A. Premessa: i dati
Nella cultura hindu esiste, com’è noto, un
mito paradisiaco parallelo a quello giudaico-cristiano. Anzi, è possibile ritenere addirittura che il
primo abbia in qualche modo influenzato il secondo, sicuramente tramite la
cultura zoroastriana in funzione intermediatrice. Almeno, a giudicare dall’etimo (1). Non a caso il personaggio principale di
entrambi i miti è un essere umano archetipico dal nome semplicemente di ‘Uomo’
(scr. Manu, ebr. 'Ādam), donde sembra derivato da una parte il
concetto indoeuropeo d’onomastica (2) e dall’altra quello di umanità (3). Sebbene non esista in India apparentemente
nulla d’analogo alla leggenda di Adamo e del Peccato Originale, vi è pur
tuttavia qualcosa che ad essa rassomiglia.
Proviamo a riassumere brevemente il tema biblico, al fine di analizzare
strettamente i mitologhemi dei quali è composto e confrontare se per caso
nell’induismo non appaia alcunché di lontanamente paragonabile; magari con
l’aiuto della tradizione avestico-pahlavica, che è piú sentimentale di quella
vedico-puranica e quindi piú prossima all’idea di peccato (4).
a) Adamo è in origine un essere androginico, prima di
generare dalla propria costola la propria compagna, Eva.
b) Insieme a lei vive spensieratamente felice in uno
spendido Giardino delle Delizie, l’Eden.
c) Il Creatore concede ad essi tutti i frutti del
‘Giardino’, tranne uno, i pomi d’un misterioso albero.
d) Presto però un turbamento penetra nel luogo del loro
idillio: Eva è tentata dal Demonio in forma di serpente presso l’Albero del
Bene e del Male, detto anche Albero della Conoscenza.
e) Il Serpente Tentatore la induce a mangiar la famosa
‘Mela’, donde provengono tutti i mali annessi da allora in poi alla loro
progenie.
f) Dopodiché i due
s’accorgono d’esser ignudi e si vanno a nascondere per la vergogna.
g) Il Creatore, accortosi indirettamente del peccato di
disobbedienza dal loro nuovo comportamento, li scaccia dall’Eden.
Questi, sostanzialmente, i 7 punti
fondamentali della leggenda cosmologica che compare nella ‘Genesi’ (5) riguardo la creazione umana. Inutile aggiungere che molti sono i motivi
similari dispersi in altre mitologie relativi alla condizione paradisiaca. Per comprenderne le connessioni col tema
biblico appena sommarizzato occorrerà analizzare punto per punto la vicenda,
indipendentemente dalla trasgressione di cui sono accusati i Progenitori nella
tradizione giudaico-cristiana e che da un punto di vista strettamente teologico
renderebbe in apparenza troppo limitative le compararazioni possibili con altre
tradizioni. Invece, analizzando ogni
punto in comune di altre tematiche pararadisiache con quelli sopra
genericamente indicati, ci accorgeremo che si può ricostruire a grandi linee
l’intero mito edenico del Peccato Originale cosí come esso doveva apparire in
origine, al di là delle molteplici forme nelle quali esso si è via via separato
e poi disperso. La tecnica da noi
adottata, lo palesiamo senza ritegno, l’abbiamo presa a prestito chiaramente
dalla O’Flaherty (6). La
scrittrice newyorkese l’ha utilizzata per dare un senso compiuto all’intera
mitologia shivaita. Tutti i mitologhemi
dei quali essa è foggiata presi separatamente dipingono un quadro molto vario,
ma dispersivo, del nume. Unitamente,
mostrano una logica consequenziale piuttosto stretta, quasi si trattasse di
pagine dimenticate d’un antico e bellissimo mito dispersosi nei meandri del
fiume del tempo. Per unire tutti i
mitologhemi disponibili bisogna raccoglierli da fonti varie in forma critica,
non solamente da un testo; altrimenti ci limiteremmo a stabilire la storia del
mito da noi considerato solamente in rapporto a quel dato testo. Qui non si tratta infatti di creare la
versione teoricamente completa d’un testo, in base a tutti i manoscritti
reperibili, come potrebbe avvenire col Mahābhārata
o la Bibbia. A tal compito sono già preposti studiosi di
paleografia, filologi, critici letterarî, linguisti, traduttori e storici della letteratura. Al contrario, ivi si vuole estendere il mito
a tutti i paralleli possibili, non per far gratuitamente della mitologia
comparata; ma ad un fine molto più elevato, di modo che si possa trovare il
bandolo della matassa e comprendere appieno il significato intimo dell’intera
leggenda. Stabilito il metodo, passiamo
all’analisi diretta dei punti indicati.
