato, caoticamente, a
deformazioni spaziali dell’oggetto; il secondo (di tipo balliano, cui l’a.
stesso s’è appoggiato), più consapevole delle innovazioni estetiche, tendeva a
forme maggiormente tecniche ed ordinate. In generale comunque esso propugnò la libera
espressione degli stati d’animo, sul piano letterario e su quello artistico,
senza freni inibitorT di qualsivoglia
genere; insomma, in una direzione apparentemente opposta a quella romantica,
sebbene a ben guardare non fosse che l’espressione estrema d’un romanticismo a
rovescio. Sul piano sociale fu una
reazione entusiastica d’impostazione neo-borghese, proponente a differenza
delle due scuole che l’avevano preceduto nella seconda metà dell’Ottocento – il
verismo ed il divisionismo (caratterizzati letterariamente l’uno dalla visione
drammatica d’impronta aristocratica dei cd. ‘Vinti’ da parte del Verga e
l’altro artisticamente dal divisionismo di tipo segantiniano, ispirato ai nuovi
studi in campo ottico ma
poggiante su una visione della natura di stampo idillico-popolare) – un’entusiastica
accettazione anziché un velato rifiuto delle nuove tecniche di produzione
economica. Quantunque vi fossero
differenze fra il futurismo nostrano e quello russo, che condussero gli
aderenti a posizioni politiche antitetiche (evidenziate dal bellicismo nel
primo caso e dall’antibellicismo nel secondo), i presupposti dei due paralleli
movimenti culturali rimasero in fondo gli stessi: la celebrazione dell’<uomo
nuovo> e di un <nuovo ordine> basato su una visione antipassatista del
futuro. Quest’ultima in realtà non è che
la trasposizione in termini contemporanei e filo-tecnologici dell’utopismo
liberal-socialista, di matrice massonico-settecentesca, sintetizzato nelle “magnifiche
sorti e progressive” d’una celebre poesia leopardiana (19). Sul piano pittorico,
però, il futurismo fu una continuazione del cubismo di P.Picasso e G.Braque; come
testimonia, difatti, il nome alternativo di ‘Cubo-futurismo’ assegnato al
Raggismo russo. Similmente al suddetto
movimento franco-ispanico, il Futurismo aveva messo da parte la forma
figurativa; ma, anziché dedicarsi ad un soggettiva scomposizione delle figure
secondo un punto di vista anti-prospettico, preferiva svincolarsi da ogni
verosimiglianza visuale e raffigurare soggettivamente forme novelle secondo il
principio del ‘dinamismo plastico’. Ad
esso faranno vicendevolmente seguito l’astrattismo di V.Kandiskij (20), in cui la forma si dissolverà
totalmente (seppur piú correttamente questa scuola la si dovrebbe porre in
anticipo rispetto al Futurismo, facendola derivare dall’Espressionismo russo-tedesco)
e la pittura metafisica di G.De Chirico; dove in incantate apparizioni le
forme, ormai private delle loro naturali policromie, riacquisteranno solidità ancorché
sul piano unicamente geometrico.
In una recente tesi di laurea,
semplice nella scrittura ma ben fatta, Claudia Tagliaferri ha considerato certi
aspetti poco noti dell’E. futurista e dadaista (21). Nonostante appaia
chiaro a prima vista che l’immaginabile giovane età della candidata l’ha
portata inevitabilmente ad una facile esaltazione dell’autorevole personaggio,
con qualche ingenuità di troppo, non si può far a meno d’affrontare l’argomento
senza menzionarne i risultati, di sicuro notevoli. La Tagliaferri, con il necessario piglio
accademico, analizza dapprima (22)
gli sviluppi del Movimento Dada; nato attraverso la fondazione a Zurigo nel febbraio
1916 del ‘Cabaret Voltaire’, ad opera di T.Tzara, H.Boll et al., ma sviluppatosi poi con temi diversificati in Germania, in
Italia, in Francia e negli Stati Uniti.
Senza contare i suoi influssi sul neo-dadaismo del Dopoguerra. Nel giugno di quell’anno il Boll pubblicò Cabaret Voltaire, un opuscolo omonimo a
tiratura limitata cui collaborarono collettivamente artisti e letterati di varia
nazionalità e di scuole avanguardistiche differenti. Le serate del Cabaret Voltaire, intanto,
trascorrevano fra atteggiamenti dissacratorT ed assimilazioni di linguaggi artistici
diversificati; sorta di prefigurazione dei metodi spettacolari delle
avanguardie post-belliche, se non addirittura del linguaggio multimediale
odierno. Persino tecniche modernissime
come quelle del fotomontaggio e della performance
hanno avuto colà, parrebbe, il loro battesimo inaugurale (23). Piú libertino che
libertario, il Dadaismo – come dimostra la Tagliaferri – non è assimilabile né
all’Anarchismo né al Nichilismo, rispetto ai quali deteneva una maggior carica
ironica e dissacratoria verso i supposti falsi valori del passato. Non è singolare che il di poi tradizionalista
E. abbia di qui preso le mosse per la sua “rivolta contro il mondo
moderno”. Ciò lo hanno fatto anche altri
prima e dopo di lui (non solo nelle arti plastiche od in quelle sonore, ma
anche nella arti visive), che si son posti in un primo momento il compito da
avanguardisti di portare alla massima esasperazione i mezzi tecnici a
disposizione nel mutato mondo industriale, forgiato dalle arti meccaniche. Salvo poi ricredersi e recuperare la
sacralità insita nei veri valori del passato, riproposti in termini aggiornati
e non piú ricoperti di quella patina polverosa che li allontanava dalla
contemporaneità.
Nuovi periodici in stile dadaista (Dada, 291, Cannibale, Bleu), contenenti inusuali progetti in
campo artistico e letterario, fecero seguito fra il 1917 ed il ’22 alle ormai desuete
riviste di stampo impressionista.
All’ultima citata collaborò anche il N., assieme ad altri dadaisti
italiani e a Tzara medesimo. Di contro
all’ottocentesca art pour l’art,
l’arte dada si proponeva lei stessa quale anti-arte senza mezzi termini. L’idea di superamento dell’arte, in senso
filosofico e platonico, che comparirà in E. nella seconda fase del suo periodo
giovanile, ha probabilmente in questo rifiuto artistico le sue radici
culturali. Il metodo dadaista era
anti-estetico, offensivo, sfrenato, privo di contenuti; accusava in modo
insensato tanto l’arte avanguardistica quanto quella pre-avanguardistica,
contro cui aveva incoerentemente l’atteggiamento del cuculo che immesso di
nascosto in un nido altrui scaccia i piccoli della nidiata dei legittimi
proprietari, di essere del
tutto funzionali ai valori al sistema borghese.
Il proposito intimo consisteva infatti nella volontà irrazionale di
azzerare l’arte del passato per ricostruirne una nuova. Per questo i dadaisti adottavano forme e
materiali inconsueti, accostati casualmente a quelli tradizionali per ottenere
effetti immediati. La Tagliaferri
individua nel ready-made (lett. ‘ecco
pronto’, o meglio ‘già fatto’), l’oggetto d’uso comune estratto dal
contesto abituale e presentato al pubblico dall’artista senza un proprio
intervento manuale, il punto di partenza del Movimento Dadaista. A tal proposito cita l’ormai famosa Fontana
(in realtà un orinatorio ribaltato) di M.Duchamp, del 1917 (24), di cui altri ha fatto impudicamente e beffardamente copia. E spiega, giustamente, che la concezione dada
dell’<arte totale> partiva dal fatto che non era piú l’artista in quanto
artigiano a modellare plasticamente l’oggetto artistico, bensì il poeta in
quanto ideatore e ‘creatore’ nel senso greco originario (dal vr.poiéo = ‘fare, creare;
inventare, poetare’) a proporsi quale “strumento di conoscenza e trasformazione
del mondo”. Si deve ricordare che utensili
e suppellettili di tal tipo, ripresi in chiave neo-dadaista nella seconda metà
dello scorso secolo, hanno fatto il bello ed il cattivo tempo nelle varie
mostre della Biennale di Venezia, tanto da essere stati oggetti d’ilarità e
satira cinematografica in un noto ed esilarante episodio filmico di Sordi alla
Fine degli Anni Settanta (25). Per questa via al limite dell’assurdo si è
finiti alla trasformazione d’ogni oggetto quotidiano in oggetto d’arte ad opera
di A.Wharol, od alle fialette di sangue d’artista e alle scatolette
d’escrementi di P.Manzoni, come tanti altri colleghi guardacaso precocemente
scomparso. Però, al fondo di
quest’atteggiamento apparentemente irrazionale vi è qualcosa di molto profondo,
che lo storico delle religioni M.Eliade definiva “nostalgia delle origini” (26).
L’interpretazione corretta
dell’arte dada comunque, a giudizio della Tagliaferri, sarebbe d’intenderla
come tentativo irrazionale di colmare lo
scarto fra arte e vita quotidiana; scarto che – aggiungiamo noi – non esisteva
in tempi medievali, quando l’arte non distinguevasi dall’artigianato. Col Rinascimento le cose cambiarono ed al
tempo delle signorie il culto dell’artista da parte dei ricchi mecenati,
sostituitisi nella committenza al clero od alla vecchia aristocrazia, ha
portato di passo in passo giú per una china sino alla situazione dell’Ottocento;
in cui è prevalsa la concezione romantica dell’arte per l’arte, disdegnata
appunto dal Dadaismo. Se il caso e
l’improvvisazione l’hanno fatta da padroni nell’arte dada, sia in campo
letterario che pittorico, lo dobbiamo al fatto che essa era concepita quale
manifestazione della vita pratica. In
quei frangenti nasceva quell’idea dell’interazione spettacolare col pubblico,
spinto a partecipare comunque all’evento e magari a scandalizzarsi, che a lungo
ha solcato i palcoscenici delle nazioni europee durante il Novecento. L’importante per gli artisti, o non-artisti
che dir si voglia, era ottenere un contatto attivo da parte dei partecipanti
alle mostre od agli spettacoli in un contesto per così dire multimediale.
Sottolinea con acume la Tagliaferri (27) che l’esperienza
della Grande Guerra, “la disgregazione delle istituzioni di tradizione
ottocentesca e le grandi trasformazioni sociali e politiche produssero un forte
distacco dal passato”; tale mutamento non avvenne soltanto in campo storico e
sociale, ma anche in quello culturale e artistico. “Il movimento dadaista si basava proprio su
un generalizzato atteggiamento di sfiducia e disgusto nei confronti della civilizzazione,
minata dal persistere di una guerra che pareva non dovesse finire mai.” La neutralità della Svizzera fece in modo che
si creasse a Zurigo un’oasi di pace. In Italia invece, c’insegna la Tagliaferri (28), il Dadaismo si scontrò col
Futurismo, di cui in prima istanza fu considerato un’imitazione. Evola gl’impresse una forte connotazione
filosofica, come all’estero non aveva avuto.
Tanto che Tzara, già ammiratore di Marinetti, essendo stato impressionato
dalla vivacità degli sviluppi dadaisti nel nostro Paese strinse rapporti cogli
esponenti italiani del movimento; sì da trasformarlo, praticamente, in un
scuola avanguardistica svizzero-italica.
Anche se i futuristi quali Prampolini, orgogliosamente, asserivano di
essere stati degli anticipatori attraverso uomini come Marinetti e Boccioni di
quel che Tzara spacciava per avanguardia.
Perciò, dal ’18 in poi, il poeta rumeno reagì contro questa
pretesa, tagliando fuori i futuristi dalle prospettive del dadaismo, che
ricevette dunque nuovi apporti a partire dagli Anni ’20. A differenza del Futurismo, il Dadaismo
italiano tralasciò l’ideologia progressistico-rivoluzionaria e con questa il
modernismo a tutto spiano, cercando viceversa di rivalorizzare l’artigianato di
contro all’industrialismo della cultura di massa. Sul piano del metodo mirò ad incoraggiare
la libertà espressiva, privilegiando il senso dell’umorismo, messo da parte dai
futuristi (29). Vi furono naturalmente anche delle defezioni,
col reintegro di certuni (Fiozzi e Cantarelli, esponenti del dadaismo
mantovano) in posizioni di stampo futurista.
