Note
al Cap.II
1) Gué., Il q. V., passim. Guénon
naturalmente ha ragione da vendere nel correggere la dicotomia creata dagli
orientalisti fra Veda e Tantra, ma non del tutto. L’induismo è uno solo naturalmente e i Tantra sono le scritture per eccellenza
adatte al Kaliyuga, peraltro ormai
definitivamente trascorso; ma non è proprio esatto dire che il Tantra è contenuto nel Veda e che il Veda era al principio, sottintendendo nel Satyayuga o meglio nell’Iḷāvṛta. Questo assioma è contenuto nei testi, lo
sappiamo bene, Guénon non dice nulla che non faccia parte di quella
tradizione. Il problema è che anche i
testi in certo senso <barano>.
Vale a dire, la simbologia del Caturveda
ci fa credere d’aver a che fare col Caturyuga,
sicché ogni singolo Veda sarebbe
l’espressione d’un singolo Yuga. L’Atharvaveda
è il quarto Veda per ordine di
compilazione, ha valenze magiche a differenza degli altre tre e quindi il Tantra in tale ottica appare quale
appendice di quest’ultimo testo. Benché
il simbolismo nella sua quadruplice valenza si riferisca pure al piano
letterale, ciò va considerato cum grano
salis, vale a dire intendendo il sapere vedico nelle sue varie gradazioni
quale immagine del passaggio dalla perfezione primeva alla decadenza dei tempi
ultimi. Il che non significa, come
qualche tradizionalista ha creduto ingenuamente, che in principio esisteva il Ṛgveda; non esisteva, non poteva esistere, neanche
oralmente. Visto che la Lingua di Manu, coincidente con quella di Adamo,
era il silenzio. L’iconografia medesima
ce l’illustra, dotando il Primo Uomo solamente della Coppa dell’Abbondanza, il
Cuore. Allora perché talvolta, ci si può
chiedere, il Matsya è affiancato da
una personificazione dei Quattro Veda? Cfr. ad
es K.S. Desai, Iconography Of Viṣṇu (In Northern India Upto
The Medieval Times)- Abhinav P., N.Delhi 1973, p.64 e figg. 51 e 53. Si tratta di immagini tardo-medievali
presenti a Garhwā, Gyaspur (ora al
Mus. di Gvāliyor, piú comunemente Gwalior) e Chambā, aventi per
base un fior di loto. L’autore non sa
interpretarle correttamente, ma vi è una ragione precisa per
quest’<errore>. Infatti, introducendo l’argomento (p.62), scriveva:
“It is really a problem how the fish came to play a part in the avatāra cycle
of Viṣṇu. It does not figure in the Vedic
mithology.“ Vero, esso spunta nello Śatapatha Brāhmaṇa e poi nel Mahābhārata; non è una tema collegato ad Indra, il deus-ex-machina
del Ṛgveda. E a
rimetterci in tal senso non è la leggenda del Matsya, ma il Veda, poiché
il Veda come tutte le scritture è una
compilazione relativamente tarda. Sul
piano contenutistico e quindi anche a livello di tradizione orale – lo ha
dimostrato Tilak indirettamente in The
Orion – il Ṛgveda non va oltre
l’inizio del Kaliyuga, se non di
poco; per questo è attribuito a Kṛṣṇa, il IX Avatāra. In The
Arctic Home Tilak (Capp. IX-X sgg)
è riuscito ad andar oltre e a dimostrare, errori ed omissioni parziali a parte
(in primis la confusione fra patria
artica e patria nordica), che certi miti rispondono ad una logica piú antica;
diciamo dvaparayughica, ma non ha potuto andar piú in là della Fine dell’Epoca Glaciale, cioè
dell’epoca di dominio degli Ārya (Eroi). Non c’è un «piú in là», dato che il Veda ha un carattere principalmente vishnuita, sebbene non
settario; il ‘brahmanismo’ di cui parrebbe latore è invero la dottrina degli Ārya, cioè degli Eroi, o Vaiśya (‘Artigiani’) che dir si voglia. Invece il Tantra
– se proprio vogliamo andare a vedere – possiede per sua stessa ammissione un
originario carattere shivaita, non shaktico (vale a dire regale, non popolare),
e si rifà pertanto al Tretā.
Il vero mito delle origini, ce l’insegna la tradizione hindu nel suo
complesso a chiare lettere, è insomma la leggenda del Pesce d’Oro (Matsya) e del Re Pescatore (Manu) e non altro. Il Veda
è stato ideato dai bardi vedici nell’Uttarākuru, non dai ṛṣi; i quali
costituiscono una categoria riassuntiva nello schema quaternario (anziché quinario)
delle età cicliche – e come tale solo ideale – della sovracasta primeva e della
casta sacerdotale nel loro insieme, ma maggiormente prossimi alla seconda. Tanto piú che il sacerdozio primordiale era formato
principalmente da shamane (cin. wu),
piuttosto che da shamani (cin. rsi). Cfr. nn. 24 e 26.
2) In questa scia di studi si è inserito già dalla Fine degli Anni
’60 anche il prof. Parpola, il quale seppur un poco sgomitando (ma è
tipico dei migliori) è giunto al punto piú avanzato in questo settore, finendo
purtroppo per riconoscere a Padre Heras solo una grande fantasia. Troppo limitativo ed irriconoscente, visto
che la tematica del Trifoglio di cui si fregiavano quale ornamento cerimoniale
gli antichi sacerdoti vallindi nella loro emblematica veste e di cui egli si è
fatto un notevole illustratore dalla metà degli Anni ’80 in poi (Parp., The Sk., passim) è stata introdotta nell’orientalistica proprio da
Heras. Vedi H.Heras, The trefoil
decoration in Indo-Mediterranean Art- Raj. Sir Ananamala Chettiar
Comm.Vol., 1941, pp. 588-98 sgg. Noi stessi in parallelo, pur all’oscuro dei
risultati ottenuti dallo studioso finlandese in campo iconologico, avevamo
nella nostra prima tesi di laurea (Ac., Kāl., 2 voll., passim) discusso fra le altre cose la
medesima effigie. Seppur con minor
enfasi ed in relazione al motivo dei Tricorni, fino ad allora per noi di
maggior interesse, data la relazione inevitabile con quello dell’Unicorno. Fu d’altronde esattamente in quel momento che
il nostro relatore, prof. G.G. Filippi, ci parlò di questo insigne
studioso. Di sicuro Parpola è stato
l’unico, a parte il sottoscritto (che ha svolto per proprio conto analoga
ricerca piú in penombra,
vide Cap.I, n.144), a portar avanti
le tematiche indomediterraneiste di fronte al gran pubblico negli Anni ’90; ed
è andato oltre Heras di molto per certi versi (ad es. nella giusta decifrazione
di determinati pittogrammi quali il Pesce o di alcuni antichi simboli
mediorientali quali la Luna e la Stella), per certi altri propriamente
spirituali (ad es. il motivo del Matsya e
del Diluvio, bene sviluppato dal
gesuita spagnolo) non riuscendo invece a coglierne in pieno il significato. Benché abbia apportato pure a questo tema, in
effetti, nuovi argomenti di discussione.
Cfr. in proposito Parp., Dec., P.IV, Cap.X sgg. A differenza di Heras è
riuscito comunque a capire (ibid.
come al Cap.I, n.122), e gliene va dato atto, che lo schema storico
dell’invasione aria tarda preceduta da quella dravidica in tempi ignoti è ormai
datato. I Paleo-dravidi dell’antica
Valle dell’Indo erano dunque dominati da dei Proto-ari, come vorrebbe il Parpola,
oppure connessi (non importa in quale rapporto di subordinazione o meno) ad
altro ceppo piú primitivo ma d’origine nordica anch’esso? Vedi piú innanzi.
3) Considerare, per un confronto, i
proto-europei additati da Platone nel Criti.-
iii. 109°-v. 112°; già descritti nel Tim.-
iii. 23d-25d. Forse esisteva una terza
opera ora perduta di argomento atlantideo, a giudizio di C. Giarratano, l’Ermocrate. La Grecia
descritta nei due Dialoghi platonici citati non pare tanto una Grecia mitica,
sebbene idealizzata, quanto una Grecia preistorica e con una diversa
conformazione geografica. Questi
proto-greci ed altri proto-europei in un passato lontano, quando la Grecia era
ancora una terra fertile con vaste boscaglie e dominavano la cima delle colline
grandi alberi in seguito abbattuti per fabbricare i tetti dei templi, si
sarebbero scontrati con “un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un
tempo tutta l’Europa e l’Asia, movendo di fuor dell’Oceano Atlantico. Questo mare era allora navigabile, e aveva
un’isola dinanzi a quella bocca, che si chiama, come voi dite, colonne
d’Ercole. L’isola era più grande della
Libia e dell’Asia riunite, e i navigatori allora potevano passare da quella
alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente opposto, che costeggiava
quel vero mare” (ibid, 24°-25°).
4) Accertato a livello archeologico è
almeno il passaggio dall’Asia all’Europa, come si desume dal trasferimento
della cultura megalitica e della pittura parietale dall’Australia al
Mediterraneo. Cfr. Cap.I, n.117.
