Cap.
III
Gli emblemi
solstiziali
del Delfino e
del Polpo
nella civiltà
egea ed in quella hindu
a) Il Tripode delfico
Tornando alla contrapposizione solstiziale tra la Seppia ed il Delfino
esaminata nel Cap.2. §l, e
rintracciabile in certa parte della dell’arte ellenica ed egeo-cretese, è
d’uopo rilevare come in una composizione dipinta a figure rosse su un’idria del
V sec. a.C. – ora preservata al Mus.Vaticano – compaia un’icona di Apollo
Delfinio (1) seduto su un tripode alato e con in mano la
cetra. In basso si nota, al punto
opposto, il Polpo circondato da 4 Pesci; ai lati del Treppiede, avente chiaramente funzioni
mantiche, si notano invece 2 Delfini.
Inutile aggiungere che siamo dinanzi ad una rappresentazione del Medium e dell’Imum Coeli, coll’Arco Ascendente e Discendente, nonché le 4
Stagioni. Un fregio sottostante di
greche, fra le quali sono inserite delle diagonali, guarnisce la scena. Per intuire con esattezza il senso della
composizione pittorica segnalataci dal Cook occorre essenzialmente cercar di
comprendere il valore ed il ruolo del Tripode delfico. Donde discende il suo rinomato potere mantico? Per rispondere a quest’ultimo quesito, va
chiarito innanzitutto il senso generale del simbolo medesimo, che troviamo
diffuso dal Mediterraneo all’Estremo Oriente (2). Or
dunque, come insegna giustamente l’autore in questione (3), dobbiamo ritenere che in principio il Treppiede fosse foggiato a
colonna o ad albero; attorno a cui era arrotolata, spesso, la Serpe. Evidentemente un’immagine teriomorfica di
Pitone, secondo quanto ci suggerisce Cook; il quale però, interpretando
exotericamente tale presenza ofidica, la concepisce banalmente in funzione
d’una semplice commemorazione esteriore della mitica vittoria di Apollo. Ma va da sé che, raffigurato in cotal guisa,
il Tripode corrisponda allo Ὀμφαλός o Betilo che
dir si voglia; ed a tutti gli altri emblemi equivalenti (Monte, Fallo ecc.),
che assieme all’Albero e alla Colonna (4) costituiscono una palese raffigurazione del
‘Centro del Mondo’ (5).
Quel che è piú curioso
comunque è che il Cook riporti, in una delle varie illustrazioni succitate (6), un tripode delfico sulla cui gamba centrale è effigiato un serpente
avvolto a spirale; in modo che i due cerchi orizzontali, congiungenti fra di
loro le tre gambe del treppiede, ripartiscano l’intero tripode e la stessa
serpe in tre sezioni parallele. Lo schema tripartito è piú volte ripetuto nell’insieme della
rappresentazione, sicché non è certo da considerare casuale; persino i gradini
della piattaforma sottostante presentano, del resto, un aspetto ternario. Il tutto poggia su una base cubica, per cui
possiamo interpretare codesta base, i ‘Tre Gradini’ ad essa soprastanti e le
‘Tre Sezioni’ paralllele del Treppiede come emblemi dei ‘Tre Mondi’.
b) I ‘Tre Passi’ di Vāmana
Ma che cosa significano, piú particolarmente, le
‘Tre Gambe’ di codesto oggetto sacro? A
nostro giudizio esse individuano ciò che nella cultura induista è rappresentato
dai famosi ‘Tre Passi’ solari; passi che la tradizione vishnuita attribuisce,
primieramente, a Vāmanāvatāra. Sappiamo
che il ‘Ciclo del Nano’ nella cosmologia
hindu è il periodo cronologico con cui comincia l’Età Tretā (Argentea) e
che il suddetto avatāra è la prima delle 3 discese divine che la caratterizzano.
Perciò la nozione dei <Passi> è ovviamente da intendere quale
arcaico riferimento ad una prisca
valorizzazione del simbolo solare, cui deve essere stata necessariamente
associata fin dai primordi una conseguente pratica sacrificale, di tipo senza
dubbio annuale.
Il personaggio mitologico menzionato, ci rammentano gli Stutley (7), è conosciuto altrimenti col nome di Trivi-krama (‘Colui-che fece-i Tre-Passi’); nelle regioni
tamiliche, invece, egli è noto sotto la denominazione di Ulagalanda-perumā (‘Il Signore che misurò- il mondo’).
È abbastanza verosimile ritenere quindi che il
Tripode delfico raffigurasse, non meno del Trivikrama
hindu, le tre principali stazioni solari (8) in funzione ciclica (giornaliera, annuale,
epocale). Ciò si constata visibilmente
dal fatto che l’Apollo seduto sul Tripode a mo’ di seggio celeste (9), di cui si è detto in precedenza, richiami alla mente l’Uccello Solare
disposto sull’Arbor Mundi di
shamanica memoria. Nella preistoria
euroasiatica si può rinvenire un’effigie (macrocosmica) di codesto
<uccello> appollaiato su una <verga> in taluni dipinti parietali
sparsi qua e là in un vasto territorio che va dalla Dordogna al Deccan (10). Un’ulteriore immagine
(microcosmica) di tale soggetto è reperibile in Occidente, in tempi posteriori
a quelli della Grecia classica, nel repertorio delle raffigurazioni
ermetico-alchemiche tardo-rinascimentali.