In campo futurista la parte del leone
l’avevano fatta Umberto Boccioni e Giacomo Balla. La sfumata composizione del Boccioni intitolata
La città che sale, del 1910, è un
richiamo non meno dell’altrettanto stupendo Forme
e rumori di motocicletta, del 1913 (30),
al principio ispirativo delle forme dinamiche.
La prima composizione, con quel rosso acceso, sprizza scintille di laboriosità e di voglia di edificare; la
seconda risulta assai efficace nella cromaticità dell’abbinamento fra un verde
scuro e un rosa pallido, tanto da ricordare la lezione divisionista. Morto il Boccioni in guerra, attraverso il
Balla l’azione futurista approdò verso nuove spiagge, delle quali ivi non ci
occupiamo (31).
Nel
frattempo nacque una nuova scuola pittorica, prettamente dadaista, nel cui
ambito primeggiò appunto il grande E. (32). L’esperienza artistica cominciò per il N. a
17 anni, in piena guerra mondiale, un anno prima di quella poetica. Grazie a G.Papini era entrato in contatto
con Marinetti e con Balla, partecipando persino ad una mostra futurista; ma
presto si distaccò da tale ambiente, a lui non esattamente congeniale per molte
ragioni (33). Non ultima la presa di posizione a favore
della guerra, in funzione antigermanica.
Secondo un mercante d’arte che era stato un giorno in visita a Casa
Evola (34) le opere pittoriche del
pittore siciliano si dividerebbero in 2 categorie: una ispirata al cd. <idealismo
sensoriale>, 1915-9; l’altra all’<astrattismo mistico>, 1920-1 (35).
In quadri come Five o’clock tea,
(del 1917)(36), egli asserisce, la
tematica dinamistica balliana si fonderebbe con quella cabarettistica
severiniana. Mentre nella Fucina studio di rumori (del ’18)(37), fa notare, riaffiorerebbero –
crediamo da un punto di vista cromatico piú che compositivo – influenze del Blaue Reiter (38). Le opere di spunto
dadaista, essendo il mercante interessato secondo quanto spiegato in nota
specificatamente al futurismo, non gli apparivano al momento degne di
attenzione, pur accorgendosi istantaneamente che artisticamente E. aveva
raggiunto una posizione di primo piano tanto a livello italiano quanto europeo. Ma successivamente egli andò a trovare di
nuovo il pittore e ne convenne con costui che il <secondo futurismo>
accreditatogli in quel periodo dalla critica d’arte doveva interpretarsi semmai
come arte dada, visto che questi in parallelo aveva sviluppato un discorso
antifuturista pure sul piano letterario.
Durante il periodo dada, E. espose i proprT quadri in 2 mostre: alla Casa d’Arte
Bragaglia di Roma nel 1920 – anno di adesione formale al movimento (39), ma già si situava in quell’ottica
l’anno prima – presentò 3 sue opere in parallelo con G.Cantarelli, di seguito
tornato al futurismo; alla Galleria ‘Der Sturm’ di Berlino, nel ’21, ben 60 (49).
A tal periodo appartengono composizioni quali Paesaggio interiore ore 10,30 (1918-20)(41) e Astrazione (1920-1)(42).
Opere quali Paesaggio interiore
ore 17 (del 1918-20)(43) e Paesaggio dada n.1 (1920-1)(44) miscelerebbero, invece, intenti
dada a opzioni costruttiviste (45). In quest’ottica, l’atto di smettere di
dipingere da parte del N. buttando “alle ortiche sei anni di lavoro e di
ricerca pittorica” è stato giudicato “un estremo gesto dada”; poiché E. aveva
scritto in precedenza, in un numero d’una rivista dadaista mantovana (46), che aveva fatto i suoi quadri per
sola vanità individuale. Similmente
fecero De Chirico colla pittura metafisica 2 anni prima e Duchamp 4 anni dopo
col dadaismo, il silenzio od altri linguaggT espressivi avendo preso il posto dei
rispettivi periodi creativi ormai esauriti di tali artisti.
Vi è unicamente da aggiungere che, a
differenza dei due grandi storici dell’arte A.K. Coomaraswamy e H.Sedlmayr
(l’uno occupatosi d’arte asiatica e l’altro d’arte europea), E. non è mai giunto
neanche in età matura ad una teorizzazione realmente tradizionale dell’arte. Il suo tentativo in tal senso è stato monco,
in quanto pur abbandonando fattivamente il mondo artistico contemporaneo per i
motivi che si è ora detto, non ha mai rinnegato la sua partecipazione all’arte
futurista od a quella dadaista, né è giunto sul piano teorico ad una limpidezza
di giudizio quale si riscontrano nei due grandi studiosi testé menzionati. E, per contro, non ha neanche saputo
rivalutare opportunamente l’arte contemporanea sul piano dei legami spirituali
coll’arte orientale, tao-buddhistica (gli scorci naturali eletti ad immagine
ultraterrena) da un lato ed indo-buddhistica (le astrazioni della forma scelte
a significare qualcosa di veramente sovra-razionale) dall’altro. Compaiono negli scritti artistici evoliani,
esattamente come durante il successivo periodo filosofico, dei barlumi teorici sicuramente
interessanti; ma il linguaggio nel suo insieme è, spesso, verboso ed
inconcludente. Parla di superamento
della spiritualità comune, eppure i suoi suggerimenti in proposito paiono dei
rapimenti idealistici di genere teosofistico verso nessuna meta reale. Diversamente accadrà invece a partire dagli
Anni ’30, specialmente dopo l’incontro con Guénon.; almeno, sul piano della
rivalutazione dei miti e dei simboli in campo ermetico (47). L’Alchimia fatta d’indecifrabili
immagini lunari o di sovrapposizione alle forme astratte di emblemi come quelli
del Mercurio o dello Zolfo – rimandi rispettivi alla Psiche e allo Spirito – che
incontriamo in certi suoi quadri dada (48)
è per ora solamente di superficie, un’alchimia coloristica. Non basta per trasformare la cromaticità
dell’artista in arte dal significato spirituale. Tuttavia, la persistenza in tali composizioni
del periodo d’astrattismo mistico di altri simboli alchemici (ad es. dei Tre
Colori fondamentali dell’Opera)(49),
sui quali si è dilungata preziosamente la Tagliaferri (50), dimostra che vi è uno stretto legame fra l’E. pittore e l’E.
filosofo. È qui che fa apprendistato
senza dubbio lo studioso d’ermetismo, prima di cimentarsi a 33 anni (cifra
fatidica!), sulla soglia della maturità, in quello che a nostro giudizio permane
tuttora il miglior saggio del barone siciliano (51).
In un’altra rappresentazione cromatica
intitolata Composizione n.19 (52), un olio su cartone del 1918-20,
troviamo la lettera A quasi ad
evocazione del Fiat Lux primigenio (53).
Benché nell’ottica del barone, pensando a come si configurerà negli anni
immediatamente a seguire la sua filosofia, rappresentasse soprattutto la
centralità dell’Io (54). La Tagliaferri (55), da quella brava scrittrice in erba che si rivela essere di
già nella sua speciale tesi di laurea, spiega adeguatamente il passaggio
evoliano dalle forme psicologico-pittoriche a quelle idealistico-filosofiche
successive come un trascorrere inevitabile dall’arte al sapere senza soluzione
di continuità. Il problema di cui la
dottoressa non tien conto, tuttavia, è che si passa da un soggettivismo ad un
altro; con coerenza, è chiaro, ma l’interiorità palesata è soltanto psichismo (56) e la vera spiritualità rimane in
ogni caso lontana. Tant’è che, come
sottolinea il Giovannini, E. si stancherà anche del secondo futurismo. Ciononostante, è lecito sottolineare (57) che questi non s’abbassa mai nei
suoi quadri a delle rappresentazioni puramente descrittive o sensoriali alla
maniera d’altri futuristi, neanche quando tratta di fucine, scintille e rumori,
alludendo sempre invero agli sconvolgimenti interni della psiche. L’ennesimo punto a favore della Tagliaferri (58) è inoltre la constatazione in una
rappresentazione quale Five o’ clock tea
dell’influenza, soprattutto a livello cromatico, dello stile secessionista
viennese (59) e considerate le
amicizie austriache (60) del N. la
cosa si spiega perfettamente. Volendo
essere caustici a tutti i costi e rifacendoci a Sedlmayr, potremmo aggiungere
ad ogni modo che il <mondo in disordine> ritratto dall’arte contemporanea
del Primo Novecento se da una parte ha rispecchiato il caos prodotto da guerre
e rivoluzioni, dall’altra ne ha preparato ulteriore. Si potrebbe addirittura vedere negli
sconvolgimenti delle forme dell’arte cubiste, astrattiste, futuriste e dadaiste,
oltreché uno specchio di come l’uomo ha ridotto madre-natura nel paesaggio
europeo nello scorso secolo tramite l’industrializzazione massiccia e le guerre
tecnologiche, un vero e proprio programma sia pur inconsapevole di demolizione
d’ogni logica razionale.
L’irrazionalismo, al massimo livello, è il vero trionfatore del Novecento.
E. ha spiegato il Dadaismo come la maggior
avanguardia del XX sec. ed in effetti è giusto così. Neanche dopo si è andati molto oltre, tant’è
che dagli Anni ’60 in poi è stata ripresa una forma di neo-dadaismo. Quale sia stato il traguardo reale del
movimentismo novecentesco oggigiorno lo si capisce bene, aldilà della cura
maniacale con cui si preservano (non nel nostro paese, disgraziatamente…) gli
oggetti d’arte negli enti museali: la distruzione finale dell’arte, non in
vista d’un arte nuova come pretendevano ciascuno dei movimenti artistici con
fremito susseguitisi uno all’altro, bensR di una società in cui l’arte appare
solo un ricordo del passato. Se sia
questo il passo necessario – come personalmente crediamo – verso la nuova società
utopica sognata da Platone nella Respublica,
senza appunto l’arte in quanto non piú necessaria ad un’umanità ritornata per
incanto ciclico perfettamente naturale al modo di quella dell’Età Aurea, oppure
qualcos’altro d’inatteso, solamente il futuro divenuto presente potrà svelarcelo.
Per conto nostro abbiamo indi
esaminato per intero lo scritto dadaista per eccellenza dell’a., Raâga Blanda, ossia la prima opera letteraria
evoliana in assoluto (61). La scena s’apre a dire il vero con un
accostamento di tipo post-impressionista, un malinconico “giardino d’inverno”
(è il titolo della prima poesia) su cui si riversa il sole coi suoi pallidi
raggi mentre passeggia
un adolescente, ma il linguaggio impiegato privo della comune sintassi è
tipicamente dada. È tutto un gioco poetico
di ombre e di colori, di viottoli ed anelli contorti, portato all’eccesso senza
ritegno: in ciò consiste la nuova moda, lanciata prima dall’espressionismo e
poi portata ad esasperazione dal dadaismo.
Ancora espressionistiche – se non addirittura münchiane – sono le “larve
nere” (evidentemente gli addetti ad accendere i lampioni) di Vespro, la seconda bellissima poesia,
moventisi “per le strade dei sobborghi”; intanto che il cielo, “di un livore
cianotico”, viene “graffiato dalle rapide traiettorie fischianti delle rondini.” La terza composizione poetica, Mare al pomeriggio, tratteggerebbe
invece se non fosse per il linguaggio altrettanto iperbolico contorni
impressionistici. Trionfano musicalmente
“calma e silenzio”, mentre sulla spiaggia l’onda espelle “bave bianche”. Addirittura divisionista o neo-simbolista (62) appare Prato nel parco, la quarta magnifica poesia degli Schizzi (e cioè della prima breve
raccolta di versi contenuti nel poemetto), dichiaratamente – è menzionato in
conclusione “un dipinto giapponese fresco e tutto luce” – ispirata a paesaggi esotici
estremo-orientali (63). In contrasto ai bimbi festanti, che corrono
di gioia, si staglia sul fondo “una vecchia fontana beghina; la quale pare
essersi isolata, chioccolando “sommesse litanie gorgoglianti”. Il sottile e compiaciuto erotismo
adolescenziale con cui s’avviano al termine i versi privi di rima di questa
poesia (“il fascino chiaro sotto la vestina rossa di due gambette lunghe esili”
che turba la serenità del poeta) riecheggerà in altri momenti analoghi ma piú
maturi che traspariranno nella parte finale della composizione n.4 di Stimmungen (Stati d’animo): “Tu sei
vicina strana cosa viziosa/(64) tu
attendi distesa le mie mani che ti liberino delle vesti per offrire lunghe
carezze al tuo giovane corpo nudo”. Una
prefigurazione soft, quest’ultima, di
strani sviluppi futuri, a giudicare da Ballata
in rosso (vide infra) e da certi
esiti dello studio sulla sessualità condotto negli anni della maturità (65).