B. Analisi della leggenda
1. L’ANDROGINIA
ADAMICA
La storia dello sdoppiamento del primo Adamo nella coppia di Adamo ed Eva, che avviene in Gen.- ii. 21-2, implica necessariamente l’androginia primaria di Adamo (7), come del resto attestato in Talmud Ketubot 18, Rashi. Androginia che difatti troviamo anche in Iran colla coppia avestica Yima-Yimak, nata primordialmente dall’Albero Alchemico (8). Lo stesso può dirsi per i loro equivalenti hindu Yama e Yamī (x. 10, 1-14), i <Figli del Sole> (Vivasvat, ivi chiamato Gandharva), presso i quali la cosa è sottolineata dal fatto che in sanscrito la voce yama significa appunto ‘gemello’; benché nell’inno in questione il fratello-gemello cerchi con scrupolo morale di sottrarsi all’incesto cosmogonico colla scusa della rettitudine (vv. 1-4), ma è lei che con desiderio tutto femmineo lo spinge all’atto sessuale (vs. 5), asserendo che il dio Tvaṣṭar (il Creatore, il Demiurgo) li ha fatti marito e moglie quand’erano ancora nell’utero. Yama allora subito obietta esprimendosi con queste sibilline parole (vs.6): “Chi conosce quel primo giorno? chi lo ha visto? chi può dare qui notizie di esso?” Dopodiché, sempre allo stesso verso, egli l’accusa di lussuria, ma lei ribatte calma (vs.7): “A me Yamī è venuto desiderio di Yama, di giacere assieme in uno stesso letto. Come moglie al marito, che io gli possa concedere il corpo; possiamo noi due rompere, come (rompere) due ruote di carro (9).” Al vs.8 Yama la respinge per la seconda volta, ma Yamī insiste indicando Cielo e Terra come fratelli eppure nel contempo sposi. Per questo si dichiara al vs.9 disposta volentieri a subire incesto. Yama comunque non la vuole (vs.10): “…cerca …un altro sposo diverso da me.” E fa un ultimo tentativo: “Che fratello può esser mai, se non c’è protezione (da parte sua)? Che sorella sarà mai, se la distruzione può venire? Costrettavi dal desiderio vado sussurrando tutto questo; unisciti col tuo corpo al mio corpo.” Nulla da fare, il fratello non ci sta (vs.12): “Non voglio unire il mio corpo al tuo corpo, chiamano scellerato chi s’accosta alla sorella. Con un altro da me soddisfa le tue voglie; tuo fratello… non desidera questo.” La sorella, dunque, lo accusa di viltà, di mancanza d’animo e di cuore (vs.13), cosa cui il fratello replica seccamente: “Un altro (abbraccia tu), o Yamī, un altro abbracci te, come la liana l’albero…” Giustamente, fa notare il Papesso (10), il testo si contraddice laddove si riferisce ad altri rispetto alla prima coppia umana. Ma è chiaro che questa è una coppia cosmogonica, non una coppia in senso naturalistico. Basta pensare al significato del nome Adamo, ossia ‘Uomo’; significato che è poi il medesimo del nome Manu, alter-ego di Yama (11).
Passando all’etimo del nome Yama – l’abbiamo rilevato in altri
nostri scritti (12) – è lo stesso
del norr. Ymir, pure costui un essere
androginico; o del lat. Iānus, che al
femminile dà Iāna (13).
Persino nel caso della coppia tardo-iranica Mašya-Mašyanē abbiamo a che fare con una perfetta complementarietà
del maschio e della femmina mitici, secondo quanto suggerisce l’onomastica
pahlavica. Tutto ciò ci suggerisce che
tanto la coppia induista Manu-Parśu
(lett. ‘Costola’) quanto la coppia ebraica ᾽Ᾱdam-Hawwā (var. Héva)
rappresentano
un doppione delle altre coppie succitate.
