305) Vide n.248.
306) Dagda in una poesia moderna ma di stile tradizionale
s’identifica al Salmone, non meno di quanto facesse Poseidone col Delfino
nell’antica Grecia.
307) Ac., Le m., §21, pp. 255-6.
308) L.Chandra, Buddhist
Iconography- Aditya P., N.Delhi 1987, Vol.II, p.569, fig.1754.
309) Ovvero qualcosa di analogo al ‘Perfetto Maestro’
hindu. Vide n.274. Essendo
relazionato al Bodhisattva in forma
di Mahāmatsya, funge da Ādirāja (‘Re Primevo’ = Manu) ed è immerso come il Grosso Pesce solo a metà nelle
<Acque> (del Vyakta). L’altra metà è nell’Avyakta. L’Uomo possiede
dunque un ruolo centrale, polare. Si
rammenti al riguardo che nella leggenda mahabharatiana di Adrikamātsya, una volta
squartata l’apsaras in forma pescina,
è soltanto Satyavatī (non Matsyarāja) a subir
l’affidamento al Dāśarāja. Il Re
Pescatore infatti, una volta scomparsa la figura avatarica che lo sovrasta
(nella storia il Matsyarāja è simbolicamente condotto presso il Devarāja,
ossia nell’Invisibile), dispone dell’Ādiśruti
(‘Rivelazione Primeva’) e può far partecipi altri naturalmente perfetti dell’Ātmavidyā (Suprema Visione). Costoro la trasmetteranno, a loro volta,
tramite la Smṛti (‘Tradizione’) in forma riflessa di Jñana (‘Gnosi’)
agl’iniziati.
310) Ivi s’intende il Buddha, anteriormente alla sua venuta storica.
311) M.Winternitz, History
of Indian Literature- Motilal B., Delhi 1983 (ed.or. Geschichte der Indischen Literatur- K.F. Koehler V., Stoccarda
1922), Vol.II, Sez.III, pp. 10-1.
312) Gli altri 8 aṅga sono i seguenti:
1) Sutta (sermoni in prosa),
2) Geyya (sermoni misti di poesia e
prosa), 3) Vyākaraṇa (esegesi);
4) Gāthā (stanze), 5)
Udāna (detti
concisi), 6) Itivuttaka (brevi
discorsi inizianti coll’espressione ‘Sic dixit’), 7) Abbhutadhamma (resoconti dei miracoli), 8) Vedalla (insegnamenti sotto forma di domande e risposte).
313) Gli altri 4 Nikāya sono il Dīgha, il Majjhima,
il Saṁyutta e l’Aṅguttara.
314) Bot., op.cit.,
P.III, Cap.I, pp. 95-102.
315) Ecco le altre 14: 1) Khuddakapāṭha, 2) Dhammapada, 3) Udāna, 4) Itivuttaka, 5) Suttanipāta, 6) Vimānavatthu, 7) Petavatthu, 8) Theragāthā, 9) Therīgāthā, 10) Niddesa, 11) Paṭisambhidāmagga, 12) Apadāna, 13) Buddhavaṁsa, 14) Cariyāpiṭaka. Alcune di esse (seconda, quarta e quinta)
sono state tradotte in italiano dalla Boringhieri.
316) Op.cit., p.101. Il prof. Botto, nostro stimatissimo
insegnante di Lingua e Letteratura Sanscrita all’Università di Torino durante
il corso di laurea in Lettere Moderne (purtroppo non terminato per cause
indipendenti dalla nostra volontà), aggiunge preziosamente (ibid.) che la prima rappresentazione
artistica del contenuto dei Jātaka risale al III-II sec. a.C.; ma la reale antichità
di tale contenuto va piú addietro
della probabile datazione della stesura letteraria di esso, poiché si situa in
un contesto panindiano che susciterà analoghe ripercussioni nel Paṅcatantra, opera
induista di epoca classica (II-VI sec. d.C.) composta da Viṣṇu Śarman.