Queste ci mostrano da un lato l’Albero Alchemico, variante esoterico-operativa
dell’Arbor Vitae, sorretto dalla
‘Femmina Nuda’ (la <Materia Prima>); e dall’altro la Verga, o Caduceo di
Hermes, con 2 Serpi ad essa avvolte elicoidalmente. La doppia raffigurazione illustra in entrambi
i casi un <asse>, avente alla propria sommità appunto siffatto uccello (11).
c) Un simbolismo solare di carattere titanico
Per una conferma dell’effettiva rilevanza di un simbolismo solare di
tipo ternario, in tempi pre-olimpici, si rammenti al fine d’un confronto la
triplice personificazione titanica del dio-sole piú addietro analizzata; che abbiamo visto essere
individuata dai percorsi mitici di Sisifo, Issione e Tantalo od
Elio-iperione. Il Tripode in funzione
solare è il corrispettivo greco del Tridente di Śiva, immagine che allude propriamente al Trikāla (‘Triplice Tempo’). Ma non è questa l’unica interpretazione
valida del simbolo, essendo lecito anche qui un’applicazione microcosmica dello
stesso principio. Tanto piú che, in base a
quanto è stato sottolineato da qualcuno (12), spesso le <Tre Gambe> del Tripode erano
dipinte coi ‘Tre Colori’ per antonomasia dell’Opus
Alchīmicum: il Rosso, il Bianco ed il Nero.
Tripodi di tal genere sono stati rinvenuti a Creta, precisamente nel
sito di Ninou Khani e a Micene.
La tripartizione spiralica della simbologia pitonica cui si è prima
fatto cenno non è d’altra parte affatto diversa dalla triplicità elicoidale dei
serpenti avvoltolati attorno alla verga ermetica, ciò ribadendo quanto appena
indicato. Un’interpretazione parimenti
accettabile fa del Tripode un contrassegno dell’insieme del Mondo Celeste,
Infero e Terrestre. Ciò vale non solo
per lo schema a ‘triplice sezione’, con cubo-gradini-gambe, in precedenza
delineato; ma pure per qualunque tripode isolato, indipendentemente da
qualsiasi piattaforma (13).
Egualmente Vāmana, di cui è traccia fin nel Ṛgveda (i. 22, 16-8 e 154, 1-6), assume in India analoga
funzione (14).
d) Tripodi cinesi
Che il Tripode cinese faccia riferimento al Trimundio si desume, in
manzanza di meglio, indirettamente dal fatto che nella Cina medesima il
Treppiede si tramanda abbia avuto in passato valenze non troppo dissimili. Il Bussagli (15) c’informa a tal proposito dell’attribuzione al
primo leggendario imperatore (Huang-ti,
simbolicamente connesso al Centro e all’Agente Terra, oltreché mitico
progenitore della stirpe gialla), da parte dello Shih-chi (‘Memorie di storici’)(16), dei primi 3 modelli di tripodi vascolari cinesi (17); ai quali furono assegnati per l’appunto tre piedi al fine di
simboleggiare, mediante questi, la perfezione della Grande Triade (Cielo,
Terra, Uomo). Dal punto di vista
archeologico in area russo-persiana e altaico-centroasiatica (Cultura di
Andronovo) si è constatata però, in tempi maggiormente remoti (fine III
mill.-inizio II mill. a.C.), una produzione di vasellame bronzeo similare a quello della Dinastia Shang
in Cina (metà II sec.mill.-inizio del I a.C., onde è del tutto legittimo sospettare
un collegamento a livello tecnologico tra le due zone, medio- ed
estremo-orientale, con estensione delle influenze fino all’Egitto e al
Mediterraneo (18). In questo
modo si spiegherebbero, dunque, le affinità
concettuali nell’impiego rituale dei sacri tripodi fra regioni
geograficamente cosí
lontane. Le analogie simboliche fra la
Grecia e la Cina non ci suggeriscono personalmente tanto un trasferimento della
tecnica metallurgica da un territorio all’altro in senso diffusionista, quanto piuttosto una comune ispirazione artistica,
frutto dell’eredità in tempi protostorici di modelli preistorici comuni a tutta
la zona indicata. Le affinità fra i
rispettivi tripodi non appaiono infatti di tipo estetico, ma riguardano semmai
la funzione magico-oracolare (19) svolta da codesti oggetti cerimoniali, seppur si
debba riconoscere una netta distinzione di forme – rispettivamente colonnari e
vascolari – tra i tripodi ellenici e quelli cinesi. Sappiamo tuttavia che sono stati rintracciati
altri tipi di treppiedi, in vesti grafiche (20), nelle iscrizioni delle tavolette di Pilo in
Peloponneso decifrate come Lineare B (XIV sec. a.C.); tali modelli
sembrerebbero smentire ciò che abbiamo appena dichiarato, dal momento che
presentano suggestive ed inattese somiglianze con i treppiedi cinesi,
suggellando l’ipotesi d’una diffusione a vasto raggio – forse in tutto l’Egeo,
non soltanto in terra cretese o micenea – di vasi siffatti in tempi
pre-omerici.
e) Il ‘Quarto Passo’
Notiamo adesso, sempre per stare in argomento, che il Polpo del dipinto
avente per soggetto Apollo Delfinio seduto su un tripode eretto in mezzo a 2
Delfini è schiacciato dal dio solare sotto i ‘Tre Piedi’ del sacro seggio; non
diversamente da quanto compie Trivikrama
(21) ai danni di Bali (22), il quale diviene ipso facto,
il sovrano degl’Inferi (23). Riguardo
il ruolo essenzialmente demonico, in tal senso, del Polpo intendiamo riprendere
tra poco l’argomento. Ma al momento,
prima d’addentrarci in un’analisi approfondita del tema, vorremmo sottolineare
come un significato recondito legato evidentemente alle varie fasi iniziatiche
di un determinato tipo di realizzazione spirituale sia connesso pure agli
stessi ‘Passi’ del <Nano> vishnuita; in base a quanto possiamo dedurre da
quel che vien dichiarato nella Taittirīya Saṁhitā (i. 6, 5, e-h),
circa il loro potere apotropaico. Ai
‘Tre Passi’ altrove citati ivi (ibid.,
verso h) ne è aggiunto un ‘Quarto’ (24), nella direzione dei Quattro Quartieri (25). Esso è
chiamato, in altre circostanze (Ṛ.S.- i. 54, 5/b
e 6/b), l’<Orma Suprema> (Paramaṁ Padam) di Viṣṇu (26); enigmatica espressione per designare di certo
quel ‘Sole di Mezzanotte’ cui accennavano sommessamente alcuni iniziati ai
Misteri dell’Ellade arcaica, forse con allusione alternativa alla Stella Polare
(27). Codesta tematica va insomma
ricollegata a quella, da noi già trattata in altra occasione (28), dei ‘Quattro Quarti’ della Parola Divina; la quale è nell’induismo
personificata da Vāc alias Vāgdevī (epiteto di Sarasvatī), una dea che è praticamente da ritenere
pressoché identica alla <Figlia/ Consorte> di Prajāpati, il ‘Signore delle Creature’.
