martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo III






Cap. III

Gli emblemi solstiziali
del Delfino e del Polpo
nella civiltà egea ed in quella hindu




a)   Il Tripode delfico

            Tornando alla contrapposizione solstiziale tra la Seppia ed il Delfino esaminata nel Cap.2. §l, e rintracciabile in certa parte della dell’arte ellenica ed egeo-cretese, è d’uopo rilevare come in una composizione dipinta a figure rosse su un’idria del V sec. a.C. – ora preservata al Mus.Vaticano – compaia un’icona di Apollo Delfinio (1) seduto su un tripode alato e con in mano la cetra.  In basso si nota, al punto opposto, il Polpo circondato da 4 Pesci; ai lati del  Treppiede, avente chiaramente funzioni mantiche, si notano invece 2 Delfini.  Inutile aggiungere che siamo dinanzi ad una rappresentazione del Medium e dell’Imum Coeli, coll’Arco Ascendente e Discendente, nonché le 4 Stagioni.  Un fregio sottostante di greche, fra le quali sono inserite delle diagonali, guarnisce la scena.  Per intuire con esattezza il senso della composizione pittorica segnalataci dal Cook occorre essenzialmente cercar di comprendere il valore ed il ruolo del Tripode delfico.  Donde discende il suo rinomato potere mantico?  Per rispondere a quest’ultimo quesito, va chiarito innanzitutto il senso generale del simbolo medesimo, che troviamo diffuso dal Mediterraneo all’Estremo Oriente (2).  Or dunque, come insegna giustamente l’autore in questione (3), dobbiamo ritenere che in principio il Treppiede fosse foggiato a colonna o ad albero; attorno a cui era arrotolata, spesso, la Serpe.  Evidentemente un’immagine teriomorfica di Pitone, secondo quanto ci suggerisce Cook; il quale però, interpretando exotericamente tale presenza ofidica, la concepisce banalmente in funzione d’una semplice commemorazione esteriore della mitica vittoria di Apollo.  Ma va da sé che, raffigurato in cotal guisa, il Tripode corrisponda allo μφαλός o Betilo che dir si voglia; ed a tutti gli altri emblemi equivalenti (Monte, Fallo ecc.), che assieme all’Albero e alla Colonna (4) costituiscono una palese raffigurazione del ‘Centro del Mondo’ (5).
            Quel che è piú curioso comunque è che il Cook riporti, in una delle varie illustrazioni succitate (6), un tripode delfico sulla cui gamba centrale è effigiato un serpente avvolto a spirale; in modo che i due cerchi orizzontali, congiungenti fra di loro le tre gambe del treppiede, ripartiscano l’intero tripode e la stessa serpe in tre  sezioni parallele.  Lo schema tripartito è piú volte ripetuto nell’insieme della rappresentazione, sicché non è certo da considerare casuale; persino i gradini della piattaforma sottostante presentano, del resto, un aspetto ternario.  Il tutto poggia su una base cubica, per cui possiamo interpretare codesta base, i ‘Tre Gradini’ ad essa soprastanti e le ‘Tre Sezioni’ paralllele del Treppiede come emblemi dei ‘Tre Mondi’.     



b)   I ‘Tre Passi’ di Vāmana

            Ma che cosa significano, piú particolarmente, le ‘Tre Gambe’ di codesto oggetto sacro?  A nostro giudizio esse individuano ciò che nella cultura induista è rappresentato dai famosi ‘Tre Passi’ solari; passi che la tradizione vishnuita attribuisce, primieramente, a Vāmanāvatāra.  Sappiamo che il ‘Ciclo del Nano’  nella cosmologia hindu è il periodo cronologico con cui comincia l’Età Tretā (Argentea) e che il suddetto avatāra è la prima delle 3 discese divine che la caratterizzano.  Perciò la nozione dei <Passi> è ovviamente da intendere quale arcaico  riferimento ad una prisca valorizzazione del simbolo solare, cui deve essere stata necessariamente associata fin dai primordi una conseguente pratica sacrificale, di tipo senza dubbio annuale.
            Il personaggio mitologico menzionato, ci rammentano gli Stutley (7), è conosciuto altrimenti col nome di Trivi-krama (‘Colui-che fece-i Tre-Passi’); nelle regioni tamiliche, invece, egli è noto sotto la denominazione di Ulagalanda-perumā (‘Il Signore che misurò- il mondo’).  È abbastanza verosimile ritenere quindi che il Tripode delfico raffigurasse, non meno del Trivikrama hindu, le tre principali stazioni solari (8) in funzione ciclica (giornaliera, annuale, epocale).  Ciò si constata visibilmente dal fatto che l’Apollo seduto sul Tripode a mo’ di seggio celeste (9), di cui si è detto in precedenza, richiami alla mente l’Uccello Solare disposto sull’Arbor Mundi di shamanica memoria.  Nella preistoria euroasiatica si può rinvenire un’effigie (macrocosmica) di codesto <uccello> appollaiato su una <verga> in taluni dipinti parietali sparsi qua e là in un vasto territorio che va dalla Dordogna al Deccan (10).  Un’ulteriore immagine (microcosmica) di tale soggetto è reperibile in Occidente, in tempi posteriori a quelli della Grecia classica, nel repertorio delle raffigurazioni ermetico-alchemiche tardo-rinascimentali.  Queste ci mostrano da un lato l’Albero Alchemico, variante esoterico-operativa dell’Arbor Vitae, sorretto dalla ‘Femmina Nuda’ (la <Materia Prima>); e dall’altro la Verga, o Caduceo di Hermes, con 2 Serpi ad essa avvolte elicoidalmente.  La doppia raffigurazione illustra in entrambi i casi un <asse>, avente alla propria sommità appunto siffatto uccello (11).         



