giovedì 29 maggio 2014

L'EVOLA ARTISTA, LETTERATO E FILOSOFO- III




c)     L’idealismo magico-speculativo (1922-7)

         Nella propria biografia letteraria (88) E. dichiara che, dopo aver abbandonato la carriera artistico-letteraria, i suoi interessi filosofici s’erano volti soprattutto verso la corrente idealistica post-kantiana.  Afferma d’aver intuito a differenza d’altri il fondo pre-razionale di quell’atteggiamento nella volontà di dominio, collimante peraltro con uno dei due fattori dispositivi del proprio carattere (89), o per stare al linguaggio evoliano colla sua “equazione personale” (90).  Non a caso il N., prima di dedicarsi ad esperienze artistiche e filosofiche, aveva seguito studT tecnici e matematici (91).  Evola, a dire il vero, ha messo al primo posto tra le sue disposizioni l’impulso alla trascendenza (92), e, al secondo posto, la qualifica aristocratica.  Tuttavia lo scarso interesse pratico dell’a. ad aderire a qualsivoglia forma religiosa indica come la sua predisposizione prevalente non fosse quella d’un sacerdote, ma semmai d’un guerriero, per dirla all’indiana.  Il caso opposto fu invece di L.B.G. Tilak, un brahmana con attitudini kshatriya.  Benché le due personalità abbiano avuto, in effetti, molto in comune.  Sennonché l’uno ha mostrato maggior interesse per il Veda, l’altro per il Tantra, ed anche ciò la dice lunga sulle reali qualifiche di codesti autori.  Insomma, possiamo tranquillamente considerare E. un nobile con attitudini sacerdotali (93).  Ciò indipendentemente dalla valorizzazione che l’uomo ha fatto della proprie disposizioni individuali, di cui diremo approfonditamente nel pross.art. sull’argomento.  L’attitudine aristocratica lo ha portato infatti fin dalla giovinezza, fra i 25 ed i 29 anni, a teorizzare l’Io Assoluto quale espressione di potenza individuale di contro al comune ego.    
         Nonostante il riferimento lodevole alla sapienza lao-tsiana è chiaro che l’Io evoliano, sebbene scritto al maiuscolo, permane pur sempre a livello egoico anche se dilatato al massimo.  Ben altro è il punto d’arrivo in campo taoista dell’Uomo Reale o dell’Uomo Trascendente.  Manca ancora in questa fase speculativa al poeta e saggista siciliano una precisa conoscenza della dottrina ciclica, che evidentemente mutuerà in seguito da Guénon.  Speculatività od operatività a parte, l’ambito delle quali non era ancora stato ben distinto con chiarezza in lui (né forse lo sarà mai del tutto, ad esser sinceri), anche se ciò è normale nella parte giovanile della vita.  Egli si limitava a teorizzare un’azione interna realizzatrice, ma di che tipo e realizzatrice di cosa (94)?  Il Wu-wei spesso citato era probabilmente solo una chimera, per quanto si possa desumere da quel che seguirà nella vita del filosofo (95).  La realizzazione interiore non è questione né di formule né di parole, è il risultato dell’applicazione d’un metodo.  È in tale metodo che consiste essenzialmente una tradizione, non nella letteratura che ne consegue; a cui ci si può avvicinare con intelletto attento, ma se ne rimane pur sempre al di fuori.  D’altronde un metodo è insegnato da un maestro, non dai libri, neppure dai libri sacri.  A meno di ricevere un aiuto dall’alto (96), ma è l’eccezione, di cui peraltro non ci sembra E. abbia mai tenuto conto se non in minima parte.  Vista la scarsa riflessione, per non dire quasi avversione, da lui mostrata nei confronti del profetismo o degli argomenti affini.  La “calma olimpica” spesso ripetuta nei suoi scritti non è il wei-wu-wei, potrebbe semmai esser paragonato alla calma del Buddha.  L’imitazione delle sacre icone era un fatto oggettivo nell’Antichità, ciò tuttavia all’interno d’una pratica meditativa effettiva, non certo quale via iniziatica a sé (97).
         Insomma, il travaglio compiuto dal N. tramite uno studio sistematico delle grandi opere della filosofia tedesca (Kant, Fichte, Hegel, Schelling, Schopenhauer), oltretutto in tempi nei quali non erano a disposizione le traduzioni piú tardi pubblicate, va senz’altro elogiato; è il modus operandi d’uno studioso serio e profondo, che vuol giungere ad una meta.  Se poi a questo viene aggiunto dell’altro, vale a dire nozioni sapienziali tratte dal mondo antico e non solo quello ellenico ma anche quello orientale, è cosa assolutamente meritoria indipendentemente dai risultati ottenuti.   Rimane in ogni caso un’esperienza intellettiva che non supera l’ambito filosofico se non in minima parte.  Validissima, ed attuale, è comunque la critica che egli fa agli epigoni nostrani di quell’idealismo.  Al tempo imperava infatti, c’informa E., il neo-hegelismo crociano e poi gli subentrò quello gentiliano.  Il giovane Julius trovava gli esponenti di quel ramo troppo pedagogici, anzi assai presuntuosi e tali da esporre critiche superficiali alle vette del pensiero filosofico europeo, che con schopenhaueriana ironia definiva “professori dei professori di filosofia” (98).  Questo è un punto totalmente a favore di E. e ne condividiamo appieno il costrutto, indispensabile onde porsi al di là delle mode passeggere del tempo.  Per la verità il N. riconosce a Croce “maggior signorilità e chiarezza” rispetto a Gentile, ma ne mette ciononostante a nudo il livello puramente discorsivo, con quella brillantezza che gli ha fatto da gioiello indiscutibile in tutta la sua attività letteraria prevalentemente demolitrice.  Con saggezza a poco a poco apprende da costoro il gergo, s’aggiorna e gioca alfine le sue carte, ponendosi ad un livello superiore rispetto a loro grazie alla conoscenza diretta degli autori tedeschi e francesi tenuti in disparte dagli idealisti italiani,  a suo parere di cultura piuttosto ristretta. 