5) Il gr. Πελασγός (nome
dell’antenato eponimo dei Pelasgi secondo Esiodo, figlio di Zeus e Niobe
secondo Ecateo) proviene a nostro parere da
*πέλᾱς/*πελαινός quale var. di *κέλᾱς/κελαινός (‘nero, scuro, blu’) e μέλᾱς/ femm. μέλαινα (id.), scr. kāla/ femm. kālī (id.).
[Si noti che l’α della prima
serie di termini è lunga.] Il gr. πέλασγος (‘mare, oceano’) prova non solo che era un popolo di pelle scura, ma
anche che era venuto dall’Oceano (vedi l’etimo proposto da E.Klein),
l’Atlantico s’intende. I Pelasgi – che
Dionisio faceva giustamente corrispondere ai Greci – erano in genere ritenuti
le genti stanziate nell’Egeo e in Asia Minore prima dell’avvento degli Elleni;
a partire da Dodona secondo Esiodo, ma altri autori tracciano un diverso
quadro. I Pelasgi avrebbero fondato la
civiltà cretese e a giudizio di Ellanico ed Eforo spostandosi in Italia dalla
Tessaglia, dall’Epiro e dal Peloponneso (chiamato una volta Pelasgia, al pari dell’Arcadia)
avrebbero dato luogo a quella tirreno-etrusca.
Oggi erroneamente si commette nei loro confronti da parte di alcuni
studiosi lo stesso sbaglio che si fa coi Dravidi (lett. ‘figli delle acque’),
considerandoli autoctoni. Non possono
essere stati degli aborigeni, dato che appartenevano non meno dei Dravidi e
degli Egizi al ceppo camitico. Alcuni li
connettono al ceppo ibero-caucasico, ma la sostanza non cambia. Probabilmente hanno raggiunto la Grecia alla fine
del Mesolitico (7.000-6.500 a.C.). Lo
testimonia indirettamente Hēr., Hist.-
i. 57. La cultura proto-pelasgica a
livello di scavi è stata identificata alle culture tessaliche neolitiche di
Sesklo (6.850-4.400) e Dimíni (4.800-?), ma vi è chi ipotizza un suo arrivo
nell’Egeo dall’Asia Minore nel IV millennio; altri ancora la identificano
all’Elladico Medio (2.100-1.550), o persino all’Elladico Tardo (1.550-1.060)
della Grecia micenea. Cfr. Ovidio, o
Strabone, al riguardo. Secondo Omero del
resto i Pelasgi erano alleati di Troia, quantunque nell’epoca della stesura
dell’Iliade (fra il IX e l’VIII sec.) i tempi del loro dominio erano ormai
troppo lontani per avere un quadro chiaro della situazione in passato. I loro luoghi di stanziamento si erano
ridotti ad enclavi. Verso il 1.500 c.
erano infatti giunti ad ondate sulle sponde egee i Proto-elleni (Ioni ed Eoli),
cioè gli Achei dell’Iliade, e la loro
venuta aveva determinato nel giro di uno o due secoli (forse attorno al 1.400)
la caduta di Troia. Una disputa, prima,
e poi una fusione col ceppo pre-ellenico erano inevitabili. Proprio questo periodo storico è stato cantato
ed idealizzato da Omero, il periodo della grande monarchia micenea. Successivamente (1.200-1.000 c.), prima del
sorgere del grande vate, era avvenuta anche la seconda invasione; quella
dorica, dell’ellenizzazione vera e propria.
L’effetto principale, a partire soprattutto dall’VIII sec., era stato la
nascita di πόλεις autonome ed indipendenti che sostituivano alle
vecchie monarchie una nuova oligarchia fondiaria. È in tal
momento che secondo gli storici spunterebbero i primi servi della gleba, ma a
nostro parere erano già presenti nel Neolitico.
Cfr. nn. 7-8. Ivi la situazione
di pauperismo, evidentemente, si cronicizza.
Può darsi che anche in India sia avvenuto qualcosa di simile: una prima
invasione ad ondate del ceppo ario verso il 1.800 od il 1.500, una seconda
tardiva verso il 1.200 od il 1.000, con conseguenze sociali parallele. Onde i testi, peculiarmente il Ṛgveda, finirebbero per testimoniare soltanto tradizioni
orali precedenti; di carattere e contenuto ambivalente, in quanto ereditate
dalla fusione etnoculturale.
6) Il dato tradizionale, per la
precisione 12.960 anni, è costruito sulla precessione equinoziale e la dottrina
degli Yuga, che invece calcola le
congiunzioni di Giove e Saturno ogni 20 anni.
Il loro computo, nell’arco di 2.160 anni (equivalente al trascorrere del
P.V. di 30°), non a caso è venerato come il numero dei nomi di Śiva: 108. Il
calcolo planetario, per forza di cose, è dunque piú ancestrale di quello zodiacale.
7) Lascia il tempo che trova la teoria
materialistica proposta da G. Childe che le caste siano sorte tutte assieme
all’inizio del Neolitico, quando la popolazione si trovò di fronte a risorse
economiche che mai aveva posseduto prima.
Secondo la tradizione hindu al contrario ogni varṇa sarebbe
sorto in uno Yuga specifico, in
ordine decrescente per valore ed importanza; gli Śūdra, ad es., sarebbero nati all’inizio del Kaliyuga. Ed è questo che specificatamente accettiamo,
non l’ipotesi peregrina dello studioso australiano.
8) Lo śūdra corrisponde
al famulus, il ‘servo’ della
latinità, od all’iloto dalla grecità (l’ilico degli Gnostici). Da notare che i termini ellenici, in
proposito (cfr. anche il gr. δῆμος/δᾶμος = ‘paese, territorio; popolo, comunità’, connesso
da un lato al vr. δαίομαι = ‘dividere’ e dall’altro a δέμω = ‘lavorare, fabbricare,
digrossare il legno’), indicano tutti una relazione colla natura od il
legno. Curiosamente invece in latino il
termine famulus, di cui familia è soltanto un collettivo
rappresentante il nucleo di base dei famuli
formato da genitori e figli ma senza un mestiere preciso, è considerato
unanimemente d’origine pre-indoeuropea; raccoglie insomma la categoria di
coloro che, non possedendo un’arte peculiare da esercitare liberamente (scr.artha), dovevano servire un padrone. Potrebbe derivare da famēs (‘fame, carestia; povertà, indigenza’), altra
parola ritenuta dai filologi senza un etimo preciso nelle lingue
indoeuropee. La voce prōlētārius, assegnata
dai Romani a chi possedeva in dotazione unicamente la prole, è piú recente ma
ha lo stesso significato sociale e culturale di famulus. Invece il concetto
di plebs = ‘plebe’ (da *pleo = ‘riempire’), gr. πληθύς =
‘moltitudine, folla, massa’ (da πλήθω = ‘esser
pieno, crescere’) poggia concettualmente sul numero. Il scr. śūdra è, come famulus,
d’etimo incerto; tuttavia non è detto che debba derivare dal linguaggio anario,
potrebbe ricollegarsi al s.m.(n.) śūla, designante il forcone a tre punte od ogni altro
strumento con denti acuminati quale strumento di lavoro. In fondo, inteso come Tridente è l’arma
tipica di Śiva, che nelle
sue forme sinistrorse è signore dei servi.
9) Pl., Tīm.- iii. 25c-d; Crit.-
v. 112° e xii. 121b-c.
Senza dimenticare che un terzo dialogo è andato perduto oppure non è
stato mai compilato. Se la grande
inondazione atlantidea, coinvolgente secondo lo scrittore anche Atene ed il
Mediterraneo, è stata “la terza innanzi al Diluvio di Deucalione”, significa o
che retrodatando ne erano avvenute tre prima oppure che quella di Deucalione
era la quarta. Non è facile risolvere la
questione. Cfr. n. 11. La storiografia ufficiale ha preso poco sul
serio la leggenda dell’Atlantide, eppure si tratta di un comune dato
cosmologico, che fa il paio con tanti altri della mitologia greca e non. Il corrispettivo ellenico, tanto per esser
chiari, della cosmografia quale appare in tutta la letteratura sacra dell’India
e d’altre contrade. D’altra parte,
l’autore dichiara in modo inequivocabile per bocca di Crizia (Tīm.- ii. 20d:
“Ascolta dunque, o Socrate, una storia molto meravigliosa, ma tutta vera, come
raccontò una volta Solone, il più savio dei Sette (trad. di C.Giarr.).” Platone
mette in gioco con questa affermazione non solo sé stesso, ma la credibilità
dell’illustre antenato oltreché dell’intera propria famiglia, di cui ci tiene a
mostrare la discendenza aristocratica. E
ribadisce piú avanti (ibid., iii. 21d: “La storia… dell’impresa più grande e più degna di tutte
d’essere celebrata.” Il paragone
d’obbligo è con Omero ed Esiodo, nei confronti dei quali Solone avrebbe potuto
sembrare un piú grande aedo se avesse narrato lui stesso la storia per intero. Per la verità si allude qui orgogliosamente
con tipico spirito egeo alla vittoria dei proto-ateniesi sull’esercito
proveniente da oltreatlantico, non solo all’Atlantide medesima, nonché alla
superiorità greca nei confronti del resto dell’ Europa ancestrale; ossia
mesolitica, fatto confermato del resto dall’archeologia. Cfr. A.J. Ammerman & L.L. Cavalli-Sforza,
La transizione neolitica e la genetica di
popolazioni in Europa- Boringhieri, Torino 1986 (ed.or. The Neolithic Transition and the Genetics of
Populations in Europe- Princeton U.P., Princeton 1984), Intr., p.17. Prima di affrontare l’argomento atlantideo,
Platone c’informa sempre per bocca di Crizia sulle differenze d’effetti a
livello geografico fra le grandi conflagrazioni e le inondazioni terrestri (ib., 22c-e), le une sterminando coloro che vivono ad alta quota e le altre
quelli che dimorano a livello del mare.