E non importa che la prima appartenga alla letteratura indoeuropea
(sarebbe meglio, secondo noi, riportare in auge il vecchio termine ‘jafetica’)
e la seconda a quella giudaico-cristiana, cioè semitica. Appare evidente che vi è stato un prestito
dall’India alla Palestina, probabilmente attraverso Abramo e la Sumeria, insomma
per via camitica (14). Usando i giusti termini, cioè i termini
tradizionali (biblici), si capisce benissimo perché vi siano stati dei prestiti
fra culture affini (camitiche, semitiche e jafetiche).
2. IL
GIARDINO EDENICO
La nascita di Adamo (ii. 7), a ben
guardare, precede la creazione del Giardino (vs.8); cosí come la vita di Adamo
nell’Eden vero e proprio (vv. 15-20) precede la nascita di Eva (vs.23), che è
quasi strettamente legata all’entrata in scena del Serpente (iii. 1). Quando entra in scena quest’ultimo si ha
l’impressione di trovarsi già in un ambiente paradisiaco modificato. Da punto di vista ontologico la monogenesi di
Adamo indica che Adamo è tutt’uno con Dio al principio, tant’è che ne è fatto a
perfetta somiglianza. Di questa vita
primordiale poco o nulla è scritto nel testo, se non che “Dio fece crescere
dalla terra ogni albero desiderabile a vedersi e buono da cibo” (ii. 9);
insomma, per dirla colle parole dei nostri giorni, la natura appariva
rigogliosa e la terra produceva frutta e verdura senza bisogno di stimolarla
con mezzi artificiali. Ovviamente, il
fatto ha un significato criptico, poiché l’abbondanza di nutrimento allude allo
stato spirituale dell’uomo delle origini di piena consapevolezza di
sé. Non solo, la mancanza di cenni ad
ogni forma di produzione umana di cibo, orticola o pastorale che fosse, implica
che l’uomo in quell’illud tempus non
ne necessitava neanche da un punto di vista mentale. In quanto l’ego non la faceva ancora da
padrone e tutti i propositi del vivere erano indirizzati esclusivamente alla
conoscenza dell’Albero della Vita nel mezzo del Giardino delle Delizie. L’uomo era solito guardare verso l’alto e non
si sentiva estraneo alla vita universale, di cui rappresentava in certo senso
la gemma piú splendida; ma, nel contempo, non ne andava eccessivamente
orgoglioso. Quantunque, contrariamente
ad altre tradizioni, ad es. quella sumerica (15), la tradizione ebraica assegni direttamente al’Uomo (Adamo) il
compito di stabilire il giusto nome alle cose. Implicite dunque le allusioni di tipo
ermeneutico, che ritroviamo mutatis
mutandis nella filosofia greca, vale a dire nel Cratilo di Platone. E al
pari di un dio Adamo applica beatamente il nome agli animali (vs.20), ma
nessuno lo aiuta e lo gratifica, per cui si sente solo. Per la verità pure cotale sensazione ci
rimanda ad un atteggiamento divino, quello del Dio Supremo che ha bisogno di
creare (16). Ed ex-nihilo
emana la Creazione sotto forma d’ideale figlia-compagna, cosa che avviene
difatti nel mito adamico originario, il mito indiano. Dove Parśu
è figlia, prima che sposa, di Manu. Dato che nel giudeo-cristianesimo la dualità
fa capolino fra Creatore e creatura, la femmina non proviene direttamente da
Dio, bensí dall’Uomo per intermediazione maschile. Nella leggenda di Manu, invece, i medesimi presupposti non consistono. Manu
è l’Uomo-dio dei primordî, l’aggiunta del Matsyāvatāra
è soltanto una replica vishnuita. Il
Veda originario (17) non lo contempla, dato che il Pesce (non l’Uomo-pesce) è
un’immagine di Brahmā, il
Creatore. Ed il Pesce è colto
direttamente col vaso sacrificale, s’intende col cuore umano. Come a dire che c’è perfetta identificazione
fra l’uno e l’altro, fra Manu e Brahmā.
L’identificazione fra Yahweh-Elohīm
ed Adamo non compare invece mai apertamente nel testo biblico, per quanto
il vs. v. 1, ed anche quello
successivo, l’adombrino chiaramente.