La quinta poesia, ‘Notte’, come
il resto della raccolta prosegue con quei tratti pseudo-naturalistici divenuti
rari piú avanti nella poetica evoliana, tipicamente futurista o dadaista. In una lugubre visione “una luna da tregenda”
è vista rotolare “veloce sulla collina nuda tra nubi tragiche” ed il vento,
sciabolante orizzontalmente, sibila “la sua ira galoppante.” Gli fa eco l’albero, scuotente “a scatti
convulsi da torturato la sua capigliatura”; diversamente dalla croce nera, che
rimane “immobile al sommo dell’erta.” E.Valento
(66) l’ha posta intuivamente in
relazione ad un’insolita rappresentazione pittorica ritrovata in una rigatteria
negli Anni ’80 e riportante la data del 1918.
Tale opera, un olio su tela attribuito successivamente al periodo
1916-8, è stata definita come altre del medesimo tenore ‘Tendenze di idealismo
sensoriale’; nell’opaca nebbia autunnale, tinteggiata di colori tenui – tanto
da sembrare dipinti ad acquerello – che variano dal bianco al rosa od al verde
marcio, s’intravedono a stento un albero spoglio e una nuvola stemperati in un
paesaggio slavato che non è del tutto forzato far rientrare nei modi dell’arte espressionista. Se è vero che il canone di questo stile fin
dapprincipio era quello di liberarsi da una visione esclusivamente fenomenica
della realtà esteriore, onde cercare l’essenza profonda della medesima. Era merito degli espressionisti infatti
“riattingere… ad una soggettività non alterata” (67), benché confusa buddhisticamente col proprio essere
originario; ossia colle “oscure radici del reale, là dove più non ha senso
l’intellettualistica distinzione fra soggetto ed oggetto”.
Ciò che accomuna quadri (68) e poesie dell’a. ci sembra sia
l’utilizzo ipertrofico del colore. Gli
astratti equini (69) ritratti da tale
poetica, appare chiaro, non sono piú né i corsieri lunisolari delle vecchie
mitologie (70) né le splendide bestie
ancorché desacralizzate trainanti le eleganti carrozze cittadine (71) o i poveri carri agricoli (72) della pittura del Settecento e
dell’Ottocento; tali mezzi stanno entrambi per esser sostituiti del tutto da
quelli di locomozione meccanica, onde i cavalli vengono ridotti a simbolo
romantico-decadente dei grandi moti dell’anima (73). Un altro motivo
campeggiante fra i versi è la contrapposizione alla vitalità naturale, in
precedenza esaltata dalla poesia tardo-romantica, di un’atmosfera di morte e di
desolazione (frutto evidente d’una partecipazione, sia pur distante, alla I
Guerra Mondiale) tratteggiata mediante simboliche tonalità in BN. Ivi s’inseriscono le immagini sbiadite – il
poeta le chiama “esiliate” – del “poker sulla tavola presso la stufa” o del “grammofono
rauco in un angolo” in Baracca alpina al
fronte; “talvolta scivolavano fra le fessure assurde evasioni”, oppure
“partivano carovane per lontane mète”. Si
menzionano altrove teschT e labirinti, annegati
e cadaveri varT, veleni e malattie,
campi abbandonati e deserti, notti ed oscurità, ecc.; con avvicendamento
d’immagini celesti, ma non celestiali (74). Da tutto ciò la Terra colle sue gioie è
completamente assente, se non attraverso pochi barlumi di sensualità, anche
questi tuttavia in prevalenza annientatori della serenità interiore. Vi è unicamente nella caverna delle
munizioni, per contrasto, un vago accenno ad un’amata (75): “Egli cammina calmo ma vi debbono essere rapide spirali nella
sua anima perché dalla vòlta pesi immani potrebbero precipitare allo spezzarsi
d’un tenuissimo filo. Egli pensa alla
sua amata/ ma la gialla gioielleria dei bossoli incatena il suo sguardo.” Ci sarebbe piaciuto analizzare infine il
poema a 4 voci, in francese, La parole
obscure d’un paysage intérieur; ma, sfortunatamente, non disponiamo
d’alcuna copia di esso nella nostra biblioteca personale. Leggiamo ad ogni modo dall’autobiografia che il
poema dadaista è stato oggetto di recitazione in un cabaret romano (76), prima
di cui l’a. spiega a suo modo il background
culturale individuale e trans-individuale nel quale è sorta la sua categoria
pittorica, teorizzata peraltro nel manuale di Arte astratta del 1920 (77). Sta di fatto che dopo il 1922 E. afferma
d’aver abbandonato completamente poesia e pittura e di essersi dedicato nel
contempo alla filosofia e alla misteriosofia.
Indubbiamente ciò che afferma dell’arte futurista e del dadaismo traccia
un quadro chiarissimo dell’epoca durante e dopo la I Guerra Mondiale, degno di
quel grande scrittore che è sempre stato, indipendentemente dal fatto che si
condivida o meno il suo pensiero. Poiché
il tempo è passato è impossibile non accorgersi che la fine subita da quei
movimenti, allora assai innovatori ed in
seguito divenuti stereotipati, è la fine inevitabile d’ogni moda; la quale al
suo sbocciare, ci appare molto all’avanguardia, ma poi pian piano assume una
coloritura stanchevole (78).
Tornando a Raâga Blanda, c’è però all’interno dell’antologia una poesia dal
significato oscuro o forse addirittura perverso, alludiamo a Ballata in rosso. Ha attratto la nostra attenzione per il
contrasto del colore menzionato nel titolo col BN generale in cui è avvolta
l’atmosfera dell’intera raccolta. A
parte gli Schizzi, già esaminati. Come in tutte le altre poesie il verso è
libero, senza rima alcuna, ondeggiante nella vacuità d’una sintassi slegata ove
i segni d’interpunzione latitano. Spazi che s’interpongono
irrazionalmente fra un verso e l’altro, quasi a sintetizzare un indugio del
comunicatore; o meglio nessun verso, le frasi fluttuando al pari di oggetti in
assenza di gravità. Private di peso le
parole levitano, fra minuscole e maiuscole a casaccio, ma verso quale méta? Chiaramente verso il Mondo Intermedio,
anziché quello Celeste. Quivi si accenna vagamente ad un rito, un rituale nero
tuttavia, senza alcuna ipocrisia: “questa sera il rito vi spezzerà (aspergono
ora di petrolio l’alta cattedrale…”). Un
cerimoniale senza dubbio inquietante, già a giudicare dalla presentazione del
tema, con mezzi moderni e sinistri (il petrolio coi rituali veri c’entra poco…):
«Perché ora siete in mio potere/(79) vi
hanno portata nella piccola sala chiusa dinanzi alla mia indifferenza seduta.» A chi si fa riferimento, ad una prostituta
d’alto bordo? Perché dovrebbe allora
essere in potere del suo occasionale amante?
Le prostitute in quanto tali non partecipano ai cerimoniali, si tratta
evidentemente d’una femmina adatta al rito citato, forse una sacerdotessa
oppure una vittima sacrificale. In un
rito, comunque, chi vi partecipa non ostenta indifferenza e non ha potere sulla
sacerdotessa di turno per un atto sessuale con valenze magiche. Semmai è il contrario. Abbiamo di fronte in tutta evidenza una
femmina qualsiasi, non una sacerdotessa, portata nella saletta chiusa a
forza. Altrimenti il poeta avrebbe detto
‘condotta’, non ‘portata’. Francamente
si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una giovane femmina, insomma una
minorenne. La minore età d’altronde, a
quel tempo, arrivava oltre gli attuali steccati. Quantunque l’aristocrazia abbia sempre avuto
l’abitudine di svezzare sessualmente i proprT rampolli colle giovani fanciulle del
popolino, sacrificate all’uopo (80). Sacrificate?
Beh, un conto è lo svezzamento sessuale, un conto la violenza pura e
semplice. Qui, ci spiace doverlo
sottolineare, pare d’essere dinanzi al secondo caso. Insomma, ad un rito di sottomissione, che è
altra cosa. Lo conferma quanto segue:
«il vostro sguardo che mi vuole ignorare/ non potrò nascondere…/
angoscia». Se la femmina non partecipa
al rito è senz’altro una succube, non c’è via di scampo. Il significato preciso è dissimulato da altre
parole inframmezzate, qui omesse, per fare risaltare meglio il fraseggio
riportato. L’angoscia è di chi teme
d’esser violentata, o persino sacrificata, non d’una prostituta o d’una
semplice giovinetta che teme l’incontro amoroso od aborrisce il rapporto con
uno sconosciuto. Procediamo
nell’analisi, con cautela: «con un ordine breve vi farò denudare/ lampo dei
vostri occhi/ sdegno/vana rapida lotta/ …dalla seta nera stracciata fioritura
brusca …seni nudi e adesso giú/ …strappare giú fino al segreto del vostro
essere oscurità chiusa fra le vostre cosce/ giú
tutto fino a terra.» Non c’è
dubbio che dal punto di vista erotico E. era straordinario nel creare in breve
colle parole atmosfere ed ambientazioni, non per caso era nato con Venere in
Gemelli, vale a dire nel domicilio di Mercurio.
La descrizione a seguire mostra comunque che non si tratta in realtà
d’un vero rapporto sessuale, né probabilmente d’una minore. L’«indifferenza seduta» continua. Pare uno spettacolo pornografico preso senza
il consenso della malcapitata. A questo
punto subentra una sorta di lotta psicologica fra la femmina nuda e chi la
guarda, che sente interiormente d’esser conquistato dal “magnetismo subdolo
acceso dalla sua nudità sovrana in quella piccola sala chiusa” [cors. dell’articol.]. E che, in certo senso, è lui per qualche po’
a sentirsi la vera vittima di quell’attrazione fatale; tanto da asserire che
“nell’estrema inane profanazione sua ella
gusterà un sottile trionfo”. Sul maschio, è ovvio, che non resiste
all’attrazione delle forme naturali. In
ciò, occorre ammettere, il poeta è magistrale nella sua iperbole. Parla d’un rito, certo perché usava ripetersi
di volta in volta, magari colla stessa oppure con un’altra posta in condizioni
similari. Forse addirittura sempre colla
sua femmina preferita. Non per quel che
temevamo leggendo, può darsi che ci sia stato da parte nostra un falso
allarme. Leggiamo ancora in dettaglio (a
capo): «Ma io ti farò frustare». Dunque
non ci sbagliavamo, trattasi di sadomasochismo, se non proprio di
luciferismo. Procediamo: «Ora vi avrò
dinanzi legata alla parete/ …nudità del dorso con le braccia che i due polsi
legati manterranno allargato in alto nella U di una irrigidita evocazione/
guizzo elettrico/ grido/ …primo sfregio violaceo». La ragazza o le ragazze, non ci sono piú dubbT, erano vittime di
soprusi basati prima sulla denudazione forzata a scopo libidinoso, poi di
torture ripetute a mezzo di scosse elettriche graduali, tali da provocare
piacere nel guardone sadico di turno.
