negli studi di Heinrich
von Stietencron
In un libro dedicato all’argomento-principe
del Tantrismo, le 2 correnti sottili del microcosmo umano, uno studioso tedesco
(nato in Svizzera nel 1933 ed ancora vivente) ha approfondito il tema in
maniera mirabile; onde sarà ivi nostra cura metterne in risalto le linee
essenziali, pur permettendoci di formulare di tanto in tanto qualche critica su
alcuni punti. L’autore, Heinrich von Stietencron, è stato professore e direttore dell’’Istituto d’Indologia e
di Religioni Comparate all’Università di Tubinga; una cittadina situata nella
storica regione della Svevia, pressappoco coincidente coll’attuale Baden-Württemberg. Il libro che
intendiamo ivi analizzare (1) è il prodotto d’una tesi condotta per conto della German Research Foundation, che ha finanziato il progetto,
consistente in un anno di lavoro sul campo.
L’autore dichiara nel Cap.I di
discostarsi dal metodo archeologico della Viennot (2), mirante a delineare l’evoluzione stilistica delle
due dee fiancheggianti gl’ingressi dei templi dell’india Settentrionale e
l’importanza di tali sculture nell’ambito della Storia dell’Arte e
dell’Architettura. Nel Cap.II egli
analizza una serie di nadī-devatā precedenti alla rappresentazione di Gaṅgā e Yamunā, indicandone la loro evoluzione iconografica. Nel Cap.III, rifacendosi agli studi di V.S.
Agrawala, C.Sivarmamurti e O.Viennot, affronta il tema del rapporto fra
l’Impero Gupta e codeste due dee tutelari della Piana del Gange. L’autore considera in appoggio a questa tesi delle
iscrizioni epigrafiche e la numismatica relativa. Le insegne delle due dee fluviali sarebbero
servite ad altre dinastie, oltre ai Gupta,
ovvero ai Rāṣṭrakuta ed ai
Chālukya Orientali. A ben guardare, però, la teoria secondo Von
Stietencron va rigettata, poiché il doab
del Gange e della Yamunà non costituiva il cuore dell’Impero Gupta. Il centro imperiale era Pāṭaliputra, in Magadha. Non vi sarebbe
correlazione, d’altronde, fra i momenti d’espansione e di decadenza dell’impero
collo sviluppo del motivo artistico in questione; che divenne popolare solo a
partire dal VII sec. d.C., quando il potere dei Gupta stava declinando. Non vi
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sarebbe connessione oltretutto fra i luoghi geografici di edificazione ci templi e l’area di dominio imperiale, giacchè i primi templi al riguardo sorsero in Mahārāṣṭra (vedi Ajāṇṭa ecc.). Sulle monete gupta, del resto, compare una dea col Makara – evidentemente Gaṅgā – ma non compare mai l’altra.
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sarebbe connessione oltretutto fra i luoghi geografici di edificazione ci templi e l’area di dominio imperiale, giacchè i primi templi al riguardo sorsero in Mahārāṣṭra (vedi Ajāṇṭa ecc.). Sulle monete gupta, del resto, compare una dea col Makara – evidentemente Gaṅgā – ma non compare mai l’altra.
Nel Cap.IV si affrontano gli aspetti simbolici della coppia di dee,
deducendone che la loro presenza ai fianchi delle sacre porte rappresenta l’offerta
ad una data divinità delle acque purificate dei due fiumi ai quali esse
presiedono, simboleggiando un insieme di fertilità, fecondità ed
abbondanza. Essendo delle dee
iniziatiche, Gaṅgā e Yamunā introducono il devoto alla divinità, conferendo al
primo purità rituale. In particolare, Gaṅgā è effigie della purezza, Yamunā della
devozione. Ciò almeno insegnerebbe la
tradizione hindu, reinterpretata dall’autore.
Von Stietencron ci ricorda
nel Cap.V che ogni espressione artistica, in India, è
carica di simbolismo. Si potrebbe però estendere questo concetto all'intera gamma dell'arte sacra, cos come la studia l'Iconologia delle Religioni. L’unica
differenza è che altrove le speculazioni su di essa non sono altrettanto
estese, il che non significa che vada interpretata diversamente. Poiché la simbologia deriva dalla natura delle cose, non è un
fatto convenzionale. Tutto dipende dal livello di consapevolezza,
come bene dice V.S., ed in India la consapevolezza della presenza del Divino in
noi e nel mondo è sempre stata notevole. Onde, ne trae la conseguenza che varie
interpretaziioni siano possibili al riguardo. Questi livelli in realtà, aggiungiamo noi, s’incanalano
in 4 direzioni principali, che corrispondono ai 4/4 della Parola Divina. Ciò trova corrispondenza, d’altro canto,
anche nella tradizione giudaico-cristiana.