         Il punto  che distanziava E. dalle opere filosofiche coeve era senza dubbio, per sua ammissione, il proprio affidamento alle dottrine sapienziali; che faceva però rientrare limitatamente nell’ambito magico, sia pur concedendo a siffatto termine un significato piú ampio di quello abituale.  Per impulso magico egli intendeva, immanentisticamente, la “volontà di essere e di dominare”.  L’idealismo invece aveva messo da parte quell’impulso, che l’a. sentiva proprio, identificandolo alla trascendenza (99).  Aggiunge molto bene il N.: «Su tale base, sembrava eliminato ogni dubbio, veniva chiusa la porta al mistero, all’Io veniva fornita una rocca salda e inaccessibile, dove poteva sentirsi sicuro, libero e dominatore.»  L’Io cosR inteso era un Io trascendentale, lo Spirito Assoluto (Dio), il Lógos capace dell’atto cosmogonico (100).   Dinanzi a cui l’individuo concreto, a dire del Gentile, non era che “un fantoccio dell’immaginazione”.  Nelle varie tappe della filosofia trascendentale, da Kant a Gentile, E. ha intravisto “una fuga progressiva dall’Io reale” (101); intesa quale via di decadenza, in quanto l’Io in tal modo non si poneva a dominare “gnoseologicamente la contingenza dei fenomeni”.  Al contrario, si scioglieva in essa.  Il puro Io evoliano sarebbe, onestamente, da porre a metà fra il ‘Sé’ dello Yoga e l’Io Trascendentale degli idealisti.  Da quest’ultimo tenta di svincolarsi e ci riesce in parte, ma prima di arrivare al vetta reale del Sé ne è di nuovo avviluppato inconsapevolmente.  Sul piano teorico ha ragione quando rovescia la nota formula cartesiana in una nuova: «Sono, dunque penso» (102),  benché le identificazioni dichiarate di questo Io cosR concepito non appaiano corrette, poiché da un lato vien citato il Noûs ellenico e dall’altro l’Âtmâ (103) induista.  Si sa difatti che l’Âtmâ non  ha corrispondenza di significati nei linguaggT europei, a parte il riscontro puramente etimologico del ted.Atem (‘respiro’), mentre il Noûs corrisponde in sanscrito alla Buddhi, cioè l’Intelligenza.  A quale principio equivalesse perciò l’Io evoliano non è dato di sapere esattamente.  Vi è da credere che fosse una nozione ancora confusa di trascendenza immanente, specie di Super-io freudiano; o possibilmente, stando all’imprecisa identificazione evoliana, qualcosa d’analogo al JTvâtmâ indú.  Tuttavia va precisato che nel Vedânta a differenza di quanto suggerito da E. l’Anima del Vivente ritorna all’Âtmâ allorché si libera non già dell’individualità, bensì di sé medesima tornando nell’incondizionato, l’individualità propriamente detta in senso psichico-egoico essendo già stata superata nell’ottenimento della Buddhità; ossia nel passaggio interiore dall’Ahamkâra (‘Coscienza individuale’) alla Buddhi (‘Intelligenza’), dopodiché è necessario un ulteriore passaggio onde divenire una sola cosa coll’Essere (Sat), la Coscienza (Cit) e la Beatitudine (Ananda) Universale.  Ciò però corrisponde semplicemente all’Immortalità, detto in termini settari, ovvero all’identificazione col Signore (Îç).   Ma nemmeno questo è l’ Âtmâ,  l’ Âtmâ essendo il passo finale che conduce al Non Essere (Asat) o se vogliamo ancor oltre, ossia lo stato in cui si scioglie la differenza fra l’esistenza e la non-esistenza; quando cioè l’Anima del Vivente, cogliendo laliberazione da ogni tipo di condizionamento (Mukti), cessa di essere distinta dall'Anima Universale.
         Volendo legger tra le righe, si potrebbe rilevare che l’uso della parola ‘Io’ è congeniale ad un tipo di mentalità aristocratica anziché sacerdotale; qual è per l’appunto quella evoliana, indipendentemente dall’impiego del termine nell’idealismo.  Pensare all’Io come “puro centro di luce” è in realtà un’illusione, a meno d’intendere per esso il suddetto Jivâtmâ, in quanto si ha a che fare pur sempre a livello individuale con una luce riflessa.  D’altra parte la Luce vera appartiene unicamente all’ Âtmâ, che è come il Lampo.  Non c’è alcun termine di paragone nella grecità e nella romanità con questo concetto, siccome va oltre la filosofia e la teologia.  Sarebbe troppo poco paragonarlo al Lógos, corrispondente viceversa alla Vac (lat.Vôx, Verbum) nonostante la diversità di genere nominale, figuriamoci al Noûs!  Evola non aveva ancora assimilato bene la dottrina indú, ammesso che l’abbia fatto mai, se non attraverso lo studio compiuto per L’Uomo e il Tantra (104); riveduto successivamente e pubblicato col titolo de Lo Yoga della potenza, saggio sui Tantra (105).  Si comprende che, per quanto egli ci tenesse a ricordare che in tale campo come in altri era stato un pioniere in Italia, forse anche insuperato (non lo si può negare), allo studio dei Veda non ci sembra si sia mai dedicato appieno neppure in età matura.  Se non andiamo errati.  Proprio la sua qualifica personale, aristocratica e non sacerdotale, gliel’ha impedito.                     
         Tornando al campo strettamente filosofico, l.’a. osserva (106) che al tempo dei suoi 4 scritti sull’idealismo magico (107) la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo kierkegaardiano (108) non avevano ancora preso piede, per cui li ignorava (109).  Benché a suo dire ne sia stato, in qualche modo, anticipatore: “Ma, in fondo, io… ne riproducevo la tematica essenziale, cioè il paradossale e irrazionale coesistere e vicendevole implicarsi, nell’esistenza reale, del finito e dell’infinito, del condizionato e dell’incondizionato.”  E poi, tipicamente orgoglioso d’una propria sentita superiorità, aggiunge (110): “Ma mentre l’esistenzialismo doveva fermarsi alla constatazione di tale paradosso e di tale irrazionalità, indulgendo allo stato di crisi che allora necessariamente ne derivava… ovvero cercando… delle evasioni pagate con un cedimento interno… (111), io di quella struttura dell’esistenza feci un punto di partenza per la mia teoria dell’Individuo assoluto.”  Condividiamo.
         A parte le tematiche anticipatrici, che gli vanno riconosciute, in questa fase della sua esistenza E. mostra invero un pensiero piuttosto confuso, ancora embrionale diremmo.  Ciò è tipico di molti autori nel periodo giovanile, ovviamente.  Si comprende la volontà di chiarire i termini del dibattito filosofico dell’epoca, ma le risoluzioni adottate non appaiono del tutto convincenti, per cui è difficile seguirlo nelle sue elucubrazioni  mentali.  Ad es. quando (112) sostiene il concetto di libertà assoluta da parte dello spirito, anteriore alla libertà realizzata; “un puro arbitrio in grado di scegliere sia sé stesso che il contrario”.  Per questa strada arriva a considerare il valore e il non-valore come le due opzioni possibili.  Fin qui la cosa potrà apparire sensata, anche se si tratta d’un idealismo spinto agli estremi limiti, eliminando ogni senso pragmatico; ma subito dopo teorizza 2 vie, ispirandosi al filosofo goriziano d’origine ebraica C.R. Michelstaeder, anche lui non meno di Weininger finito tragicamente in giovane età: la via dell’altro, che definisce anche dell’oggetto, e quella dell’Individuo assoluto (113).  Queste 2 vie vengono paragonate alle 2 vie dell’antica misteriosofia e del buddhismo: da un lato la dispersione nei vortici molteplici del mondo fenomenico ovvero del samsâra, e, dall’altro, l’acquisizione interiore del Risveglio ossia dei Misteri.  La presunta audacia dello scrittore è di metterle entrambe sullo stesso piano, in nome della libertà assoluta, ed è qui che egli cade in un individualismo insensato.  L’Uomo ha libertà di scelta, in ciò consistendo il Libero Arbitrio (equivalente al Karma indú) che anche il cristianesimo gli concede, ma ne paga comunque le conseguenze.  