L’a. difatti proclama: «berrai, berrai, dalla rossa vertigine che ora si
accende». Non stiamo a capire cosa sia
esattamente cotesta vertigine, se sangue che scorre dalla vagina della
poveretta oppure un fuoco che s’accende nel vile spettatore, il quale
oltretutto non osa guardare la sua vittima se non di schiena. Sappiamo solo che cominciamo ad essere
disgustati nel profondo dal testo e dal tema.
Non sappiamo quando la poesia sia stata composta di preciso, ma
ricordiamo che ci troviamo all’incirca nel periodo della Prima Guerra, non nel
periodo nazista. Qui – sarà bene esser
precisi al riguardo – termina la nostra ammirazione per E., che sempre ci ha
accompagnato negli anni giovanili ed oltre.
Ce ne dispiace, ma non si può farne a meno, a rischio di esser complici
morali di gravi soprusi. La scossa è
stata quasi fatale, dato che il N. aggiunge: «poco ancora si terrà la difesa
dell’ultima vostra fierezza contratta».
Ed ancora di seguito: «brividi brividi correranno sulla vostra carne
sussultante/ in crescendo/ fino al crollo aspro sgretolamento che inghiottirà
l’intangibilità della vostra nudità inerme/ grido sotto ogni nuovo colpo che la
solcherà con cadenza inesorabile sotto ai miei occhi». Signori, questo è il maestro della Tradizione
in Italia! Tradizione sì, ma quella
della scuole di magia nera, che va sotto il nome di Oto o consimili! Già evidentemente il N. aveva preso contatto
con esse, forse con un ramo secondario.
Difficile argomentare, in assenza di dati precisi. Chi sono le “pantere oscure acquattate” che
“balzano… a turno per l’unghiata rovente”, provocante il grido finale, in altre
parole un sussulto di morte? Lo
spettacolo raggelante, estremamente sadico e criminoso, pare suscitare nel
poeta dal tono glaciale come lo spettacolo penoso descritto un’ebbrezza
assoluta. È così che è cominciata la
storia del tradizionalismo nostrano nel Novecento? Forse c’è di meglio. Fiumi di parole ricercate buttate al vento
dinanzi all’inanità, questa sì, del pensiero evoliano giovanile: “fuoco gelido
che m’invade” e “salendo dal basso si impasta col vostro strazio/ corre
rapidissimo a fianco di esso” per berlo come “tossico vino”/ in grandi ritorni
di fiamma per ogni vostro nuovo grido”. Gli spasimi
della poveretta – lui li chiama “il turbine vermiglio” – sono motivo
d’eccitazione plurima per il poeta.
Lasciamo il giudizio al lettore (81). Per chi avesse frainteso o non avesse ben
capito la reale portata dell’orrido cerimoniale, pone a suggello parole
chiarificatrici: «continua continua il rito nero dinanzi all’occulto altare
scarlatto un brano dopo l’altro». Ivi
non è ben chiaro. Sembrerebbe che la
vittima dopo esser stata sacrificata sia stata sbranata pezzo per pezzo con
coltelli rituali (”le unghiate delle pantere oscure”) da parte degli astanti,
dapprima negli angoli, crediamo per consumarne le carni liturgicamente. Adesso abbiamo capito bene perché mai la
fanciulla fosse contraria al rito, dopo esser stata portata là e rinchiusa in
una saletta adibita alle messe nere. No,
il finale ci riserva nuovamente delle sorprese.
Niente di quanto appena congetturato. Le unghiate erano solo delle
ferite, ma non paiono esser risultate fatali.
Il corpo della fanciulla rimane appeso inerte «senza voce senza moto/
ancora nella grande U delle braccia bianche distese legate nella crocifissa invocazione». Dopodiché il testo prosegue, gelidamente: «vi
staccheranno/ vi distenderanno su un grande velluto nero/ e solo allora
nell’etere che vibra sempre del vostro spasimo mi alzerò pallido sovrano/ mi
curverò sulla vostra nudità ancora sussultante/ sul vostro volto scolorito… i
vostri occhi semichiusi perduti / per prendervi la bocca/ per suggere il
respiro ansimante della vostra amica bianca/ del vostro essere quasi senza
coscienza (82)». Facciamo comunque notare che il ratto del
respiro è il ratto dell’anima compiuto nelle messe nere dai luciferiani, ma qui
dovremmo parlare di satanismo vero e proprio, poiché abbiamo a che fare
chiaramente colla Via di Sinistra; appunto nella versione illecita
magico-satanica e non in quella lecita gnostico-libertina (83), che è altra cosa e anche quando giungesse al sacrificio
rituale della vittima non lo farebbe certo per sadismo, ma semmai per
rimandarla agli stati superiori d’esistenza.
In conclusione il demonico poeta (non ci resta che chiamarlo così) riporta ad
epitaffio, compiaciuto, quanto segue: «Questa è la mia ballata rossa per voi
stasera».
Abbiamo un’opinione
conclusiva in merito alle fine di tali poverette, ma preferiamo palesarla
allorché esamineremo nel pross.art. le opere della maturità. Non stiamo per ora a chiederci perché E., il
grande E., da giovane sia caduto tanto in basso. È successo a molti, persino a Donna Luisa
(la consorte di Coomaraswamy), di commettere l’errore di cadere nelle
magnetiche grinfie crowleyane. Sempre
che si tratti di questo, il contesto è talmente labile da non poterlo affermare
con certezza (84). L’importante, in ogni caso, è tornare sui
propri passi e procedere
verso un innalzamento degl’ideali personali.
In fondo parliamo d’un periodo in cui si scatenò quella vicenda tremenda
che fu la I Guerra Mondiale. Certo, non
si può dire che E. abbia iniziato bene la scalata verso le vette
spirituali. Non è per fare i
moralisti. Tutti abbiamo i nostri
scheletri negli armadi. Può anche darsi che E. sia stato vittima d’un
ambiente generale perverso perdurante da secoli presso i rami cadetti
dell’aristocrazia, quello che ha condotto al falso tradizionalismo del
nazifascismo di lí ad un decennio circa, ma la compiacenza di cui si è sempre
vantato in seguito nei confronti delle cd. ‘rivoluzioni conservatrici’
testimonia che egli – così come altri che ne hanno
seguito pedissequamente il pensiero – non aveva ben chiaro quale fosse il ruolo
vero giocato da ogni tipo di rivoluzione, di destra o di sinistra che fosse. Oppure ce l’aveva (non lo crediamo…), allora
in questo caso il giudizio riguardo lo scrittore dovrebbe esser ben peggiore. Non si può ragionare, d’altronde, col senno
del poi. Il problema è che quanto
descritto è estremamente grave, oseremmo dire criminale. E la compiacenza del gesto è peggio del gesto
stesso. Forse si può capire allora perché
mai il testo in nostro possesso, pubblicato da parte delle ‘Edizioni del Sole
Nero’ (sic!), sia stato stampato ad
Amsterdam; ed abbia nel suo indice, guardacaso, Il Morto di G.Bataille e Cento
incisioni d’epoca per illustrare Sade.
Anche se, per la verità, in tal modo non fa parte fortunatamente delle
opere ufficiali menzionate dell’a. (85). Tanto che ci siamo chiesti, onestamente
parlando, se non fosse il caso di passarla sotto silenzio; ma, dato che in fin
dei conti non l’ha fatto E., ci pareva giusto non farlo neppure noi. Rimane la possibilità ultima che si tratti di
semplici fantasie, ma in ogni caso il valore simbolico dell’atto perdura
egualmente. Sarebbe ridicolo spacciare
una cosa del genere per dadaismo. Non ne
ha il carattere. Eppure altri (86) ha voluto esaltare i versi in
questione, passando sopra alla chiara menzione del petrolio, dei fili elettrici
ecc. Che dire? Rimaniamo sconcertati. Non crediamo sia questo il modo giusto per
affrontare un discorso critico.
Il poema prosegue con
immagini in tipico stile futurista, simbolista o dadaista: un guerriero
d’acciaio fra i nembi, vita legnosa fra le gibbosità di stufe, deserto
rarefatto, la pioggia calda sulle monache (87),
grande noia sospesa fra la nebbia, una canzone che si sveste dalla seta, un
fiore in lontananza, orchidee di sangue nell’oro, l’automa nel bianchissimo
mezzodì, le costellazioni davanti agli altiforni, 966 [>666, dato che
ritorna piú volte ossessivamente] follia, il dio che si apre le vene (?). Si ripete per giunta, fra le righe, la
menzione del “gran serpe Ea”. Si afferma
che “l’umanità è merda, i sentimenti blenorragia dell’anima”, si cita Napoléon,
concludendo alfine: “è la morte che ci dona il maggior piacere” (quest’ultima
parte tutta in francese). Tutto
perfettamente coerente, pur di richiamarsi al pensiero degl’Illuminati. L’a. è rimasto legato a codesta confraternita
deviata per tutta la vita? Se le cose
stiano veramente così o meno lo vedremo
nei prossimi 2 articoli, dedicati agli scritti dell’età matura e
dell’anzianità. Per il momento, al fine d'esaurire l’analisi degli stimoli della giovinezza, ci occuperemo del periodo
filosofico.
Fig.1- V.Kandisky, Il Cavaliere Azzurro (1903)
Fig.2- F.Marc, Grandi cavalli azzurri (1911)
Fig.3- J.Evola, Tendenze di idealismo sensoriale (1916-8)
Fig.4- J.Evola, Five o'clock tea (1917)
Fig.5- J.Evola, Fucina. Studio di rumori (1917-8)
Fig.6- J.Evola, Sequenza dinamica. Etere (1917-8)
Fig.7- J.Evola, Mazzo di fiori (1919)
Fig.8- J.Evola, Composizione n.19 (1920 c.)
(12) J.Evola, Il cammino del cinabro- Ed. all’insegna
del Pesce d’Oro, da V.Scheiwiller, Milano 1972; I ed. 1963.
(13) Vide
s.v. FUTURISMO, Wikipedia, on line.
(14) Mercurialmente,
oseremmo dire.
(15) Nel verismo italiano
si era manifestata una tecnica pittorica visibilmente ispirata alla prosa
poetica di stampo verghiano, basata sulla “santità del vero” ed esaltante liricamente
gli umili quale classe sociale vicina alla semplicità della natura, in cui i
mali del vivere contemporaneo erano rimasti ancora allo stato elementare e
proprio per questo facilmente rilevabili ad un occhio attento; mentre col macchiaiolismo
toscano di T.Signorini nonché col divisionismo norditalico di G.Segantini, G.
Pellizza da Volpedo e del teorico G.Previati (autore, rispettivamente nel 1.895
e nel 1.905, di Memoria sulla tecnica dei
dipinti e La tecnica della pittura),
non troppo diversamente da quanto era accaduto in Francia col neo-impressionismo
di P.Guaguin o col puntinismo di G.Seurat e P.Signac (sfociato alfine nel
fauvismo di H.Matisse), avvenne una scomposizione tonale del colore sulla tela
preludente alla scomposizione figurativa del cubismo. In maniera non troppo diversa è stata
raggiunta un’ipertrofia del colore in ambito espressionista da parte del grande
pittore olandese V. Van Gogh, figlio d’un pastore protestante e cultore di
stampe giapponesi, o del norvegese E.Munch; fino all’eclissi della figura immediatamente
susseguente, proposta in prima istanza dall’aridità astrattista e portata a
termine alfine dalle macchinazioni futuristiche. Non è comunque un caso che pittori divenuti
famosi in campo futurista quali U.Boccioni, G.Balla e C.Carrà provenissero dal
settore divisionista prima del passaggio alla nuova tecnica pittorica del
secondo decennio del Novecento.
Egualmente in Francia il pre-impressionismo manetiano era sfociato
dapprima nell’impressionismo monetiano, poi nel neo-impressionismo guaguiniano ed
infine nel tardo-impressionismo matissiano, strettamente apparentato in realtà
al puntinismo seuratiano.