Mette in evidenza l’autore tuttavia che secondo la mentalità indiana –
potremmo dire tranquillamente ‘arcaica’ – la realtà spirituale si autorivela
esclusivamente agli individui che hanno una mente pura, ma è dannosa per gli
altri che non sono qualificati. Nel
trasmetterla quindi una parte di essa rimarrà sempre segreta, inviolata. Da ciò ne consegue inevitabilmente che tutte le esegesi tradizionali svelano un lato del problema,
ma non si escludono a vicenda. Sempre che
siano tali, ossia realmente tradizionali, e non cervellotiche (3). La realtà spirituale perciò si manifesta a
vari livelli, che ciascuno può cogliere a seconda del proprio livello di
consapevolezza raggiunto. Il che può
accadere non solo far individui diversi, ma anche fra momenti diversi d’una
stessa
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individualità. I livelli comprendono le spiegazioni esoteriche, le quali naturalmente stanno ai gradi piú alti. Peculiarmente il terzo e il quarto, ovvero il livello cosmologico e quello ontologico, nei confronti dei quali gli altri due sono subordinati, essendo di minor portata per lo sviluppo spirituale individuale. Oltretutto, il significato delle due dee ivi in discussione va inquadrato nell’ambito piú generale dell’ingresso e questo nella visione d’insieme del tempio quale mundus, cioè totalità cosmica.
Poiché le sopracciglia (in precedenza gli occhi) segnano i punti iniziali delle due Nāḍī (Iḍā e Pingalā), se fossero raffigurate plasticamente nell’edificio i due canali sottili verrebbero posti proprio ove sono collocate le due dee. Le 2 nāḍī sono descritte nei testi tardi, d’altra parte, coi nomi di Gaṅgā e Yamunā. Come si concilia ciò col fatto
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che anticamente esse erano immagine del fiume (nadī) lunare e di quello solare? Il Cap.IX risponde a tale domanda, postulando che Iḍā e Pingalā hanno proprio relazione colla Luna e col Sole. Nel tempio è presente anche Suṣumnā, equiparata a Sarasvatī. Lungo tale canale, che è dato dalla parte interna delle porte, scorre la Śakti-Kuṇḍalinī; la quale, microcosmicamente, va dal Muladhāra all’Ajña-cakra. Architettonicamente, dal cancello piú esterno alla dea intronata nella cella del tempio. Per questo il Loto, emblema di Sarasvatī, ne decora la volta. V.S. parla d’una via verso l’Assoluto, ma non si sofferma a spiegare in dettaglio cosa sia veramente il Sahasrāra, la cui illuminazione è la meta medesima del Tantrismo. Riporta oltretutto la concezione delle Nāḍī al Periodo Upanishadico (IX-IV a.C.), sebbene ciò non possa essere sufficiente, ammesso che quella sia realmente la datazione storica e non una di comodo. L’idea del microcosmo umano è assai piú antica, com’egli stesso pare dedurre dietro le righe: è precedente, per forza di cose, alla costruzione del tempio hindu (10), visto che questo ne è una riproduzione su larga scala. Il devoto (pūjāri) offre infatti la propria venerazione (pūjā) alla Divinità nel punto del tempio corrispondente al cuore, mentre la mūrti del nume ossequiato è collocata in quello che equivale al capo. Riguardo a siffatto edificio va tenuto inoltre presente che come ogni altro edificio sacro di altre tradizioni prima d’essere costruito in pietra dovette essere edificato in legno, magari coll’aiuto di mattoni, ad opera di carpentieri e falegnami anziché di architetti e manovali edili. Ed è solo per tale ragione che l’architettura sacra (11) è comincia esclusivamente a partire da una data epoca, la quale nel caso dell’India è il Periodo Post-buddhista. Già nei testi dei primi 4 secoli a.C., ad ogni modo, si fa menzione comune dei culti templari. Nulla però di essi è sopravvissuto ai nostri giorni, se non dei rilievi di base o delle icone appartenenti al II e al II sec. Tradizionalmente i costruttori venivano definiti dagli antichi testi di architettura come śilpin, da śilpa, l’arte di costruire; attorno a loro, oltre a lavoratori con mansioni varie, vi era il committente (sorta di mecenate), un architetto-capo che faceva il disegno ed un architetto-sacerdote che ne curava il senso simbolico in ottemperanza alle Scritture. Dato che i Veda non richiedevano templi, è evidente che tale arte dovette essere assunta già prima della calata degl’Indo-ari sul sul suolo indiano. Ossia, al tempo della Civiltà della Antica Valle dell’Indo. Ecco il motivo onde il tempio hindu si mostra aderente ai dettami dei Tantra piú che dei Veda.