c)   Un simbolismo solare di carattere titanico

            Per una conferma dell’effettiva rilevanza di un simbolismo solare di tipo ternario, in tempi pre-olimpici, si rammenti al fine d’un confronto la triplice personificazione titanica del dio-sole piú addietro analizzata; che abbiamo visto essere individuata dai percorsi mitici di Sisifo, Issione e Tantalo od Elio-iperione.  Il Tripode in funzione solare è il corrispettivo greco del Tridente di Śiva, immagine che allude propriamente al Trikāla (‘Triplice Tempo’).  Ma non è questa l’unica interpretazione valida del simbolo, essendo lecito anche qui un’applicazione microcosmica dello stesso principio.  Tanto piú che, in base a quanto è stato sottolineato da qualcuno (12), spesso le <Tre Gambe> del Tripode erano dipinte coi ‘Tre Colori’ per antonomasia dell’Opus Alchīmicum: il Rosso, il Bianco ed il Nero.  Tripodi di tal genere sono stati rinvenuti a Creta, precisamente nel sito di Ninou Khani e a Micene.
            La tripartizione spiralica della simbologia pitonica cui si è prima fatto cenno non è d’altra parte affatto diversa dalla triplicità elicoidale dei serpenti avvoltolati attorno alla verga ermetica, ciò ribadendo quanto appena indicato.  Un’interpretazione parimenti accettabile fa del Tripode un contrassegno dell’insieme del Mondo Celeste, Infero e Terrestre.  Ciò vale non solo per lo schema a ‘triplice sezione’, con cubo-gradini-gambe, in precedenza delineato; ma pure per qualunque tripode isolato, indipendentemente da qualsiasi piattaforma (13).  Egualmente Vāmana, di cui è traccia fin nel gveda (i. 22, 16-8 e 154, 1-6), assume in India analoga funzione (14).       



d)   Tripodi cinesi

            Che il Tripode cinese faccia riferimento al Trimundio si desume, in manzanza di meglio, indirettamente dal fatto che nella Cina medesima il Treppiede si tramanda abbia avuto in passato valenze non troppo dissimili.  Il Bussagli (15) c’informa a tal proposito dell’attribuzione al primo leggendario imperatore (Huang-ti, simbolicamente connesso al Centro e all’Agente Terra, oltreché mitico progenitore della stirpe gialla), da parte dello Shih-chi (‘Memorie di storici’)(16), dei primi 3 modelli di tripodi vascolari cinesi (17); ai quali furono assegnati per l’appunto tre piedi al fine di simboleggiare, mediante questi, la perfezione della Grande Triade (Cielo, Terra, Uomo).  Dal punto di vista archeologico in area russo-persiana e altaico-centroasiatica (Cultura di Andronovo) si è constatata però, in tempi maggiormente remoti (fine III mill.-inizio II mill. a.C.), una produzione di vasellame bronzeo similare a quello della Dinastia Shang in Cina (metà II sec.mill.-inizio del I a.C., onde è del tutto legittimo sospettare un collegamento a livello tecnologico tra le due zone, medio- ed estremo-orientale, con estensione delle influenze fino all’Egitto e al Mediterraneo (18).  In questo modo si spiegherebbero, dunque, le affinità  concettuali nell’impiego rituale dei sacri tripodi fra regioni geograficamente cosí lontane.  Le analogie simboliche fra la Grecia e la Cina non ci suggeriscono personalmente tanto un trasferimento della tecnica metallurgica da un territorio all’altro in senso diffusionista, quanto  piuttosto una comune ispirazione artistica, frutto dell’eredità in tempi protostorici di modelli preistorici comuni a tutta la zona indicata.  Le affinità fra i rispettivi tripodi non appaiono infatti di tipo estetico, ma riguardano semmai la funzione magico-oracolare (19) svolta da codesti oggetti cerimoniali, seppur si debba riconoscere una netta distinzione di forme – rispettivamente colonnari e vascolari – tra i tripodi ellenici e quelli cinesi.  Sappiamo tuttavia che sono stati rintracciati altri tipi di treppiedi, in vesti grafiche (20), nelle iscrizioni delle tavolette di Pilo in Peloponneso decifrate come Lineare B (XIV sec. a.C.); tali modelli sembrerebbero smentire ciò che abbiamo appena dichiarato, dal momento che presentano suggestive ed inattese somiglianze con i treppiedi cinesi, suggellando l’ipotesi d’una diffusione a vasto raggio – forse in tutto l’Egeo, non soltanto in terra cretese o micenea – di vasi siffatti in tempi pre-omerici.               



e)   Il ‘Quarto Passo’