(16) A differenza
dell’impressionismo, esaltante la vita borghese e cittadina. Tutti i movimenti menzionati non vanno comunque
contrapposti a seconda della posizione sociale, il domicilio di appartenenza o
le idee politiche proprie. Ogni
movimento artistico e letterario allorché sorge costituisce sempre una novità
positiva ed inizialmente segue percorsi d’avanguardia, ma poi inevitabilmente
si fa stucchevole, assumendo posizioni
di retroguardia. È la natura delle
cose. Vana è dunque la pretesa di E.
& C. che Futurismo e Dadaismo abbiano raggiunto il massimo
dell’avanguardia. Non è vero, astrattismo
a parte, hanno semplicemente raggiunto il massimo livello di dissoluzione delle
forme. Dunque il Decadentismo, nel quale
essi nell’insieme rientrano unitamente agli altri movimenti artistico-letterarT
di Fine Ottocento e del Primo Novecento, costituisce in certo senso il punto d’arrivo
finale del Romanticismo; che sempre ha privilegiato lo stato d’animo e la
suggestione al pensiero razionale. E ciò
non implica, di conseguenza, una rottura di livello in senso superiore, poiché
il Caos – E. lo sapeva bene – possiede 2 facce, una rivolta verso il basso e
l’altra verso l’alto. Il che si può dire
anche per le forme. Dunque il
dissolvimento formale s’applica solamente sul piano orizzontale, non su quello
verticale, l’informale essendo una trascendenza spirituale delle forme e non
una loro tragica dissoluzione a livello psichico.
(17) Nella
poetica del Tardo Romanticismo va distinto un filone nazionalista e sanguigno rappresentato
nella nostra penisola da G.Carducci ed in campo europeo da L.Tolstoj, avendo il
romanzo sociale russo superato in valore letterario i corrispondenti romanzi
francesi ed inglesi (Haus., op.cit., P.IX
[n.num.], Cap.III, p.371), rispetto ad un altro filone simbolista ed allusivo; quest’ultimo
viene esemplificato in Italia da G.Pascoli e G.D’Annunzio, in Europa (valendo
pure qui lo stesso summenzionato ragionamento) da F.Dostoevskij. Il filone carducciano-tolstojano si ricollega
in parte al Primo Romanticismo, in parte al Secondo; mentre il filone pascoliano-dannunziano
rientra, propriamente, nel Decadentismo.
(18) Ouverture alla pittura della forma nuova,
cit. in C.Tagliaferri, Julius Evola e il Dadaismo- Univ. ‘La
Sapienza’, Fac. di Lett. & Fil., tesi (rel. Prof.sa Ilaria Schiaffini),
Roma 2010-11, Cap.III. 2, p.43, n.53.
(19) G.Leopardi,
La ginestra, vs.51 (ispirato ad una
dedica del cugino, il sen. T.Mamiani della Rovere).
(20) W.Kandiskij
non per niente ha preceduto anche teoreticamente il manuale d’arte evoliano (Arte astratta- Maglione e Strini, Roma 1920),
pubblicando già nel 1908 il suo Abstraktion
und Einfühlung, cui sono seguite altre opere sullo stesso argomento
dell’introduzione della spiritualità nell’arte; la principale è Über das Geistige in der Kunst, del 1910, in cui postulava i
principi basilari dell’astrattismo .
(21) Tagl., op.cit.
(22) Tagl., cit., Cap.I sgg.
(23) Il tradizionalista
H.Sedlmayr in Perdita del centro (Ed.Borla,
Bologna 1967 e poi Rusconi, Milano 1974; ed.or. Verlust der Mitte- O.Müller, Salisburgo 1948), P.Prima, Cap.V, pp.
169-77, traccia una linea di decadenza ben diversa accusando nell’insieme i
movimenti artistici del Tardo Ottocento e soprattutto quelli del Primo
Novecento d’infernalismo programmato.
Scrive in proposito, con consumato mestiere (ibid., p.173): “L’inferno era un tempo contenuto in una zona
limitata di fronte al Tutto sensibile. Ma, come nel secolo diciannovesimo lo
splendore del mondo ultraterreno si riversò tutto a guisa di luce naturale su
ogni cosa terrena e trasfigurò, alla fine, anche un mucchio di fieno in uno
splendore celeste [vedi Tardo Impressionismo e Divisionismo, N.d.A.]…; così le visioni angosciose del
limbo e di tutti i gironi infernali irrompono ora, all’insaputa dei loro
esorcisti, nella realtà, compenetrandosi in essa. L’elemento notturno, pauroso, morboso, molle,
morto, putrefatto e sfigurato, il tormentato, dilaniato, ottuso, osceno,
l’invertito, il meccanico, tutte queste sfumature, attributi ed aspetti di ciò
che non è umano, si impadroniscono dell’uomo, del suo ambiente familiare, della
natura e di tutte le manifestazioni.
Essi trasformano l’uomo in un rudere e in un automa, …in un cadavere e
in uno spettro...; essi lo dipingono brutale, crudele, abietto, osceno,
mostruoso, meccanico. In diverse
combinazioni della pittura… compare l’una o l’altra combinazione di questi
tratti antiumani, dove in sostanza dominano, nel cubismo la morte,
nell’espressionismo il caos ardente, nel surrealismo la fredda demonìa del più
profondo gelo infernale.” Non dice nulla
al momento della pittura futurista e di quella dadaista, ma aggiunge più
innanzi (ib., p.174) che “tutti
questi «-ismi» (sfuggenti alla realtà superiore), dal futurismo sino al
surrealismo” appaiono a ben vedere “espressioni – diverse solo in superficie –
delle medesime forze generatrici…” In
sostanza, quel che rimprovera Sedlmayr all’arte contemporanea (Cap.III, pp.
116-23) è d’aver provocato la fine dell’iconologia e la morte dell’ornamento;
l’una sminuisce il significato dell’oggetto artistico e l’altra affievolisce se
non cancella del tutto l’aspirazione alla purezza. Lo storico ci spiega inoltre, anche se non
siamo completamente d’accordo (cfr.n.3), che nel’Ottocento è cominciato quel
processo di smembramento dell’unità delle arti in generale e della singola
composizione artistica in particolare il quale porterà alla formazione dei
complessi museali mediata dagli antiquarT, favorendo in questa maniera una
concezione frammentaria dell’arte tendente a favorire in definitiva la
separazione del contenuto dalla forma.
(24) Tagl., cit., Cap.I, § 2, p.10. La rappresentazione è riportata alla fig.1,
ma la datazione in questo caso è 1916.
Occorre ricordare che, non meno di tanti altri artisti della sua epoca,
anche M.Duchamp passò attraverso il battesimo dell’impressionismo prima e poi
del futurismo, allorché si accorse che quest’ultimo altro non era che
“impressionismo in campo meccanico”.
(25) Si trattava de Le vacanze intelligenti, terzo ed ultimo
episodio del film Dove vai in vacanza?,
del 1978; la divertente performance cinematografica
di Alberto Sordi, coadiuvato per l’occasione da una strepitosa Anna Longhi, si
svolgeva all’interno della Biennale dello stesso anno di produzione della
pellicola.
(26) Cit., Cap.II, § 1, p.17.
(27) È in base a
quest’indefinibile nostalgia che si spiega il ricorso al primitivo, al
dilettantesco, al folle o all’incolto.
Tutto in origine era sacro, non solo l’arte, non solo il tempio:
l’intero mondo lo era. In fondo se le
cose sono cambiate, lo asseriva anche Platone, è la Divinità (per il filosofo
greco Crono, per noi il Deus Pater del
Gloria vivaldiano, non molto diverso d’altronde
dallo Zeus ellenico) che ha operato in modo tale da determinare nella vita
umana dei tempi ultimi quel male che rappresenta il contrario di Sé
stessa. Il caos ed il demonico del mondo
contemporaneo le arti lo hanno soltanto riflesso, non provocato; come insegna
la nota presa di posizione da parte di Picasso nei confronti di chi lo accusava
d’aver dipinto il massacro di Guernica, quasi che se ne fosse fatto beffa
oppure l’avesse trasformato in un gioco estetico. Oltretutto, vi è da considerare che l’arte in
principio non esisteva, è il frutto della conoscenza e della cultura dell’uomo;
pertanto è destinata a terminare prima o poi, dando spazio ad una nuova Età
dell’Oro. Che a propria volta
scomparirà, in un interminabile serie ciclica, giacché altrimenti gli esseri
s’addormenterebbero nella Pace del Paradiso Terrestre, dimenticando quella
Gloria che è ancor più oltre.
(28) § 2, pp. 19-20.
(29) P.22.
(30) Fig.10.
(31) Per chi volesse
tuttavia approfondire l’argomento è utile, sempre della stessa autrice, il § 3 sgg, sull’ambiente romano d’avanguardia
nel primo dopoguerra. La Tagliaferri,
oltre a spiegare gli apporti del Futurismo alle correnti d’avanguardia
successivi (Costruttivismo e Surrealismo), illustra fra le altre cose l’avvento
della ‘fotodinamica’, la nuova tecnica fotografica ideata teoricamente e
sperimentata fattivamente dai Fratelli Bragaglia. Costoro erano figli del produttore Francesco
B., dal 1906 direttore della Cines. La
fotodinamica fu la concezione della fotografia in movimento, ideata da Anton
Giulio B. assieme al fratello Arturo, sulla base del ‘Manifesto’ futurista. Fin dal 1911 stampò cartoline postali con
immagini fotodinamiche e pubblicò il saggio Fotodinamismo. In seguitò fondò la riv. ’L’artista, ma la
sua tecnica venne sconfessata due anni dopo da Marinetti e Boccioni. L’influenza futurista perdurò comunque in
lui, se è vero che a partire dal 1915 fece uscire un nuovo periodo illustrato,
‘La ruota’. Un anno dopo si dà al
cinema, fondando la Novissima Film e mettendo in scena un copione scritto da
E.Prampolini (giocato sul BN). Col
fratello minore, Antonio Ludovico B., nel ‘18 allestR
la ‘Casa d’arte Bragaglia’, sede di mostre d’arte contemporanea e d’incontri
internazionali con autori stranieri; e nel ’22 il ‘Teatro degli Artisti Indipendenti’,
che cominciò ad operare a partire dal ’23, liberando ai registi spazi
non contaminati dal semplice esercizio commerciale. Carlo Ludovico si dedicherà con maggior
successo al cinema professionale, essendo autore fra l’altro nel ’49 della
celebre pellicola comica Totò le Mokò,
parodia di Pépé-le Moko, realizzato
in stile gangsteristico ed ambientato in Algeria con poetico realismo dal
regista francese J.Duvivier nel ’39.
Invece il fratello maggiore era rimasto sempre condizionato dalla sua
vena artistico-sperimentale, passando da Prampolini a De Chirico. Arturo B., dal canto suo, diverrà un
apprezzato caratterista in campo cinematografico dagli Anni ’30 a seguire. Per un approfondimento di tal tipo di
tematiche vide F. Di Giammatteo (in
coll. con C.Bragaglia), Nuovo dizionario
universale del cinema- E.R., Roma 1996 (II ed., agg. rispetto a quella
dell’85), ss.vv. BRAGAGLIA, ANTON GIULIO, pp. 167-col.b-8 col.a e BRAGAGLIA CARLO LUDOVICO, p.168-coll.a-b.
Altra cosa interessante dello scritto della Tagliaferri è il cenno alla
questione dell’arte totale. Interessante
osservare che dopo la frammentazione dei varT campi artistici avvenuta
nell’Ottocento e specialmente all’inizio del Novecento, come ha denunciato
giustamente Sedlmayr (cfr. n.23), vi sia stata un’azione di ripiego da parte
futurista nel tentativo di riunire ciò che dapprima era stato sparso. Di qui è nata quell’idea di ‘arte totale’,
dapprima in campo pittorico, poi in quello teatrale e musicale.
(32) Non a caso egli dipinse anche a scopo
teatrale (Tagl., p.37, n.42).
(33) Cap.III, § 1 sgg.