Soltanto la Cabala la postula chiaramente; ma in questo caso la
fisionomia adamica muta iconologicamente, passando da 1 a 4 Teste (18).
Come quelle, non a caso, di Brahma e Giano.
L’astuzia del Serpente e la leggerezza
della Donna fanno in modo che l’Uomo non si accontenti di vivere nella
spensieratezza del Giardino, ma che vogliano conoscere i misteri divini e in
particolare il mistero della Conoscenza.
Di qui la fame di voler gustare il “frutto proibito”, la ‘Mela’
cresciuta nell’Albero situato al ‘Centro’ del Giardino. Che è questa Mela se non il Mondo medesimo,
basato sul Divenire? L’Asse di Mezzo –
l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male – ne è il perno, il tronco; ma la
‘Mela’, cioè il Mondo stesso, ne è il frutto.
Di qui la moltiplicazione particolare che ne fa Milton nei cd. ‘Alberi
della Scienza’, scalati i quali i Progenitori ormai al di fuori dell’Eden (nell’ambito
del Paradise Lost) ottengono soltanto
cenere. Perché la scienza ha solo valore
pratico, reca lavoro, ma è vuota di contenuti ideali. Impossibile andare oltre nell’analisi di
questo tema, perché l’uomo ne è tuttora avviluppato, anzi sempre maggiormente. La ‘Mela’ di Eva non è diversa da quella di
Afrodite di classica memoria, a dimostrazione che una diversa interpretazione
del frutto proibito (la vulva della donna) non si discosta di molto dall’altra. Sempre e comunque vi è un limite, sorpassato
il quale si scatenano contese e mali a non finire, poiché si tratta in ogni
caso del passaggio dall’universale all’individuale. Annche la ‘Mela’ di Biancaneve rientra nel novero
dei miti della Conoscenza. La ‘Mela’ <mezza
avvelenata> è sempre il Mondo, fatto di Bene e di Male, che una volta
incontrato nelle sue sfaccettature prima ignote, produce problemi a non finire,
praticamente irrisolvibili.
4. LA TENTAZIONE DA PARTE DEL SERPENTE
Vi è una differenza fra il
Serpente dell’Eden e il Dragone apocalittico.
Il primo spinge i Progenitori alla Dualità, ma una Dualità che è un
semplice venir meno del senso dell’Unità Divina o meglio della Non-dualità;
mentre il Dragone è foriero di Dualismo, non riconciliabile in nessun modo
coll’Unità Divina. Ciò che spinge la
Donna a gustare del frutto proibito e poi a darne assaggio all’Uomo è una sete
di conoscenza: aprirete gli occhi, è detto in iii. 5; e gli occhi si aprirono,
si aggiunge in iii. 7, ma seppero allora di essere nudi. Questa è la conoscenza infatti che si apre ai
loro occhi, la conoscenza del dettaglio, dell’inessenziale. La Serpe, colle sue spire, implica la nozione
di dualità in tutte le sue forme (bene-male, giorno-notte, cielo-terra
ecc.). Una volta introdotta questa
nozione nell’animo, non ce ne si può piú
liberare. Nascono in tal modo le paure,
come si deduce dal fatto che la primma coppia umana abbia paura dei passi di Yahweh e si nasconda, dopodiché essa
cela le proprie pudenda con foglie di fico.
In ciò si nota chiaramente come la tentazione e la corruzione siano
praticamente la medesima cosa. La
perdita dell’ingenuità è la perdita irrimediabile della consistenza d’animo.
5. IL PECCATO ORIGINALE
Il Peccato Orignale viene considerato un
peccato di disobbedienza a Dio. Ma qual
è veramente la disobbedienza a ragionar profondo? L’aver gustato il frutto proibito? Chiaro che ci troviamo di fronte ad una
grande metafora umana: ma quale? Nell’Avesta esiste il cd. ‘Peccato di Yima’,
il quale benché stigmatizzato dagli zoroastriani in tempi tardi, doveva essere
in origine la prerogativa principale del personaggio. Ora di che è accusato Yima? …esattamente di aver adorato sé stesso. Se noi pendiamo tale affermazione cum grano salis, ne possiamo dedurre che
in principio l’Uomo faceva della propria adorazione il suo vessillo. Come si può conciliare ciò colla parabola
della disobbedienza biblica? Si può, ma
evidentemente la cosa si deve intendere in un senso particolare. Non come chiusura nell’ego, ma al contrario
come apertura verso la propria natura spirituale immortalante. Sicché la perdita di tale apertura ha
determinato una caduta profonda, la Caduta appunto di cui parla la Bibbia.