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Indi V.S. riprende al Cap.X il discorso iniziale, delle devatā che hanno preceduto le 2 dee fluviali, questa volta però spiegando i differenti stadi evolutivi di siffatto motivo iconografico in maniera esauriente; ossia col simbolismo delle nāḍī, o sirā. Dapprima si hanno un paio di vṛkṣa-devatā (o śālabhañjikā), senza veicolo oppure aventi per veicolo delle yakṣi, nella parte alta dei toraṇa (12). L’autore spiega tal raffigurazione, giustamente, in rapporto alla colonna vertebrale intesa quale asse od albero; ma la cosa ha un significato macrocosmico, in relazione all’Axis Mundi, non solo microcosmico. In seguito subentrano nella stessa posizione delle yakṣi su makara, in veste di nāḍī-devatā, simultaneamente sparendo le altre facenti da vāhana. Cosí i flussi sono veicolati ai rettili. L’albero talora compare, talora manca. In codeste immagini a differenza delle precedenti il centro d’attenzione è perciò posto sui vāhana, le nāḍī-devatā fungendo da nāḍī. Dalla differenziazione di una di queste, col kūrma al posto del makara, nascono Gaṅgā e Yamunā rispettivamente col Makara ed il Kūrma. Una fase maggiormente elaborata del tema subentra allorché le 2 dee fluviali assumono i caratteri dei 2 luminari, onde dall’equazione nāḍī = nadī-devatā si passa a quella Iḍā-pingalā = Gaṅgā-Yamunā.
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individualità. I livelli comprendono le spiegazioni esoteriche, le quali naturalmente stanno ai gradi piú alti. Peculiarmente il terzo e il quarto, ovvero il livello cosmologico e quello ontologico, nei confronti dei quali gli altri due sono subordinati, essendo di minor portata per lo sviluppo spirituale individuale. Oltretutto, il significato delle due dee ivi in discussione va inquadrato nell’ambito piú generale dell’ingresso e questo nella visione d’insieme del tempio quale mundus, cioè totalità cosmica.
Nel
Cap.VI V.S. tratta della Gaṅgā, circa cui
rileva la presenza di 2 fondamentali interpretazioni, una vaiṣṇava e l’altra śaiva. Giustamente egli
ritiene la prima piú antica della seconda.
Non perché il Vishnuismo preceda ciclicamente lo Shivaismo, essendo anzi
vero il contrario; ma per il fatto che in realtà trattasi d’un mito shivaico vishnuizzato,
ovvero un mito appartenente alla corrente di destra dello shivaismo. L’altro, invece, appartiene alla corrente
shivaita di sinistra. Questa
sottigliezza sfugge comunque all’autore, che si limita a verificare la
differenza fra le due versioni. La versione vishnuita è connessa al mito di Vāmana/ Trivikrama, quella shivaita concerne il ruolo dei deceduti e la
loro purificazione rituale. Vengono
citate le fonti testuali. I morti godono
della beatitudine di queste acque, che nella loro forma celeste corrispondono
alla Via Lattea. La fonte è chiamata Viṣṇupāda. Nel Ṛgveda è Indra (Sirio), col Vajra,
che libera le Acque annientando Vṛtra (Orione) od
altrdoppione demonici di costui. E Viṣṇu è solamente un aiutante fra i
tanti del Devarāja. Tale assunzione è propria della fine del Dvāparayuga e dell’inizio del Kaliyuga, mentre l’altra attinente a Vāmana si riferisce alla fine del V
Ciclo Avatarico e all’inizio del VI.