(34) C.Bruni, autore
peraltro del saggio Dopo Boccioni,
dipinti e documenti futuristi dal 1915 al 1919- Mediterranee, Roma
1961. Il Bruni in un art. intitolato Evola dada (AA.VV, pp. 57-63) dichiara come
all’inizio degli Anni ‘60, nel tentativo di raccogliere informazioni sui
pittori futuristi spariti dalle scena artistica, fosse giunto una volta a casa
di E. e sia pure a distanza, stando il pittore sulla sua immancabile sedia a
rotelle (cui era stato costretto dopo l’incidente del bombardamento di Vienna),
questi gli avesse indicato una catalogazione appropriata delle sue opere.
(35) Abbiamo spostato
lievemente le date in base alle risultanze da altre fonti.
(36) Tagl., p.68, fig.6.
(37) P.69, fig.7.
(38) Cfr. al riguardo
n.73.
(39) L’anno 1920 è
anche quello di varie pubblicazioni evoliane di carattere dada (segnalazione della
Tagliaferri, p.40): l’opuscolo Arte
astratta, la cofondazione della Riv.Bleu
assieme al Cantarelli, la pubblicazione
zurighese del poema La parole obscure,
la collaborazione ad altre due riviste (Cronache
dell’attualità di A.G. Bragaglia e Noi
di Prampolini). Su quest’ultima rivista
pubblica L’arte come libertà ed egoismo, A.III,
N°1, Gen. ’20; scritto che a giudizio del Giovannini (art.cit.) costituisce una specie di ur-test per l’artista, ovvero un punto di svolta definitivo verso
l’Astrattismo e il Dadaismo.
(40) P.40, n.50.
(41) P.72, fig.12;
oppure in AA.VV., intra pp. 96-7,
fig.7.
(42) Tagl., p.75,
fig.17.
(43) AA.VV., fig.6.
(44) Fig.8; oppure Tagl., p.74, fig.15.
(45) Il
Costruttivismo, nato in Russia nel 1913 quale sviluppo del Futurismo, gettò le
sue basi teoriche nel ‘Manifesto Realista’ del 1920 di N.Gabo. Rigettando il concetto d’arte per l’arte,
intendeva creare una nuova arte in funzione sociale; parallelamente a quanto
faceva simultaneamente, in campo architettonico, il funzionalismo.
(46) Note per gli amici, in Bleu (N°3),
Mantova 1921.
(47) Nella seconda
metà degli Anni ’30, in pieno periodo nazista, il N. s’è occupato della
tradizione celto-cristiana; di questa tratteremo in un pross.art., dedicato
agli studi dell’età matura. Egualmente faremo cogli studi buddhistici,
affrontati negli Anni ’40.
(48) Cfr. al riguardo
prima Paesaggio interiore, illuminazione , olio su tela del
1919; poi, La fibra s’infiamma e le
piramidi, olio su tela del ’20. c. (Tagl.,
p.77, figg. 20-1).
(49) P.76, fig.19.
(50) § 4 sgg.
(51) J.Evola, La Tradizione Ermetica…- Mediterranee
1971 (I ed. Laterza, Bari 1931; II ed.riv. 1948). Va respinto però quanto scrive nella Pref., a
p.10, ove contrappone maldestramente l’Arte Regale ermetico-alchemica alla
pretesa visione religioso-sacerdotale del mondo. Torna a proporre tale presunta dicotomia al §
21, p.202, come al solito confondendo e rovesciando le cose; ma, al di là di
questa eretica ossessione anti-sacerdotale (non s’attribuiva una vocazione
anche in tal senso?), per cui conoscenza e contemplazione starebbero su un
piano inferiore ad azione e regalità in quanto abbinate reciprocamente al color
Bianco (Lunare) e alla Luce anziché al Rosso (Solare) e al Fuoco, il libro è
profondo nell’analisi e ben fatto nella sintesi. Naturalmente, il vero motivo per cui talora
il Bianco (colore <sattvico>) piglia il posto del Rosso (colore
<rajasico>) e il Rosso del Bianco è realmente la trasposizione dal piano
regale a quello sacerdotale e viceversa.
Ciò non perché l’uno costituisca un simbolismo primordiale e l’altro no,
nessuno dei due lo è in realtà, ai primordi non esistendo simbologia alcuna. Semmai, per lo stesso motivo per cui Crono ha
assunto le sembianze di Urano come dio aureo, ossia per una trasposizione verso
l’alto. Il che non implica di necessità che
una tradizione possa essere trasmessa dal basso verso l’alto. Ecco la ragione per cui tutto deriva dal
sacerdozio in linea discendente. Vi è
anche una regalità sacra, come quella del famoso Prete Gianni, che si situa al
di là del sacerdozio; ma questa, ovviamente, è altra cosa rispetto alla
regalità comune cui fa riferimento l’arte alchemica.
(52) Ibid. come alla 49.
(53) Ancora una volta
la Tagliaferri, dopo esser entrata in argomento alchemico, mette in luce nella
sua ottima tesi l’importanza della lettera A
(che compare in altri quadri evoliani), riferendola a varie categorie
interpretative: A-lchimia, A-thanor, A-lpha.
Circa l’Athanor, dall’ar.at-tannûr (‘forno’), scrive T.Burchardt
(L’alchimia- Ed.Azoth, Lugano 1976,
p.138) che “nei manoscritti alchimistici esso è raffigurato generalmente come
una piccola torre coperta con una cupola.
E riporta varie raffigurazioni di seguito, ma prima spiega che “il vero athanor… non è che il
corpo umano”, quindi il nostro microcosmo individuale. O meglio, non “il corpo effettivo, visibile e
tangibile, bensì un tessuto di forze psichiche che si appoggiano al corpo”.
(54) § 3, pp. 50-1.
(55) § 2, p.44.
(56)
Non a caso, a detta dei ‘Taccuini mussoliniani’ (Evola e la critica della civiltà. Freud e Nietzche, relaz. di
D.Caccamo, p.1, on line), il barone –
presentatogli da Marinetti nel 1922 – era letteralmente entusiasta di Freud. Sebbene poi in un’art. successivo intitolato
‘Critica della psicanalisi’ e pubblicato sul N.9 de ‘La Torre’ nel ’30,
riproposto in Maschera e volto dello
spiritualismo contemporaneo (I ed., 1932),
il Caccamo afferma abbia fatto retromarcia. Per aggravare il proprio dissenso contro le
tesi freudiane, ancor di piú, nella II ed.riv. del ’49 e nei libri scritti dell’ultimo
periodo (Orientamenti, 1950; Gli uomini e le rovine, 1953). Fino a detestarle, secondo quanto si rileva
dagli artt. pubblicati sui quotidiani
fra il 1952 ed il ’71, alfine raccolti in opuscolo.
(57) P.46.
(58) P.45
(59) La Wiener Sezessionstil fu l’associazione
di una ventina d’artisti, tra i quali spiccavano G.Klimt ed E.Schiele, che nel
1.897 si distaccarono dall’Accademia delle Belle Arti di Vienna onde dar vita
ad un gruppo autonomo. Si proponevano
d’introdurre in Austria in campo pittorico ed architettonico l’art nouveau, in Italia identificata allo
stile liberty. Tal tipo di movimento artistico è sorto a
mezzo fra la Secessione di Monaco (esponenti principali V.Uhde, f. von Stuck)
del 1892 e quella di Berlino (sorta per protestare contro il rifiuto di esporre
opere di W.Leistikow, impressionista tedesco di stile paesaggista) del 1.898.
(60) Ad es. l’amica-psicologa
Marianna Leibl, cit. dal Waldner (vide n.1); oppure lo scrittore viennese O.Weininger,
di cui ha curato la riediz. nel 1956 di Sesso
e carattere- Bocca Milano 1912 (ed.or. Geschlecht
und Charakter- W.Braumüller, Vienna e Lipsia 1903). Una nuova ediz. del testo nell’originale
trad. di G.Fenoglio, riv. e corr. da F.Maccabruni, è stata pubblicata dalla
Feltrinelli; con Introd. di F.Rella (Milano, 1978), illustrante l’ambiente
viennese di Fine’800 ed Inizio ‘900.
Inutile aggiungere che certi tópoi
della cultura evoliana, come l’antifemminismo e l’antiebraismo, hanno preso
le mosse da una condivisione del trattato weiningeriano. Ed anche una tendenza al suicidio in età
giovanile, nel senso del cupio dissolvi,
venuta meno per fortuna come candidamente confessa il pittore siciliano nella sua
autobiografia (Ev, Il c., pp. 18-20).
(61) J.Evola, Raâga Blanda, poesie dada- Ed. del Sole Nero, Amsterdam, dat. n.c. Nella Present. dell’a. è chiarito che si
tratta di poesie stilate in ordine cronologico, fra il 1916 ed ’22, alcune delle
quali pubblicate in Arte astratta-
Maglione e Strini, Roma 1920 (per la serie «Collection Dada»); questa raccolta
figura di norma quale opera-prima del N., omettendo l’altra, in parte
precedente ed in parte no. Circa le
tematiche trattate in R.B. (il titolo
è ispirato ad una delle 30 poesie raccolte, precisamente Paesaggio dada, p.38), sorta dunque di opera-zero, E. stesso
confessa d’esser stato influenzato nelle sue composizioni da scuole varie: decadentismo,
simbolismo, astrattismo futurismo, ed analogismo.
(62) La “corsa rosea
e chiassosa dei bambini” che passa ricorda vagamente l’atmosfera festosa del
‘Girotondo’ di G.Pelizza da Volpedo, segno che non meno di Boccioni e di Balla
anche E. è partito mentalmente dallo stesso punto prima d’ancorarsi altrove. Qui siamo probabilmente nel 1.916, allorché
l’a. aveva a malapena diciott’anni.
(63) Dopo lo Stile Impero
di J.-L. David e J.A.D. Ingres, corrente neoclassica sviluppatasi durante l’Età
Napoleonica (ossia fra il 1.800 ed il 1.815) la quale forniva sia soggetti ispirati
all’epoca greco-romana sia soggetti esaltanti le imprese napoleoniche, si era
sviluppato in parte in continuità in parte in opposizione con esso il Movimento
Romantico (1816-40); caratterizzato in Francia ed in Germania da pittori come
T.Géricault, E.Delacroix e C.D. Friedrich nonché in Inghilterra da altri quali
J.Constable e W.Turner. Questo nuovo tipo
di pittura, tralasciati i temi ispirati alla storia antica, si dedicò
esclusivamente ai temi moderni quali gli eroi nazionali o le guerre di popoli;
ma, in parallelo, propose altri modelli artistici richiamantisi alla pittura
estremo-orientale o agli aspetti meno noti della mitologia classica: montagne nebbiose,
paesaggi invernali, eroiche solitudini, scene
irreali. Richiami precisi al mondo
figurativo estremo-orientale cominciarono però solo a partire dal
pre-impressionista E.Manet, punto di trapasso tra l’arte pittorica del Romanticismo
(1.820-40) e quella dell’Impressionismo (1.860-75) di C.Pissarro, C.Monet, A.Renoir
e J-F. Bazille. Anzi, si può dire senza
tema di smentite che in epoca contemporanea una volta tralasciata l’iconologia di
stampo mitologico propria del periodo neoclassico e del periodo romantico
(l’ultima pittura mitologizzante della storia dell’arte europea, pur velata di
significati gnostici rispetto a quella delle due correnti appena menzionate, è
opera del pre-romantico W.Blake), avviene in parallelo all’aperta e nota
desacralizzazione dei contenuti delle opere un’intima e segreta rivalorizzazione
dei medesimi in chiave poetica ed artistica anziché religiosa. A
codesta risacralizzazione, seppur con modalità e valori differenti, non è
estranea l’influenza soprattutto nel campo della tecnica del pennello (specie attraverso
l’uso dell’acquerello) dell’arte cinese e giapponese; giunta in Europa
tardivamente rispetto all’arte pittorica e scultorea buddhista indiana, che a
sua volta aveva seguito nell’Antichità e nel Medioevo la via di trasmissione
della ceramica, foriera di una simbologia figurativa od astratta d’origine
protostorica. Basta pensare che le rotte
commerciali marittime verso l’Estremo Oriente si sono aperte solamente a
partire dalla seconda metà dell’Ottocento, allorché le stampe nipponiche
vennero utilizzate come carta da imballaggio, prima valendo esclusivamente le
rotte via-terra tracciate alla fine del Medioevo. Cfr. in proposito La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich- Einaudi, Torino
1966 (I ed. 1950, I ed.it. Mondadori, Milano 1952), Cap.XXV, pp. 521-2. Ebbene, nella pittura estremo-orientale tanto
della Scuola Taoista quanto di quella Buddhista (dal Ch’an allo Zen) la spiritualità
non era confinata a speciali icone sacre, ma veniva colta shamanicamente in
mezzo agli spazT naturali. Non importava che si ritraessero monaci,
uccelli, fiori, bambú, templi, eremi, monti, vallate, fiumi, laghi, barche di
pescatori, albe o tramonti. Persino
gl’insetti d’uno stagno potevano suggerire la presenza del Tao o favorire il Samâdhi, ossia
il Satori degli zenisti. Egualmente nella pittura contemporanea
occidentale il rinnovato verbo, prima manifestatosi nelle forme idealistiche o
realistiche in luogo di quelle simboliche od allegoriche del passato – pagane o
cristiane che fossero – e dopo nell’assunto drammatico delle rappresentazioni amorfiche,
oniriche o metafisiche, ha dissacrato esclusivamente delle forme vetuste e
logore di raffigurazione artistica.
