Cap. IX
Il motivo ittico
nella letteratura popolare europea
a) La tematica piscatoria nella
fiabistica europea
del mondo moderno e contemporaneo
Orbene ci siamo qui occupati di
pesci, molluschi, crostacei, retttili, mammiferi acquatici ecc. in relazione
alle loro valenze mitologiche, iconologiche, storico-religiose ed etnologiche;
un ulteriore approfondimento del tema dovrebbe riguardare la letteratura
popolare, nell’ambito della quale si possono tracciare molteplici paralleli e
varianti rispetto ai testi delle fonti letterarie erudite. La sapienza misterica contenuta nelle fiabe,
è risaputo, non è diversa rispetto a quella trasfusa nei miti appartenenti alle
scritture delle culture piú elevate; se non per il tono umile, invero solo in apparenza di
stampo etico, e lo stile assai poco magniloquente da esse impiegato. Ciò naturalmente per il fatto che le
tradizioni popolari si rivolgono, a differenza delle tradizioni iniziatiche, al
gran pubblico; cioè al popolo tutt’intero, per dirla con un’espressione ormai
desueta (1). Ma i valori fondamentali che trapaiono dalle
fiabe, ad una buona lettura, persino sull’argomento in questione non
cambiano. Sempre abbiamo a che far per
un verso o per un altro con un Pesce od un Granchio i quali, seppure non
appaiano aurei, lucenti od enormi ecc., detengono almeno la facoltà della
parola. Il loro potere magico consiste
essenzialmente, secondo un comune canone narrativo, nella capacità di
permettere all’Uomo – od all Donna-anima di questi – di ottenere fortuna. E qualche fiaba piú spregiudicata va anche oltre tal
proposito, come accade nella storia cui ora accenneremo.
b) La leggenda eurasiatica del Pesciolino d’Oro
Nella versione tedesca della storia del
Pesce Parlante si ha a che fare con un rombo, ad esser precisi, ma non è il
caso di formalizzarsi troppo sulla specie biologica del Magnus Piscis in qualsiasi maniera lo si dipinga o lo si voglia
chiamare. Dopo aver ecceduto nei
desideri, la moglie d’un umile Pescatore richiede attraverso il numinoso Pesce
di divenire addirittura Dio (2). Essendo via via insoddisfatta delle mete in
preceedenza raggiunte (una capanna, un castello, il ruolo di re, quello
d’imperatore e di papa, la Moglie dell’uomo – vale a dire la Donna-anima cui ci
siamo poc’anzi riferiti – vuole pervenire senza mezzi termini alla meta
suprema. E l’ascesa è colà rovelata
magnificamente, con brevi cenni all’umore del mare; dapprima calmo, indi man
mano sempre piú tempestoso,
fino al tragico sconquasso finale con rovinío di monti ed infuriar di venti. In ta modo ecco che la verità sconvolgente
viene a galla e la famigliola di pescatori – fuor di metafora, l’Uomo e la sua
Anima – perde tutto quel che è riuscita a conquistare sino allora. Nell’Unione con il Divino i due emblematici
coniugi perdono ogni cosa e dal trono papale la Donna-anima ritorna in men che
non si dica all’umile tugurio dove prima ella viveva miseramente. La punizione, che solo per un falso scrupolo
moralistico risulta tale alle orecchie degl’ingenui, è invero una sottile
allusione alla somma verità gnoseologica.
Tutti gli esseri, al di là delle loro brame terrene e dei loro specifici
ruoli, appaiono alla Divinità per quel che essi veramente sono e cioè dei
semplici riflessi umani della propria Luce.
Desiderare qualcosa di piú di quel che si è, da questo punto di vista,
è già porsi al di là dell’Ordine Divino.
L’ordine umano, d’altronde è transeunte, instabile. Perciò, potremmo valutare il metaforico
ritorno del ‘Pescatore’ e della ‘Donna’ alla loro primaria condizione
esistenziale non già una mortificazione punitiva per aver troppo osato; bensí un riacquisto in termini
puramente ontologici, del proprio Sé. La
versione russa, di certo quella maggiormente antica rispetto alla versione dei
Fratelli Grimm, pone quale meta finale l’Unione colla Gran Madre, che
shakticamente azzera le mete precedenti in egual modo. L’unione vera colla Divinità porta, infatti,
all’azzeramento di tutto il resto, poiché Ella è lo Zero Metafisico.
c)
Universalità del tema ittico
Se pigliamo dall’Evangelium il ‘Discorso della Montagna’ e lo intendiamo, tuttavia,
esotericamente giungiamo egualmente ad una consapevolezza dell’Unità Divina di
tutte le creature. ‘Diventare Dio’ è lo
scopo finale di tutte le pratiche di realizzazione spirituale, mediante le
quali ci s’impegna ad ottenere una meta conoscitiva, che si tramanda sia venuta
meno colla perdita dello stato paradisiaco.