Di questi ‘Quattro Quarti’ della Parola solo uno è manifestato, gli
altri ‘Tre Quarti’ rimanendo nell’Immanifesto (29). Donde ora
si può capire inequivocabilmente, al di là di qualsivoglia metafora, la reale
portata simbolica del Tripode apollineo
e del conseguente dono oracolare posseduto dalla Pizia nell’ambito del
santuario delfico; presso cui il sacro Tripode era venerato non soltanto per il
suo valore mantico, bensí soprattutto per le influenze spirituali delle quali
era reputato essere veicolo attraverso il mito ad esso connesso della vittoria
del dio solare sul Serpente Pitone, immagine zoomorfica del Signore del Tempo e
delle Tenebre Celesti (Crono).
f) Valori
solstiziali del Delfino e del Polpo (o della Seppia)
Riprendendo finalmente la
discussione sugli emblemi marini della ‘Superficie’ o del ‘Fondo delle Acque’
introdotta all’inizio della nostra lunga ma opportuna digressione dobbiamo
aggiungere, per meglio precisare quanto da noi asserito poco fa sul ruolo del
Polpo, che quest’ultimo è un cefalopode ottopode a conchiglia assai ridotta e
ad otto tentacoli, caratterizzati da ventose.
Va distinto perciò e dal Polipo, piccolo celenterato con tentacoli
urticanti al modo delle Meduse, spesso confuso erroneamente col Polpo; e dalla
Seppia, un cefalopode decapode dibranchiato – dotato di conchiglia – che di
tentacoli ne ha invece 2 e otto bracci, oltre a due pinne laterali. La Seppia inoltre, similmente al Calamaro
(altro cefalopode dell’ordine dei decapodi), ha la prerogativa esclusiva fra
gli animali marini di secernere una sostanza nerastra oscurante i fondali
allorché viene improvvisamente attaccata da un predatore. La qual cosa deve evidentemente aver suggerito
agli antichi, di già da parte loro predisposti a considerare da un punto di
vista cosmologico i legami fra i fatti biologici e gli eventi naturali, l’idea
d’una stretta analogia fra tale comportamento del mollusco e quello del cielo
al solstizio estivo; vale a dire al punto estremo dell’arco ascendente del cerchio annuale che, una volta raggiunto
dal luminare diurno, induceva di nuovo le notti ad allungarsi. Questo trionfo costante e periodico delle
tenebre sulla luce era esattamente il contrario di quanto avveniva al solstizio
invernale, tempo in cui aveva viceversa sopravvento la luce sull’oscurità. Infatti la costellazione del Delfino, situata
nei pressi del Capricorno, pareva partecipare di per sé a codesto mutamento di
trotta della ‘Barca Solare’… È chiaro
dunque che a livello cosmologico si percepiva un’equivalenza emblematica tra la
Seppia – nonché, per estensione del concetto, i molluschi omologhi quali il
calamaro – e la costellazione del Cancro, cioè del Granchio Celeste; animale
piú propriamente zodiacale del primo, che è extra-zodiacale, a meno di
concepire un antico Zodiaco Solare colla Seppia e il Delfino quali Segni dei
Solstizi anziché il Capricorno ed il Cancro (30).
Il Granchio avendo talora
l’abitudine di procedere indietreggiando, similmente al Segno solare omonimo
del Cancro – dal lat.cancer =
‘granchio, gambero’, gr. Καρκίνος
= ‘granchio’
– che nel corso dell’anno portava le giornate a decrescere dopo il Solstizio
Estivo (a), veniva ritenuto al pari della
Seppia e del Gambero un veicolo malefico
e tenebroso (31); almeno, secondo il
punto di vista qui considerato. Ma ve ne
erano altri differenti – in relazione alla Luna anziché al Sole – o addirittura
opposti invertendo il punto di partenza del ciclo solare ed associando le
Tenebre, piuttosto che la Luce, all’Immanifesto. Cfr. a tal proposito il tema del s.m. Kar-kín-os, dalla √kr- raddoppiata e dissimilata nella sillaba mediale; donde abbiamo
in parallelo il lat. Can-cer (genit. Can-cri), ove come insegna il Gemoll (32) si ha al contrario una
dissimilazione iniziale dal tema *car-cr-. Il sanscrito dà, invece, Kar-ka; voce in cui manca la dissimilazione sia inziale che
mediale, ma la seconda sillaba ha perso la liquida. Tale radice si ricollega in greco
visibilmente, apofonia vocalica a parte, al vr. κείρω (‘distruggere, annientare’) ovvero alle denominazioni indoeuropee
delle deità del tempo ciclico (in senso cielisolare) e della morte (33).
Vedi, a titolo d’esempio, la dea greca Kḗr, o l’indiana Kālī due figure
femminee entrambe di valenza opposta a quella della latina Cerēs;
la quale parrebbe essere viceversa una dea della crescita, stando almeno
all’assonanza riscontrabile fra il nome di quest’ultimo nume ed il vr. crēsco (‘crescere’), in cui apofonicamente la prima vocale
risulta al grado zero. Il potere di
Cerere fra i Latini atteneva specificatamente ai cereali, il sostantivo con cui
li si designa essendo d’altronde derivato dal lat. Cereālia
(le feste in onore di Cerere, donde anche i prodotti del suo dominio ossia i
‘cereali’), ma connesso del pari all’a. cer-e//-us-a-um
(‘cereo, del color della cera, giallo’).