Sbaglierebbe dunque chi le considerasse naturalistiche o
materialistiche, tout court; sempre
piú infatti s’intravede dietro di esse, man mano che nuovi elementi di critica
sorgono a loro favore e l’occhio diventa ognora piú esperto, l’«opera
missionaria» (si fa’ per dire….) di canoni taoistici o zenisti. Insomma, dietro la forma o la non-forma, si
cela il vuoto. Non unicamente in senso
demonico, benché questo senso sia pur sempre il connotato prevalente, come
attesta Sedlmayr. Il mondo rimane divino
in ogni caso, persino quello umano, per quanto le forze caotiche nell’uomo e
fuori dell’uomo si diano da fare per provare il contrario.
(64) Non essendoci
separazione dei versi ma soltanto spazT vuoti in tal tipo di poesia, abbiamo
adottato la barra normalmente separatrice dei versi per segnalare lo spazio
vuoto.
(65)
Cfr. J.Evola, Metafisica del sesso- Mediterranee, Roma
1969, passim. Questo è uno strano (si fa per dire..) e
magnifico libro di E. Non solo, uno dei
migliori testi sulla sessualità mai scritti.
Quando lo leggemmo ai tempi dell’università ci entusiasmò, ma la parte
finale – specie a cominciare dal § 49 sino al § 59 – suscitò in noi l’effetto
contrario, tanto da tralasciarne quasi inconsapevolmente la lettura. Insomma, il tutto nell’insieme ci lasciò lo
spiacevole presentimento che l’a. pur partendo da ottime premesse e da
un’analisi del fenomeno sessuale assolutamente convincente e profonda, si fosse
perso nei meandri d’un luciferismo (per non aggiunger altro, vista
l’esaltazione che vien fatta in tali pagine di A.Crowley) in apparenza negato,
ma in realtà presente, benché dissimulato dalle citazioni erudite. Vi è una magia sessuale a sfondo spirituale
(‘rossa’) ed una a sfondo demonico (‘nera’).
Non è la stessa cosa, benché i presupposti operativi possano apparire
consimili. In ciò è la direzione
impressa al rito che conta, in ultima analisi.
E sebbene vi possa essere una magia nera positiva (nell’iniziazione
propriamente detta, in cui il contatto infero assume valenze sovra-terrene) ed
una magia rossa negativa (quale culmine della contro-iniziazione, in quanto
proponentesi di disintegrare l’individuo anziché di trascenderlo), invertendo i
valori, è in ogni contesto che va fatta distinzione. Non si può far di tutte le erbe un fascio. Cfr. in proposito G.Acerbi, Le magie e gl’incantesimi di Merlino e
Morgana….- Viator, Anno VII, Rovereto (Tn) 2003, § 3, pp. 220-1. Evola invece pare non distinguere (anche in
età adulta), facendo sempre e comunque dell’elemento femminile un fattore
negativo, da vincere colle buone o colle cattive. Non questo c‘insegna il vero Tantrismo,
specialmente lo Gaktismo, di cui pure egli ha dichiarato
– sicuramente a ragione (non abbiam condotto ricerche al riguardo, gli crediamo
sulla parola) – di esserne stato il primo espositore in Italia. Nella dottrina shaktica induista è semmai
l’elemento maschile, simboleggiato da Mahishâsura
(lo Giva demonico), a fungere da controparte
naturale trascendibile in Lei (Durgâ). Nello Givaismo vamayanico, è vero, è Giva a prevalere e non la Gakti; tuttavia la cosa non avviene come
nello Givaismo dakshinayanico, ove
effettivamente la gran Madre ha il significato illusorio della Mâyâ.
Nel Tantrismo çaiva, a
differenza che nel Tantrismo çakta,
il principio maschile pur prevalendo su quello femminile concede a questo un
ruolo non indifferente. Esattamente come
accade, in parallelo, nella Gnosi libertina rispetto alla Gnosi ascetica ed
alla Cabala. Nella sua analisi lucida ma
troppo audace E. purtroppo mescola sacro e profano, ortodossia ed eterodossia, luciferismo
e tradizione autentica.
(66) Tagl., p.48, n.62.
(67)
T.Perlini (a c. di), Maestri
dell’espressionismo- Perna, Milano 1967, pp. 3-4.
(68) Non possediamo purtroppo alcun catalogo
delle opere pittoriche di E. Ci siamo
semplicemente sforzati di ricordare, sebbene con molta difficoltà, i quadri
esposti in una mostra milanese visitata nei nostri anni giovanili.
(69) È noto il
paradosso applicato alla corsa del cavallo da parte futurista, cioè la
moltiplicazione delle sue gambe come fosse una locomotiva. Infatti la meccanicità del nuovo vivere
quotidiano del primo ventennio del Novecento viene percepita dal futurismo come
una novità assolutamente positiva, in contrasto colla mentalità ottocentesca.
(70) I corsieri luni-solari
della mitologia antica di lingua indoeuropea sono a loro volta, a livello
artistico, l’idealizzazione iconografica degli ancestrali equini selvaggi
dei graffiti preistorici.
(71) Cfr. ‘La
piazzetta di Settignano’, di T.Signorini (1.890) in E.Fezzi, Maestri dell’Imprerssionismo- Perna,
Milano 1967, tav.43. Le bestie da tiro che
compaiono nel quadro costituiscono, in fondo, la risultante romantica degli
aristocratici destrieri tardo-medievali o rinascimentali; vedi in tal senso il
monumento di A. del Verrocchio (XV sec.) dedicato al condottiero veneto
Bartolomeo Colleoni ne La storia
dell’arte raccontata da E.H. Gombrich- Einaudi, Torino 1966 (I ed. 1950, I
ed.it. Mondadori, Milano 1952), Cap.XV, p.282, fig.184. A mezzo tra di essi potremmo considerare i
cavalli agresti della ‘Scena campestre’ settecentesca del rustico
T.Gainsborough (ibid., Cap.XXIII,
p.466, fig.297) in un paesaggio rurale
che, a giudizio del Gombrich (ib.), appare
espressione d’uno stato d’animo pastorale piú che non una reale veduta naturale. In ciò il pittore inglese s’è posto da
tramite involontario fra il rococò arcadico del belga A.Watteau, appartenente
al Primo Settecento, e gli scorci panoramici degl’impressionisti della
Seconda Metà del XIX sec. Il critico
austriaco H.Sedlmayr, dal canto suo (La m.,
op.cit., pp. 215-6), opta per una
differente interpretazione del cavallo; per lui, rifacendosi a Weininger, quest’animale è un emblema della pazzia. Lo pone in primo luogo quale immagine, fra le
numerose create dall’arte contemporanea, a delineare uno stato di “segreta
sofferenza spirituale”. Secondo
Sedlmayr, insomma, l’equino che si slancia in una corsa pazza dopo aver
disarcionato il proprio cavaliere – quale troviamo ad es. nel ‘Cavallo che
scappa’ del realista francese G.Courbet (ibid.,
fig.10 n.num.) oltreché in altri pittori a lui precedenti (T.Gericault, F.Goya,
H.Daumier) o successivi (E.Munch, Kubin, Böckl) – sarebbe un contrassegno della
perdita degl’istinti da parte dell’uomo ultimo, un segno che la dissoluzione
era alle porte e non poteva essere fermata.
Notiamo che in effetti il primo romantico francese (ossia T.G.) si
dedicò dal 1820 in
poi allo studio dei pazzi, ma neppure a farlo apposta 2 anni dopo morR
prematuramente poco piú che trentenne per una disgraziata caduta da cavallo
(A.Bovero, Personaggi delle arti
figurative- Zanichelli, Bologna 1960, s.v.
GÉRICAULT, p. 129, coll.a-b).
(72) Vide ‘in E.Carli & G. Dell’Acqua, Storia dell’Arte. Dal Cinquecento ai Contemporanei-Ist.Ital. d’Arti
Grafiche, Bergamo 1969, p.418, fig.501 ‘Il paesaggio degli Appennini’ di G. De
Nittis (1.855-60), realizzato dal pittore pugliese nel suo periodo napoletano
(prima di partire alla volta della Parigi impressionista), apparentato allo stile
macchiaiolo toscano; quest’ultimo per la verità, sostenitore attivo dell’unità
nazionale, com’è dimostrato nel bellico ‘Soldati a cavallo’ (ibid., p.422, fig.505) o nel veristico ‘Il
riposo di barrocci romani’ (ib.,
fig.506) – entrambi del livornese A.Fattori (1.825-1.908) – sfruttò la lezione
del realismo romantico francese al fine d’illustrare la vita nostrana al di
fuori del ristretto ambito provinciale.
I cavalli del Fattori non sono quindi propriamente equini di città o di
campagna, bensR animali che pur ritratti in modo
assolutamente realistico dal piú importante pittore macchiaiolo (allievo
dell’Accademia di Firenze) già preludono ai disciolti cavalli allo stato libero
del Novecento. Vide n.seg. Non per nulla
(pp. 425-6) il Fattori dedicò la sua pittura alle aspre solitudini della
Maremma toscana, dove sul litorale ventoso galoppavano branchi di cavalli bradi.
(73) Vedi il ‘Secondo
Tempo’ di Tema e variazioni, in un
contesto nebuloso annunciante la morte delle stelle. E non a caso delle stelle rosse e bianche
appaiono suggestivamente disperse in mezzo a casuali strati di colore in un
olio su cartone del 1919, intitolato Mazzo
di fiori (AA.VV., fig.5; oppure in Tagl., p.70, fig.9). Riguardo i “grandi cavalli bianchi” che
passano nell’anima del poeta (Ra., op.cit., p.15) è lecito rifarsi ai
‘Grandi cavalli azzurri’ od ai ‘Cavalli rossi’ di F.Mark, pittore appartenente al Bläue Reiter (‘Cavaliere Azzurro’); movimento artistico sorto nel 1911
all’interno dell’astrattismo – il primo quadro astratto fu dipinto ad
acquerello da Kandiskij l’anno prima – nell’ambito della Germania guglielmina,
utilizzante evocative sagome equine in movimento tutte del medesimo colore
(blu, rosse). Cfr. Prl, op.cit., pp. 15-6, tavv. 12-3. La denominazione propria del movimento però
deriva da un quadro omonimo dello stesso Kandiskij, realizzato nel 1.903 e
raffigurante un eroe ispirato ai protagonisti delle fiabe tedesche e russe. Il dipinto vede un cavaliere tutto azzurro,
su cavallo bianco, che cavalca sullo
sfondo di una collina verde-oro. L’azzurro
in ottica kandiskijana sostituiva il blu, come spiegherà il pittore moscovita
nei suoi scritti teorici. Bisogna
segnalare, a questo proposito, il debito non riconosciuto che tutti i futuristi
ed i dadaisti (compreso E.) debbono a questo magnifico autore e
teorizzatore. D’altra parte anche
Kandiskij deve molto a chi l’ha preceduto, seppure indirettamente, cioè al
puntinismo francese ed in particolare al divisionismo italiano. Le sue teorizzazioni sui colori ed i loro
effetti fisici sul corpo, psichici sulla mente e spirituali sull’anima
precedono le elucubrazioni alchemiche evoliane (rispetto alle quali hanno un
maggior impatto ed una maggior chiarezza, occorre onestamente notare), ma
seguono gli studi ottici per quanto assai piú modesti dei
divisionisti segantiniani. Cfr., al
riguardo, le voci V.KANDISKY e IL CAVALIERE AZZURRO su ‘Wikipedia’.