Con incoerenza si dedica però esclusivamente a descrivere la via dell’Individuo assoluto, annunciata dapprima nella seconda parte di ‘Teoria’ e ripresa poi nell’intera ‘Fenomenologia’.  Se vogliamo veramente metter le cose a posto, dobbiamo precisare per contro che la via fenomenica – vuoi nelle dottrine occidentali, vuoi in quelle orientali – si contrappone inevitabilmente all’altra, non può risultare un’opzione.  Certo, l’Individuo può sceglierla in seguito a fallacia di giudizio o per debolezza, o persino di proposito nel caso sia un semplice padre di famiglia, ma in ogni caso rimarrà condizionato da tale scelta.  Questo è il sentiero oscuro, in rapporto al Kaliyuga, che gl’indú chiamano Pitryâna (‘Via degli Antenati’) e che dopo la morte conduce il semplice devoto alla rigenerazione attraverso il ceppo paterno o materno.  La buddhistica ricaduta nel Samsâra, in certo senso, corrisponde a tale via.  Alla rigenerazione samsarica va contrapposto giustamente – come vuole E. – il percorso verso il risveglio interiore (vide supra), l’equivalente della via misterica, stando alla definizione del filosofo siciliano; ma non la “via degli Svegliati”, che è altra cosa e può esser percorsa soltanto da speciali individui: Buddha e Bodhisattva.  La strada del Risveglio è, semmai, il sentiero luminoso del Devayâna (‘Via degli Dei’); il quale avvia verso gli stati superiori d’esistenza le anime degl’iniziati, sì ma dei comuni iniziati.  Mentre la Via degli Svegliati (Bauddhâcâra) è in realtà il Madhyamikavâda (‘Cammino di Mezzo’), che pure i Pitagorici indicavano con una  Y, cui era aggiunta graficamente una linea tratteggiata intermedia (114).  Probabilmente E., che in quegli anni non aveva ancor bene studiato le tradizioni pagane e quelle orientali, s’è confuso colla distinzione fra pratiche ascetiche e pratiche libertine, in altre parole fra la Via di Destra (scr.Dakshinâcâra) e quella di Sinistra (Vâmâcâra).  In questo caso siamo di fronte, effettivamente, a 2 vie pressappoco equivalenti: si può scegliere l’una o l’altra a seconda delle proprie disposizioni individuali ed il risultato finale è quasi il medesimo, nonostante le notevoli differenze di percorso ed i diversi proclami dei varT testi settarT.  Anche in codesta distinzione vi è d’altronde una Via Intermedia, di Centro si potrebbe dire, come accade nel Tantrismo coll’Uttarâcâra.  Soltanto un jTvan-mukta può insegnarla, non un qualsiasi guru (115).  Nel caso dell’esoterismo buddhista (116), greco od ebraico ci troviamo di fronte a distinzioni analoghe, che non stiamo ivi a delineare per brevità, avendolo già fatto in altri scritti.
        Nei ‘Saggi’ (117) lo scrittore aveva postulato che il principio idealistico secondo cui l’Io determina le cose era valido solamente allorquando “l’individuo abbia trasformato in un corpo di libertà” (cioè in potenza) “l’oscura passione del mondo”(118).  Si palesa cosR il superamento del N. del superomismo iniziale di stampo nietzchiano (119) in favore di concezioni tantricizzate, benché ovviamente adattate all’epoca.  Dal punto di vista evoliano il filosofo idealista si limitava unicamente alla discorsività, non possedendo realmente le cose e dunque non essendo in grado d’annullarle.  In parole povere, non sapeva annientare l’altro-da sé.  In ciò mostrava un’inesorabile alienazione, dovuta a privazione, pur utilizzando espressioni altisonanti quali “io trascendentale”.  Questa critica è perfetta, non occorre riconoscerlo.  Anche l’idea che “fra persona e soggetto universale non vi è alterità ma progressività” è efficace, non c’è nulla d’aggiungere.  E prosegue (120), con acume, che «la persona è il soggetto universale in potenza e il soggetto universale è la persona in atto».  Il che concorda colla dottrina sapienziale vedantica del Jivâtmâ e dell’Âtmâ, non invece colla dottrina mahabharatiana del Tripurusha; la quale non meno della dottrina gnostica giudaico-cristiana pone uno iato fra l’Assoluto ed il Signore Iddio, identificando in genere solo quest’ultimo alla forma celeste del Primo Uomo e d’ogni figura avatarica, specialmente di Krsna (121).  Gli altri, i semplici Perfetti, sono invece equiparabili alla Terza Persona; la Persona Peritura, che i cristiani chiamano ‘Spirito Santo’, sostituendo all’avatâra la figura profetica del Figlio (122).  Si correggerà nell’autobiografia (123) asserendo la non-esistenza dell’Io assoluto e la possibilità, semmai, “dell’Io di rendersi assoluto”.  Un’ulteriore intuizione fu d’intendere l’idea come una realtà in potenza e la realtà un’idea in atto.  L’intromissione nel discorso della magia, per E. la scienza dell’Io, la si ha mediante la progressiva trasformazione dell’Io in soggetto universale (124).  Infatti l’unificazione con tal soggetto – l’a. impiega il termine ‘unizione’, sempre allo scopo di vanificare il dualismo – comporta possibilità magiche oltreché noetiche.  Come insegnano lo Yoga e, aggiungiamo noi, l’Alchimia.  Poi E. va oltre ed, insistendo sull’argomento, cade in errore subordinando la verità alla potenza.  In questo caso non siamo d’accordo per nulla.  In tal modo infatti, lo si riconosce da parte del N., si aprono le porte a possibilità catastrofiche.   
        Naturalmente E., data la sua innegabile apertura mentale, trasborda dalla metapsichica e asserisce cose interessanti degne d’un grande scrittore.  Per quanto, sin qua, gli manchi quell’incredibile lucidità di pensiero che lo caratterizzerà nella fase successiva e piú oltre.  Il suo argomentare per il momento è un po’ astruso, troppo teso alle formule astratte.  Il periodare appare convulso, si compiace delle parole non in lingua, specie del francese e del tedesco; nonché di neologismi o parole molto ricercate quali “unizione, superessenza, partitamente, epperò”, tratte chiaramente dalle sue letture filosofiche, senza tuttavia che il contenuto sia adeguato allo stile aulico.  Una visione giovanile comunque destinata a far faville in età adulta, almeno nell’ambiente elitario della cultura, seppur gravida di problemi irrisolti.  Tutto un mondo insomma che ritornerà nel bene o nel male, nell’E. maturo, nelle forme proprie d’una serrata critica al mondo moderno.  Salvo il riconoscimento d’una Tradizione, che nelle parole medesime dell’a. era cosa in gran parte ormai desueta.  Il tentativo ciononostante di riorganizzarne una sul piano ideale e su quello materiale è la virtú principale, nonché per certi versi il vizio fondamentale, di tutta la speculazione evoliana e di coloro che ne hanno arditamente seguito le orme.