317) Il Bodhisattva
è di norma presentato quale precedente incarnazione del Buddha prima di realizzare la Mahābodhi, ma è possibile un’interpretazione piú profonda; come quella adotttata in R.Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale-
St.Tradizionali, Torino 1967 (ed.or. Initiation
et réalisation spirituelle- Id.Traditionnelles,
Parigi 1952), Cap.XXXII, p.273-8. Guénon
spiega come la tappa ultima che questo missionato si rifiuta di fare non
implica un’inferiorità né rispetto al Samyakasaṁ-buddha (il comune Budda) né rispetto al Pratyeka-buddha (‘Budda solitario’), ma
anzi ne rivela la natura superiore ed universale, al modo dell’islamico Rasūl rispetto al
comune Walī (‘Amico’ di
Dio, con cui ha una paricolare intimità) od al piú distinto Nabī (‘Polo’ dell’umanità). Nell’induismo del pari l’Avatāra è colui che,
oltre alla realizzazione ascendente, compie anche la ridiscesa. A differenza del Sādhaka (‘Adepto’),
il quale compie la realizzazione spirituale solo per sé stesso; o del Satguru (‘Gran Maestro’), che la compie
pure lui per gli altri, senza però ridiscendere. Insomma, su un primo piano stanno Bodhisattva, Avatāra e Rasūl, capaci di rivolgere una faccia verso
l’Immanifesto e l’altra verso il Manifesto a mo’ di soli raggianti che
illuminano e riscaldano; su un secondo Buddha,
Satguru e Nabī,
i quali non agendo esclusivamente per sé costituiscono dei perni per
l’umanità, ma non hanno la capacità di trasmettere la Divina Compassione (o
Misericordia che dir si voglia) quasi fossero soli raggianti che illuminano ma
non riscaldano. Su un terzo piano sono
infine da collocare il Pratyeka-buddha,
il Sādhaka e il Walī, paragonabili da parte loro a brillanti soli non
raggianti, che detengono la luce solo per sé.
318) E.B. Cowell (a c. di), Jātaka Stories- The Pali
Text Soc., Londra (distr. Routledge & Kegan P., Londra e Boston 1973).
319) Il Parjanya
hindu, ipostasi di Indra. Cfr., in proposito, Ac., Ap., p.17, nn. 20-1.
320) Pure i Sinottici, essendo sacre scritture, non
possono limitarsi al piano letterale.
Vedremo nelle conclusioni come il tema dei pesci e dei pani debba essere
diversamente valorizzato rispetto a quanto comunemente si fa. Basta rifarsi al Vangelo di Tommaso e, nel
contempo, alla saga graaliana.
321) Si noterà che nel Buddhismo, un po’ come nel
Vishnuismo, si compie una specie di rovesciamento fra il ruolo divino e quello
umano: il Bodhisatta corrisponde in
qualità di Rivelatore a Brahmā e Pajjunna
(Parjanya) in veste di trasmettitore
della Tradizione ad Ānanda. Bisogna tener conto d’un fatto però, che non
meno della funzione rivelatrice anche la funzione trasmettitrice ossia
ricettiva può essere interpretata in una doppia accezione, umana e divina. Dal punto di vista umano è il Kūrmāvatāra a svolgere
tale compito, mentre da quello divino è Varuṇa che funge da trasmettitore della Tradizione
Primordiale, di cui Indra cioè Parjanya ha preso visibilmente il posto
– ed è un’eredità dvaparayughica, o mesolitica se preferiamo il linguaggio archeologico
a quello cosmologico – tanto nel Vishnuismo vedico quanto nel Buddhismo.
322) Su questa figura vide Stut., op.cit., s.v. NARA, p.298/ col.b e 299/ col.a.