Solo a questo punto introduce il tema della civiltà atlantidea, che non
può perciò essere unicamente un’utopia, ma un dato di fatto, benché obliato dal
trascorrere temporale ed idealizzato dalla leggenda. Si parla oltretutto nel testo, in termini
ciclici, di molti diluvi occorsi sulla terra prima dell’ultimo di Deucalione:
l’Egitto ne ha conservato memoria, diversamente dalla Grecia, tramite
ossequiate iscrizioni sulle colonne dei templi (23°-b). Platone fa leva, nel
contempo, sulla distinzione castale quale si ritrovava in Egitto – od in India,
aggiungiamo noi – e che era propria in sostanza anche della Grecia arcaica (24°-b).
Ovvio il rimando alla Repubblica,
ma tale dialogo è a sua volta la testimonianza in tempi storici di concezioni
che si perdono nella notte dei tempi; non si può quindi parlare di utopismo, ma
semmai di ieraticità. Il filosofo
aggiunge (24°-25°) che l’Oceano Atlantico era allora navigabile e che in linea
retta colle Colonne d’Ercole, in altre parole nell’attuale zona caraibica (cfr.
codesto dato colla tesi andino-caraibica dell’ing.Allen), emergeva una grande
isola retta da una mnirabile potenza regale.
Dall’isola si poteva passare ad altre isole minori e da queste accedere
al grande continente opposto, le cui coste abbracciavano per intero l’oceano. È l’esatta
descrizione di quella zona geografica quale si può immaginare sia stata in quei
lontani secoli nei confronti del continente americano. Per questo Socrate crede alfine sia stata
vera storia e non finta favola, sia pure con qualche appropriato dubbio (iv. 26°).
10) Dal Graves (§ 98.r, p.310) deduciamo che Deucalione, essendo figlio di Minosse, ne
era un alter-ego. Quindi per forza di
cose, dal momento che il Graves non a torto identifica Minosse a Dioniso ( ibid., p316, n.6) e Dioniso a Deucalione
in quanto signori della vite (ib., §§
27.6, p.97 e 38.3, p.126), è lecito tracciare una corrispondenza tra il Μίνως egeo-cretese signore dell’Età
del Ferro ed il Manu del Kaliyuga indiano; cosí come tra il lunare Dioniso (Zagreo) e Shiva-Orione, di cui il generale Ταύρος – nonché il Minotauro od il Toro Bianco di Pasife
(cfr. Cap.VI, §m) – rappresentano
un’alternativa a livello di Zodiaco Solare.
Anche Arianna, la sorella di Deucalione, era legata al <Vino>
(§27.8, p.97), svolgente in zona egeo-cretese la funzione del Soma in ambiente indo-iranico. Simile ipotesi riguardo l’equiparazione fra
Dioniso e Deucalione (varr. Pitone, Pirro, Lico) siccome esempi di
contrapposizione ad Apollo (nel binomio calendariale Sōl-Lūnus – aggiungiamo noi – rimodellato sull’antica dicotomia di carattere
titanico-planetario fra Elio e Crono), trovasi in J. Fontenrose, Python. A Study of Delphic Myth and Its Origin- California U.P., Berkeley-L.Angeles 1959, Capp. XIII, p.xxx e
XIV, p.424. Nel mito delfico, creato
subito dopo l’ultima catastrofica inondazione, Apollo mette in secondo piano
Zeus quale ‘Re degli Dei’ (ibid.,
p.391). Esattamente come fa Rudra (Śiva) in India
nei confronti di Indra (Dyaus Pitar). L’originario culto delfico secondo Strabone (ib., pp. 412-3) risaliva a Lycoreia
(lett. ‘Città dei lupi’), un villaggio montano un tempo diversamente
denominato, ove regnava Deucalione prima del diluvio che ne porta il nome. Attesta Pausania (Per.- x. 6. 2) che il nome deriva da Lico (Licòro), appellativo
onorifico di Deucalione, giacché furono i branchi urlanti dei lupi a guidare
verso l’alto le persone del villaggio e a salvarle dalle acque diluviali. Passato il pericolo, gli abitanti
ricostruirono il villaggio distrutto e lo chiarono appunto con tal nome
(p.421).
11) Ac., La quest., pp. 10-3. Tale
minore diluvio, ponendo Ogigia come sinonimo dell’occidentale ‘Terra di
Giovinezza’ celtica, potrebbe riguardare la cd. ‘Atlantide Iperborea’. Qualora le cose stiano così, bisogna allora
distinguere il fenomeno in sé dalla sue conseguenze cosmografiche, dal momento
che le storie arie tramandano un abbandono della sede degli antenati di tal
ceppo dopo un graduale ma inesorabile congelamento. Solo degli esperti in materia potrebbero dire
parole esaurienti su questo enigma prettamente geologico. Si potrebbe ipotizzare in merito che lo
sprofondamento parziale dell’Atlantide, avvenuto in realtà nell’XI mill. a.C. (ibid., p.11) quale effetto della grande
congiunzione planetaria occorsa nel 10.960 a.C., abbia avuto come conseguenza
il cambio di rotta della Corrente del Golfo; è questa l’ipotesi avanzata anni
fa dalla scienzata moscovita E.Hagemeister e riportata in A.Thomas, I segreti dell’Atlantide. Dalla leggenda
alla scoperta delle tracce del continente misterioso- Mondadori, Milano
1976 (ed.or. The Treasure of the Sfinx;
ed.franc. Le secretes de l’Atlantide-
R.Laffont, 1969), p.21. In altre parole,
la Corrente del Golfo sarebbe responsabile dell’era glaciale, poiché prima di
lambire le coste europee fino al Nordeuropa andava verso l’Artide. Questo il motivo onde la Groenlandia, situata
latitudinalmente fra il 60° e l’80° parallelo, risulta coperta di una spessa
coltre di ghiaccio; mentre la Norvegia, collocata fra il 70° e il 60°
parallelo, è attualmente vivibile. La
nostra personale ipotesi, pur senza la competenza che sarebbe necessaria a
discutere il problema in termini geologici ed oceanografici, è che il Diluvio
Ogigio corrisponda invero a quello Atlantideo tramandato dagli Egizi e raccolto
indirettamente da Platone; in termini cosmografici tradizionali, il centro
dell’Ecumene Occidentale. A meno che si
riferisca ad un’isola quale l’Islanda sommersa in tempi neolitici, come è
avvenuto per Creta, e poi parzialmente riemersa con una differente superficie;
insomma, al centro dell’Ecumene Nordoccidentale. Vedi, in proposito, la tesi dell’ing. Vinci
di Ogigia quale isola dell’Atlantico Settentrionale. Perché è chiaro che il congelamento della
Groenlandia ha comportato, dal lato opposto dell’Atlantico, uno scongelamento
antitetico. Nel caso sia valida invece
la prima ipotesi allora il Diluvio Ogigio costituirebbe il ricordo greco, od
ellenico, del fenomeno ricordato da Platone; coincidente da un lato col Diluvio
di Utnapištīm della tradizione mesopotamica (ib., p.10) e, dall’altro, con quello indiano del Govardhana (p.11). Può darsi anche che, ma è interpretazione
meno convincente delle due precedenti, la <Terza Inondazione innanzi a
quella di Deucalione> di cui parla Platone si riferisca in realtà alla fine
del VII Ciclo Avatarico: il Ciclo di Rāmacandra in termini puranici,
quello di Šeth in termini biblici. Ossia alla chiusura del primo eone
concernente la Razza Rossa, od Atlantidea (Ciclo Sudoccidentale o Sethita),
sovrappostasi poi nella memoria alla fine del secondo eone (Ciclo Occidentale o
Noaico). Nell’induismo i due cicli sono
noti come ciclo ramaita e ciclo krishnaita, sennonché per l’atteggiamento
indocentrico tipico della mentalità hindu essi sono stati ambientati nel Bhāratavarṣa (l’India)
anziché nel Ketumālavarṣa (la dimora di Viṣṇu, ad ovest del Meru).
12) Nella tradizione celtica, non a caso, i
2 Diluvi si sono sovrapposti attraverso la leggenda. Sicché la Terra di Giovinezza (Tir nan Og) è addivenuta sia una terra
occidentale, sia una terra nordica. Vide Cap.I, n.22.