(88)     Ev., Il camm., p.33.
(89)     Ovviamente qui s’intende il carattere in senso astrologico, vale a dire in senso lato; in altre parole, le disposizioni individuali.

(90)     Ibid., pp. 11-2.

(91)     Ib., p.13.

(92)     Notiamo attraverso il linguaggio ed i contenuti del periodo filosofico evoliano che lo scrittore nel suo percorso speculativo non si era ancora distaccato completamente dall’alveo giudaico-cristiano, pur concedendosi ad interpretazioni esegetiche non del tutto in linea con quelle comunemente accettate.

(93)     L’oroscopo individuale a nostro giudizio lo conferma, quantunque i pianeti in segni ariosi siano di piú di quelli in segni ignei; vi è un handicap ad ogni modo che pregiudica la prevalenza dei primi, il fatto che i secondi siano meglio aspettati.  Giove e Venere determinano la qualifica sacerdotale, secondo l’astrologia induista nepalese, e questi due pianeti nel cosmogramma dell’a. sono entrambi condizionati dall’Elemento Aria.  Ecco la ragione dell’autoriconosciuto senso di trascendenza.  Mentre Saturno ed il Sole, pianeti determinanti la predisposizione aristocratica, si trovano l’uno in segno di fuoco e l’altro in segno di terra: questa la motivazione del basso grado nobiliare del casato familiare.  Bisogna riconoscere, d’altronde, che E. ha esercitato un mestiere intellettuale e non una disciplina militare.  Ciononostante va tenuto conto per una piú approfondita analisi della qualifica personale dell’a. l’ascendenza leonina, oltretutto appoggiata dalla marzialità arietina e dalla razionalità sagittariana, a sua volta direttamente spronata dalla dinamicità uranica; tale quadro di relazioni astrali non poteva che conferire ad E. quella “tensione verso l’incondizionato” che egli sia pur con altre parole confessava di percepire in sé e che il lungimirante pittore L.Alessandri (AA.VV., pp. 11-4) ha una volta candidamente ricordato a bella posta, pur accusandolo a ragione fra le righe di ambiguità, di pregiudizio ideologico nonché di sopravvalutazione della volitività e dell’azione rispetto a temi come l’amore e la conoscenza.