Onde si può immaginare che la disobbedienza in realtà sia la
misconoscenza, intervenuta ad un certo punto della vicenda umana, della propria
natura.
6. LA COPPIA, IGNUDA, SI VERGOGNA DI SÉ
Il pudore fa parte dell’abito mentale d’ogni
coppia timorta di Dio, ma in origine le cose non dovettero stare a questo modo. Il senso di disagio che coglie i Progenitori
allorché hanno disobbedito alla Divinità – evidentemente si trattava d’un
comando implicito allla propria natura, fuor di metafora – è tale che provano
vergogna quando Yahweh si palesa loro
di nuovo. Questo palesarsi ha luogo
dietro contemplazione, non si può prender il racconto troppo alla lettera;
contemplazione che era venuta meno quando la volontà li aveva spinti all’azione
e all’allontanamento dal precetto di obbedienza, fino a che si rendono conto di
quel che hanno fatto. La coscienza dell’esssere
venuti meno alla loro natura profonda li scoragggia, ponendoli in una
condizione di sofferenza intima, sofferenza che ci è stata tramessa e che
viviamo ancor oggi noi popoli civilizzati.
7. CACCIATA DAL PARADISO
La ‘Lama Fiammeggiante’ dei Cherubini
(angeli concepiti dagli ebrei sotto forma di tori alati), di cui si tratta in Gen.- iii. 24, allude senz’altro sul
piano cosmologico alla costellazione del Toro; che all’inizio del quarto ed
ultimo ciclo edenico (19) signoreggiava
il Punto Vernale. Infatti, “ruotava
continuamente per custodire la via dell’albero della vita”. Il Toro, naturalmente, è collegato alla Torāh; la ‘Legge’, il Dharma
in termini sanscriti. Simultaneamente
al Polo Artico stava l’asterismo del Dragone (= il Serpente), causa simbolica
della Caduta; al Polo Antartico era invece collocato in parallelo Canopo (= il
Vaso), la cui presenza nei cieli non traspare tuttavia dalla leggenda biblica,
se non in un caso: nell’iconografia, in un manoscritto italiano del XV riportato dal
Neumann (20). L'autore suggerisce una comparazione, d'altronde, colla conca battesimale in quanto fonte dell'Acqua di Vita o persino colla Madonna intesa appunto quale Vaso di Grazia. Nel racconto vedico, viceversa, potrebbe esser presente se in tal modo
interpretiamo il recipiente sempre piú vasto nel quale Manu è costretto a
riporre il Pesce Avatarico (21).
C. Conclusione: riflessioni finali
Ora possiamo ricostruire
per bene il mito edenico nei termini seguenti.
L’Uomo in principio era androginico, non soggetto ad alcuna forma di
dualità. Coglieva direttamente nel
riflesso del proprio cuore la Divnità, cui s’identificava. Vivendo sulla Terra come in un Giardino di
Delizie non gli mancava nulla, ma ecco che si approsssima alla sua mente il
desiderio di essere qualcosa di diverso da sé, vale a dire di conoscere il
mondo in dettaglio. Il che lo porta a
contrapporsi alla Divinità e a sperimentare la realtà. Questo è l’inizio d’ogni conoscenza. Ma la
scienza mondana è un frutto proibito, denso di valori negativi.
Il frutto della contrapposizione a Dio ha
come conseguenza una contrapposizione fra Sé e il Mondo, donde origineranno
tutti i mali umani. L’Uomo comincia ad
autocommiserarsi anziché gloriarsi di Sé, dimenticando il valore fondamentale
del proprio cuore. Questo l’errore
fondamentale, donde nasceranno il timor religioso ma anche le paure varie. A cominciare dalla vergogna per la sua nudità. Il Re ha perso lo Scettro e presto perderà
pure la Corona. L’Uscita dal Paradiso,
cacciata o meno che sia, ne è la tragica consegenza.
Note
1.