13) Se gli Ari erano presenti sul suono
indiano prima del disseccamento della Sarasvatī , le cose non possono stare che cosí. La Guerra di Bhārata, del resto,
è avvenuta secondo il testo prima dell’ultimo Diluvio; se – come insegna
Dumézil – i Pāṇḍava sono degli
ari, vale quanto appena suggerito. Il Ṛgveda non tratta di grandi inondazioni, è vero, ma il
noto passo upanishadico dell’universo
pereunte e della rana nel pozzo disseccato (Mait.U.-
i. 4) allude ai continenti sprofondati periodicamente, alla frantumazione della
Ruota dei Venti ed allo spostamento celeste dei Poli. Vi potrebbe persino essere la possibilità
d’una coesistenza fra Ārya e Drāviḍa in tempi post-neolitici, stando alle congetture
di alcuni (L.A. Waddell, V.Iyer), ipotizzanti una fusione dei due ceppi in area
sumerica. I Proto-sumeri avrebbero poi
colonizzato l’Indo, imponendo a quella cultura il loro stile di vita, la loro
scrittura ecc. (K.C. Jain, Prehistory and Protohistory of India-
Agam Kala P., N.Delhi 1979, Cap.IX, p.126).
Secondo altri ancora (ibid.,
p.128) la cultura harappana rappresenterebbe la fase tarda, magica insomma, di
quella vedica.
14) In tal caso si potrebbe ulteriormente
ipotizzare che l’invasione sia avvenuta in doppia ondata, come in Grecia per
gli Argivi e i Dori; l’una, magari, attorno al 1.800-1.600 a.C. e l’altra nel
1.200-1.000 c.
15) Parpola tratta il problema indo-ario in
Dec. (P.III, Capp. 8-9), la cui
bibliografia è arricchita rigorosamente di testi accademici [decida il lettore
se ciò sia un vanto o meno]. L’opinione
del professore finlandese è che gli inni rigvedici siano stati composti nella
seconda metà del II mill. a.C. In questo
il N. segue la linea generale dell’orientalistica ufficiale, la quale non tiene
minimamente conto degli studi di settore da parte di Tilak. Questi per l’accademia non esiste, è un
autore che ai laureati alle prime armi – almeno in Italia – si dà il consiglio
di tralasciare per non impantanarsi in “analisi non-scientifiche”. Eppure quegli fu in amicizia a suo tempo col
grande orientalista Max Müller, inoltre
è stato menzionato lo scorso secolo da parte della valentissima studiosa
(nonché insegnante al Dip. di Studi Reg. di Asia Meridionale presso l’Univ.
della Pennsylvania) Stella Kramrisch; oltre ad esser stato lodato dal maestro
sufi René Guénon, ma qui si torna evidentemente al punto di partenza, giacché
l’ostracismo verso lo scrittore francese appare altrettanto oscuro. Invece autori che hanno scritto delle
corbellerie su temi analoghi, quale lo storico della scienza D.Pingree ecc.,
sono naturalmente citati negli scritti di matrice post-universitaria e vi si
attinge a piene mani. Questa è la prassi
usuale del mondo accademico, che pretende di dire la propria anche sulle cose
maggiormente sacre dell’umanità colla scusa della scientificità senza
preoccuparsi che le sue tesi rispecchino realmente il vero. Ovviamente vi sono molte lodevoli eccezioni,
noi non abbiamo avuto pregiudizio a farne menzione in tale trattato. Comunque sia, la data proposta dal Parpola e
da chi prima di lui potrebbe semmai corrispondere alla prima redazione scritta
dei sūkta, ma non di certo a quella della composizione orale,
che risale almeno al Periodo Orionico, cioè a 6.500-4.500 anni fa. Forse persino piú addietro di
qualche centinaia d’anni, pur contenendo il testo dati maggiomente vetusti
anche rispetto a tale correzione di visuale.
Per un approfondimento al riguardo cfr. G.Acerbi, Tilak e la riscoperta dell’antico calendario vedico I-II- Alle
pendici del Monte Meru (blog,
29-07/16-11 2016), passim. Circa il problema della provenienza aria,
A.Parpola riconosce onestamente che la ricerca non è giunta a risposte
definitive e – aggiunguamo noi – non vi giungerà mai. Per un semplice motivo: non tien conto della
prospettiva cosmografica tradizionale.
Quando si pensa che formulare liberamente delle teorie, sull’unica base
dei reperti archeologici rinvenuti, sia il prodotto d’un pensiero scientifico i
risultati sono questi appena detti; invece far tesoro delle nozioni degli
antichi espresse nei sacri testi non costituisce un vuoto atto fideistico, e
come tale irrazionale, per cui da tale posizione si può trarre notevole
vantaggio. In tal modo l’incertezza non
si propaga indefinitamente, come quando una valanga di teorie senza costrutto
si assommano una dopo l’altra, prevalendo unicamente per fattori emotivi o di
prestigio universitario dei propositori delle stesse; ma esse di veritiero, in
genere, contengono assai poco. Tuttavia
occorre essere sinceri: i dati archeologici vanno spiegati in qualche maniera,
non possono essere ignorati per opposto pregiudizio, giacché la verità ha
sempre molteplici sfaccettature.
Entrando nello specifico notiamo che Parpola si rifà a G. Childe, il
quale fin dal 1926 indicò la zona della ‘Cultura della tomba a fossa’ (Pit grave culture, rus. yamna, dall’ucraino) delle steppe
pontico-caspiche quale casa-madre dei Proto-indoeuropei (3.500-2.800). Una popolazione di cacciatori-raccoglitori di
provenienza asiatica si sarebbe congiunta con un’altra venuta dal Vicino
Oriente. Ma ciò contrasta coll’etimo
della parola ārya, che esprime
tutt’altro. L’idea era stata rielaborata
prima dalla Gimbutas negli Anni ’50 colla sua ‘teoria kurganica’ (vide n. 17) e alla fine degli Anni ’80
da J.P. Mallory, che ha pubblicato un libro di sintesi sull’argomento. Parpola pone la disintegrazione dell’unità
linguistica indoeuropea nel IV mill. a.C. ed attribuisce la Ceramica Cordata
del Nord e del Centro Europa all’espansione di tale ramo etnico. In ciò si può anche concordare, seppure non
col punto di partenza; il quale per noi è biblicamente l’Ararat, cioè
l’Armenia. Vide n.18. Né ci pare
adeguata la cronologia. In riferimento
al IV mill. non ci pare vi siano già piú dati comuni fra i vari ceppi di lingua
indoeuropea, solamente gli Indo-ari e gl’Iran-ari potrebbero essere stati
ancora a stretto contatto. Il Parpola (ibid., Cap.VIII, §4, p. 145/ col.a)
parla viceversa d’una prossimità perdurata sino al III mill. del ceppo proto-greco (bisognerebbe dire però
proto-ellenico, i veri Greci essendo i Pelasgi, di ceppo camitico),
proto-armeno e proto-ario (s’intende indo-iranico) nella steppa a nord del Mar
Nero. Poggiando sulla teoria
antropologica delle aree laterali dichiara che le lingue kentum (dell’Europa Occidentale e del tocario in Cina) hanno
preservato le gutturali originarie della supposta area centrale indoeuropea;
mentre le satəm (baltico,
slavo, albanese, armeno e indo-iranico) avrebbero trasformato, ben presto, le
gutturali in affricate (k/h > s/ś). Neanche questa teoria, almeno
cosí formulata,
ci convince del tutto. Se l’area
centrale di raccolta e di partenza per le varie emigrazioni fosse però stata
l’Armenia, come personalmente crediamo, allora risulterebbe ribaltato l’intero
discorso. E si potrebbe spiegare la
variazione in tal modo in base alle influenze delle lingue uralo-altaiche (fin.