Così vorrebbe, insomma, l’apparenza (34);
ma vi sono buone ragioni per ritenere al contrario che, in tempi preistorici e
protostorici, esistesse un corrispondente nume dotato d’una natura ben piú
complessa rispetto a quella delle divinità prima indicate. Si analizzi in proposito la fisionomia analoga
dell’Ecate Triforme ellenica, corrispondente greca di Diana Trivia.
Tale epifania divina era
probabilmente venerata da tutti i popoli dell’area indomediterranea e doveva
certamente disporre di vaste e complementari prerogative, riunificando nel
contempo nella propria persona quei caratteri antagonistici che in maniera
opposta traspaiono piú tardi nelle discendenti storiche di costei. In codesta logica è perciò lecito supporre
che presso i Latini la dea Cir-c-ē (35) non fosse altro che la versione
infera di Cer-ēs, figlia di Ops e di Saturno, e
che analogamente Śrī in India,
prima d’essere identificata a Lakṣmī nei panni di luminosa signora
dell’abbondanza disponesse di tratti complementari a quelli di Kālī,
dea oscura presiedente invece alla Penuria.
Egualmente, in Grecia, possiamo considerare la benefica dea Kór-ē (nome da accostare nell’etimo al lat.Cer-ēs ed al scr. Śrī) quale
controparte ideale della malefica dea Kḗr; figura di per sé da ritenere, a
nostro giudizio, una manifestazione di Ecate.
Il Morelli (36) infatti,
formulando giustamente l’ipotesi d’una distinzione iniziale tra Persefone e
Core (nonostante sia intervenuta una loro sovrapposizione successiva a
confondere le idee) e considerando la seconda delle due figure una dea agraria
(del grano, al pari della Cerere romana), suppone l’esistenza originaria d’una
trimorfia – da lui definita erroneamente
‘trinità’ – formata da Core, Persefone ed Ecate; codesta trimorfia avrebbe costituito in altre parole il ‘Triplice
Volto’ di Demetra, in relazione vicendevole colle tre fasi essenziali della
crescita del frumento. Vale a dire
rispettivamente col grano in erba, la spiga matura ed il grano mietuto. Ma il N. non si avvede ingenuamente che è il
‘Quarto Volto’, suprema facies di
Demetra, ad essere in rapporto colla Spiga (insomma col seme del frumento), di
cui lei si fregia nell’iconografia. Ciò
per il fatto che nell’Età del Ferro a livello simbolico il ciclo lunare – per
omologia con quello solare – cominciava a partire dalla Luna Calante, cui
presiedeva appunto la suddetta Ecate, soprannominata per questo ‘cagna’ o
‘lupa’; dal momento che ella rappresentava la discesa agl’inferi e quindi
veniva concepita come ‘regina delle streghe’ o ‘signora delle prostitute’, le
une e le altre ricevendo gli stessi epiteti, segno d’una primordiale identità
che le accomunava in veste di ‘vegliarde’.
Onde la trimorfia citata dal Morelli andrebbe riscritta cosí: Ecate,
Persefone, Core; dato che le tre dee presiedevano a turno alla luna calante,
alla luna nuova e alla luna crescente.
Siffatto ciclo continuava colla Luna Nuova, circa il quale sappiamo che
era Persefone (la cd. ‘regina degl’Inferi’, rapita da Ade, come la latina
Proserpina da Plutone) la sua dispositrice cosmica. E proseguiva con la Luna Crescente, dominata
dalla ‘vergine’ Core, terminando alfine colla Luna Piena; signoreggiata secondo
quanto abbiamo poc’anzi rilevato da Demetra, la <madre> per antonomasia,
come indica il nome stesso della dea.
Sul quadruplice aspetto della dea luni-terrestre, con differenti denominazioni
(vedi oltre a quelle sopraddette gli epiteti rispettivamente equivalenti di
Adrastea, Ecate, Demetra e Rhea), abbiamo altrove (37) argomentato a sufficienza; ispirati da A.Avalon, che li
metteva a confronto con analoghi aspetti di determinate devī del
mondo indiano. Nella serie ciclica
ellenica appena menzionata si vedrà come Adrastea, dal capo suino,
signoreggiando la luna calante prenda il posto assegnato nella precedente
quadrimorfia ad Ecate; la quale, in veste cinocefala, subentra a sua volta in
tale seconda serie a Persefone nell’ambito dell’associazione simbolica che
nella prima serie connette codeta dea alla luna nuova. Parimenti Core è ivi rimpiazzata dalla madre
Demetra, col capo equino, in relazione alla luna crescente; cosí come Rhea, leontocefala,
sostituisce emblematicamente Demetra nel dominio da parte di costei sulla luna
piena. I colori attribuiti ad Adrastea,
Ecate, Demetra e Rhea nella seconda serie ciclica ricordata sono nell’ordine:
il Nero, il Verde, il Bianco e il Rosso; cioè, palesemente, i contrassegni dei
quattro principali stadi dell’Opera Alchemica.
Possiamo immaginare inoltre che la serie ciclica di nomi divini aventi
Demetra quale meta finale abbia avuto un tempo un rapporto con i celebri
Misteri di Eleusi, dove per l’appunto si utilizzavano gli stessi colori per
emblemi; la serie alternativa potrebbe invece appartenere ad un altro contesto
iniziatico oppure risultare una variante in
loco della simbolica eleusina.