Cfr. L.B.G. Tilak, Orione. A proposito dell’antichità dei Veda-
Ecig, Genova 1991, Prem. del T., p.15.
2.
Il termine Manu designa metonimicamente l’umanità primeva, ma si
pone in diretto collegamento colla voce sanscrita manuṣya;
la quale è invece riferita generalmente all’umanità decaduta, tipica del
Kaliyuga, l’arco di millennî con cui si chiude il ciclo
manvantararico (lett. ‘periodo di Manu’). Rispetto ad esso il scr. nām-a (‘nome’) cosí come il
lat. nōm-en (id.) ed gr. o-nom-a (id.), ha base filologica
pressoché inversa – *nam < man
– cioè equivalente per la mentalità arcaica. Probabilmente i nomi, umani e non, sono
dunque stati concepiti nella cultura indoeuropea (sarebbe meglio biblicamente
dire ‘jafetica’) come un’imitazione di quello dell’Uomo per eccellenza.
3. Anche l’ebr. ādām
significa ‘uomo’. E il sostantivo è
correlato, sicuramente, al lat. hōmo; dato che nell’un caso e nell’altro
i termini sono apparentati a parole significanti ‘terra’, o meglio terra umida.
Vedi l’ebr. dam (‘argilla, terra rossa’), nel senso di terra
impastata con l’acqua; o, se vogliamo, con la saliva (= acque celesti) del dio uranico
primevo. In greco si ha parimenti dām-os/
dēm-os (‘terra, popolo’, ossia l’insieme degli eseri umani, con
riferimento particolare alla Quarta Età ciclica), una voce che pare quasi –
desinenza a parte – l’abbreviazione di Dē-mēter. Il concetto arcaico di Dē, donde sorge durante l’Epoca Ferrea
la figura numinosa di Dē-mēter ovvero la Terra
Madre personificata, deriva d’altronde da quello prisco ed aureo di Γή (egiz.
Geb); una figura androginica identificabile all’Oca Primigenia che
cova l’Uovo del Mondo, da cui secondo gli orfici nasce Eros Protogeno. In altre parole Ουρανίa, la Dea del
Cielo e dell’Armonia Celeste, appunto quell’Afrodite che secondo una variante
del mito greco sarebbe stata generata dal ‘Fallo’ di Urano caduto (insomma
penetrato, a mo’ di Axis Mundi ) in ‘Acque’ che potremmo comodamente
definire ‘Celesti’. Per le implicazioni
del simbolo fallico in questione cfr. G.Acerbi, Il Re Pescatore, sovrano universale delle Acque, nella letteratura indoeuropea. Paralleli fra Bran e Brahma, nonché
Varuna e Urano– Alle Pendici
del Monte Meru (blog, 22-07-07),
pp. 1-14.
Egualmente in latino troviamo lo
strano aggettivo humānus, il quale non deriva da hōmo, secondo
quanto in genere si sostiene, bensí da humus (‘terra umida’)
nell’accezione di ‘terreno, umano,’.
Altrimenti sarebbe homānus, oppure avrebbe la vocale lunga anziché
breve. Ed è oltremodo significativo che
il dio erotico indiano Kāma, sposo di Revā (avente per
cavalcatura l’Oca non meno d’Afrodite), abbia etimo grossomodo apparentato – *km
= *hm – a quello del lat. humus/ homo. Kama non è che un antico dio uranico-solare,
al modo del latino Cupido. Provoca le
nascite degli esseri con le proprie 5 emblematiche frecce, usate come raggî,
non essendo altro che il Cielo personificato in senso erotico-volitivo. Per questo la Terra e l’Uomo, inteso in
quanto mediatore tra i due opposti alla maniera della Grande Triade cinese,
hanno etimo correlato in latino. In
greco Cupido era denominato Hímeros, voce che evidentemente rientra nel
giro dell’etimologia indicata, dato che il pref. *him- (cfr. con l’a.at.
him-mel = ‘cielo’) rimanda all’idea d’un ardore (eros)
celeste-creativo. Nella lingua greca
rimane ancora, a testimonianza dell’esistenza d’un vocabolo femminile
ctonicamente contrapposto, lo stato in luogo
kamaí (‘a terra’).