Sulla questione dei deceduti l’autore fa un po’ delle speculazioni un
po’ confuse, pur menzionando il Veda. Anche perché parla di “reincarnazione” e
bisognerebbe, diversamente, utilizzare il termine ‘rinascita’ (scr.punar-janm, gr.palin-génesis). Di certo la
corrente vitale rappresentata dalla Gaṅgā ha a che
fare colla rinascita, per questo ci si va a purificare nel Gange, ma dietro
codesta pratica sta una conoscenza di quel che la Gaṅgā
simboleggia a livello esoterico (4). V.S. mette in rilievo, ad ogni modo, come le
lunazioni abbiano a che fare colla
trasmissione del Soma (Luce/ Acqua)
dal Cielo alle piante attraverso la crescita vegetale e, di conseguenza, colla
fecondazione animale (5). Onde la Gaṅgā appare un
fiume essenzialmente lunare, il quale connette la vita sulla terra ai
morti. In altre parole, le acque
purificanti
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del Gange offrono accesso al Mondo Lunare dei Padri (Pitṛ). Quel che però l’autore dimentica è che la Luna non funge solamente da Ianua Inferi, bensí anche da Ianua Coeli; ossia, a chi ha la possibilità di andar oltre di essa dà l’accesso agli altri Sei Pianeti (6), ognuno dei quali presiede ad un dato principio nel cosmo. Sino a Saturno, signore del Satyaloka, il ‘Settimo Cielo’ o Cielo Supremo. Śiva ovviamente mitiga la suddetta corrente coi riccioli dei suoi capelli e non per nulla, nota V.S., il nume iconograficamente reca il crescente lunare sulla sua chioma. Per l’autore, dunque, la leggenda della discesa della Gaṅgā celeste sul capo del dio è senz’altro un doppione dell’altra che gli pone in testa la mezzaluna. Le 2 versioni, vishnuita e shivaita, sono interconnesse aldilà dell’apparenza; poiché hanno entrambe a che fare colla realtà del Sacrificio, sebbene l’una sia legata ad un antico calendario solare (pre-zodiacale) e l’altra al calendario lunare (post-zodiacale).
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del Gange offrono accesso al Mondo Lunare dei Padri (Pitṛ). Quel che però l’autore dimentica è che la Luna non funge solamente da Ianua Inferi, bensí anche da Ianua Coeli; ossia, a chi ha la possibilità di andar oltre di essa dà l’accesso agli altri Sei Pianeti (6), ognuno dei quali presiede ad un dato principio nel cosmo. Sino a Saturno, signore del Satyaloka, il ‘Settimo Cielo’ o Cielo Supremo. Śiva ovviamente mitiga la suddetta corrente coi riccioli dei suoi capelli e non per nulla, nota V.S., il nume iconograficamente reca il crescente lunare sulla sua chioma. Per l’autore, dunque, la leggenda della discesa della Gaṅgā celeste sul capo del dio è senz’altro un doppione dell’altra che gli pone in testa la mezzaluna. Le 2 versioni, vishnuita e shivaita, sono interconnesse aldilà dell’apparenza; poiché hanno entrambe a che fare colla realtà del Sacrificio, sebbene l’una sia legata ad un antico calendario solare (pre-zodiacale) e l’altra al calendario lunare (post-zodiacale).