            Notiamo adesso, sempre per stare in argomento, che il Polpo del dipinto avente per soggetto Apollo Delfinio seduto su un tripode eretto in mezzo a 2 Delfini è schiacciato dal dio solare sotto i ‘Tre Piedi’ del sacro seggio; non diversamente da quanto compie Trivikrama (21) ai danni di Bali (22), il quale diviene ipso facto, il sovrano degl’Inferi (23).  Riguardo il ruolo essenzialmente demonico, in tal senso, del Polpo intendiamo riprendere tra poco l’argomento.  Ma al momento, prima d’addentrarci in un’analisi approfondita del tema, vorremmo sottolineare come un significato recondito legato evidentemente alle varie fasi iniziatiche di un determinato tipo di realizzazione spirituale sia connesso pure agli stessi ‘Passi’ del <Nano> vishnuita; in base a quanto possiamo dedurre da quel che vien dichiarato nella Taittirīya Sahitā (i. 6, 5, e-h), circa il loro potere apotropaico.  Ai ‘Tre Passi’ altrove citati ivi (ibid., verso h) ne è aggiunto un ‘Quarto’ (24), nella direzione dei Quattro Quartieri (25).  Esso è chiamato, in altre circostanze (.S.- i. 54, 5/b e 6/b), l’<Orma Suprema> (Parama Padam) di Viu (26); enigmatica espressione per designare di certo quel ‘Sole di Mezzanotte’ cui accennavano sommessamente alcuni iniziati ai Misteri dell’Ellade arcaica, forse con allusione alternativa alla Stella Polare (27).  Codesta tematica va insomma ricollegata a quella, da noi già trattata in altra occasione (28), dei ‘Quattro Quarti’ della Parola Divina; la quale è nell’induismo personificata da Vāc alias Vāgdevī (epiteto di Sarasvatī), una dea che è praticamente da ritenere pressoché identica alla <Figlia/ Consorte> di Prajāpati, il ‘Signore delle Creature’.  Di questi ‘Quattro Quarti’ della Parola solo uno è manifestato, gli altri ‘Tre Quarti’ rimanendo nell’Immanifesto (29).  Donde ora si può capire inequivocabilmente, al di là di qualsivoglia metafora, la reale portata simbolica  del Tripode apollineo e del conseguente dono oracolare posseduto dalla Pizia nell’ambito del santuario delfico; presso cui il sacro Tripode era venerato non soltanto per il suo valore mantico, bensí soprattutto per le influenze spirituali delle quali era reputato essere veicolo attraverso il mito ad esso connesso della vittoria del dio solare sul Serpente Pitone, immagine zoomorfica del Signore del Tempo e delle Tenebre Celesti (Crono).  



f)  Valori solstiziali del Delfino e del Polpo (o della Seppia)