sata, scr. śata), le quali
sono visibilmente da attribuire al ceppo turano. Anche se oggi, sotto influenza del
pan-indoeuropeismo dilagante si tende a sminuire la portata delle affinità
etno-idiomatiche fra il gruppo uralico (Finni, Magiari ecc.) e quello altaico
(Turchi, Mongoli), talvolta addirittura negato di per sé. Insomma, l’autore fa della steppa
ponto-caspica – la regione stepposa a nord del Mar Nero, del Mar Caspio e del
Mar d’Azov – il sito d’espansione della lingua proto-aria, cosa accettabile
invertendo la direzione del flusso d’espansione, da sud verso nordest anziché
da nordest verso sud. Cronologia a
parte. Inoltre identifica il luogo della
presenza della fase ultima della ‘Cultura della tomba a fossa’ (o ‘Cultura di
Jamna), detta della <tomba a capanna >, come quello piú probabile
dello stanziamento della comunità di lingua proto-aria. Il motivo per cui quest’area è stata
identificata come proto-indoeuropea è per il fatto che alcuni genetisti hanno
riconosciuto le steppe ponto-caspiche quali residenza d’elezione, durante il
III mill., dei primi addomesticatori di cavalli; ma altri studiosi pongono la
Cultura di Jamna come sede dei tardi Proto-indoeuropei, facendo della ‘Cultura
di Srednij Stog’ (fra il 4.500 e il 3.500, a nord del Mar d’Azov) – affine alla
Cultura di Chvalynsk, sul Volga, a sua volta preceduta nel VI mill. dalla
‘Cultura di Samara’ – la vera Urheimat
dei cd.Proto-indoeuropei. Altri ancora,
i sostenitori della T.C.P. (o T.C.), parlano di continuità paleolitica; essi
(vedi ad es. M.Alinei) sono convinti che tali culture della tomba a fossa e di
quelle colla fossa ricoperta dal tumulo, appartenessero in realtà alle tribú altaiche. Ciò potrebbe benissimo risultare vero, ma
sicuramente sbagliano nel concepire gl’indoeuropei come i discendenti attuali
dei popoli abitatori dell’Europa durante il Paleolitico e nel far derivare
dall’Africa l’Homo sapiens Sapiens. Non vi è infatti alcuna testimonianza, di
nessun tipo, al riguardo. Circa
gl’invasori dell’Europa in tempi tardi, sarebbe troppo semplicistico far dei
guerrieri-pastori a cavallo dei Pre-indoeuropei; innanzitutto non erano sempre
dei pastori, vi erano pure degli agricoltori quali i Goti e fra di loro alcuni
erano di lingua indoeuropea, altri come gli Unni no. Tornando a Parpola, a questo punto lo
scrittore finlandese introduce l’idea generale dell’affinità dei Mitanni
(stanziatisi in Siria ed in parte dell’Anatolia) cogl’Indo-ari, piuttosto che
col ramo iranario o nuristano, onde – posto, sulla scorta di T.Burrow, che la
separazione fra Indoari ed Iranari sia avvenuta a partire dal 2.000 c. –
suppone che la primitiva casa-madre di codesto gruppo tribale fosse nella parte
meridionale dell’Asia Centrale o in quella orientale dell’altopiano
iranico. Il Papesso, invece (Pap., op.cit., §12, pp, 34-5, n.38), proponeva
a suo tempo anche tesi alternative in proposito. Secondo R.Ghirshman (Par., p.148/ col.a) i Mitanni avrebbero appreso l’arte
della cavalleria nella Piana di Gorgān (m.pers. Gurgān, a.pers. Varkāna, av. Vəhrkāna; gr.
Ὑρκανία, secondo la menzione di
Arriano nel descrivere le imprese di Alessandro), sul lato sudest del M.Caspio
e capitale della regione attuale del Golestān (in passato il Gurgān). Il testo
citato del valente archeologo francese, d’origine russo-ebraica, è L’Iran et la migration des Indo-Aryens et
des Iraniens, Leida
1977. T.C. Young ha interpretato altresí la prima ceramica grigia irano-occidentale come
un’evoluzione della ceramica Gurgān. Varie somiglianze culturali connetterebbero
del resto la Cultura Gurgān (cfr. Tepe Hissar IIIc) del
Nordiran al C.A.B.M., su cui vide
n.seg. Un sigillo cilindrico gurgan in
alabastro (Tepe Hissar IIIb) mostra
un carro a 2 ruote trainato da un cavallo (ibid.,
p.148/ col.b, fig. 8.17): è la piú
vetusta raffigurazione d’un carro del genere a noi nota. Per la distribuzione dei siti archeologici in
Gurgan, Margiana e Battriana – allineati in un’ideale continuità,
rispettivamente da ovest verso est – cfr. l’ottima cartina ricostruita dal
Parpola (ib., p., fig. 1.17). Trattasi di siti cronologicamente coevi al
Tardo Harappa (1.900-1.500) e al Post-Harappa (dal 1.500 in poi); ma quivi
analoghe bighe erano trainate da una coppia di bovini, secondo quanto dimostra
un carro con guidatore presente al Mus.Naz. di New Delhi (Wikip.- on line, s.v.HARAPPA). Nel C.A.B.M. gli archeologi sovietici,
capeggiati da Viktor Sarianidi, hanno messo in luce la presenza d’una civiltà
del bronzo sino ad allora ignota (CABM I > 1.900-1.700, CABM II >
1.700-1.500); in pratica, i 2 livelli corrispondono al Post-Harappa. Un approfondimento sulla questione è
possibile farlo in S.P. Gupta, Archeology
of Soviet Central Asia and the Indian borderlands- B.R. Publ.Corp., Delhi
1979, Vol.2, Cp.5. Sono state rinvenute
dal Sarianidi delle coppie di cavalli da traino (p.158/ col.b, fig.8.26) in
rame, ora al Mus.Metrop. d’Arte di N.York, facenti pendant colle rappresentazioni equine nel vasellame nero-su-rosso
della Valle dello Swat (1.700-1.400).
Per un esempio di queste ultime cfr. la fig. 8.25, con testa e collo di
cavallo anch’essi in rame. In aggiunta,
trombette in miniatura sono state reperite tanto nel C.A.B.M. quanto nel
Gurgan, a riprova d’una pratica equina diffusa nella zona. Tali dati parrebbero smentire di primo
acchito quanto da noi dichiarato al Cap.I, n.38. Eppure ci sono parecchi dati artistici e
letterari che provano il contrario, dai disegni parietali mesolitici di cavalli
(Bhimbetka) alle datazioni fornite
dal Mahābhārata
sull’epoca della guerra per il dominio dell’Āryavarta fra Kuru e Pāṇḍava; combattuta chiaramente per mezzo di
bighe e cavalli, non con carri trainati da bovini od elefanti. Per non parlare dei dati genetici, che i vari
studiosi usano talvolta a sproposito, ossia per confermare i propri pregiudizi
anziché per proporre soluzioni nuove.
Alla tesi dei genetisti occidentali di domesticazione del cavallo in Asa
Centrale nel III mill. si oppongono altre analisi del Dna fatte dai genetisti
indiani, che proverebbero una domesticazione assai precedente dello Śivalensis. La mitologia puranica farebbe addirittura
risalire la conoscenza degli equini alla fine del II Ciclo Avatarico,
interpretando il bianco quadrupede (in origine unicorne) sorto dall’Amṛtamathana
non come onagro (che peraltro è di natura rossiccia ), bensí come cavallo. In sintesi, la pseudo-mitologia indoeuropea,
non soltanto pretende d’inficiare i dati cosmografici dei testi tradizionali
indiani; ma pure del sacro testo per eccellenza degli Occidentali, la Genesi, base dell’intera ‘Bibbia’
giudaico-cristiana.
16) La tesi di Tilak, espressa in Arc.H. (op.cit., Cap.I, pp. 32-4) e desunta dal Warren, è stata ripresa e
parzialmente rilanciata in forma molto modificata alla fine del Novecento da
J.P. Mallory (ma i tempi di discesa in questo caso sarebbero assai piú prossimi,
giacendo nella protostoria anziché nel mesolitico), che ha fatto della Cultura
di Andronovo (2.300-1.000 a.C.) –
estesa fra la Siberia Meridionale e l’Asia Centrale – il punto di partenza di
quella indoaria. Spingendosi verso sud
queste popolazioni avrebbero adottato lo stile di vita urbanizzato proprio
della civiltà del cd. C.A.B.M. (‘Complesso
archeologico battriano-margiano’), ingl. B.M.A.C., per insediarsi nel Deccan
definitivamente durante la seconda metà del II millennio. Salvo un passaggio in Mesopotamia di alcune
tribú guerriere
disperse, entrate a far parte del Regno Mitannico verso il 1.700 c. La cultura dello Swāt (delle tombe
del Gandhāra), sorta in Pakistan sulle sponde del fiume omonimo fra
il 1.500 ed il 600, secondo la tesi sviluppata soprattutto dall’archeologa
russa Elena E. Kuz’mina, avrebbe svolto da tramite fra i due periodi. Infatti la ceramica di codesta cultura mostra
affinità con quella centroasiatica del C.A.B.M. (2.200-1.700), nonché
dell’altopiano iranico; oltretutto si sarebbero trovati resti equini in una
tomba, ma sappiamo che dati del genere sono altamente manipolabili, visto che
taluni storici indiani (cfr. ad es. K.C.
Ja., op.cit., p.135) sostengono la
presenza di equini pure nei reperti dell’antica Civiltà dell’Indo (Mohenjodaro,
Lothal, Rana Ghundai). Altri studiosi,
come K.A.R. Kennedy, sottolineerebbero invece un’affinità biologica delle
popolazioni gandhariche con quelle neolitiche.
Il che escluderebbe l’invasione indoaria nei termini suddetti. Di opinione contraria era ovviamente la Kuz’mina, scomparsa nel 2013, la quale
notava affinità antropologiche ed archeologiche coll’Asia Centrale. Questa tesi non rende conto, a ben vedere,
dei rapporti degli Indoari colle altre genti di lingua indoeuropea; a meno di
collegarla colla ‘teoria kurganica della Gimbutas’ (vedi n.seg.), dato che
nelle oasi battriane appaiono i cimiteri a tumulo (kurgan) e le ceramiche sono di tipo-C.A.B.M. oppure di
tipo-Andronovo.