Una volta raggiunta la meta, nell’intimo del proprio cuore, ci si
accorge – cosí insegna la
tradizione estremo orientale – di non averla in realtà mai perduta. Ad analoghe conclusioni ci spingno le storie
avatariche indiane dell’Aureo Pesce, con le due varianti del Grande Pesce e del
Pesce Unicorne. Ed, altrettanto, le
corrispondenti fiabe popolari europee del Pesciolino d’Oro e del Principe
Pesce; i quali si trasformanoo alternativamente in un Principe Granchio o in un
Gambero dalle Uova d’Oro, o che altro.
Tutti codesti personaggi ora nominati, abbiano essi una natura
zoomorfica, semizoomorfica od antropomorfica, ad ogni buon conto valgono
nell’insieme a testimoniarci che sebbene di fronte agli uomini taluni
privilegiati possano apparire come messaggeri celesti, ciononostante esiste una
via spirituale la quale conduce l’iniziato – in altre parole il resto
dell’umanità, perché la Rivelazione nei tempi ultimi non è destinata alla sola élite intellettuale – a ritornare ciò
che egli era in principio: ossia, una manifestazione parziale della
Divinità. L’Umanità anzi tutta la
Manifestazione nel suo complesso, intendendola in senso shaktico alla maniera
induista, serba in sé il Seme Divino, che è descritto con colori differenziati
a seconda della meta raggiunta dall’iniziato.
Il color Aureo (od il Rosso), cosí come a volte il Bianco, indica il maggior
grado d’approssimazione tramite cui è possibile contemplare in sé tale ‘Seme’
(lat. Sēmen, gr. Sītos, scr. Soma, ir. Haoma). Valutando le cose da un punto di vista
metempirico e transumano è chiaro che ogni creatura, non solo gli esseri umani,
contiene universalmente in sé la possibilità finale di elevarsi fino all’Unione
con la Divinità.
d)
Considerazioni finali
Quale differenza sostanziale è quindi da
porre tra un missionato, (3) od un
messaggero celeste che dir si voglia, ed un
normale essere umano? La differenza,
ovviamente, è soltanto di ruoli. Ossia
gli è che il missionato, per sua grazia, è capace di comprendere quanto detto –
in riferimento alla natura divina di ogni ente – come una splendida verità,
insomma senza alcuna reale dualità; ciò, naturalmente, in maniera piú o
meno approssimata, in rapporto ai periodi ciclici dell’umanità. Realizzando in sé il frutto di codesta
comprensione, egli è letteralmente in grado di giungere ad un’ininterrotta ed
informale contemplazione della Luce dello Spirito Divino. Per gli altri, c’è solo una piccola
distinzione rispetto al medesimo fine; non nella loro meta, bensí nel
loro metodo, che li sprona a percorrere una via meno diretta (4), sebbene anch’essa pur sempre tutta
interiore. E ciò fa sí che
essi, illusoriamente, credano di essere qualcos’altro che non degli Avatāra; ovvero, delle perfette
manifestazioni della Natura Divina. Nel
gran teatro del Mondo – il quale è da molte tradizioni altrimenti paragonato ad
un Oceano ove ribolle la vita – la cosa diviene possibile sol perché le
‘Acque’, cioè le Forme allontanano il ‘Pesce’ dal ‘Pescatore’, celando il primo
alla mente del secondo… O, se preferiamo
diversamente dire, il ‘Pescatore’ ritrova alfine nel ‘Pesce’ (del quale abbiamo
piú volte fatto presente la fisionomia sostanzialmente aurea, unicorne e
di eccedenti proporzioni)(5) la sua
natura luminosa, incorrotta ed eterna.
Note al Cap.IX
1) Codesto principio è stato sfruttato
ritualmente nel caso in cui, presso certe tradizioni pre-letterate, si induceva
in un determinato animale allevato ed addomesticato a scopo sacrificale (in
funzione di messaggero celeste) uno stato di sofferenza indicibile; onde
liberare l’anima del malcapitato – si fa per dire – dalla prigione degli
istinti che l’ottenebrava, facendogli credere di essere qualcosa di diverso da
quello che esso realmente era. Inutile
aggiungere che tali pratiche si giustificavano collo scopo d’insegnare agli
uomini a svincolare la propria anima dai legami inferiori che la limitavano,
maculandola, al fine di ristabilire a beneficio dell’intera comunità
quell’indiretta comunicazione coll’Assoluto che altrimenti solo una
manifestazione plenaria della Divinità (quale un Avatara od un Profeta ecc.)
sarebbe stata in grado di assicurare.