Riprendendo finalmente la discussione sugli emblemi marini della ‘Superficie’ o del ‘Fondo delle Acque’ introdotta all’inizio della nostra lunga ma opportuna digressione dobbiamo aggiungere, per meglio precisare quanto da noi asserito poco fa sul ruolo del Polpo, che quest’ultimo è un cefalopode ottopode a conchiglia assai ridotta e ad otto tentacoli, caratterizzati da ventose.  Va distinto perciò e dal Polipo, piccolo celenterato con tentacoli urticanti al modo delle Meduse, spesso confuso erroneamente col Polpo; e dalla Seppia, un cefalopode decapode dibranchiato – dotato di conchiglia – che di tentacoli ne ha invece 2 e otto bracci, oltre a due pinne laterali.  La Seppia inoltre, similmente al Calamaro (altro cefalopode dell’ordine dei decapodi), ha la prerogativa esclusiva fra gli animali marini di secernere una sostanza nerastra oscurante i fondali allorché viene improvvisamente attaccata da un predatore.  La qual cosa deve evidentemente aver suggerito agli antichi, di già da parte loro predisposti a considerare da un punto di vista cosmologico i legami fra i fatti biologici e gli eventi naturali, l’idea d’una stretta analogia fra tale comportamento del mollusco e quello del cielo al solstizio estivo; vale a dire al punto estremo dell’arco ascendente  del cerchio annuale che, una volta raggiunto dal luminare diurno, induceva di nuovo le notti ad allungarsi.  Questo trionfo costante e periodico delle tenebre sulla luce era esattamente il contrario di quanto avveniva al solstizio invernale, tempo in cui aveva viceversa sopravvento la luce sull’oscurità.  Infatti la costellazione del Delfino, situata nei pressi del Capricorno, pareva partecipare di per sé a codesto mutamento di trotta della ‘Barca Solare’…  È chiaro dunque che a livello cosmologico si percepiva un’equivalenza emblematica tra la Seppia – nonché, per estensione del concetto, i molluschi omologhi quali il calamaro – e la costellazione del Cancro, cioè del Granchio Celeste; animale piú propriamente zodiacale del primo, che è extra-zodiacale, a meno di concepire un antico Zodiaco Solare colla Seppia e il Delfino quali Segni dei Solstizi anziché il Capricorno ed il Cancro (30).
Il Granchio avendo talora l’abitudine di procedere indietreggiando, similmente al Segno solare omonimo del Cancro – dal lat.cancer = ‘granchio, gambero’, gr. Καρκίνος = ‘granchio’ – che nel corso dell’anno portava le giornate a decrescere dopo il Solstizio Estivo (a), veniva ritenuto al pari della Seppia e del Gambero  un veicolo malefico e tenebroso (31); almeno, secondo il punto di vista qui considerato.  Ma ve ne erano altri differenti – in relazione alla Luna anziché al Sole – o addirittura opposti invertendo il punto di partenza del ciclo solare ed associando le Tenebre, piuttosto che la Luce, all’Immanifesto.  Cfr. a tal proposito il tema del s.m. Kar-kín-os, dalla √kr- raddoppiata e dissimilata nella sillaba mediale; donde abbiamo in parallelo il lat. Can-cer (genit. Can-cri), ove come insegna il Gemoll (32) si ha al contrario una dissimilazione iniziale dal tema *car-cr-.  Il sanscrito dà, invece, Kar-ka; voce in cui manca la dissimilazione sia inziale che mediale, ma la seconda sillaba ha perso la liquida.  Tale radice si ricollega in greco visibilmente, apofonia vocalica a parte, al vr. κείρω (‘distruggere, annientare’) ovvero alle denominazioni indoeuropee delle deità del tempo ciclico (in senso cielisolare) e della morte (33).  Vedi, a titolo d’esempio, la dea greca Kr, o l’indiana Kālī due figure femminee entrambe di valenza opposta a quella della latina Cerēs; la quale parrebbe essere viceversa una dea della crescita, stando almeno all’assonanza riscontrabile fra il nome di quest’ultimo nume ed il vr. crēsco (‘crescere’), in cui apofonicamente la prima vocale risulta al grado zero.  Il potere di Cerere fra i Latini atteneva specificatamente ai cereali, il sostantivo con cui li si designa essendo d’altronde derivato dal lat. Cereālia (le feste in onore di Cerere, donde anche i prodotti del suo dominio ossia i ‘cereali’), ma connesso del pari all’a. cer-e//-us-a-um (‘cereo, del color della cera, giallo’).  Così vorrebbe, insomma, l’apparenza (34); ma vi sono buone ragioni per ritenere al contrario che, in tempi preistorici e protostorici, esistesse un corrispondente nume dotato d’una natura ben piú complessa rispetto a quella delle divinità prima indicate.  Si analizzi in proposito la fisionomia analoga dell’Ecate Triforme ellenica, corrispondente greca di Diana Trivia.
Tale epifania divina era probabilmente venerata da tutti i popoli dell’area indomediterranea e doveva certamente disporre di vaste e complementari prerogative, riunificando nel contempo nella propria persona quei caratteri antagonistici che in maniera opposta traspaiono piú tardi nelle discendenti storiche di costei.  In codesta logica è perciò lecito supporre che presso i Latini la dea Cir-c-ē (35) non fosse altro che la versione infera di Cer-ēs, figlia di Ops e di Saturno, e che analogamente Śrī in India, prima d’essere identificata a Lakmī nei panni di luminosa signora dell’abbondanza disponesse di tratti complementari a quelli di Kālī, dea oscura presiedente invece alla Penuria.  Egualmente, in Grecia, possiamo considerare la benefica dea Kór-ē (nome da accostare nell’etimo al lat.Cer-ēs ed al scr. Śrī) quale controparte ideale della malefica dea Kr; figura di per sé da ritenere, a nostro giudizio, una manifestazione di Ecate.  Il Morelli (36) infatti, formulando giustamente l’ipotesi d’una distinzione iniziale tra Persefone e Core (nonostante sia intervenuta una loro sovrapposizione successiva a confondere le idee) e considerando la seconda delle due figure una dea agraria (del grano, al pari della Cerere romana), suppone l’esistenza originaria d’una trimorfia  – da lui definita erroneamente ‘trinità’ – formata da Core, Persefone ed Ecate; codesta trimorfia avrebbe  costituito in altre parole il ‘Triplice Volto’ di Demetra, in relazione vicendevole colle tre fasi essenziali della crescita del frumento.  