17) Le tesi accademiche sono varie ormai,
il quadro risultando molto cambiato rispetto ai nostri personali riferimenti
nel momento in cui abbiamo iniziato a stendere questo saggio oltre 20 anni fa
(cioè la bibliografia ordinaria in campo indoeuropeistico prima degli Anni
’90); per cui vale la pena d’analizzarle una ad una, sia pur brevemente. Si
scostano dall’opinione delineata nella n.prec., siccome tengono conto di tutto
l’insieme del ceppo indoeuropeo, che da parte nostra – lo ribadiamo per l’ennesima
volta, a scanso d’equivoci – preferiamo continuare a chiamare biblicamente
iaphetico. La piú accreditata
a livello generale è la ‘teoria kurganica’ di M.Gimbutas, teoria che ha
sfruttato gli studi precedenti di O.Schrader e V.G. Childe ed è stata poi ampliata
da altri. Cfr. al riguardo G.Acerbi, Critica alla teoria kurganica- Alle
pendici del Monte Meru (24-05-2017).
18) Cfr. in proposito la Sacra Bibbia coll’imprimatur della Cei a c. di A.Penna, Vol.I, Gen., p.18, comm. in nota a 8.4.
L’autore giustamente identifica l’Ararat
al nome ebraico dell’Armenia, bab. Urartu.
19) Vide
Cap.I, n.114.
20) Tilak (Arc.H., p.31), o meglio le sue fonti, parlavano di 2 tipologie
dolicocefale e di 2 brachicefale, a differenza del Furon.
21) Ibid.
come alla 19.
22) Cfr. G.Acerbi, Le razze da un punto di vista genetico e cosmologico. Un confronto
impari- Alle pendici del Monte Meru (blog,
21-06-17).
23) Naturalmente dal nostro punto di vista
rivelazionista non condividiamo minimamente la tesi, ormai purtroppo
ufficialmente accettata, della deriva delle popolazioni attuali mondiali da
migrazioni provenienti dall’Africa c.100.000 anni or sono (Wikip., s.v.: GENI, POPOLI e LINGUE).
Tutt’al piú, se ridimesionato alle giuste proporzoni, quello può essere stato un
passaggio ciclico intermedio nell’ambito del precedente Manvantara. Facciamo notare
che nessun mito è rimasto al riguardo.
D’altronde l’interdisciplinarietà degli autori sostenenti tale tesi è
limitata alle discipline non tradizionali o, comunque, lontane dal punto di
vista religioso-scritturale.
24) Non è ben chiaro in ambito induistico
quale sia il ruolo veramente giocato dai Ṛṣi e perché mai
siano abbinati cosmologicamente al Kṛtayuga. Una
spiegazione a tale dilemma ce l’offre, guardacaso, la tradizione cinese; ove
delle figure quasi omonime, i Rsi,
fungono da controparte maschile delle Wu. Queste antiche shamane sono da porre in
correlazione coll’Ecumene Orientale, che nelle tradizioni cristiane medievali figurava
quale <Paradiso delle Donne>.
Biblicamente, se ci è consentito, potremmo parlare di <Paradiso
Evaico>.
25) Per quanto datato, lo scrittore marathi
offre ancora notevoli spunti d’interesse.
26) Le scuole di Ṛṣi sono le
scuole brahmaniche. I Brāhmaṇa, come i Ṛṣi e le scritture vediche, hanno infatti
simbolicamente a che fare col Kṛtayuga. Ciò non
significa che tutte codeste categorie citate appartengano realmente a
quell’età, ma certamente non appartengono all’età storica, né a quella
protostorica.
27) Sebbene oggi snobbato dalla cricca
accademica, non a caso lo studioso marathi è stato a suo tempo menzionato da
eminenti personalità del mondo universitario quali Stella Kramrisch. Ciò non va preso a pretesto, viceversa, per
santificarlo e trasformarlo guénonianamente in un autore tradizionale. Gli autori tradizionali non hanno mai
trattato di ‘razza aria’. Tilak è stato
un ottimo scrittore, certamente di
stampo tradizionalista, esattamente come il nostro Evola. Tutto qui.
28) Til., Arc., Cap.XII (pp. 246-51).
Tilak purtroppo ha preso in considerazione le speculazioni letterarie
degli storici della scienza del suo tempo (non che gli altri della seconda metà
del sec. XX abbiano aggiunto molto di piú…), perciò non ha compreso
adeguatamente la suddivisione del Caturyuga
e dei Mahāyuga. Onde – pur
avendo il buonsenso di non pigliar sul serio la data ufficiale d’inizio del Kaliyuga (cioè il 3.102 a.C.) – fa
iniziare il Kṛtayuga c.12.000 anni fa, riducendo alquanto di
conseguenza la durata della Quarta Epoca.
Si è limitato quindi a contrassegnare come “post-glaciale” la fuga degli
Ari dalla loro sede primaria, ritenuta a torto artica, c.10.000 anni fa. Mostra cosí (ibid., Cap.XI, pp. 315-8) d’essersi abbeverato alla dottrina
avestica, senza tener conto opportunamente della sapienza vedica, relegando
peraltro il mito di Manu sullo stesso
piano di quello di Yima; colla scusa
che questi è figlio di Vivanghat e
quegli del quasi omonimo Vivasvat,
come d’altronde il suo doppione Yama, il
quale è non a caso il corrispettivo di Yima.
L’autore non tien conto, disgraziatamente, del fatto che lo Yima avestico zoroastriano non è piú la
figura paradisiaca incarnata dal suo predecessore primordiale d’egual nome; ma,
come insegnavano già i vecchi iranisti, costituisce un riadattamento del
medesimo per ribaltamento di ruolo col tardo Gayomart. Tilak per la
verità riconosce la differenza fra il congelamento riguardante la storia del Vara e l’inondazione di cui è vittima Manu, ma interpreta la parola pralaya normalmente tradotta con
‘diluvio’ nell’accezione inconsueta di ‘neve, gelo’. Certamente il congelamento del primitivo Āryavarta (noi pensiamo fosse la Groenlandia, ma non
vogliamo per nulla vincolare la nostra opera a questa tesi) fu dovuto ad una
fenomenica diluviale precedente, che lo ha determinato quale effetto
indiretto. Vide n.11.
29) Quelle indicate non sono, ovviamente,
le date indicate da Tilak. L’indicazione
astronomica non parte da un punto preciso e perciò si basa sull’approssimazione
cronologica. Il riferimento astrale
invece tien conto non solo degli asterismi lunari, ma pure delle costellazioni
solari e dei pianeti, che fan da pietre miliari nel cammino celeste.
30) La maggior precisione della nostra
datazione rispetto a quella tilakiana è dovuta al fatto che abbiamo basato
l’inizio del calendario lunare sull’inizio effettivo del Kaliyuga (4.480 a.C.), contando
un arco di 720 anni ossia 10° processionali per ogni asterismo, secondo quanto
cripticamente suggerito da Guénon (Form.,
p.39, n.3). Per stabilire il punto
esatto di partenza dei cicli, che Tilak sembra non comprendere pensando che le
antiche osservazioni dei bardi vedici non tenessero conto della matematica e
della geometria (di fatto quindi confondendo astronomia ed astrologia, le quali
invece in India sono sempre rimaste affiancate l’una all’altra nel cd. Jyotiṣa), i grandi
astronomi ed astrologi del passato fino a Keplero poggiavansi sulle Triplicitates; vale a dire i cicli
ventennali di Giove e Saturno, in tutto 108 – il numero non a caso di Śiva – nell’arco
di 2.160 anni ovvero col trascorrere di 30° processionali. Dato che la precessione è unica, per
distinguere fra Zodiaco Solare e Lunare, ad ogni asterismo lunare è stata
assegnata la lunghezza di 13°20’; per cui, ogni grado equivalendo a 72 anni
processionali, 13°20’ corrispondono a 960 anni.
S’intende, degli anni sacrali (basati su 360°), non quelli civili
(basati su 365 gg.). Sicché, essendo l’asterismo
di Mṛgaśiras passato al
Punto Gamma 3°40’ ossia 264 anni prima dell’inizio effettivo del Kaliyuga, la data giusta d’inzio del
Ciclo Orionico sarà il 4.744 a.C. E da
qui, assommando i 960 anni testé citati, si ottiene la durata precessionale degli
altri asterismi a seguire. Logico
pensare che sia questa la data di composizione, con un’approssimazione appunto
di 264 anni, del nucleo fondamentale del Ṛgveda. Non l’attribuisce la Smṛti
(‘Tradizione’) a poco prima dell’inizio del Kaliyuga?
31) Vide
Cap.I, n.38.
32) Pap., op.cit., Intr., pp. 17-66.
33) Pap., cit., §A.8, pp. 27-8.
34) Vide
Cap.I., n.193.
35) Il mito della Liberazione delle Vacche
è passibile d’una interpretazione a
posteriori, in senso ovviamente kaliyughico (in rapporto al P.V. nella
costellazione del Toro), ma la pluralità delle Aurore prova che si trattava in
origine di albe annuali circumpolari e non di quelle giornaliere.