Eguale compito poteva un tempo esser svolto ancor meglio da un essere
umano, magari da un semplice devoto, piú o meno qualificato; o da un innocente minorenne
martirizzato per ottenere finalità che a noi nella nostra prospettiva di
occidentali civilizzati potrebbero apparire sicuramente assai banali, se non
addirittura ripugnanti. Si conoscono
casi, ad es., in base alla testimonianza di certi antropologi di sacrifici
d’infanti fra certe tribú oceaniane
nei quali
il beneficio richiesto era solo la felice inaugurazione d’una rimessa per
barche. Certo per questa strada, è
lecito però arguire, debbono indubbiamente esser avvenute molte degenerazioni
rituali in ogni dove ed in ogni tempo, con conseguente dispersione del
significato originario del Sacrificio. Va
infine precisato che l’atteggiamento sacrificale non è primordiale, non
potrebbe mai esserlo essendo la prerogativa di un animo già corrotto, è l’atto
conseguente alla perdita dell’innocenza paradisiaca. Nel Paradiso Terrestre, serve ricordarlo, non
si compivano sacrifici. Nessun atto di
violenza veniva compiuto.
2) Segno che il mito originario, donde la
storia è stata tratta, puntava decisamente in tale direzione quale oggetto
evidentemente d’una trasformazione interiore.
3) Nell’impiego di tale termine ci rifacciamo
visibilmente a Guénon.
4) Non ci riferiamo qui alla via indiretta
esteriore del rituale indicato alla n.1, ma piuttosto alla normale pratica
esoterica; la quale era affrontata una volta forse da esseri particolarmente
qualificati, quantunque la stessa non si addicesse a coloro che erano destinati
ad una missione di tipo profetico o messianico.
Ciò tuttavia non vale piú per il presente, siccome l’umanità nel suo
insieme appare totalmente degenerata e una distinzione fra eletti e non eletti
risulterebbe ormai fuori luogo. Per lo
meno nella disposizione generale. Poi, è
chiaro che la qualifica di ciascuno farà sí che egli giunga o meno alla meta. Ma tutto ciò senza quelle preclusioni
peculiari che in tempi passati qualsiasi ordine iniziatico doveva garantire, in
linea con un determinato momento ciclico.
Intendiamo insomma affermare che oggidí certi segni esteriori i quali erano
indicatori un tempo di una particolare qualifica interiore o, al contrario,
d’un infelice disposizione d’animo, non vanno piú presi alla lettera, dovendosi
invece badare al sodo e facendo in modo che ciascuno sviluppi sé medesimo
secondo le proprie possibilità. Sarà
perciò il Cielo in persona d’ora in poi, senza piú mediazione umana, a
stabilire uno iato fra i ‘Figli delle Tenebre’ e i ‘Figli della Luce’. Al profano, o meglio al non qualificato,
verrà automaticamente sbarrata la Via dal proprio stesso cammino sin qua
percorso, che alla “fine dei tempi” (peraltro già avvenuta formalmente il 3
maggio del 2000 colla settemplice congiunzione planetaria nel Segno del Toro)
lo condurrà direttamente in un precipizio; viceversa all’iniziato, cioè all’eletto
(in pratica a colui che avrà veramente ottenuto una realizzazione spirituale,
indipendentemente dalla qualifica personale), si apriranno le porte di un Eden
finalmente ritrovato, dove l’interiore e l’esteriore appariranno di nuovo in
armonia come ai tempi mitici della Creazione.
5) Vogliamo concludere il nostro discorso con
l’indovinello rintracciabile in una fiaba scandinava, che il Thompson (S.
Thompson, The Folktale- Univ. of
Cal., Berkeley-L.Angeles-Londra 1977, P.II, Cap.II, 8.C, p.123; I ed. Holt, Rinehart and Winston 1947) classifica sotto
forma ‘Born from a Fish’. Esso racconta
di un uomo il quale aveva pescato un Pesce Miracoloso, con cui intendeva
sfamare la moglie; ma che finisce in seguito per ingoiarlo lui stesso,
divenendo gravido. Una Fanciulla-anima
fuoriesce dal ginocchio del Pescatore ed è accompagnata dagli Uccelli in un
Nido; da interpretare, evidentemente, come un Nido shamanico sull’Albero del
Mondo. Ella è alfine vista dal Re, che vorrebbe
maritarla, ma è alfine bandita dal Regno.
Accortosi dell’errore, il Sovrano è costretto a cercarla per mezzo d’un
indovinello che si addice a lei sola; la formula esteriore dell’enigma suona
cosí: “chi è Colei che ha per padre un Pesce e per
madre un Uomo?” Avendo letto
attentamente queste nostre considerazioni, si troverà facilmente risposta al
quesito.
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