Il Cap.VII illustra la vera natura della Yamunā. Se la Gaṅgā ha carattere chiaramente lunare, la Yamunā appare visibilmente quale fiume solare. Personificata,
costei è la figlia del Sole (Vivasvat). Difatti corrisponde a Yamī, la
sposa-sorella di Yama, alter-ego di Manu. Il rapporto incestuoso fra Yama e Yamī (o Yamunā) è
quello medesimo fra Manu (Adamo) e Parśu (come Eva nata dalla costola del paredro), pur
essendo in tal caso la figlia anziché la sorella a sposare il consorte, ma è
una quisquiglia alludente al mito della ‘Prima Creazione’. Ciò che la tradizione giudaica ellenizzata
definisce Propátōr. Ogni anno
si celebra la Yamadvītīyā, una festa nella quale Yama fa visita alla sorella e viene ritualmente bagnato da costei,
avente per veicolo Kāla, quantunque sia posta spesso accanto a Mahākāla. Dal punto di vista iconografico il
vāhana è invece il Kūrma, immagine della
Tradizione (Smṛti)
Primordiale, esattamente come il Matsya
lo è della Rivelazione (Śruti). Il Kūrma sostenne il Monte Mandara (letterariamente una variante
del Meru, ma in principio è probabile
differissero) al tempo dello Sbattimento dell’Oceano di Latte, avvenimento riferibile
alla fine del II Ciclo Avatarico; similmente a quanto aveva fatto alla fine del
I il Matsya, che aveva guidato l’Arca
con Manu (e i Saptaṛṣi secondo certe versioni della leggenda) sulle acque del
Diluvio Primevo, attraverso una fune legata al Monte Meru. Al Kūrma è addbitato pure il sostegno della
Terra, cosí come la stabilità dell’altare
vedico. Tale simbolo è inoltre associabile
al Sole, immaginato quale <tartaruga-maschio> per la sua lentezza di passo
celeste. Dal I Ciclo Avatarico al II è
perciò evidente che si sia passati da una
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contemplazione dell’Asse Celeste a livello artico, simboleggiato dal <Corno> del Pesce quale immagine del perno cosmico (donde anche il Sole traeva la sua origine), ad una differente visione solare mutuata in ambiente subartico e connessa in tal caso alle 5 Direzioni (i Punti Cardinali piú il Centro). Per questo la Tartaruga è posta sull’altare vedico in qualità di contrassegno solare e in tal modo è divenuta il veicolo di Yamunā, la <figlia> appunto del Sole.
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contemplazione dell’Asse Celeste a livello artico, simboleggiato dal <Corno> del Pesce quale immagine del perno cosmico (donde anche il Sole traeva la sua origine), ad una differente visione solare mutuata in ambiente subartico e connessa in tal caso alle 5 Direzioni (i Punti Cardinali piú il Centro). Per questo la Tartaruga è posta sull’altare vedico in qualità di contrassegno solare e in tal modo è divenuta il veicolo di Yamunā, la <figlia> appunto del Sole.
Il Cap.VIII parla del tempio quale
corpo della Divinità. Essendo le 2 dee Gaṅgā e Yamunā entrambe
associate alla Morte, nonché rispettivamente alla Luna e al Sole, ecco che le
loro effigie venivaano collocate all’ingresso dei templi. Dietro questa concezione, rileva giustamente
lo Stietencron rifacendosi in modo esplicito alla Kramrisch (7), c’è l’idea del Vāstoṣpati lett. ‘Protettore della casa’)
ossia del Vāstupuruṣa (‘Persona della casa’); personificazione del principio sotteso
alla conservazione dell’ambiente domestico, di forma indefinita, per quanto
estesa al Cielo e alla Terra. Prima di
edificare occorre del resto riservargli un sacrificio. Poi, come insegna la Kramrisch, si suddivide
la superficie in 81 quadrati – 64 se è un tempio – e ciascuno dei quadrati in 9
quadrati minori riservando a Brahmā il quadrato
centrale di questi ultimi. La concezione
del tempio come organismo vivente, nel senso del puruṣa, conduce all’identificazione
su base astrale d’ogni parte dell’edificio con una parte del corpo umano (8). I 6 Cakra
vengono rappresentati in determinate strutture del tempio lungo l’asse
est-ovest, l’Ajña-cakra coincidendo col
principale liṅga dell’edificio
sacro e il Sahasrāra-cakra
col Sancta sanctorum. Interviene inoltre in questa concezione l’idea
del Prāsāda-puruṣa (9), cioè della Persona che
presiede al tempio, cui è offerto il cibo sacrificale, e che elargisce in cambio la Grazia Divina; la
quale secondo certuni risulterebbe
fondamentale nel concedere ai prescelti di ottenere l’Immortalità, rispetto a coloro che
viceversa pongono la Conoscenza (Ajña) quale unico
metodo essenziale di Liberazione dall’Avidyā. La posizione
delle dee alla base dei fianchi delle porte equivale perciò alle narici del Prāsāda-puruṣa, mentre i fianchi ne
riproducono gli occhi.