Riguardo invece quadrimorfie come quella di Ecate alias Artemide (Luna Nuova), nella triplice veste di
Leucotea-Rhoiò-Melenide (Luna Crescente, Luna Piena-Luna Calante)(38) è lecito sospettare l’esistenza
d’una via lunare appartenente ad altra età mitica; si tratterebbe allora d’un
culto assai piú vetusto di quello
propriamente eleusino, cioè d’un culto risalente all’età mitica di Crono
ovverosia all’Età dell’Argento. In
questo caso, è chiaro che la via iniziatica cominciava di necessità col
Crescente Lunare e terminava in Luna Nuova, trattandosi d’una via destrorsa
anziché sinistrorsa (39). Onde si può congetturare che fosse il
Novilunio, anziché il Plenilunio, ad esser scelto da immagine del ‘Quarto
Volto’ della Grande Dea. Anche se,
sicuramente, debbono esser esistiti riadattamenti di tipo eleusino con valorizzazione
del plenilunio quale fase preponderante del ciclo lunare; secondo quanto
tradisce l’iconografia, che ci mostra Artemide affiancata ora dal Cervo
(orionicamente equipollente al Segno del Toro, quindi all’Equinozio di
Primavera dell’inizio dell’Età del Ferro, ma ivi addivenuto per trasposizione
da un luminare all’altro un connotato della Luna Crescente) e dal Leone
(emblema del Segno corrispondente e del Solstizio d’Estate, che rimanda per
analogia alla Luna Piena)(40), ora
da 2 Leoni (41). La leggenda di Atteone e di Artemide, “nuda”
nellla magica spelonca alla maniera dell’Iside “svelata”, insegna in proposito (42).
Perciò, facendo valere quanto
asserito, ne deduciamo che le varie dee cornute di età neolitica o calcolitica
reperibili nell’arte di molta parte della zona indomediterranea (43) e fungenti da modello a certe
altre analoghe icone di tempi piú recenti, sino ad epoca storica, si spiegano
col fatto che le Corna valgono quale emblema di potenza e di ciclicità; sono
insomma legate alle idee di crescita, sviluppo e decrescita della fertilità
vegetale nonché della fecondità animale.
Ecco perché spesso cotali figure sono effigiate colla testa tricorne o
triradiata. Per analogo motivo nel
simbolismo solstiziale dell’Ellade arcaica il rostro singolo del Delfino
(immagine visibile dell’omonimo asterismo extra-zodiacale, situato nei pressi
del Capricorno) incarnava probabilmente, rispetto alle duplici corna della
Capra-pesce (Decimo Segno zodiacale nell’astrologia greco-romana) una sorta di
‘terzo corno’, o ‘corno centrale’ (44);
in tal senso codesto unicorne-unipede (facendo convergere in un unicum le due raffigurazioni
emblematiche del solstizio invernale in sede zodiacale ed extra-zodiacale,
cosicché la coda ittiomorfica dell’una vada a coincidere colla coda similare
dell’altra), richiamando il raggio di luce trionfante sull’oscurità, stabilisce
un’immagine del tutto inversa rispetto all’effigie piuttosto tenebrosa
costituita dalla Seppia colla propria secrezione ghiandolare o dal Polpo coi propri
repellenti tentacoli (45).
g) Unicornía, itifallismo e unipedía
quali vaghi richiami alla morfologia
ittico-assiale
Aggiungasi, in proposito, che la
<Coda di Pesce> del Makara
indiano (46), variante medio
orientale dell’Antilope-pesce
mesopotamica (cfr. colla Capra-pesce occidentale, chiamata in Grecia Αἰγόκερως), corrisponde senza dubbio in
ottica induista all’unico piede elefantino della figura denominata Ajaikapāda; la quale è data da un ekapāda (unipede) con testa di capra (aja).
A differenza del suo evidente corrispettivo hindu, tuttavia, il nume
greco Αἰγίπαν (Egipan) tanto nell’innologia (47) quanto nell’iconografia (48) mostra due piedi di capra anziché
uno. Che la nostra comparazione non sia
però un accostamento unicamente formale, o addirittura gratuito, è provato dal
fatto che il Pan Caprino veniva dagli antichi greci – nonostante Hēr., Hist.- ii. 46, 4 – paragonato al Mīn egizio (49);
un dio che è lecito ritenere nel contempo unicorne, itifallico ed unipede (50).
Non meno dello Śiva
indiano (51), entro il cui ambito la
figura suddetta di Ajaikapāda (52) rientra, Mīn
(53) è infatti per forza di cose da
intendere quale nume unicorne; visto che viene associato iconologicamente al
Pescesega (54), la cui <Lama>
possedeva in passato in alcune terre bagnate dall’Oceano Indiano – specialmente
nell’India pre-vedica e nell’Egitto faraonico (protodinastico) – un determinato
valore sacrale. Ovviamente per via della
sua assialità assai pronunciata, che è venuta a sostituire in un ambiente piú
caldo e meridionale quella della protuberanza d’altri pesci (o meglio dei
cetacei) diffusi in acque piú fredde e settentrionali (55).
L’affinità fra Min e Pan, benché
appartenenti a tradizioni diversificate (la tradizione egizia e quella greca),
è comparabile all’attiguità in terra nepalese fra Minanatha e Pashupatinatha (56).
Min è una divinità se non proprio primordiale, almeno assai vetusta,
avendo per padre Iside ed Osiride; è l’equivalente di ciò che altrove vien
considerato un nume titanico, per questo i Greci non esitavano ad equipararlo a
Pan (57), definendo ‘Panopoli’
(l’egizia Chemmis, nel nomo tebaico) una delle principali città ove veniva
venerato (58), a parte Coptos e
Luxor. L’identificazione ulteriore del
dio a Perseo si spiega, è ovvio, col fatto che Perseo è figura apollinea (59). D’altronde, in tal senso,
il Pescesega che lo contraddistingue svolge iconologicamente la parte del Κῆτος nella leggenda del Danaide. Non meno di Poseidone Min aveva per emblema
un Toro Bianco, che inteso con riferimento al Mediterraneo glaciale dei tempi
tardo-paleolitici potrebbe rimandare analogamenteall’animale riguardante Pasife
(vide Cap.VI, §§ m e p) ad una foca maschio. La supposta triplicità delle corna di codesta
divinità è confermata dalle 2 corna, inframmezzate da 1 corda, poste su un palo
nel tempio a forma conica (evidentemente, un tempio-montagna) a lui dedicato (60); oltreché dalla presenza accanto
ad alcune immagini del nume, nei rilievi che lo raffigurano, di 3 uguali
palmette oppure di 2 palmette con un piú grande loto al centro (61).