Vale a dire rispettivamente col grano in erba, la spiga matura ed il grano mietuto.  Ma il N. non si avvede ingenuamente che è il ‘Quarto Volto’, suprema facies di Demetra, ad essere in rapporto colla Spiga (insomma col seme del frumento), di cui lei si fregia nell’iconografia.  Ciò per il fatto che nell’Età del Ferro a livello simbolico il ciclo lunare – per omologia con quello solare – cominciava a partire dalla Luna Calante, cui presiedeva appunto la suddetta Ecate, soprannominata per questo ‘cagna’ o ‘lupa’; dal momento che ella rappresentava la discesa agl’inferi e quindi veniva concepita come ‘regina delle streghe’ o ‘signora delle prostitute’, le une e le altre ricevendo gli stessi epiteti, segno d’una primordiale identità che le accomunava in veste di ‘vegliarde’.  Onde la trimorfia citata dal Morelli andrebbe riscritta cosí: Ecate, Persefone, Core; dato che le tre dee presiedevano a turno alla luna calante, alla luna nuova e alla luna crescente.  Siffatto ciclo continuava colla Luna Nuova, circa il quale sappiamo che era Persefone (la cd. ‘regina degl’Inferi’, rapita da Ade, come la latina Proserpina da Plutone) la sua dispositrice cosmica.  E proseguiva con la Luna Crescente, dominata dalla ‘vergine’ Core, terminando alfine colla Luna Piena; signoreggiata secondo quanto abbiamo poc’anzi rilevato da Demetra, la <madre> per antonomasia, come indica il nome stesso della dea.  Sul quadruplice aspetto della dea luni-terrestre, con differenti denominazioni (vedi oltre a quelle sopraddette gli epiteti rispettivamente equivalenti di Adrastea, Ecate, Demetra e Rhea), abbiamo altrove (37) argomentato a sufficienza; ispirati da A.Avalon, che li metteva a confronto con analoghi aspetti di determinate devī del mondo indiano.  Nella serie ciclica ellenica appena menzionata si vedrà come Adrastea, dal capo suino, signoreggiando la luna calante prenda il posto assegnato nella precedente quadrimorfia ad Ecate; la quale, in veste cinocefala, subentra a sua volta in tale seconda serie a Persefone nell’ambito dell’associazione simbolica che nella prima serie connette codeta dea alla luna nuova.  Parimenti Core è ivi rimpiazzata dalla madre Demetra, col capo equino, in relazione alla luna crescente; cosí come Rhea, leontocefala, sostituisce emblematicamente Demetra nel dominio da parte di costei sulla luna piena.   I colori attribuiti ad Adrastea, Ecate, Demetra e Rhea nella seconda serie ciclica ricordata sono nell’ordine: il Nero, il Verde, il Bianco e il Rosso; cioè, palesemente, i contrassegni dei quattro principali stadi dell’Opera Alchemica.  Possiamo immaginare inoltre che la serie ciclica di nomi divini aventi Demetra quale meta finale abbia avuto un tempo un rapporto con i celebri Misteri di Eleusi, dove per l’appunto si utilizzavano gli stessi colori per emblemi; la serie alternativa potrebbe invece appartenere ad un altro contesto iniziatico oppure risultare una variante in loco della simbolica eleusina.  Riguardo invece quadrimorfie come quella di Ecate alias Artemide (Luna Nuova), nella triplice veste di Leucotea-Rhoiò-Melenide (Luna Crescente, Luna Piena-Luna Calante)(38) è lecito sospettare l’esistenza d’una via lunare appartenente ad altra età mitica; si tratterebbe allora d’un culto assai piú vetusto di quello propriamente eleusino, cioè d’un culto risalente all’età mitica di Crono ovverosia all’Età dell’Argento.  In questo caso, è chiaro che la via iniziatica cominciava di necessità col Crescente Lunare e terminava in Luna Nuova, trattandosi d’una via destrorsa anziché sinistrorsa (39).  Onde si può congetturare che fosse il Novilunio, anziché il Plenilunio, ad esser scelto da immagine del ‘Quarto Volto’ della Grande Dea.  Anche se, sicuramente, debbono esser esistiti riadattamenti di tipo eleusino con valorizzazione del plenilunio quale fase preponderante del ciclo lunare; secondo quanto tradisce l’iconografia, che ci mostra Artemide affiancata ora dal Cervo (orionicamente equipollente al Segno del Toro, quindi all’Equinozio di Primavera dell’inizio dell’Età del Ferro, ma ivi addivenuto per trasposizione da un luminare all’altro un connotato della Luna Crescente) e dal Leone (emblema del Segno corrispondente e del Solstizio d’Estate, che rimanda per analogia alla Luna Piena)(40), ora da 2 Leoni (41).  La leggenda di Atteone e di Artemide, “nuda” nellla magica spelonca alla maniera dell’Iside “svelata”, insegna in proposito (42).
Perciò, facendo valere quanto asserito, ne deduciamo che le varie dee cornute di età neolitica o calcolitica reperibili nell’arte di molta parte della zona indomediterranea (43) e fungenti da modello a certe altre analoghe icone di tempi piú recenti, sino ad epoca storica, si spiegano col fatto che le Corna valgono quale emblema di potenza e di ciclicità; sono insomma legate alle idee di crescita, sviluppo e decrescita della fertilità vegetale nonché della fecondità animale.  Ecco perché spesso cotali figure sono effigiate colla testa tricorne o triradiata.  Per analogo motivo nel simbolismo solstiziale dell’Ellade arcaica il rostro singolo del Delfino (immagine visibile dell’omonimo asterismo extra-zodiacale, situato nei pressi del Capricorno) incarnava probabilmente, rispetto alle duplici corna della Capra-pesce (Decimo Segno zodiacale nell’astrologia greco-romana) una sorta di ‘terzo corno’, o ‘corno centrale’ (44); in tal senso codesto unicorne-unipede (facendo convergere in un unicum le due raffigurazioni emblematiche del solstizio invernale in sede zodiacale ed extra-zodiacale, cosicché la coda ittiomorfica dell’una vada a coincidere colla coda similare dell’altra), richiamando il raggio di luce trionfante sull’oscurità, stabilisce un’immagine del tutto inversa rispetto all’effigie piuttosto tenebrosa costituita dalla Seppia colla propria secrezione ghiandolare o dal Polpo coi propri repellenti tentacoli (45).