Poiché le sopracciglia (in precedenza gli occhi) segnano i punti iniziali delle due Nāḍī (Iḍā e Pingalā), se fossero raffigurate plasticamente nell’edificio i due canali sottili verrebbero posti proprio ove sono collocate le due dee. Le 2 nāḍī sono descritte nei testi tardi, d’altra parte, coi nomi di Gaṅgā e Yamunā. Come si concilia ciò col fatto
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che anticamente esse erano immagine del fiume (nadī) lunare e di quello solare? Il Cap.IX risponde a tale domanda, postulando che Iḍā e Pingalā hanno proprio relazione colla Luna e col Sole. Nel tempio è presente anche Suṣumnā, equiparata a Sarasvatī. Lungo tale canale, che è dato dalla parte interna delle porte, scorre la Śakti-Kuṇḍalinī; la quale, microcosmicamente, va dal Muladhāra all’Ajña-cakra. Architettonicamente, dal cancello piú esterno alla dea intronata nella cella del tempio. Per questo il Loto, emblema di Sarasvatī, ne decora la volta. V.S. parla d’una via verso l’Assoluto, ma non si sofferma a spiegare in dettaglio cosa sia veramente il Sahasrāra, la cui illuminazione è la meta medesima del Tantrismo. Riporta oltretutto la concezione delle Nāḍī al Periodo Upanishadico (IX-IV a.C.), sebbene ciò non possa essere sufficiente, ammesso che quella sia realmente la datazione storica e non una di comodo. L’idea del microcosmo umano è assai piú antica, com’egli stesso pare dedurre dietro le righe: è precedente, per forza di cose, alla costruzione del tempio hindu (10), visto che questo ne è una riproduzione su larga scala. Il devoto (pūjāri) offre infatti la propria venerazione (pūjā) alla Divinità nel punto del tempio corrispondente al cuore, mentre la mūrti del nume ossequiato è collocata in quello che equivale al capo. Riguardo a siffatto edificio va tenuto inoltre presente che come ogni altro edificio sacro di altre tradizioni prima d’essere costruito in pietra dovette essere edificato in legno, magari coll’aiuto di mattoni, ad opera di carpentieri e falegnami anziché di architetti e manovali edili. Ed è solo per tale ragione che l’architettura sacra (11) è comincia esclusivamente a partire da una data epoca, la quale nel caso dell’India è il Periodo Post-buddhista. Già nei testi dei primi 4 secoli a.C., ad ogni modo, si fa menzione comune dei culti templari. Nulla però di essi è sopravvissuto ai nostri giorni, se non dei rilievi di base o delle icone appartenenti al II e al II sec. Tradizionalmente i costruttori venivano definiti dagli antichi testi di architettura come śilpin, da śilpa, l’arte di costruire; attorno a loro, oltre a lavoratori con mansioni varie, vi era il committente (sorta di mecenate), un architetto-capo che faceva il disegno ed un architetto-sacerdote che ne curava il senso simbolico in ottemperanza alle Scritture. Dato che i Veda non richiedevano templi, è evidente che tale arte dovette essere assunta già prima della calata degl’Indo-ari sul sul suolo indiano. Ossia, al tempo della Civiltà della Antica Valle dell’Indo. Ecco il motivo onde il tempio hindu si mostra aderente ai dettami dei Tantra piú che dei Veda.
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Indi V.S. riprende al Cap.X il discorso iniziale, delle devatā che hanno preceduto le 2 dee fluviali, questa volta però spiegando i differenti stadi evolutivi di siffatto motivo iconografico in maniera esauriente; ossia col simbolismo delle nāḍī, o sirā. Dapprima si hanno un paio di vṛkṣa-devatā (o śālabhañjikā), senza veicolo oppure aventi per veicolo delle yakṣi, nella parte alta dei toraṇa (12). L’autore spiega tal raffigurazione, giustamente, in rapporto alla colonna vertebrale intesa quale asse od albero; ma la cosa ha un significato macrocosmico, in relazione all’Axis Mundi, non solo microcosmico. In seguito subentrano nella stessa posizione delle yakṣi su makara, in veste di nāḍī-devatā, simultaneamente sparendo le altre facenti da vāhana. Cosí i flussi sono veicolati ai rettili. L’albero talora compare, talora manca. In codeste immagini a differenza delle precedenti il centro d’attenzione è perciò posto sui vāhana, le nāḍī-devatā fungendo da nāḍī. Dalla differenziazione di una di queste, col kūrma al posto del makara, nascono Gaṅgā e Yamunā rispettivamente col Makara ed il Kūrma. Una fase maggiormente elaborata del tema subentra allorché le 2 dee fluviali assumono i caratteri dei 2 luminari, onde dall’equazione nāḍī = nadī-devatā si passa a quella Iḍā-pingalā = Gaṅgā-Yamunā.