323) Il Cowell li chiama ‘Commandaments’, ma come
spiega il Dizionario Buddhista di
C.Humpreys (Astrolabio-Ubaldini, Roma 1981 (ed.oe. A Popular Dictionary of Buddhiasm- Curzon, Londra 1975, s.v. PRECETTI, pp. 111-2, i Pansil – contr. di Pañca Sila – “non sono
comandamenti”, ma semmai “aspirazioni o voti” rivolti al proprio Sé. Eccone l’elenco: 1) Non uccidere, 2) Non
rubare, 3) Non indulgere nella sensualità, 4) Non mentire, 5) Non intossicarsi
di bevande o droghe. La loro recitazione
assieme a quella dei ‘Tre Rifugi’ (Buddha,
Damma, Saṅga) costituiva
la base del farsi buddhisti.
324) La stessa storia è raccolta, con qualche variante,
in P.Carus, Il Vangelo di Buddha Secondo
Antiche Cronache- Laterza, Bari 1980 (I ed.it. 1932; ed.or.ingl. n.c.), pp.
133-4, (n°LXVI). Alla Tavola di
Riferimento, in fondo al libro, si rimanda per il testo sia alle Buddhist Birth Stories or Jātaka Tales (trad. di R.Davids) che al P.T.- ii. 58 (nella trad. ted. In 2
voll. di T.Benfey, Lipsia 1859).
325) Simile storia è narrata nel P.T.-i. 12 (noi abbiamo utilizzato la trad. del Pañcatantra a c. di
G.Bechis, U.Guanda, Milano 1983), a dimostrazione che buddhismo ed induismo
hanno tratto le rispettive storie da un patrimonio favolistico-sapienziale
orale comune.
Tre enormi pesci vivevano in un
grande lago. Si chiamavano
‘Organizzatore-del futuro, Pronto-di spirito e Ciò-che-avverrà. Sentendo i discorsi dei pescatori il primo di
essi s’accorse che costoro intendevano fare una cattura di pesci proprio nel
loro lago, per cui pensò di rifugiarsi assieme agli altri due in un lago non
solcato da barche. Ma il secondo dei
pesci, molto sicuro di sé, non volle seguirlo; il terzo, da parte sua, non
prese alcuna iniziativa. Un giorno,
allorché Organizzatore-del futuro se n’era già andato, i pescatori gettarono la
loro rete e dopo che la nassa fu ritirata non rimase pesce in quel lago. Pronto-di spirito si finse morto, mostrandosi
sulla superficie dell’acqua, tanto da spingere i pescatori a rigettarlo nella
corrente credendolo morto da sé. Indi,
balzando qua e là, si rifugiò in un’altra pozza d’acqua. Il povero Ciò-che-avverrà, invece, fu
maciullato a randellate unitamente agli altri pesci.
326) Cfr. Ac., Le
Na., p.7.
327) Vide
n.194.
328) Per un panorama storico effettivo dei fatti qui
soggettivamente accennati cfr. Embr., op.cit.,
Cap.5, §1, pp. 42-5.
329) R.S.
Gupte, Iconography of the Hindus,
Buddhists and Jains- D.B. Taraporevala Sons & C., Bombay 1972, pp. 165,
fig.51 e 167, fig.60.
330) Gup., op.cit., p.177.
331) Op.cit., p.178.
332) Ibid.
333) Ib., p.172, fig.77.
334) Fig.80.
335) P.180.
336) P.182.
337)
P.185. Nell’induismo esiste un
doppione di Varuṇa col Matsya,
in origine il vero vāhana del dio delle acque, chiamato Jhulelal. La cosa
interessante è che il nume ha in mano una Verga e giace su un Loto, poggiante
sull’Aureo Pesce. Proprio gli attributi
che, come abbiamo supposto in precedenza (vide
§q), sono venuti meno nella figura di
Varuṇa.
338) R.P.
Srivastava, Art and Archaelogy of Punjab-
Sundeep P., Delhi 1990, tav.53. La pittura è
tratta da una copia illustrata della Janam
Sākhī (‘Storie di nascite’), opera
sikh di valore biografico composta nella prima metà del XVII sec.;
posteriormente ai divini inni dell’ Ādi Granth (lett. ‘Primo
Libro’, pan.Gurū Grantha Sāhiba), testo
sacro del sikhismo, che sono del 1.604.
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