(74) Vedi I
sogni, poesia già pubblicata in ‘Arte astratta’.
(75) A
parte la bella poesia analogista intitolata Astrid,
in francese e del tutto inconsueta nel contenuto per lo stile evoliano. I versi ci descrivono con cadenzate parole l’eleganza
d’una femmina, incorniciata alla finestra e stagliantesi su un’enorme città nera e bassa. L’incendio biondo dei suoi capelli sembra la
fonte (il testo dice ‘luce’) di piccoli luci lontane, il bianco dei denti pare
appellarsi alla pallida immobilità della luna.
Ed alfine conclude, virilmente: “E voi avete infranto il sortilegio/
tourbillon/la trasparenza vertiginosa delle vostre calze/ la schiuma dei pizzi
(in senso venereo evidentemente, forse con
doppio senso, N.d.T.)/ le vostre gambe che s’allontanano luminosamente/
l’idolo riversato e aperto/ il mio perdermi in voi/ inghiottito nell’oscurità
ardente/ senza fine/ il vostro grido breve/ fresca dilatazione/ dissoluzione.” C’è solo un piccolo particolare inquietante,
il ricorso ad un lessico inadeguato, seppur limitatamente all’espressione
ripetuta all’inizio e alla fine di “scena di dominio”. Probabilmente esageriamo, scottati da
‘Ballata in rosso’ (vide infra); ivi sicuramente
si tratta d’altro, ancorché il background
sia fosco come altrove, immancabilmente adagiato nelle tinte scure.
(76) Ev., Il
camm., p.27.
(77) Non abbiamo
consultato neanche questo libercolo, che analizzeremo forse in altro scritto
distinto, unitamente al testé citato poema francese; di cui l’a. offre un breve
sunto nell’autobiografia (op.cit, pp.
26-7), menzionando 4 personaggi incarnanti diverse “tendenze dello
spirito” ed esprimentisi secondo la tecnica dell’alchimia delle parole, cioè
delle parole dissociate dal loro senso comune ed usate evocativamente. Per quanto riguarda il manualetto d’arte
astratta, Sandro Giovannini (Evola
tra poesia e arte, art. on line) riconosce a questo (pp.9-10) 3
punti paradigmatici oltre i quali secondo E. l’arte spirituale avrebbe dovuto
porsi per esser definita veramente tale: a) la concezione concettuale del
mondo, b) la spiritualità generica, c) la naturalità dell’espressione. Conferma l’a. (Ar.., p.24), infatti,
che la sua adesione all’arte contemporanea era favorita dalla “prevalenza della
volontà sulla spontaneità”. Francamente,
però, codeste definizioni paiono molto intellettualistiche e tutto sommato
aleatorie. Certo, è spirituale ciò che
supera la ragione e quindi la mera concettualità; tuttavia, che significa “spiritualità
generica”? La spiritualità va sempre
oltre la generalità e la genericità, è un trascendimento che di per sé supera
anche la volontà, la quale permane pur sempre una facoltà psichica.
(78) D’altra parte
basterebbe dare uno sguardo ancor una volta all’astrologia, sia pur l’astrologia
convenzionale – in special modo ai cicli di Plutone (generazionali) e a quelli di Nettuno
(trasformativi) – per constatare che l’aspetto imponente e dirompente del
movimento romantico è andato in voga con Plutone nel Segno marziale dell’Ariete
(1.821-51), la fase tardo-romantica s’è svolta nel venereo Toro (1.851-82) e
quella decadente con Plutone nei mercuriali
Gemelli (1.882-913); che la ripresa delle forme, pur con assenza di
tratti naturalistici ha avuto luogo invece con Plutone nel lunare Cancro
(1.913-38). E che parallelamente Nettuno
(1.821-34) nel razionale Capricorno ha determinato il primo romanticismo
filo-nazionalistico ed eroico, mentre
col passaggio nell’imprevedibile Aquario (1.834-48) ha favorito letterariamente
il realismo storico-sociale e visionario di tipo balzachiano ed artisticamente
il realismo anarchico post-romantico courbetiano; in Pesci (1.848-61) ha lanciato
la moda pre-impressionistica, in Ariete (1.861-74) ha provocato la primaverile metamorfosi
impressionista ed in Toro (1.874-88) il sensuale verismo oltreché il
post-impressionismo. Viceversa in Gemelli ha ispirato la variegata policromia divisionista
(1.888-901), in Cancro (1.901-15) la stralunata moltiplicazione delle forme prospettiche
in senso cubista, nonché la loro successiva evanescenza nell’astrattismo ed
infine la loro movimentazione amorfa nel dinamismo plastico futurista; in Leone
(1.915-28) l’assolata pittura metafisica ed infine, in Vergine (1.928-42) la
simbiosi onirica tra veglia e sogno del surrealismo. Tipico di Plutone in Gemelli era
l’atteggiamento ciarlatanesco di volerla saper piú lunga degli altri, di
barare, di suggestionare, di creare artificT come oggetti o paesaggT
inesistenti se non nel proprio intimo, trascurando la realtà esteriore effettiva. La merculialità del Movimento Dada e di
T.Tzara, sotto tal profilo, è caratteristica.
Solo successivamente, coll’entrata di Plutone in Cancro spunterà la
pretesa, anche questa falsa in quanto pallida chimera lunare, di ricostruire
una dimensione tradizionalistica tramite le cd. ‘rivoluzioni conservatrici’; in
verità segretamente finanziate dall’oligarchia, non meno di quelle ‘democratiche’. Ed è triste, significativo delle limitate
vedute di E. nel vero campo tradizionale (quello che si connette agli Smarta hindu, non al tradizionalismo
luciferico europeo di stampo sinarchico), il fatto che questi si sia dimostrato
orgoglioso di esserne stato considerato un paladino; cfr. a tal proposito
J.Evola, Fascismo e Terzo Reich- Mediterranee,
Roma 2001 (è la VI ediz.corr. de Il
fascismo. Saggio di un’analisi critica dal punto di vista della Destra-
Volpe, Roma 1964), Cap.XI, p.173. E. alfine
nella sua ‘Autodifesa’ ha avuto almeno la saggezza di respingere il
bonapartismo (Napoleone fungeva da imperator
del Rosicrucianesimo deviato, di tipo baconiano, contrapposto a quello ortodosso
di marca newtoniana), citando Carlyle (ibid.,
p.174); ma in precedenza (ib., Cap.III,
p.132) come nella giovinezza aveva appoggiato, seppur non a chiare lettere, il
punto di vista filo-bonapartista e mazziniano del conte R.N.
Coudenhove-Kalergi. Anche Guénon
purtroppo ha commesso un simile errore da giovane, legandosi all’occultismo della
scuola ermetica di Papus e Sedir e tramite costoro all’ordine martinista; ma ad
un certo punto della propria vita se ne è distaccato per cercare un punto di
vista autenticamente tradizionale, agganciandosi all’esoterismo orientale
(sufico, vedantico e taoista), cosa che invece E. non sembra aver fatto se non
superficialmente. Di qui il suo limite
come autore, che rimarrà sostanzialmente anche in età adulta, seppur temperato
da approfondimenti teorici (soprattutto in campo ermetico) che non possono
comunque essere sottovalutati. Per una
disamina piú ampia della questione cfr. G.Acerbi, Le tematiche pagane ed orientali dell’Evola maturo (Alle pendici
del Meru, on line, pross.).
(79) Ibid. come alla 64.
(80) Parola del
critico d’arte Bonito Oliva, che ebbe a dichiararlo una volta in tv e non vi è
motivo di non credergli, essendo lui stesso di nobile famiglia.
(81) Il Giovannini (cit.) si domanda assurdamente chi sia la
dama in rosso. Non ci pare questo il
quesito giusto da porsi, a meno d’intendere simbolicamente, cosa sempre
possibile. Certo, tradizionalmente
parlando, si può rappresentare l’acquisizione interiore come una sorta
d’omicidio rituale. Tale tecnica l’ha
adottata il sottoscritto medesimo nella sceneggiatura filmica d’un tv-movie, ove sotto una parvenza di thriller minimalista ha indicato il
risveglio in senso buddistico nell’intimo della protagonista dei fondamentali 4
Cakra. Non ci sembra questo il contesto,
sinceramente parlando, per un’interpretazione del genere. Il Giovannini si chiede, poco astutamente:
–Che si debba forzare la nostra natura oltre ogni buonismo (oltre ogni
normalità del voler bene, del non fare violenza), rimanendo il tutto in una
sorta di mondo allegorico di piccole cattiverie giocate tra sguardi…”, e
bacetti e prove ginnico-salutuiste alla new-age?” Cosa, abbiamo capito bene? Che c’entra la New Age? La tendenza a
minimizzare a tutti i costi la portata sadica del testo la si coglie anche in
altri commenti di filo-evoliani. Vedi,
per es. il Caccamo (rel.cit.). Costui, addirittura, parla di “turbamento
sensuale con enfasi decadente”.
(82) Dall’assolo
finale la vittima risulterebbe esser dunque ancor viva, sia pur ridotta ad una
larva incosciente.
(83)
Cfr. coi rituali cruenti
induisti della dea Kâli,
taluni satanici e
tal altri no.
(84) C’informa il
Luci (Julius Evola 30-10-2003, discuss. on line) che secondo la Questura di
Roma, non meno del noto tradizionalista A.Reghini, anche E. era legato iniziaticamente
all’O.T.O.; ciò per la verità l’avevamo saputo anni fa, attraverso un comm. di
Federica ’79 (nick.) quando postammo
su un sito no-global un nostro
divulgativo art. (C.O.T.L., Julius Evola
e la lotta di classe- Indym.It., 27-07-03; rived. ora in I.Hud, Evola, l’Ordo Templi Orientis e la lotta di classe- C.O.T.L. &
Friends, blog, 5-4-14). Qualcuno
(T.Haql) contesta ciò in un suo art. pubblicato da 'Arthos', che non abbiamo purtroppo ancora avuto modo di visionare. Può darsi che abbia ragione e che la Questura
si sia sbagliata nella forma, ma di sicuro non nella sostanza. Secondo
altri (M.Introvigne) esistevano infatti crowleyani selvaggi, che basavano la
loro adesione sulle letture. Era E. uno
di costoro?
(85) Vedi
ad es. l’elenco di opere riportato in AA.VV, op.cit., Bibl., p.229 ss. La collez. compare, invece, in app. alla III
ed. di Cavalcare la tigre (Scheiwiller,
Milano 1973). D’altro canto è
menzionata anche dall’a. nell’autobiografia, dove è chiamata <edizione
normale> (p.27); segno che ve n’era stata un’altra precedente, guardacaso
non citata. Circa la prima possibile
edizione si racconta anche una strana storia, del “tiro birbone” organizzato ai
danni di Papini da parte d’una conoscente evoliana, che avrebbe dovuto
spingerlo a scrivere una prefazione riguardo il nome immaginario d’una persona
che si sarebbe uccisa in età giovanissima.
In effetti, aggiunge E. e lo crediamo sincero, il poeta che aveva
scritto quei versi era morto sul piano psichico. Fortunatamente, aggiungiamo noi, e capiamo perché.
(86) Giov., passim.
(87) Il tema pluviale
ricorre anche in uno straordinario quadro del 1919, Truppe di rincalzo sotto la pioggia.
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