g)  Unicornía, itifallismo e unipedía
quali vaghi richiami alla morfologia ittico-assiale

Aggiungasi, in proposito, che la <Coda di Pesce> del Makara indiano (46), variante medio orientale dell’Antilope-pesce  mesopotamica (cfr. colla Capra-pesce occidentale, chiamata in Grecia Αἰγόκερως), corrisponde senza dubbio in ottica induista all’unico piede elefantino della figura denominata Ajaikapāda; la quale è data da un ekapāda (unipede) con testa di capra (aja).  A differenza del suo evidente corrispettivo hindu, tuttavia, il nume greco Αἰγίπαν (Egipan) tanto nell’innologia (47) quanto nell’iconografia (48) mostra due piedi di capra anziché uno.  Che la nostra comparazione non sia però un accostamento unicamente formale, o addirittura gratuito, è provato dal fatto che il Pan Caprino veniva dagli antichi greci – nonostante Hēr., Hist.- ii. 46, 4 – paragonato al Mīn egizio (49); un dio che è lecito ritenere nel contempo unicorne, itifallico ed unipede (50).  Non meno dello Śiva indiano (51), entro il cui ambito la figura suddetta di Ajaikapāda (52) rientra, Mīn (53) è infatti per forza di cose da intendere quale nume unicorne; visto che viene associato iconologicamente al Pescesega (54), la cui <Lama> possedeva in passato in alcune terre bagnate dall’Oceano Indiano – specialmente nell’India pre-vedica e nell’Egitto faraonico (protodinastico) – un determinato valore sacrale.  Ovviamente per via della sua assialità assai pronunciata, che è venuta a sostituire in un ambiente piú caldo e meridionale quella della protuberanza d’altri pesci (o meglio dei cetacei) diffusi in acque piú fredde e settentrionali (55). 