Il penultimo capitolo esamina lo
scambio di posto, fra la destra e la sinistra, che talvolta subentra fra le 2
dee fluviali presso le entrate dei templi.
Bisogna notare a tal proposito che destra e sinistra si misurano secondo
la prospettiva della Divinità, non del devoto.
La dottrina fisiologica addita la destra come parte maschile e la sinistra
come parte femminile. Il mito giustifica
la trasmutazione fra i due principî, visto che Iḍā pur nascendo femmina
cambia piú volte sesso nel corso della
sua esistenza (13). Iḍā è figlia di Manu Vaivasvata e consorte di Budha, figlio della Luna (Soma); è chiamata anche Iḷā e, attraverso tale coppia, discende la mitica
dinastia lunare. Un altro nome è Sudyumna. V.S. ritiene che il posizionamento a destra o
a sinistra delle dee non sia un fatto casuale, ma dipenda dalle scuole. Secondo lo Yoga Iḍā termina nel
sopracciglio sinistro e Piṅgalā in quello
destro. Questo schema determina il
posizionamento a sinistra di Gaṅgā e viceversa per Yamunā,
come avviene nella loro confluenza macrocosmica presso Allāhābād. V.S. fa derivare codesto posizionmento dal Vajrayāna, pretendendo che il Tantrismo
induista derivi dal Tantrismo buddhista, ma personalmente contestiamo tale
punto di vista limitativo. Il punto di
vista davvero induista (preferiremmo dire shaktico, considerando
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l’altro shivaico) pone invece le due dee in posizioni opposte. In questo caso è il lato femmineo ad esser associato al fuoco, al calore e al sole. E viceversa. Quindi è il modo d’intendere Sole e Luna, al maschile o al femminile, a determinare il resto.
Il Cap.XII fa da epilogo e sentenzia
che il simbolismo delle 2 dee allude innanzitutto alle 2 correnti interne al
microcosmo umano, in secondo luogo al Sole e alla Luna (rispetto all’autore
preferiamo scrivere i termini al maiuscolo, poiché sono i luminari in senso
astrologico e non in quello astronomico) ed in terzo luogo ai 2 fiumi
corrispondenti. Siccome tuttavia la
simbologia rispecchia i 4/4 della Parola Divina (scr.Vāc),
deve esservi un ennesimo significato, intermedio tra il secondo e il terzo
delucidati; manca, infatti, nei 3 significati dedotti attraverso questo intenso
e proficuo studio quello allegorico.
Probabilmente esso consiste nell’indiretta abbondanza, non solo
materiale, che questi fiumi producono nella pianura gangetica. Tanto che per il domio delle terre da essi
bagnata fu comattuta una delle piú
drammatiche guerre che la storia dell’uomo ricordi: la Guerra di Bhārata, raccontata in un celebre poema, il piú esteso mai scritto da mani umane. 8
l’altro shivaico) pone invece le due dee in posizioni opposte. In questo caso è il lato femmineo ad esser associato al fuoco, al calore e al sole. E viceversa. Quindi è il modo d’intendere Sole e Luna, al maschile o al femminile, a determinare il resto.
Note
(1) H. von Stietencron, Ganga and Yamuna River Godesses and Their
Symbolism in Indian Temples, 1972 (ed.or. Gaṅgā und Yamunā. Zur symbolischen Bedeutung der Flussgöttinnen an Indische Tempeln- O.Harrssowitz, Wiesbden 1972).
(2) O.Viennot, Le divinités fluviales
Ganga et Yamuna aus portes des
sanctuaires de l’Inde ancienne: positions et fonctions. Essai d’évolution d’un
thème décoratif- Arts As., T.X, , Parigi 1964.