(94)     Il fatto medesimo ch’egli non parlasse mai di ‘realizzazione spirituale’, come han fatto altri, ma semplicemente di ‘azione realizzatrice interna’ ci porta di nuovo a sottolineare quanto con acume suggerito dall’Alessandri (vide n.prec.).  Non si tratta tanto di paura di chiamare le cose col loro nome, quanto di sottovalutazione evidente del fattore intellettivo.  Certo, E. non aveva del tutto torto.  Il procedimento interiore che porta alla realizzazione dello spirito dopo il ‘Peccato Originale’ – inteso esotericamente quale perdita dell’identità col Divino – è divenuto obsoleto, ha bisogno d’essere riscoperto, praticato; non è un processo spontaneo, come in origine, necessita d’un azione ascetica occulta in senso shivaico.
(95)     La contraddizione evoliana è di menzionare il Wu-wei, ma di non praticarlo se non esteriormente.  Il vero ‘Non-agire’ è il lasciar attraverso il distacco interiore che le cose si sviluppino da sole, dando prima o poi i loro naturali frutti.  Per ottenere questo occorre una disciplina del pensiero notevolissima, portata all’estremo limite del’ascesi interiore, che dai risultati non ci pare E. abbia effettuato in sé.  Da cosa lo deduciamo?  È ovvio, dai frutti.  Per ora, comunque, ci limitiamo a considerare il periodo giovanile, fino al ’27.
(96)     L’aiuto è sempre possibile, lo abbiamo sperimentato di persona, seppur nel nostro caso avessimo già frequentato in precedenza la via maestra.  Tutti i fondatori di scuole sono dei missionati, in tal senso, giacché ricevono un appello dalla Divinità ad aprire una determinata via.  (Ivi, è ovvio, non stiamo parlando né di avatâra né di profeti, ma semplicemente di battitori solitarT alla M.Eckhart o alla J.Böhme).  È stato Evola l’apritore d’una nuova via?  Chissà!  Personalmente non ci pare, ma non sta all’uomo giudicare le cose divine, come il papa attuale (novello Pietro II) c’insegna.  Per chi volesse metter in dubbio la parola del pontefice su base pregiudiziale anti-cristiana, sappia che un papa è colui che alla sua epoca porta l’Anello del Pescatore; in altre parole è la veste exoterica del Re Pescatore (o Re del Mondo), custode esoterico del Santo Graal.  Non a caso Papa Francesco – che a giudicare dai ‘segni dei tempi’ parrebbe essere l’ultimo papa, insomma il papa santo gioachimita atteso in segreto dalla curia vaticana – è nato il 17 dicembre, cioè nel giorno in cui il Sole nella sua proiezione zodiacale si situa al centro della galassia.  Naturalmente le galassie non facevano parte della visione astrologica tradizionale, d’origine tolemaica, ma fanno parte guardacaso dell’Universo ossia di quel cosmo che è etimologicamente Uni-versus (‘rivolto all’Uno’).  Tutto ciò che esiste, visibile od invisibile che sia, non è che un simbolo di ciò che lo trascende.  Tant’è che gli antichi definivano la Via Lattea, vestigio siderale di spirali galattiche, il “Sentiero delle Ombre”.  Dato che le Ombre ovvero gli Antenati appartengono all’invisibile, non si può certo credere che la consapevolezza della loro esistenza sia anti-tradizionale ed esclusa dai sacri insegnamenti.
(97)     Ci nuovo ci tocca far presente che, sebbene rarissima, anche questa via iniziatica irregolare è in realtà possibile.  La Divinità aiuta il cuore di chi la cerca dovunque questi si possa trovare ed in qualsiasi contesto umano.  Le storie sufiche narrano d’un ragazzo entrato nella Via semplicemente per aver a lungo servito il the a dei sufi.  Il contatto umano non è cosa indifferente per chi ha il cuore svincolato dal pregiudizio e dei semplici umanissimi gesti, ripetuti casualmente da coloro che sono sulla Via, non possono non influenzare spiritualmente quelli che a mente aperta si trovano in un modo o nell’altro ad aver a che fare con loro.  Ciò detto, per beneficio d’inventario, il caso dell’a. ci pare diverso, almeno crediamo salvo ripensamenti futuri.   
(98)     Ev., op.cit., pp. 34-5.
(99)     Questa è una distorsione del significato proprio del termine ‘magia’, indicante invero la ‘via’ (scr.mârga) di natura solare  percorsa dal mrga (‘cervo’), incarnazione del Mâyin (‘Incantatore, Mago’), identificabile cosmologicamente all’asterismo di Orione.  Cfr. Ac., Le m., § 4, p.223.  E. era nato, non a caso, col Sole in Orione!  Come sempre E. non appare mai nel giusto, mai nell’errore; ha costantemente un suo modo personale di distorcere le parole conferendo loro alla fine, non si sa bene come, un’accezione quasi adeguata.  Pur comprendendo che la magia non è nulla se non ha valore operativo, la riduce filosoficamente a ‘scienza dell’Io’; ma la magia, intendendola spiritualmente e non psichicamente (vedi magi persiani), è ben altro.  È incantazione della mente a scopo liberatorio, non incantamento a fini di dominio egoico.  Dunque, l’essere e il dominare stanno su piani diversi; a meno che s’intenda l’essere come volontà di potenza individuale, il che è una contraddizione in termini.  Già lo segnalava l’Alessandri (AA.VV., p.13), anche se con altre parole.  Poiché l’Essere reale si trova al là dell’individuo, l’individualità non avendo alcuna assolutezza se non a livello illusorio, ipertrofico.      
(100)     Ev., cit., p.41.
(101)     Ibid., p.43.
(102)     Ib., p.44.  Giusto, ma sarebbe stato meglio, anche qui, asserire da parte del barone: «Esisto, dunque penso», affinché non si scambi l’essere come un mero atto di volontà individuale.  L’Esistenza ci è donata dall’Assoluto, non siamo noi a volerla.  Fra il Vivente (scr.Jiva) e l’Anima Universale (scr.Âtmâ) – come insegna la dottrina vedantica – c’è sempre uno iato, incolmabile sino alla morte.  Non la morte fisica e neppure quella psichica, ma semmai quella spirituale.  Nessuno può attingere direttamente all’Assoluto, sarebbe come tentar d’acchiappare il Lampo e non è questo che c’insegnano la Rivelazione e la Tradizione; ciascun individuo ha la facoltà – se non vuol fare come il Barone di Münchhausen che si tirava per i capelli – di affidarsi al Tuono e il Tuono è rappresentato dalla Parola Divina, che sola è proferita dalle Divine Incarnazioni, maggiori o minori.  Al fine di afferrar con essa almeno il Fulmine, cioè l’Essenza Divina, sR da tramutarla in fuoco e luce della Coscienza.  L’Essenza Divina (scr.Purusha) è peritura (kshara), non  la Voce Divina (scr.Vac, lat.Verbum, gr.Lógos) che dall’Essere promana quale fonte d’esistenza per le forme molteplici, compreso l’ahamkâra (lett. la facoltà ‘creatrice dell’io’).  Naturalmente si può passar per la Tradizione, anziché per la Rivelazione: il cammino in questo caso è piú lungo e faticoso, ma va tenuto conto d’una cosa.  Che la Tradizione dipende dalla Rivelazione, come il Re Pescatore graalico dipende da Cristo.  Prima dell’avvento del cristianesimo era Bran presso i celti a svolgere tale funzione, come Brahmâ presso gli indú.  Bran aveva un fratello, Mananann; Brahmâ invece ha un alter-ego, l’uomo delle origini, Manu. La sostanza del mitologema in ogni caso è la stessa.  Cioè, il Rivelatore si rivela nel cuore dell’Uomo e di qui comincia la Tradizione in quanto trasmissione di bocca in bocca, da orecchio in orecchio; ma la Tradizione non inizia da Manu, né da Brahmâ.  Parte da Shiva e si trasmette all’uomo asurico, duale, come fra i celti Merlino. Il caso del re Artú è ancor peggiore, poiché riceve gl’insegnamenti non direttamente dal Cielo, bensì dal bardo Merlino.  I bardi e tutta la classe sacerdotale in genere facevano da tramite, infatti, fra il Cielo e l’Uomo.  Ciò non significa che sia mai esistita una Tradizione indipendente dalla Rivelazione, o meglio esiste; ma ha carattere luciferino, contro-tradizionale.  Tutte le scuole iniziatiche valide si rifanno ad una figura avatarica, o messianica per dirla in termini giudaico-cristiani, altrimenti hanno un funzione contro-iniziatica.  Persino i cd. ‘Solitari’ attingono a Râja Khadir, il quale come insegna Guénon non è che la personificazione dell’Eterna Manifestazione Divina.  Anche in tal caso c’è una Rivelazione, simile a quella avuta da Manurâja o da Mananann nei primordi.