36) Cfr. Cap.III, n.10.
37) Foroneo, il nume oracolare
inventore dei mercati (φόρα), è un
appellativo di Crono (Grav., op.cit.,
§57, p.174, n.1) quale scopritore del fuoco (gr. πῦρ, ingl. fire).
Viene detto anche Pico Feronio, per distinguerlo dal suo successore Zeus
Pico (il figlio, mitologicamente parlando).
I due corrispondono, senza dubbio, a Crono e Zeus. Il ruolo di Foroneo rispetto a Prometeo (Προμηθεύς), rapitore del fuoco celeste, è analogo a quello
vedico di Mātariśvan nei confronti di Agni, ulteriormente sdoppiato in Bhṛgu (da bhrāj = ‘bruciare’). I Bhṛgavaḥ erano sacerdoti che sfregavano tra di loro gli araṇi
(‘bastoncelli di legno’ di Ficus
Religiosa od altra pianta, dal scr. araṇya = ‘foresta, cfr. coll’ingl. fir = ‘abete’), onde ottenere la fiamma. Ad ogni modo, Foroneo non meno di Prometeo
funge da ‘Primo Uomo’ e ‘Primo Re’ (Ker., op.cit.,
Vol.1, Cap.13, pp. 205-6). Entrambi sono
stati trasposti, tuttavia, e riciclati in tematiche post-diluviali; basta
pensare al fatto che Prometeo è figlio del titano Giapeto e padre di
Deucalione, donde discende Elleno. In
tal senso l’Aquila che gli divora il fegato sul Caucaso altro non è che
l’Aquila Celeste, posta presso il Sacro Vaso dell’Acqua di Vita (Aquarius), ai tempi nei quali tramontava
al mattino all’inizio della primavera.
La liberazione da parte di Eracle ha a che fare col punto opposto, il
P.V. in Leone ovviamente. Questo, se non
altro, dimostra che la leggenda biblica dello sbarco in Armenia dopo il Diluvio
Noaico era condiviso dagli Elleni e dalle genti iaphetiche piú in generale;
le quali, superstiti del Diluvio Atlantideo nonché fuggiasche dalla loro patria
primordiale (a poco a poco divenuta inospitale a causa del forte freddo),
chiamavano Noè col nome di Eracle e Iaphet col nome di Giapeto.
38) La triplice natura di Agni non compare quasi mai
nell’iconografia, dove il nume presenta una o due teste, caprine od umane. Cfr. T.A. Gopinatha Rao, Elements of Hindu Iconography- Vol.II, P.II, Cap.XVIII, p.524,
tavv. CII e CIII, fig,2; nella prima scultura in pietra (Travancore, Kaṇḍiyūr, tempio di Śiva) il nume
possiede però 3 Gambe (Tripāda), ma ne ha solo 2 nella seconda, un altorilievo (Cidambaram, tempio di Śiva) in cui il Toro
anziché il prescritto Ariete (dagli āgama)
gli fa da veicolo. Cfr. colla triplicità
di Sūrya, che pure
raramente è effigiato tricipite alla maniera shivaita; ad es. a Bangaon, nel Bundelkhand (V.C.
Srivastava, Sun-worship in Ancient India-
Indological P., Allahabad 1972, Cap.VI, pp. 318-9, inoltre tav.27). Non si tratta d’una trimūrti, ad ogni
modo, diversamente da quel che vorrebbe l’autore rifacendosi ad un art. di
H.Lal in ‘Indian Antquary. Vide n.154. Troviamo un analogo nume solare tricipite di
stile meroitico, con 3 Teste di Leone e 4 Braccia alla maniera indiana, a Naqa
in Nubia; la quale comprendeva il territorio fra l’Egitto Meridionale attuale e
il Sudan Settentrionale, trasformato fra il 2100 a.C. e il 352 d.C. nel Regno
di Kush. Per l’iconografia cfr.
G.Acerbi, Apedemek, il dio-leone nubiano
ed i suoi epigoni egizio-ebraici- Alle pendici del Meru (25-10-17).
39) L’identificazione di Soma con Mṛgaśiras (lett.
‘Testa di Cervo’, cioè Orione) è esplicita nell’iconografia posteriore, avendo
il dio 26 o 27 spose; compresa o meno Rohiṇī (Aldebaràn),
a seconda del riferimento all’antico calendario rigvedico oppure a quello
atharvavedico, di probabile origine babilonese.
In un bassorilievo gupta del V sec. d.C.(Garhwā, Mus. di Lucknow) Rohiṇī è ritratta seduta, assieme a Soma, amorosamente, sulla Falce Lunare;
l’accompagnano, tenendo in mano una corda (il Ṛta), altre 4
femmine. Cfr. al riguardo C.Sivaramamurti,
Rishis in Indian Art and Literature-
Kanak P., N.Delhi 1981, fig.96; anche Ac., op.cit.,
p.606, fig.285. Dall’icona si capisce
chiaramente che l’allusione è, ovviamente, al tempo in cui Orione dominava il
Punto Gamma; ma si riferisce, invero, non tanto alll’asterismo di Orione quanto
alla Luna in Orione. Anche qui comunque
vi è un mito vedico (ix. 86, 24) che collega Soma con Suparṇa, nome del Garuḍa o Garutmat,
secondo J.N. Banerjea (Stut., op.cit.,
s.v. GARUḌA, p.138/ col.b,
n.1) vetusta versione teriomorfica di Āditya
o Viṣṇu. Dato che
il Garuḍa – come d’altronde il Sīmorġ nella
tradizione avestica – identificavasi all’asterismo di Orione in quanto sede
cosmica della Luce, veniva un tempo punito da Indra (Sirio) col Vajra per
il fatto d’aver portato via il Soma (o Amṛta) dal Cielo;
ma il mitologhema celava di per sé un piú recondito senso, avvolto all’Aquila quale παρανατέλλον
dell’Aquario, tale costellazione essendo infatti al Discendente allorchè il
Leone anziché Orione (παρανατέλλον del Toro) trovavasi al Punto Gamma all’inizio del
V Mahāyuga (Grande Anno).
Cfr. n.37.
40) N.Sementovski-Kurilo, Astrologia. Trattato completo
teorico-pratico- Hoepli, Milano 1977, Cap.III n.num., p.83, fig.11. L’immagine è tratta da un testo di Frobenius
& Obermaier, la quale mostra un uro preistorico con un primitivo zodiaco
duodenario dipinto sulla gamba destra posteriore. Da notare che il termine ‘gamba’, e la sua
forma grafica, in certe lingue dravidiche (come il paleo-dravidico) equivale
alla voce che indica il tempo. Cfr. al riguardo A. Parpola, Sanskrit Kāla- «Time», Dravidian Kāl- «Leg» and the Mythical Cow of
the Four Yugas- Ind.T. (Voll. III-IV, 1975-6), Proc. Of the
II World Sanskrit Conf., Torino 9/15-6-1975, Sereno, Torino 1976, pp. 361-78. Cosa ancor piú interessante
è il fatto che sulla gamba destra anteriore compaia il Segno del Leone, come si
deduce dai Segni dell’altra gamba, a
partire dall’Ariete. Solo il Toro ha lo
stesso emblema odierno. Gli altri si
farebbe fatica a riconoscerli se non fossero scritti nel giusto ordine, tranne
l’Aquario (penultimo), contrassegnato celestialmente dal Cerchio (di
Ganimede). La Croce Gammata riportata
sul lato sinistro dell’intera figura, in alto, ha sicuramente valore
solstiziale-equinoziale e non polare.
41) Sement., op.cit.
42) Dakṣa si presenta
con Testa Caprina (Ajamukha) in una
scultura in pietra incorniciata in un’edicola di Āṅgūr (distr. di
Bellary), ritto in piedi accanto alla consorte, crediamo Aditi. Cfr. T.A. Gopinatha
Rao, Elements of Hindu Iconography-
Vol.II, P.I, Cap.IV, §7, p.188, tav.XLV, fig.1; anche in Ac., op.cit., p.595, fig.205.
43) Cfr. A.Tocci, Dizionario di mitologia- Brancato,
Catania 1990, s.v. DIOSCURI, pp. 154/
col.b -6/ col.a.; inoltre (onde visionare il rilievo a tutto tondo del Mus.Arch.
di Napoli, immagine probabile di Castore) A.Morelli, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale- Eli, ediz.
n.cit., p.175, coll. a-b, fig.
n.num.). Vide Cap.I, n.230. Per un
parallelo con gli Aśvina Pap., op.cit., §24, p.43; sennonché questi
interpreta i gemelli divini annunciatori dell’alba, assurdamente, come le due
facce del pianeta Venere all’alba e al tramonto.
44) Ibid come alla 41.
45) Ib.
46) Non
necessariamente un mito della fecondità e della fertilità dipende dai
cambiamenti primaverili, o dalle piogge.
La solare Era dei Gemelli, ad es., era associata ad un altro tipo di
vernalità rispetto a quella dell’Era del Toro; incorporante quali sottoperiodi
i cicli lunari di Orione, Aldebaràn e delle Pleiadi, asterismi definiti
‘portatori di piogge’ (imbrifera) dai
Latini e ‘diluviali’ da parte dei Maya mesoamerindi secondo Cortez.