(3) Bisogna stare attenti comunque ad interpretare alla giusta maniera codesto
assioma, il quale non significa che l’unica verità è quella trasmessa per via
orale o scritta attraverso gl’insegnamenti tradizionali. La Tradizione non è funzione di pappagalli. Può essere benissimo che, seppur in rari frangenti
(in ogni caso la cosa non è da escludere a priori), l’interpretazione che viene
data e
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pertanto tramandata anche da maestri tradizionali non sia corretta per ragioni varie. Chi la trasmette può essere ignaro di questo errore e magari, pur sospettandolo, non abbia il coraggio d’impugnarlo. Ma una persona maggiormente avveduta degli altri può risultare in grado di correggerlo, spiegando persino il motivo di tale errata interpretazione. Tilak ad esempio è stato in grado di correggere un errore tradizionale, tramandato persino da Sāyaṇa, riguardo lo Śvan; che veniva interpretato come il Vento, risvegliante i Ṛbhu (geni stagionali), ma altro non era che il Cane (Sirio). Anche da parte nostra abbiamo mostrato come l’Aquila evangelica non equivalga zodiacalmente allo Scorpione, bensí all’Aquario, e sia quale emblema di S.Giovanni alternativa alla Coppa. Ciononostante una pseudo-tradizione, passata attraverso il Wirth, l’ha identificata erroneamente a Scorpio. Errori di questo genere, benché di per sé limitati ad alcune interpretazioni, potrebbero condurre in determinati a casi a conseguenze fatali; è a siffatti errori che va ricondotto, nelle origini, il Luciferismo. Poi chiaramente, di passo in passo, si è giunti in ultimo alla volontà satanica di rovesciare i simboli.
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pertanto tramandata anche da maestri tradizionali non sia corretta per ragioni varie. Chi la trasmette può essere ignaro di questo errore e magari, pur sospettandolo, non abbia il coraggio d’impugnarlo. Ma una persona maggiormente avveduta degli altri può risultare in grado di correggerlo, spiegando persino il motivo di tale errata interpretazione. Tilak ad esempio è stato in grado di correggere un errore tradizionale, tramandato persino da Sāyaṇa, riguardo lo Śvan; che veniva interpretato come il Vento, risvegliante i Ṛbhu (geni stagionali), ma altro non era che il Cane (Sirio). Anche da parte nostra abbiamo mostrato come l’Aquila evangelica non equivalga zodiacalmente allo Scorpione, bensí all’Aquario, e sia quale emblema di S.Giovanni alternativa alla Coppa. Ciononostante una pseudo-tradizione, passata attraverso il Wirth, l’ha identificata erroneamente a Scorpio. Errori di questo genere, benché di per sé limitati ad alcune interpretazioni, potrebbero condurre in determinati a casi a conseguenze fatali; è a siffatti errori che va ricondotto, nelle origini, il Luciferismo. Poi chiaramente, di passo in passo, si è giunti in ultimo alla volontà satanica di rovesciare i simboli.
(4) In sostanza, la rinascita rimanda alla vera Rinascita, che è quella
della Mente purificata dallo Spirito.
(5) Non è vero che l’associazione fra i morti e la Luna risponda alle idee
di Varāhamihira e Bhāskara, essendo un concetto comune a tutti i popoli della terra. Ecco lo storicismo in cui ricadono
immancabilmente tutti gli autori accademici!
Contraddicendosi tuttavia V.S. traccia una derivazione di siffatte
credenze dai testi vedici, base quindi anche degli autori citati, che possono aver fatto al massimo da intermediatori.
(6) Nel simbolismo geocentrico anche i due luminari vengono considerati
<Pianeti>.
(7) The Hindu Temple è piú volte menzionato nel testo.
(8) Nel Cap.VIII dell’opera ivi esaminata, a mezzo fra le pp. 90 e 91, l’autore riporta una lista di
corrispondenze cosmiche fra i Tattva
(‘Principi’) e le varie parti del tempio.
(9) Stiet., op.cit., p.88.
(10) Sul tempio hindu si legga questa elementare ma edificante sintesi: link http://www.hindu-temple.net/il-tempio-indu/
(11) Sulla relazione dell’architettura sacra coll’astrologia si veda invece
quest’altra: link
http://www.hindu-temple.net/architettura-del-tempio/
(12) Sono portali quadrangolari associati sia all’induismo, che al jainismo o
al buddhismo; l‘equivalente indiano dei paifang
cinesi e dei torii nipponici, aventi
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come i toraṇa un significato di buon presagio.
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come i toraṇa un significato di buon presagio.
(13) Il riferimento è, in realtà ad Iḷā, cui Iḍā (immagine del cibo sacrificale), veniva identificata. Per le leggende che riguardano quest’ultima
cfr. J.&M. Stutley, Dizionario
dell’Induismo- Ubaldini, Roma 1980 (A
Dictionary of Hinduism- Routledge & Kegan P., Londra 1977), p.169/
coll. a-b.
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