(103)     Non si capisce perché l’a. scriva il termine ‘Io’ al maiuscolo e le altre due parole, rispettivamente greca e latina, al minuscolo.

(104)     Atanor, Todi-Roma 1925.

(105)     Bocca, Milano 1949 (III ed. Mediterranee, Roma 1972).

(106)     Ev., Il camm., p.45.

(107)     Cioè Saggi sull’idealismo magico- Atanòr, Todi-Roma 1925; Teoria dell’Individuo assoluto- Bocca, Torino 1927 (rived. 1948-9; rist.  Mediterranee, Roma 1973); Introduzione alla Magia quale scienza dell’Io (Gruppo di Ur, diretto da Evola)- Roma 1927-9, 3 voll. (ed.riv. Bocca, Roma 1955; rist. col tit. Introduzione alla Magia, Mediterranee, Roma 1971); Fenomenologia dell’Individuo assoluto- Bocca, Torino 1930 (rist. F. dell’I.A.- Mediterranee- Roma 1974).     

(108)     Com’è noto, le ‘Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica’ fecero seguito nella Germania del Novecento (Husserl, 1930) alla ‘Fenomenologia dello Spirito’ del secolo precedente (Hegel, 1807).  In questa fondamentale opera  G.G.F. Hegel tracciava la successione di gradi mediante i quali la coscienza era in grado di elevarsi dallo stato di coscienza volgare a coscienza filosofica perfetta, atta a percepire l’identità propria coll’assoluto.  Ovviamente si trattava d’una identità di tipo ideale, non reale, secondo quanto avveniva in campo esoterico.  E.Husserl, invece, aveva dato in un primo tempo alla sua fenomenologia una base rigorosa per le scienze sperimentali; ma viceversa nella parte finale della vita espose una critica alla scienza contemporanea (vedi La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1935-7), dichiarandola fallita e tornando ad una nuova forma d’idealismo trascendentale, quello fenomenologico.  Che, in certo senso, può essere accostato all’idealismo evoliano ante-litteram; vuoi per la comune ispirazione hegeliana, vuoi per le influenze generali di tipo modernistico alle quali furono sottoposti inconsapevolmente tutti gli autori del XX secolo.
(109)     La fenomenologia husserliana influenzò profondamente l’esistenzialismo, che aveva riscoperto tardivamente il filosofo danese anti-hegeliano S.Kierkegaard, propugnatore d’una nuova irrazionalità imperniata sulla fede.  Husserl aveva delimitato il proprio interesse al solo dominio della conoscenza, quale frutto d’una intuizione eidetica che si discostasse dai dati sensoriali (in ciò è visibile l’influenza del coevo E.Bergson, criticatissimo da Guénon); mentre le indagini dell’esistenzialismo contemporaneo si sono spinte piú in là, verso la vita sentimentale e quella pratica.  Con M.Heidegger, il portavoce di questo neo-esistenzialismo, la fenomenologia è ridivenuta però ontologia.  Non a caso la principale opera di quest’autore, del 1927, è intitolata Essere e tempo.  Dopodiché Heidegger tornerà a parlare di metafisica, di platonismo e di verità senza dimenticare comunque la lezione husserliana in merito a quest’ultimo.  Ciò che lo distingue nettamente dalla precedente tradizione filosofica, tuttavia, è il ruolo ch’egli assegna all’angoscia nello spingere l’uomo a riflettere sulla radice dell’esistenza, identificata nel nulla.
(110)     Ibid. come alla 106.
(111)     In Cavalcare la tigre  (Scheiwiller, Milano 1961; II ed.riv. 1971, Capp. 12-5 passim), E. esaminerà i postulati fondamentali dell’Esistenzialismo, segnalando l’insofferenza anarcoide di questo movimento culturale verso ogni forma d’autorità temporale o spirituale.  Per gli esistenzialisti l’esistenza precede l’essenza, intendendosi per questa ogni forma di giudizio e di valore.  Essendo però l’esistenza a livello pubblico fatta d’inautenticità, di fuga da sé stessi, ci si perde nelle chiacchiere, negli equivoci, nelle evasioni varie.  L’esistere autentico salta fuori allorché si percepisce il nulla sotteso al vivere quotidiano, l’assurdità della vita contemporanea.  Per gli esistenzialisti non ci può essere un sé distinto dall’essere-nel mondo ed è questo che il filosofo siciliano contesta loro, a ragione.  Per la verità il punto di partenza di codesta speculazione si trovava già in Kierkegaard, il quale intendeva il principio esistenziale come un punto paradossale d’incontro fra finito ed infinito, temporalità ed eternità.  Secondo Sartre invece per agire occorre abbandonare l’essere e passare al non-essere, ogni fine corrispondendo ad una cosa non ancora esistente.  Era dunque la libertà d’agire ad introdurre il <nulla> nel mondo.  La libertà non era altro da questo punto di vista nientificante (néantisant) che una rottura col mondo e con sé stessi, tal processo dando luogo all’esistere nel tempo.  Per il Sartre infatti “libertà, scelta, nientificazione, temporalizzazione” non costituiscono che un’unica medesima cosa, essendo propria all’uomo a suo dire la libertà assoluta.  La condanna dell’uomo ad esser libero è stata sentita dagli esistenzialisti come dato primordiale ed angosciante.  L’uomo non avrebbe fatto altro che quel che voleva.  Essi hanno percepito l’esistenza quale peso, la libertà assoluta nientificante quale enorme responsabilità, pur non ponendosi problemi circa la provenienza od il fine della vita, come se l’uomo fosse venuto ad esistenza per caso.  Sottolinea E., con acume, responsabilità dinanzi a chi?  Ecco il punto critico di tutta questa forma di pensiero agnostico, la cui radice è in fondo l’angoscia del possesso d’una libertà subita anziché raggiunta.  In Heidegger il problema viene reso ancor piú palese: si è gettati nel mondo come mera possibilità d’esistere, di qui deriverebbe la nostra segreta angoscia esistenziale.  