Che Mīn equivalga ad una deità argentea, per
usare un concetto caro alla mitologia ellenica, lo si capisce sin dall’etimo
che può esser tracciato fra tale nome ed il Mīn (scr.Mīn-a) paleo-dravidico ovvero il corrispettivo – già lo
abbiamo dimostrato (62) – del Μίνως
egeo-cretese. Fra i suoi attributi si osserva in
particolare il correggiato, antico strumento formato da un bastone con 3
allacciature di cuoio per la battitura dei cereali. Ecco perché è ritenuto un dio del grano, non meno del padre Osiride (63).
Ma quest’ultimo non può che esser stato, in entrambi i casi, un
riconoscimento tardo; dato che tutte le tradizioni di qualsivoglia popolazione
concordano sul fatto che, a quanto ci è stato tramandato, né nella Prima né
nella Seconda Epoca mitica si coltivavano i cereali. Semmai siffatto costume e la ritualità che lo
concerneva è da riportare ai tempi di Oro (figlio del tardo Osiride, l’uno
identificato al Sole e l’altro ad Orione), ossia all’Epoca degli Eroi, la terza
per gli Egizi come per Platone (a differenza di Esiodo)(64). Ma, prima di tale
identificazione, si era passati per quella con Amon-Ra (lo Zeus-Ammone dei Greci), concepito quale dio arietino (65).
E prima ancora, per quella con Ptah,
Khnūm e
Bab-neb-ded (lett. “il dio-sulla-sabbia) ecc., in altre parole gli dei
primordiali oppure i numi per cosí dire “titanici” (66). Tutti costoro avrebbero
assunto, stando alla ricostruzione del Mackenzie, la fisionomia arietina che
era propria di Min. Cosa che giustifica,
a riprova, l’equiparazione tanto con Perseo-Apollo (vedi Ciclo dell’Ariete,
grosso modo delineato nel §d del
Cap.II) quanto col complementare e simultaneamente antinomico Pan-Dioniso. Sottolineiamo infine che Bab-neb-ded di Mendes alias
il quasi omonimo Bab-neb-tettu
(‘Quello-sulla-sabbia’), a differenza di quanto sostenuto dalla Fausti ma in
conformità alla tesi di Erodoto, non era diverso da Min; in tempi nei quali la
simbologia del Caprone non distinguevasi da quella dell’Ariete, visto che
ancora non era nato lo Zodiaco Solare (67).
Pan non è soltanto una deità
ferrea, in quanto – come insegna Kerényi (68)
– dispone di molteplici forme: il solo Ermopan è tale (vide infra); Diopan e Titanopan invece sono, in riferimento al
rispettivo padre (Zeus e Crono), un nume bronzeo ed uno argenteo. Titanopan, essendo un titano di cui va
postulata l’identità con Aix (padre di Egipan attraverso la ninfa-capra
Amaltea)(69), era un omologo caprino
del taurino e saturnino Dioniso. Ed è
probabile, perciò, che sottosotto alludesse al Settimo Pianeta delll’Ebdomade
planetario. Pan d’altronde rassomiglia
sicuramente all’egizio Min (sorta di personificazione del fallo osirideo), che
aveva reso gravida la sua madre celeste Nut (70), pur essendo di per
sé un dio pastorale. A differenza di
Min, tuttavia, Pan non è associato al Pescesega. Giacché, pur essendo questo
pesce cartilagineo dell’ordine dei raiformi diffuso anche nel Mar Mediterraneo,
non è mai stato oggetto di pesca particolare nell’Egeo; né si può dire abbia
assunto speciale rilevanza, in generale, nella mitologia o nel folclore della
Grecia. Ragion per cui l’unicornicità
prima supposta del titano greco è legata realmente all’unicornia caprina della
madre Amaltea (71), piuttosto che a
quella del rostro d’un animale marino, sia questo il Pescesega od il
Delfino. Mentre Diopan, gemello di
Arcade, dà ragione del mito della ninfa Callisto. La ninfa, al servizio dell’Artemide Orsa e
quindi nella stessa forma della sovrana lunare medesima, venne sedotta da Zeus;
che le diede, cosí, i due suddetti gemelli.
Codesto Ἀρκάς, capostipite degli Arcadi, non è che il corrispettivo greco di
Artú (72). Infatti, se è vero che Callisto finí per
trovar la morte ad opera di Artemide una volta scoperta gravida dalla dea
mentre si trovava al bagno, si narra che “la bellisima” fu alfine trasformata
nell’Orsa Maggiore subito dopo aver partorito Diopán e Arkás. Dal che si può dedurre che un gemello
(Arcade) alludesse all’Orsa Minore, proprio come l’Artú celtico, di poi
cristianizzato; mentre l’altro, Pan, avesse a che fare zodiacalmente col
Capricorno. Vi è infine l’Ermopan, che
chiude la serie dei 3 Pan, in rapporto alla Triplice Via del Sacrificio
(Destra, Centro e Sinistra)(73). Questo Ermopan è in relazione ad Orione (74), non fosse che per la sua pelle di
cerbiatto, fatto per il quale tra l’altro ricorda Fauno; il cui nome converge
non per niente coll’ingl. fawn, che
significa difatti ‘cerbiatto’. Dal punto
di vista etimologico, si noti, Πάν in
greco rimanda a pós-is (‘signore,
padrone’), lat. pot-is (id.), scr. pati (id.); nonché a παι-έ-ω (‘pascolare’), lat. pāsc-o//-or (id.),
scr. pāś
(id.); probabilmente il termine deriva da una contraz. fra la base *pai- del verbo ed il suff. –an, denotante signoria. Ora, il termime Παιάν indica al maiuscolo il medico
degli Dei ed al minuscolo un medico qualsiasi.