L’affinità fra Min e Pan, benché appartenenti a tradizioni diversificate (la tradizione egizia e quella greca), è comparabile all’attiguità in terra nepalese fra Minanatha e Pashupatinatha (56).  Min è una divinità se non proprio primordiale, almeno assai vetusta, avendo per padre Iside ed Osiride; è l’equivalente di ciò che altrove vien considerato un nume titanico, per questo i Greci non esitavano ad equipararlo a Pan (57), definendo ‘Panopoli’ (l’egizia Chemmis, nel nomo tebaico) una delle principali città ove veniva venerato (58), a parte Coptos e Luxor.  L’identificazione ulteriore del dio a Perseo si spiega, è ovvio, col fatto che Perseo è figura apollinea (59).  D’altronde, in tal senso, il Pescesega che lo contraddistingue svolge iconologicamente la parte del Κῆτος nella leggenda del Danaide.  Non meno di Poseidone Min aveva per emblema un Toro Bianco, che inteso con riferimento al Mediterraneo glaciale dei tempi tardo-paleolitici potrebbe rimandare analogamenteall’animale riguardante Pasife (vide Cap.VI, §§ m e p) ad una foca maschio.  La supposta triplicità delle corna di codesta divinità è confermata dalle 2 corna, inframmezzate da 1 corda, poste su un palo nel tempio a forma conica (evidentemente, un tempio-montagna) a lui dedicato (60); oltreché dalla presenza accanto ad alcune immagini del nume, nei rilievi che lo raffigurano, di 3 uguali palmette oppure di 2 palmette con un piú grande loto al centro (61).  Che Mīn equivalga ad una deità argentea, per usare un concetto caro alla mitologia ellenica, lo si capisce sin dall’etimo che può esser tracciato fra tale nome ed il Mīn (scr.Mīn-a) paleo-dravidico ovvero il corrispettivo – già lo abbiamo dimostrato (62) – del Μίνως egeo-cretese.  Fra i suoi attributi si osserva in particolare il correggiato, antico strumento formato da un bastone con 3 allacciature di cuoio per la battitura dei cereali.   Ecco perché è ritenuto  un dio del grano, non meno del padre Osiride (63).  Ma quest’ultimo non può che esser stato, in entrambi i casi, un riconoscimento tardo; dato che tutte le tradizioni di qualsivoglia popolazione concordano sul fatto che, a quanto ci è stato tramandato, né nella Prima né nella Seconda Epoca mitica si coltivavano i cereali.  Semmai siffatto costume e la ritualità che lo concerneva è da riportare ai tempi di Oro (figlio del tardo Osiride, l’uno identificato al Sole e l’altro ad Orione), ossia all’Epoca degli Eroi, la terza per gli Egizi come per Platone (a differenza di Esiodo)(64).  Ma, prima di tale identificazione, si era passati per quella con Amon-Ra (lo Zeus-Ammone dei Greci), concepito quale dio arietino (65).  E prima ancora, per quella con Ptah, Khnūm e Bab-neb-ded (lett. “il dio-sulla-sabbia) ecc., in altre parole gli dei primordiali oppure i numi per cosí dire “titanici” (66).  Tutti costoro avrebbero assunto, stando alla ricostruzione del Mackenzie, la fisionomia arietina che era propria di Min.  Cosa che giustifica, a riprova, l’equiparazione tanto con Perseo-Apollo (vedi Ciclo dell’Ariete, grosso modo delineato nel §d del Cap.II) quanto col complementare e simultaneamente antinomico Pan-Dioniso.  Sottolineiamo infine che Bab-neb-ded di Mendes alias il quasi omonimo Bab-neb-tettu (‘Quello-sulla-sabbia’), a differenza di quanto sostenuto dalla Fausti ma in conformità alla tesi di Erodoto, non era diverso da Min; in tempi nei quali la simbologia del Caprone non distinguevasi da quella dell’Ariete, visto che ancora non era nato lo Zodiaco Solare (67). 
Pan non è soltanto una deità ferrea, in quanto – come insegna Kerényi (68) – dispone di molteplici forme: il solo Ermopan è tale (vide infra); Diopan e Titanopan invece sono, in riferimento al rispettivo padre (Zeus e Crono), un nume bronzeo ed uno argenteo.  Titanopan, essendo un titano di cui va postulata l’identità con Aix (padre di Egipan attraverso la ninfa-capra Amaltea)(69), era un omologo caprino del taurino e saturnino Dioniso.   Ed è probabile, perciò, che sottosotto alludesse al Settimo Pianeta delll’Ebdomade planetario.  Pan d’altronde rassomiglia sicuramente all’egizio Min (sorta di personificazione del fallo osirideo), che aveva reso gravida la sua madre celeste Nut (70), pur essendo di per sé un dio pastorale.  A differenza di Min, tuttavia, Pan non è associato al Pescesega. Giacché, pur essendo questo pesce cartilagineo dell’ordine dei raiformi diffuso anche nel Mar Mediterraneo, non è mai stato oggetto di pesca particolare nell’Egeo; né si può dire abbia assunto speciale rilevanza, in generale, nella mitologia o nel folclore della Grecia.  Ragion per cui l’unicornicità prima supposta del titano greco è legata realmente all’unicornia caprina della madre Amaltea (71), piuttosto che a quella del rostro d’un animale marino, sia questo il Pescesega od il Delfino.  Mentre Diopan, gemello di Arcade, dà ragione del mito della ninfa Callisto.  La ninfa, al servizio dell’Artemide Orsa e quindi nella stessa forma della sovrana lunare medesima, venne sedotta da Zeus; che le diede, cosí, i due suddetti gemelli.  Codesto ρκάς, capostipite degli Arcadi, non è che il corrispettivo greco di Artú (72).  Infatti, se è vero che Callisto finí per trovar la morte ad opera di Artemide una volta scoperta gravida dalla dea mentre si trovava al bagno, si narra che “la bellisima” fu alfine trasformata nell’Orsa Maggiore subito dopo aver partorito Diopán e Arkás.  Dal che si può dedurre che un gemello (Arcade) alludesse all’Orsa Minore, proprio come l’Artú celtico, di poi cristianizzato; mentre l’altro, Pan, avesse a che fare zodiacalmente col Capricorno.  Vi è infine l’Ermopan, che chiude la serie dei 3 Pan, in rapporto alla Triplice Via del Sacrificio (Destra, Centro e Sinistra)(73).  Questo Ermopan è in relazione ad Orione (74), non fosse che per la sua pelle di cerbiatto, fatto per il quale tra l’altro ricorda Fauno; il cui nome converge non per niente coll’ingl. fawn, che significa difatti ‘cerbiatto’.  Dal punto di vista etimologico, si noti, Πάν in greco rimanda a pós-is (‘signore, padrone’), lat. pot-is (id.), scr. pati (id.); nonché a παι-(‘pascolare’), lat. pāsc-o//-or (id.), scr. pāś (id.); probabilmente il termine deriva da una contraz. fra la base *pai- del verbo ed il suff. –an, denotante signoria.  Ora, il termime Παιάν indica al maiuscolo il medico degli Dei ed al minuscolo un medico qualsiasi.  Evidentemente, si è avuta la contrazione per differenziare il vocabolo in due concetti separati di medico divino e signore del pascolo.  D’altronde, in entrambi i casi è una figura solare a svolgere il doppio ruolo; ma nel primo caso si tratta d’una ipostasi apollinea, nel secondo d’una ipostasi dionisiaca.  I Romani, al dire del Pestalozza et al. (75), identificavano Pan a Fauno; crediamo, per il loro ruolo mitico di signori dell’Età del Ferro.  Sebbene l’etimo dei due nomi appaia differenziato, come abbiamo spiegato, al di là dell’assonanza vi potrebbe essere dietro di loro un pensiero comune: l’idea del pascolo d’una fauna tanto domestica quanto selvatica, che è poi l’idea di base la quale inerisce anche allo Śiva kaliyughico hindu nei panni ad un tempo di Pāśupati o di Mgeśvara, ove per paśu (lat. pecus = ‘bestiame’) s’intenda le bestie domestiche e per mga quelle selvatiche.  Se il nume latino appare rapportabile anche al vr.lat. for-faris (‘dire, parlare; pronunziare, vaticinare’)(76), è perché il dio-cervo costituiva a livello tribale presso varie tradizioni indoeuropee (cfr. ad es. fra i Celti il dio Cernunno) un nume oracolare.  Un terzo senso, inteso soprattutto a livello popolare al dire del prof. Del Ponte (che tuttavia non riconosce il primo da noi su menzionato), era quello di ‘fausto, bonario, benigno’; collegato al vr. faveo (‘favorire, proteggere’)(77), che tra l’altro significa anche – in relazione all’interpretazione precedente – ‘augurare, auspicare’.  Un quarto etimo possibile, complementare e non alternativo a quelli proposti, è secondo noi quello che rimanda al vr. fulgeo (‘risplendere’)(78).  Si può allora immaginare il suddetto signore degli animali nell’atto di risplendere nei cieli sotto la forma stellare dell’asterismo d’Orione, inteso come sede della luce cosmica, fungendo altresí  da benigno nume nel contempo del gioco della sorte e della parola creatrice in senso divinatorio.  Siffatto nume tiene in mano talvolta la Cornucopia, a dimostrazione dell’Unicornicità tendenziale sia di Fauno che dell’omologo greco.