4. Ciò è esattamente il contrario di
quanto ebbe a dimostrare il Gnoli in suo art. (G.Gnoli, Note su Yasht xxxx-
S.M.S.R., Roma 19xx, pp. xxx-xx ). Non
che il Gnoli avesse torto, certamente.
L’antica Persia era piú vicina all’antica India che all’antico Israele,
però rispetto al modo di pensare indiano quello iranico antico presentava
indubbiamente alcuni aspetti sia pur minoritarî maggiormente prossimi alla mentalità ebraica.
5. Utlizziamo il
femminile in relazione al gr. génesis,
che è appunto un sostantivo femminile.
Che importa se il termine equivalente giudaico è maschile?
6. Il riferimento
ovvio è a D. O’Flaherty, Śiva: The Erotic Ascetic-
Oxford-N.York-Toronto-Melbourne 1981.
7. Tant’è che in un
passo (v. 1-2) c’è un’apparente incongruenza, benché mascherata dalla
traduzione: “Nel giorno che Dio creò Adamo lo fece a somiglianza di Dio. Li creò maschio e femmina.” Si nota uno strano uso del plurale, visto che
il riferimento precedente è al singolare; nel passo si parla solo di Adamo, non
della coppia. Trattasi d’un passo
conclusivo nel quale si riassume a mo’ di epigrafe l’esito della creazione
umana paradisiaca, descritta nei precedenti 4 capitoli. Il Dio Supremo d’altronde, in ogni
tradizione che si rispetti si situa al di là degli opposti e complementari. Che ragione vi sarebbe di paragonare la
Divinità ad Adamo se questi fosse ivi concepito come un semplice maschio, ossia
come uno dei due opposti della coppia cosmogonica? Se è fatto a somiglianza di Dio e non del
Diavolo è insomma un intero, non una metà, come credono scioccamente certuni
confondendo Dio col Creatore (Demiurgo).
Cfr. in proposito il comm. della Bibbia Cei. Noi abbiamo utilizzato la versione del 1973.
8. G.Acerbi, La simbologia fitomorfica:
l’orticoltura nel mito delle origini – V.d.T. ( gen.-mar./ apr.-giu. ’93 ), A.XXIII, NN.
89-90, Palermo 1993, pp. 25-38 e 78-90 (il nucleo orinario era stato inviato a Il
Giornale della Natura di Milano,
ma era rimasto inedito per l’eccesiva lunghezza).
9. Per la traduzione ci siamo serviti in
tutto l’articolo di V.Papesso (a c. di), Inni
del Ṛgveda- Ubaldini, Roma 1979 (I ed. Zanichelli, Bologna 1929 e ‘31, 2
tt.). L’espressione verbale vi vṛh non ci pare però sia tradotta bene
dal traduttore italiano, avendo fatto meglio altri (H.H. Wilson, Ṛgveda Saṁhita- Nag P., Delhi 1978,
Vol.VI, p.28) che traduce cosí l’ultima parte del verso: ”…let us exert
ourselves (‘sfrorzarci’) in union like the two wheels of a waggon.” La frase implica uno sforzo morale, al di là
delle convenzioni, ma è chiaro che si tratta di un’attribuzione sacerdotale
postuma; in tempi primordiali non esistevano né Mitra né Varuṇa
(citati al vs.6), né scrupoli morali, essendo l’Esistenza medesima (la
Divinità-in-Sé, ovvero il Desiderio di esistere come insegna il Ṛgveda) a spingere innocentemente al
coito i primi esseri umani.
10. Pap.,
op.cit., p.186.
11. A nostro giudizio il doppio nome del ‘Primo
Uomo’, che ritroviamo da piú parti, allude ad una doppia provenienza
tradizionale; da un lato la tradizione aria (Yama), dall’altra quella anaria, in particolare quella turanica (Manu).
12. Ac., Il
Re P., p.12, n.8.
13. Vi è chi considera questo nome non originario
della mitologia di Giano presso gli antichi Latini, però i suoi corrispondenti
indoeuropei dimostrano il contrario.