L’Esistenzialismo ha funto insomma da <filosofia della crisi> (per questo è stato ripreso nel Dopoguerra e divulgato), poiché ha trasformato il vivere in puro divenire, mettendo peraltro in risalto gli aspetti inautentici del nostro vivere sociale, giungendo quindi ad una diversa e piú sofferta forma di nichilismo rispetto a quelle in voga nella seconda metà dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento.  Nel descrivere le 3 categorie di male suggerite da Jaspers, particolarmente la terza, E. ha tuttavia una caduta di livello del tipo di quelle che aveva avuto in gioventú.  Segno che aldilà dell’evoluzione sicuramente riscontrabile nella capacità di chiarire i temi trattati, innalzando notevolmente il proprio punto di vista, sono rimasti in lui certi limiti strutturali di pensiero e di giudizio anche in età adulta ed oltre.  Giacché la critica all’Esistenzialismo di non aver un ben chiaro rapporto colla trascendenza, cosa che in effetti non si può negare, lascia il tempo che trova allorché l’a. accusa lo Jaspers di ricaduta nella morale religiosa quando questi addita nella volontà nichilista di distruzione e di crudeltà qualcosa che a differenza dell’amore allontana dall’essere.  È purtroppo il solito cliché evoliano rimproveratogli alla n.93.  Il barone rigettando l’amore come se fosse solo un sentimento romantico parla genericamente di uomo integrato, con rimandi all’incondizionato, senza spiegare bene cosa intenda con codeste espressioni e perché le voglia porre al di sopra dell’eros inteso in senso ontologico.  L’Esistenzialismo di certo lascia irrisolto il problema del rapporto colla trascendenza, ma altrettanto vale per l’a.  È vero che l’Esistenzialismo non spiega in chiari termini in cosa consista l’atto pre-temporale determinante la caduta nel mondo e che preesiste in sottofondo in tal tipo di teoretica il senso non riconosciuto del Peccato Originale, ma questo è un fattore positivo; non negativo come vorrebbe E., incapace  come sempre di disfarsi della sua mentalità luciferina e superomistica.  Il N. sa comunque volgere la situazione a suo favore, descrivendo il discentramento degli esistenzialisti rispetto alla trascendenza; il che in parte è vero, ma la cosa vale pure per lui, seppur in altro ed opposto modo.   Eccolo allora cautelarsi menzionando in opposizione al senso di colpa esistenzialista, d’inconsapevole matrice giudaico-cristiana, il senso greco del limite e della forma, riflesso divino – asserisce – dell’assoluto.  Critica alfine il pur valido concetto di Jaspers che “senza la trascendenza la libertà sarebbe solo arbitrio senza senso di colpa”, dimostrando di non capire né il lato migliore dell’Esistenzialismo (cioè il background biblico) né l’equivalente pensiero greco.  La Grecia spesso tirata in ballo dal filosofo è talvolta una Grecia irreale, travisata.  I Greci provavano un senso ciclico di colpa non troppo diversamente dagli Ebrei, secondo quanto mostra il mito di Edipo del parricidio e dell’incesto materno; cioè dell’Uomo che nell’Età del Ferro, dimentico del Deus Pater, si è messo ad adorare la Magna Mater.  Cfr. in proposito G.Acerbi, Edipo e l’Enigma della Sfinge tebana – Heliodromos N.S. (aut. ’98-inv. ’99), N° 15, Catania 1999, passim.  L’a. conclude affermando che la trascendenza dovrebbe includere calma e sicurezza nell’azione, non angoscia e solitudine.  Ancora una volta il termine di paragone per la critica è inadeguatamente il titanismo nietzchiano e gli strali si rivolgono contro la filosofia religiosa, se non addirittura per interposta persona contro la fede cristiana; per salvarsi la faccia E. riporta la visione esistenzialista alla teologia liberale protestante, cosa che ovviamente non è lontana dal vero.  Il punto piú controverso nel giudizio finale risulta la contrapposizione fra il concetto di esistenza e quello di trascendenza.  Prendendo i due termini nel loro significato reale è evidente che l’Esistenza, in senso shamanico, non è diversa dall’induistico Svayambhu (l’Esistente-in sé); mentre la trascendenza rappresenta, semplicemente, l’atto exoterico di riportare ogni forma al suo principio.  E. al contrario fa di quest’ultima, tradendo in ciò anch’egli un’inconfessata influenza cristiana (anche in questo caso di natura protestante), il fine del sapere tradizionale, mostrando così d’esser incapace non meno della comune filosofia di portarsi molto aldilà dell’idealismo trascendentale post-kantiano.  Nonostante i riferimenti tradizionali isolati del contesto.                       
(112)     Ibid. come alla 110, p.46.
(113)     Ib., pp. 46-7 (in riferimento a Teoria).
(114)     Vide R.Guénon, Simboli della Scienza sacra- Adelphi, Milano 1975 (ed.or. Symboles fondamentaux de la Science sacrée- Gallimard, Parigi 1962), § 37, p.213, n.4.  Si noti che lo stesso Guénon assimila per brevità, non illustrandole dovutamente, le differenze fra le 3 ‘Vie della Virtù e del Vizio’ con le 3 ‘Vie Ermetiche’; benché, in effetti, occorra riconoscere che una relazione fra di esse esiste.  Dato che le prime si riferiscono alla situazione costante dell’Età del Ferro, presa a paradigma; mentre le seconde, alludono non solo a quest’ultima età, ma pure alle due precedenti intese dinamicamente.