Evidentemente, si è avuta la contrazione per differenziare il vocabolo
in due concetti separati di medico divino e signore del pascolo. D’altronde, in entrambi i casi è una figura
solare a svolgere il doppio ruolo; ma nel primo caso si tratta d’una ipostasi
apollinea, nel secondo d’una ipostasi dionisiaca. I Romani, al dire del Pestalozza et al. (75), identificavano Pan a Fauno; crediamo, per il loro ruolo
mitico di signori dell’Età del Ferro.
Sebbene l’etimo dei due nomi appaia differenziato, come abbiamo
spiegato, al di là dell’assonanza vi potrebbe essere dietro di loro un pensiero
comune: l’idea del pascolo d’una fauna tanto domestica quanto selvatica, che è
poi l’idea di base la quale inerisce anche allo Śiva kaliyughico hindu nei panni ad un tempo di Pāśupati o di Mṛgeśvara, ove per paśu
(lat. pecus = ‘bestiame’) s’intenda
le bestie domestiche e per mṛga quelle
selvatiche. Se il nume latino appare
rapportabile anche al vr.lat. for-faris
(‘dire, parlare; pronunziare, vaticinare’)(76),
è perché il dio-cervo costituiva a livello tribale presso varie tradizioni
indoeuropee (cfr. ad es. fra i Celti il dio Cernunno) un nume oracolare. Un terzo senso, inteso soprattutto a livello
popolare al dire del prof. Del Ponte (che tuttavia non riconosce il primo da
noi su menzionato), era quello di ‘fausto, bonario, benigno’; collegato al vr. faveo (‘favorire, proteggere’)(77), che tra l’altro significa anche –
in relazione all’interpretazione precedente – ‘augurare, auspicare’. Un quarto etimo possibile, complementare e
non alternativo a quelli proposti, è secondo noi quello che rimanda al vr. fulgeo (‘risplendere’)(78).
Si può allora immaginare il suddetto signore degli animali nell’atto di
risplendere nei cieli sotto la forma stellare dell’asterismo d’Orione, inteso
come sede della luce cosmica, fungendo altresí da benigno nume nel contempo del gioco della
sorte e della parola creatrice in senso divinatorio. Siffatto nume tiene in mano talvolta la
Cornucopia, a dimostrazione dell’Unicornicità tendenziale sia di Fauno che
dell’omologo greco.
Pan, invece, dal punto di vista
iconologico impugna raramente la Cornucopia.
Un esempio di tal tipo si trova tuttavia nel Meyers Konversationslexikon (79),
in cui la tiene colla destra nell’atto di bere il vino, mentre colla sinistra
regge un grappolo d’uva. In un bronzo
del II sec. d.C. di Windisch (Vindonissa, Svizzera) il dio greco appare in
veste consimile, ma itifallico; in mano ha una fiaccola rovesciata da un lato e
dall’altra 3 grappoli d’uva (80). Quale sia la differenza di significato fra le
due icone non è ben chiara. Si può
supporre che la Face Spenta rappresenti le Tenebre ovvero la Morte e l’Uva lo
spirito vitale ossia la Vita. Se
interpretiamo Pan in senso demiurgico ci troviamo semplicemente di fronte al
Legislatore quale elargitore del Bene e del Male. Siamo dinanzi però ad un nume la cui
interpretazione ermeneutica (non filosofica, perché altrimenti sarebbe
panteismo di tipo spinoziano!) rimanda al Tutto inteso simultaneamente al
Principio della Creazione oppure in alternativa al Chaos pre-cosmogonico;
insomma l’Hén-tò-Pàn, come suol
dirsi. Ma, nello stesso tempo, allude
quale demiurgo all’indefinitezza della molteplicità creativa. Quindi, possiamo
stabilire che esso presieda complementariamente al dominio sui contrari,
secondo quanto c’insegna appunto l’iconografia.
Dal punto di vista iconologico, quindi, non ci resta che riagganciarlo
al simbolismo solstiziale del ‘Quarto Passo’, il cd. <Passo Oscuro>. Abbiamo già parlato della sua possibile
unipedicità per la somiglianza generale, a causa della testa caprina (81), colla figura induista di Ajaikapāt (82). Vide
supra. Siccome negli Inni Omerici (vs. 23-4)(83) il dio è descritto con pelle di
lince, abbiamo di nuovo a riprova una testimonianza della sua doppia magica
natura di antilocapride e di felino, esattamente come lo Śiva hindu. Vi sono ancora altre immagini da esaminare
per chiarire meglio il soggetto.
Inanzitutto quelle che lo ritraggono nell’atto di suonare la Siringa,
secondo quanto attesta ancora una volta Omero (vs.15)(84). Immmagini di Pan che
suona la Siringa non sono numerosissime, ma neppure infrequenti come quelle ove
suona il flauto che proprio da lui ha preso nome anticamente. Assieme al nume stanno i Pānisci
(Panískoi), sorta di Fauni che
suonano con lui la siringa o zampogna (85). Conosciamo la leggenda della nascita di siffatto
strumento: Pan scorge casualmente la Ninfa Siringa mentre s’aggira presso un
fiume e ne viene rapito sensualmente.
Sicché insegue con foga la bella fanciulla, ma costei per sottrarsi all’invadente
e spaventoso abbraccio d’un essere dalla testa e dai piedi caprini si rifugia
in un canneto presso il fiume, ove prega le ninfe consorelle di trasformarla in
una canna. Accortosi dello stratagemma,
il dio intaglia una canna a pezzetti in memoria di quel repentino invaghimento
e ne fa uno zufolo (86), legando i
pezzetti cosí ottenuti – possiamo magari
immaginare – con una frasca resistente.