Intendere esclusivamente il nume in riferimento a due immagimi maschili
imberbi o barbute ed equivalenti è un nonsense,
a meno d’intenderli come ‘gemelli’. La
radice dei due termini è la medesima, benché la base primaria sia il vr. īre (scr. i). Giano, in quanto signore
degli inizi, per forza di cose dovette essere un dio androgino. Questa non-dualità originaria si è esplicata
in seguito in varie applicazioni, dai solstizî (ovvero l’arco ascendente e discendente dell’anno,
che nei primordi in rapporto all’Artide dovettero significare luce e tenebre)
alla gemellarità, dalla coppia erotica (scr. mithuna, indicatrice del Segno dei Gemelli) a quella dei due
luminari celesti (Sole-Luna) ecc. Quindi, ragionare partendo dai dati storici
reperiti della tradizione romana archeologicamente falserebbe la nostra
prospettiva. Perché, di questo passo,
dovremmo in parallelo trasformare Brahmā
in un dio medievale induista, non compaarendo icone prima d’una certa
epoca. Non bisogna dimenticare che fino
ad un certo periodo infatti la Tradizione era essenzialmente orale ed anche
dopo la stesura delle Scritture (fra i Latini fra l’altro non vi sono erano
Scritture a parte i Libri Sibillini e siamo quindi costretti ad affidarci ai
letterati, che sicuramente hanno un po’ deformato il quadro dei dati sacrali)
l’esegesi dei testi passa sempre per delle scuole interpretative, a meno di
conoscere la ‘Lingua degli Uccelli’, che è riservata ai soli iniziati.
14. Come il mitologhema possa esser giunto nel
Paese di Sumer è presto detto. I Sumeri
narravano di provenire geograficamente dal Dilmūn,
un’isola od arcipelago cosparso in qualche zona del sottostante Oceano
Indiano. Questa sede è forse
identificabile allo Dvārakā di cui
favoleggaiano leggendariamente le tradizioni krishnaite, o per lo meno
apparentabile ad esso cosmologicamente; ebbene, da quella plaga oceanica paiono
discese le antiche genti vallinde, strettamente affini culturalmente alle genti
sumeriche. Anche da un punto di vista
etnico entrambe parrebbero rientrare in quell’alveo camitico che – come
illustrato da Padre Heras all’inizio degli Anni Cinquanta – lambiva ad ovest
Paleo-iberi, Proto-celti, Pelasgi, Cretesi, Proto-libici, Paleo-egizî e Paleo-nilotici;
mentre, ad est, Paleo-etiopici, Sumeri, Elamiti e Paleodravici.
15. Cfr. G.Acerbi, Gli Dei e i Mondi: aspetti ciclici
della teogonia mesopotamica –Atopon on line (Vol.VI) 2004.
16. Cfr. G.Acerbi, La leggenda del Cervo, del Cacciatore e della Cerbiatta…- V.d.T. (lug.-set. ’91), A.XXI, N°83, Palermo
1992, pp. 147-58.
17. Cfr. lo Śat.B.- xxxxxx
18. Nella Cabala si distingue un 'Ādam ha-Rishon (Adamo
come 'Primo’', cioè Terreno) da un 'Ādām ha-Ḳadmoni (ossia
‘Primordiale’, il che è come dire Celeste, gr. Οὐράντος
῍Aνθρωπος).
Cfr. Num.R.- x. È solamente quest’ultimo, archetipo divino dell’uomo, ad esser descritto
come tetracefalo.
19. La sequenza del
passaggio vernale nell’Età Edenica (Aurea) è infatti: Leone, Scorpione,
Aquario, Toro.
20. E.Neumann,
The Great Mother…- Princeton Univ.,
Princeton 1974 (I ed. 1955), tav. a p.169.
21. Rammentiamo che il simbolismo avatarico è per sua natura interamente di carattere polare. Il Matsya ha a che fare col primo periodo avatarico, non col quarto; ma è chiaro che il Diluvio connesso a codesta figura rappresenta il passaggio, polarmente parlando dalla Lyra (Vega) al Dragone ed all’opposto dal Cane Maggiore (Sirio) a Canopo.
21. Rammentiamo che il simbolismo avatarico è per sua natura interamente di carattere polare. Il Matsya ha a che fare col primo periodo avatarico, non col quarto; ma è chiaro che il Diluvio connesso a codesta figura rappresenta il passaggio, polarmente parlando dalla Lyra (Vega) al Dragone ed all’opposto dal Cane Maggiore (Sirio) a Canopo.
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