(115)     Cfr. S.C. Banerjee, Brief History of Tantra Literature- Naya P., Calcutta 1988, Intr., p.45.  La nozione, inconsueta per la letteratura tantrica che tende a semplificare in 2 vie, è tratta dai Pârânanda-sûtra.  D’altra parte i testi tantrici sono di 3 tipi, in base alle 3 correnti incorporate in essi: âgama, samhitâ e tantra propriamente dettiVedi, in proposito, N.N. Bhattacharyya, History of the Tantric Religion- Manohar, N.Delhi 1987, Cap.II, p.38.  Ciascuna di codeste categorie postula a vicenda una via differente: di destra (çaiva), di mezzo (vaishnava), di sinistra (çâkta).  La Via di Mezzo è anche detta Madhyamamârga, giacché tende a seguire il cammino tracciato dagli avatâra vishnuiti o dai jivanmukta (avatâra minori), non soggetti alle leggi karmiche.  Dato che i Tantra sono scritture rivelate significativamente alla fine del Tretâyuga, secondo la tradizione indiana (cit. da J.Woodroffe in Principles of Tantra- Ganesh & C., Madras 1986, P.II, Intr., p.29), è evidente che il Tantra originario – sorta di Âdi-tantra – era esclusivamente shivaita; anche se ha finito per assumere dapprima (Dvâparayuga) valenze vishnuite  e poi (Kaliyuga) shaktiche, tanto da designare in particolare queste ultime. 
(116)     Ci limitiamo a segnalare in nota come, analogamente al Tantrismo induista, in quello buddhista – meglio noto come Buddhismo tantrico – esistano 3 vie equivalenti; tutte nate da una sola primaria, il Mantrayâna.  Cfr. S.B. Dasgupta, Introduzione al Buddhismo tantrico- Ubaldini, Roma 1977 (ed.or. Introduction to Tantric Buddhism- Shambala, Berkeley & Londra 1974), Cap.5, § II, p.63 ss.  L’ascetico Vajrayâna (‘Via Adamantina’ od alternativamente, in base al doppio significato della parola Vajra, ‘Via della Folgore’) adempie ad una funzione analoga a quella del Dakshinacâra.  Invece il Sahajayâna (lett. ‘Via Naturale’, giacché sublima g’impulsi ordinari come la fame o il sesso), che ne è derivato rigettando ogni formalità del culto e le austere pratiche di disciplina, ricalca per certi aspetti l’Uttaracâra, sostituendo peraltro il risveglio della potenza della Kundalini nel Muladhâra-cakra con quello del fuoco della Candâli nel Nirmâna-kâya; cfr. in proposito Ibid., Obscure Religious Cults- Firma KLM, Calcutta 1969 (I ed. non riv.. 1946), P.I, Cap.IV, § 4 sgg et passim. Mentre il Kâlacakrayâna (lett. ‘Via della Ruota del Tempo’), per la sua funzionalità adatta ai tempi kaliyughici, ha a che fare rispettivamente col Vamacâra. 
(117)     Ibid. come alla 113, p.49.
(118)     L’a., ricordiamo, aveva pubblicato L’uomo come Potenza (Atanòr, Todi-Roma) nel medesimo anno, il 1925.  
(119)     Illuminante a tal proposito A.Ginna, Brevi note su Evola nel tempo futurista in AA.VV., pp. 144-5.  Nell’art. il primo artefice d’arte astratta in Italia parla di comuni interessi per  la Besant e la Blavatskij, nonché per l’antroposofia steineriana, approfonditi tra lui e il pittore siciliano nella casa del futurista G.Balla; secondo F.G. Carli maestro di Evola sul piano pittorico, cit. da Evola pittore tra Futurismo e Dadaismo (sulla falsariga di E.Crispolti, Evola pittore, fra futurismo e dadaismo; in Julius Evola e l’arte delle avanguardie, Fond.Evola, 1998 passim), on line.   Crispolti fu l’uomo che organizzò a Roma un’esposizione di quadri evoliani nel secondo Dopoguerra, presso la Gall.Medusa (Tagl., Cap.III.1, p.42).   Codesti interessi pare fornissero uno stimolo non indifferente all’arte di tutti costoro.  Ginna (pseud. in chiave futurista, proposto in quegli anni dal Balla, di A. Ginanni Corradini) dichiara in aggiunta che mentre il collega tendeva verso la teoria del ‘superuomo’, egli preferiva indirizzarsi verso ‘l’uomo minimo’, evidenziando insomma l’umiltà dell’uomo nei confronti di Dio (sia pure il Dio interiore).  Il flash di vita vissuta appena descritto traccia bene la differenza tra un percorso d’annientamento dell’ego ed uno viceversa ipertrofico.  Se in uno ci si limita ad una dispersione mistica, nell’altro si va alla ricerca di “forze occulte trascendentali” (sono parole del Ginna).  L’esaltazione della forza fisica tipica di quel periodo storico, spiega bene l’artista, era in linea col trascorso artistico dalla staticità cubista alla dinamicità formale futurista.  Il futurismo, a suo dire, veniva spesso superato da parte di pittori come Balla e Boccioni mediante nuovi sbocchi verso la spiritualità.  Al modo dell’astrattismo alla Kandiskij, evidentemente, il primo di tale cerchia avanguardistica  a rifarsi al teosofismo.
(120)     Ibid. come alla 117. 
(121)     In rare occasioni Krsna funge da Assoluto, mentre nel caso del Cristo Pantocratore (lett. ‘Onnipotente’) degli affreschi e dei mosaici absidali dell’arte bizantina paleocristiana e medievale vien meno esclusivamente una distinzione netta fra il ‘Figlio’ ed il ‘Padre’ in senso strettamente trinitario, senza che si possa per questo attribuire al Cristo quella funzione suprema che va oltre l’Uno semplicemente inteso.     
(122)     In realtà la formula evoliana è a mezzo fra le due concezioni, tant’è che di seguito afferma: «Se Dio è, l’Io non è».  Quindi il termine di riferimento è Dio, non il vero Assoluto, che nelle formule filosofiche tende a confondersi col ‘Signore’ al modo della figura del ‘Padre’ nella Trinità post-nicena.  L’Âtmâ d’altronde non è l’Uno, ma molto di piú.
(123)     Ib., p.50.
(124)     E. non intendeva usare troppo la parola ‘Dio’, onde non cadere in un dualismo di tipo teologico, lo si capisce bene.
  
 
N.B.-  Per chi volesse approfondire la questione fenomenologica, in Evola, preghiamo di consultare questo nostro articolo presso la Riv. on line 'Simmetria':

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