Pan, invece, dal punto di vista iconologico impugna raramente la Cornucopia.  Un esempio di tal tipo si trova tuttavia nel Meyers Konversationslexikon (79), in cui la tiene colla destra nell’atto di bere il vino, mentre colla sinistra regge un grappolo d’uva.  In un bronzo del II sec. d.C. di Windisch (Vindonissa, Svizzera) il dio greco appare in veste consimile, ma itifallico; in mano ha una fiaccola rovesciata da un lato e dall’altra 3 grappoli d’uva (80).  Quale sia la differenza di significato fra le due icone non è ben chiara.  Si può supporre che la Face Spenta rappresenti le Tenebre ovvero la Morte e l’Uva lo spirito vitale ossia la Vita.  Se interpretiamo Pan in senso demiurgico ci troviamo semplicemente di fronte al Legislatore quale elargitore del Bene e del Male.  Siamo dinanzi però ad un nume la cui interpretazione ermeneutica (non filosofica, perché altrimenti sarebbe panteismo di tipo spinoziano!) rimanda al Tutto inteso simultaneamente al Principio della Creazione oppure in alternativa al Chaos pre-cosmogonico; insomma l’Hén-tò-Pàn, come suol dirsi.  Ma, nello stesso tempo, allude quale demiurgo all’indefinitezza della molteplicità creativa. Quindi, possiamo stabilire che esso presieda complementariamente al dominio sui contrari, secondo quanto c’insegna appunto l’iconografia.  Dal punto di vista iconologico, quindi, non ci resta che riagganciarlo al simbolismo solstiziale del ‘Quarto Passo’, il cd. <Passo Oscuro>.  Abbiamo già parlato della sua possibile unipedicità per la somiglianza generale, a causa della testa caprina (81), colla figura induista di Ajaikapāt (82).  Vide supra.  Siccome negli Inni Omerici (vs. 23-4)(83) il dio è descritto con pelle di lince, abbiamo di nuovo a riprova una testimonianza della sua doppia magica natura di antilocapride e di felino, esattamente come lo Śiva hindu.  Vi sono ancora altre immagini da esaminare per chiarire meglio il soggetto.  Inanzitutto quelle che lo ritraggono nell’atto di suonare la Siringa, secondo quanto attesta ancora una volta Omero (vs.15)(84).  Immmagini di Pan che suona la Siringa non sono numerosissime, ma neppure infrequenti come quelle ove suona il flauto che proprio da lui ha preso nome anticamente.  Assieme al nume stanno i Pānisci (Panískoi), sorta di Fauni che suonano con lui la siringa o zampogna (85).  Conosciamo la leggenda della nascita di siffatto strumento: Pan scorge casualmente la Ninfa Siringa mentre s’aggira presso un fiume e ne viene rapito sensualmente.  Sicché insegue con foga la bella fanciulla, ma costei per sottrarsi all’invadente e spaventoso abbraccio d’un essere dalla testa e dai piedi caprini si rifugia in un canneto presso il fiume, ove prega le ninfe consorelle di trasformarla in una canna.  Accortosi dello stratagemma, il dio intaglia una canna a pezzetti in memoria di quel repentino invaghimento e ne fa uno zufolo (86), legando i pezzetti cosí ottenuti – possiamo magari immaginare – con una frasca resistente.  Significativamente il nome della ninfa, Sirinx (gr.  Σῦριγξ), ricorda da vicino il termime sanscrito śrga (‘corno’).  E allora, forse, non è un caso che fra le corna caprine di Pan nell’iconografia s’intraveda una protuberanza: cfr., ad es. il succitato bronzo svizzero.  Tanto piú che la Canna, non meno del Flauto che talora la sostituisce nel simbolismo panico, presenta un valore assiale indubbio in riferimento al ‘Raggio Solare (o ‘Settimo Raggio’).  Ciò peraltro è confermato dalla parallela leggenda dell’inseguimento della Ninfa Piti trasformatasi anch’essa in una pianta, il Pino (87); fatto che relativamente ad un’analoga ninfa latina (Ciparisso) coinvolge in una diversa versione del mito anche il dio Silvano (88), alter-ego di Fauno nel ruolo di divinità dei pastori.  L’effigie di Pan col Lituo, o Battilepre, nei mosaici romani si può ritenere vada messa viceversa in relazione al suo travestimento venatorio anziché pastorale.  Sebbene dal Lituo – arma in dotazione già del dio-cervo Rundas presso gli Hittiti, come ha segnalato M. Riemschneider (89) – provenga, a nostro giudizio (90), il Pastorale cristiano (91).  Visto che lo si trova iconograficamente ancora a metà fra i due simboli, cioè in posizione rovesciata a mo’ di battilepre ma con significato già di bastone d’appoggio del ‘Buon Pastore’ nel Periodo Tardo-antico (92).  Inutile aggiungere che tanto il Lituo quanto la Siringa posssono essere intesi, dal punto di vista ermetico, quali simboli microcosmici opposti e complementari delle tappe del percorso spirituale.  Pur rammentando che i sette centri interiori dell’Ermetismo differiscono rispetto a quelli dell’Alchimia o del Tantrismo, imperniati sul simbolismo solare.  Le tappe ermetiche infatti non partono dalla simbologia saturnina, bensí da quella lunare; e non culminano in un emblema aureo-solare, al sommo capo presenziando un contrassegno saturnino, come nella cosmologia islamica (ripresa da Dante nella Commedia).  Sono le Tenebre, naturalmente, dell’Immanifesto.  In senso nettamente opposto vanno invece interpretate le Contese fra Eros e Pan, oppure fra Apollo e Pan; vale a dire fra l’Amor sacro (divino o platonico) e l’Amor profano (titanico o sensuale), contesa che nel caso della seconda coppia di numi diventa fra la Luce trascendente in senso apollineo (distruttrice dei legami naturali) ed il cedimento alla Tenebra in senso dionisiaco, cui conduce il semplice riassorbimento animalesco nella Natura.  Nel caso di Eros però il contrasto è maggiormente forte che non con Apollo, poiché riguarda la differenza di vita fra l’Età dell’Oro e l’Età del Ferro, ovvero il passo verso il comune destino dei mortali o l’Immortalità.  Mentre, nel caso di Apollo, il contrasto è una scelta pertinente alla medesima epoca.
Circa Fauno, risulta piú evidente la relazione del personaggio colla condizione servile (lat. famulus, da cui il termine familia) ed animalesca propria dell’uomo decaduto dell’Età del Ferro.  Si consideri in tal senso il ruolo maggiormente importante della controparte femminile, Fauna, che non è fuggevol amante come Siringa o Piti e nemmeno durevol amante come Selene, bensí consorte.  Donde ricaviamo da un’analisi del prof. Del Ponte (93) che Fauno è il Signore degli Animali, mentre il doppione Silvano è preposto solamente ai boschi e come tale ha il Cane al fianco.  Sebbene l’iconografia ritragga quest’ultimo come un cane da pastore, è probabile che un tempo Silvano avesse disposizione non solo sulla pastorizia ma anche sull’orticoltura (94).  Fauno, al contrario, presiede sia agli animali da allevamento che alla selvaggina.  L’iconografia romana e soprattutto posteriore l’ha però trasformato in una figura piuttosto scialba, onde il paragone con Pan appare problematico.  Basta dire che non siamo riusciti a trovare nemmeno un’icona interessnte da commentare.  Non stiamo a discutere qui il valore artistico delle rappresentazioni, è indubbio; il problema è che non aggiungono proprio nulla al già detto in campo mitologico, ma lasciano libero spazio alla fantasia del pittore o dello scultore, cosiccome a quella di chi le osserva.  Se di oggetto di culto bisogna parlare, lo si può fare solamente in senso demonico-sensuale.  L’unico punto interessante, che non troviamo invece nella figura di Pan, è la connessione colla danza e il teatro.  Pan suona, Fauno oltre a suonare lo zufolo danza alla maniera di Śiva Naarāja, in ciò i due personaggi greco-latini essendo complementari.  S’intende, la danza non è che un prototipo della perpetua Manifestazione (95).  Per quanto concerne l’associazione divina colla controparte femminile ed altro occorre limitarsi, a parte quel che è già stato detto in proposito (vedi funzione oracolare, espletata sotto forma di Fatuus, cui corrisponde una dea Fatua), al rapporto del dio con Fauna (Bōna Dea) nella generazione dei Fauni; nonché all’importante ruolo tenuto da esso all’interno delle ‘Generazioni Divine’, in base alla dottrina virgiliana dei Penati.  La serie è data da Iānus-Sāturnus-Picus Mārtius-Faunus.  Fauno è il genitore di Latino, capostipite dei Latini, attraverso Marica; ma secondo una storia alternativa è Ercole il vero padre, dopo che l’eroe ha annientato il nume e violentato la vedova. 

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