Significativamente il nome della ninfa, Sirinx (gr. Σῦριγξ), ricorda da vicino il termime
sanscrito śrṅga
(‘corno’). E allora, forse, non è un
caso che fra le corna caprine di Pan nell’iconografia s’intraveda una
protuberanza: cfr., ad es. il succitato bronzo svizzero. Tanto piú che
la Canna, non meno del Flauto che talora la sostituisce nel simbolismo panico,
presenta un valore assiale indubbio in riferimento al ‘Raggio Solare (o
‘Settimo Raggio’). Ciò peraltro è
confermato dalla parallela leggenda dell’inseguimento della Ninfa Piti
trasformatasi anch’essa in una pianta, il Pino (87); fatto che relativamente ad
un’analoga ninfa latina (Ciparisso) coinvolge in una diversa versione del mito
anche il dio Silvano (88), alter-ego di Fauno nel ruolo di divinità dei
pastori. L’effigie di Pan col Lituo, o
Battilepre, nei mosaici romani si può ritenere vada messa viceversa in
relazione al suo travestimento venatorio anziché pastorale. Sebbene dal Lituo – arma in dotazione già del
dio-cervo Rundas presso gli Hittiti,
come ha segnalato M. Riemschneider (89) – provenga, a nostro giudizio (90), il
Pastorale cristiano (91). Visto che lo
si trova iconograficamente ancora a metà fra i due simboli, cioè in posizione
rovesciata a mo’ di battilepre ma con significato già di bastone d’appoggio del
‘Buon Pastore’ nel Periodo Tardo-antico (92). Inutile aggiungere che tanto il Lituo quanto
la Siringa posssono essere intesi, dal punto di vista ermetico, quali simboli
microcosmici opposti e complementari delle tappe del percorso spirituale. Pur rammentando che i sette centri interiori
dell’Ermetismo differiscono rispetto a quelli dell’Alchimia o del Tantrismo,
imperniati sul simbolismo solare. Le
tappe ermetiche infatti non partono dalla simbologia saturnina, bensí da quella
lunare; e non culminano in un emblema aureo-solare, al sommo capo presenziando
un contrassegno saturnino, come nella cosmologia islamica (ripresa da Dante
nella Commedia). Sono le Tenebre, naturalmente,
dell’Immanifesto. In senso nettamente
opposto vanno invece interpretate le Contese fra Eros e Pan, oppure fra Apollo
e Pan; vale a dire fra l’Amor sacro (divino o platonico) e l’Amor profano
(titanico o sensuale), contesa che nel caso della seconda coppia di numi
diventa fra la Luce trascendente in senso apollineo (distruttrice dei legami
naturali) ed il cedimento alla Tenebra in senso dionisiaco, cui conduce il
semplice riassorbimento animalesco nella Natura. Nel caso di Eros però il contrasto è
maggiormente forte che non con Apollo, poiché riguarda la differenza di vita
fra l’Età dell’Oro e l’Età del Ferro, ovvero il passo verso il comune destino
dei mortali o l’Immortalità. Mentre, nel
caso di Apollo, il contrasto è una scelta pertinente alla medesima epoca.
Circa Fauno, risulta piú evidente la relazione del personaggio colla
condizione servile (lat. famulus, da cui il
termine familia) ed animalesca propria dell’uomo decaduto dell’Età del
Ferro. Si consideri in tal senso il
ruolo maggiormente importante della controparte femminile, Fauna, che non è fuggevol amante come Siringa o Piti e nemmeno
durevol amante come Selene, bensí consorte. Donde ricaviamo da un’analisi del prof. Del
Ponte (93) che Fauno è il Signore
degli Animali, mentre il doppione Silvano è preposto solamente ai boschi e come
tale ha il Cane al fianco. Sebbene
l’iconografia ritragga quest’ultimo come un cane da pastore, è probabile che un
tempo Silvano avesse disposizione non solo sulla pastorizia ma anche
sull’orticoltura (94). Fauno, al contrario, presiede sia agli
animali da allevamento che alla selvaggina.
L’iconografia romana e soprattutto posteriore l’ha però trasformato in
una figura piuttosto scialba, onde il paragone con Pan appare
problematico. Basta dire che non siamo
riusciti a trovare nemmeno un’icona interessnte da commentare. Non stiamo a discutere qui il valore
artistico delle rappresentazioni, è indubbio; il problema è che non aggiungono
proprio nulla al già detto in campo mitologico, ma lasciano libero spazio alla
fantasia del pittore o dello scultore, cosiccome a quella di chi le
osserva. Se di oggetto di culto bisogna
parlare, lo si può fare solamente in senso demonico-sensuale. L’unico punto interessante, che non troviamo
invece nella figura di Pan, è la connessione colla danza e il teatro. Pan suona, Fauno oltre a suonare lo zufolo
danza alla maniera di Śiva Naṭarāja, in ciò i
due personaggi greco-latini essendo complementari. S’intende, la danza non è che un prototipo
della perpetua Manifestazione (95). Per quanto concerne l’associazione divina
colla controparte femminile ed altro occorre limitarsi, a parte quel che è già
stato detto in proposito (vedi funzione oracolare, espletata sotto forma di Fatuus, cui corrisponde una dea Fatua), al rapporto del dio con Fauna (Bōna
Dea) nella generazione dei Fauni; nonché all’importante ruolo tenuto da
esso all’interno delle ‘Generazioni Divine’, in base alla dottrina virgiliana
dei Penati. La serie è data da Iānus-Sāturnus-Picus
Mārtius-Faunus. Fauno è il genitore di Latino, capostipite
dei Latini, attraverso Marica; ma secondo una storia alternativa è Ercole il
vero padre, dopo che l’eroe ha annientato il nume e violentato la vedova.
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