47) Pap., op.cit.,
§B.43, p.63.
48) Til., The Or., Capp. IV-VI (per Orione), Cap.III (per le Pleiadi). Del passaggio in Aldebaràn si dà conto
soltanto vagamente al Cap.VIII, pp. 220-9 (pp. 233-48 della n.tr.). Ciò per il fatto che la suddivisione proposta
dall’autore parte da Aditi anziché da
Mṛgaśiras, cosa sulla
quale non siamo per nulla d’accordo; per cui la sequenza discussa non è come da
noi suggerito Mṛgaśiras-Rohiṇī-Kṛttikā, ma
piuttosto Aditi-Mṛgaśiras-Kṛttikā. In tal modo i periodi presi in considerazione
diventano periodi astronomici, anziché astrologici, e questo va contro
l’asserzione dei testi che l’astrologia sia nata alla fine del Kṛtayuga. Stando ad essi, non può dunque essere un
fenomeno tardo.
49) Op.cit., Cap.III,
pp. 34-5 (pp. 62-3 della n.tr.).
50) Vedi §a.
51) Per un approfondimento sul tema cfr. Ac., L’Amer., passim; inoltre H.Mriga, I
Tre Figli di Noè e la loro diffusione nel Vecchio Continente– Nel nido del
Simorgh, blog (in prep.), sgg.
52) Il termine significa ‘Terra dei
Mini’ (Ar-Minni) secondo Graves (op.cit., §154, n.12), i Mini non essendo
altro che dei camiti emigrati in Asia in tempi che è difficile stabilire; ma
quel che è piú interessante è che la voce mīn , scr.mīna, in lingua
paleo-dravidica significa ‘pesce’.
Ciò, è ovvio, ha a che fare col fatto che queste popolazioni erano genti
di mare e di fiumi come tutti i Dravidi in generale. L’etimo del loro nome, che significa ‘Figli
dell’Acqua’, lo testimonia. D’altronde i
Mini, stando sempre al Greaves (ibid.),
sarebbero da intendere quali discendenti di Minia, ossia l’equivalente greco
del Mina hindu e del Min egizio.
53) R. Guénon, Il Compagnonaggio e gli Zingari- R.S.T. (gen.-dic., N°54-5), Torino
1981, p.16; ed.or. Le Compagnonnage et
les Bohémiens- Le Voile d’Isis (ott. ’28).
Il luogo preciso di raduno dei Gitani (cfr. coi Sigyýnnai
– o Siginni – di Hēr., Hist.- v. 9), o Zingari Meridionali, è Saintes-Maries-de-la-Mer; c’informa
Guénon che il Marchese di Baroncelli-Javon, nel suo saggio Gli Zingari delle Saintes-Maries-de-la-Mer, parla di costoro come
genti affini ai Pellerossa e perciò d’origine atlantidea. In effetti i Gitani avevano il costume nei
tempi addietro, a quanto ci è tramandato (Ac., L’Is. B.- Simm., N°41, apr. 2016, p.11/ col.b) di dipingersi il volto in maniera simile ai Nativi
americani. È un monaco olandese, certo S.Simeon, a
comunicarcelo nei suoi Itineraria;
egli li descrive come dei “danubiani” non diversi dagl’Indiani, ma stanziati in
Egitto, con tipiche cicatrici nel volto ottenute mediante tatuaggio facciale cum ferro ignito. Segnalato dal Di Nola in AAAA., Enc. d. Rel., Firenze 1970, Vol.VI, s.v.ZINGARI (Religione degli), p.357.
54) Til., op.cit., Cap.VIII, p.234 (p.252 della n.tr.).
55) Per un resoconto generico sul Caturyuga hindu cfr. Ac., Kāl, Vol.I, P.II, Cap.V, p.361ss; per una panoramica piú dettagliata
sugli avvenimenti precessionali all’interno del VII Manvantara (dal 3 Maggio 2000 è cominciato l’VIII) cfr. Ac., Intr., passim.
56) Ibid.
come alla 54, pp. 232-3 (p.251 della n.tr.).
57) Ib.,
p.234 (p.252 della n.tr.).
58) P.232 (p.251 della n.trad.).
59) Volendo adottare la visione astronomica
tilakiana, pre-astrologica ovvero pre-matematica a suo dire (che personalmente
non condividiamo del tutto), si potrebbe considerare un arco di tempo piú generico, ma
le cose non cambierebbero comunque di molto.
60) L’esistenza d’una classe di guerrieri
dediti all’uso del carro da battaglia secondo Parpola (op.cit, p.149/ col.a) è
chiaramente testimoniato nel C.A.B.M. e nel Gurgan. Una statuetta in bronzo delle tombe
saccheggiate battriane mostra addirittura un cavallo con un cavaliere nudo
itifallico. La supposizione del Parpola
è che questa élite della cultura
battriana parlasse una sorta di proto-indoario ed in base agli scavi d’una
troupé francese guidata da J.F. Jarrige in un punto strategicamente importante
della via che conduce dal Baluchistan al Sind i reperti assomigliavano a quelli
della Battriana e della Margiana. Vedi
ad es. le spirali in steatite, molto comuni d’altronde in Asia Centrale. Vi è dunque in Baluchistan testimonianza
d’una continuità culturale tale, rispetto al CABM, per cui si possa sopettare
di un’interazione colla Civiltà della Valle dell’Indo al principio del proprio
aspetto Tardo-harappano. Il movimento
implicato coinciderebbe, anzi, colla disintegrazione di siffatta civiltà. Naturalmente il Parpola fa derivare dall’Asia
Centrale pure coloro ch’egli chiama gli Ari mitannici. Il Saranidi avrebbe trovato un nuovo
argomento per sostenere che Mitanni ed Indoari compositori del Ṛgveda provenivano dalla Battriana e dalla Margiana, il
fatto che essi adorassero entrambi Indra,
il dio della guerra (trasformato da Zoroastro in un demone); siccome sarebbe
stata trovata traccia di Ephedra nei residui di liquidi di alcuni vasi e
l’Ephedra costituirebbe, guardacaso, la pianta tanto cercata dagli indologi che
gli Indoari definivano Soma e gli
Iranari Haoma. Il Parpola parla, non si capisce bene su che
base, di una fusione di 2 distinte tribú attorno all’VIII sec. a.C., con ristrutturazione dei
rispettivi canoni religiosi. Il periodo
coinciderebbe colla trasposizione dal CABM I al CABM. II. Qui la ricostruzione appare un po’ confusa, è
difficile da accettare (ibid.,
p.149/ col.b). Importanti indizi dell’invasione aria (e qui
potremmo essere d’accordo con lui, ma non con la cronologia) il Parpola li
troverebbe nei forti a mura cicolari dalla triplice cinta concentrica (tripura) erette dai Dāsa. Fin al 1976
si è seguita l’ipotesi di Marshall che le città fortificate della
Civiltà dell’Indo sarebbero state tali forti descritti nel Rgveda, ma dal ’76
in poi Rau mostrò che tali forti venivano descritti come semplici ripari in
pietra, non come vere e proprie città.
Il Professore finlandese ha proposto d’identificare codesti forti ai
villaggi fortificati rinvenuti in Battriana e in Margiana. Questi sarebbero stati inoltre i luoghi ove i
Dāsa,
i Dasyu e i Paṇi venivano
collocati anticamente dalle fonti iraniche, greche e latine. Nelle fonti iraniche si nomina un popolo
chiamato Daha (>Dasa) situato a ridosso dei Saka.
Secondo Q. Curzio Rufo e Tolomeo le genti denominate Daha vivevano in Margiana, con essi
concordando anche Pomponio Mela.
Strabone c’informa invece che una delle tribú dei Daha era quella dei Paroi (il Diz. Gemoll, XIII ed.riv., dà in proposito Párioi traducendo ‘Parii’), dal Parpola identificati ai Paṇi. La tradizione di costruire con una triplice
cinta (cfr. coi Celti) è continuata in Battriana sino agli Achemenidi. Il dato
sembra coincidere, al dire sempre del Parpola, con quanto attestato nello Ś.B.-
vi. 3. 3, 24-5. Sappiamo
d’altronde che nella tarda mitologia vedica ed in quella induista i Tripura sono attestati quali dimore
degli Asura, opposte a quelle egli
Dei, ciò valendo sia a livello numinoso che umano. Il Ṛgveda parla
inoltre esplicitamente di centinaia di forti dei Dāsa, mentre gli Ārya detengono accampamenti vicino ai fiumi e si
riscaldano col fuoco. Segno che questi
ultimi erano delle popolazioni disperse, non originarie di quella plaghe. I testimoni vedici tardi confermano
d’altronde che nella battaglia fra Deva
ed Asura all’inizio erano gli Asura (gli adoratori degli Asura) – cioè le genti stanziali in quel territorio – ad avere la meglio
sui Deva (gli adoratori dei Deva), avendo a disposizone le loro
rocche. La qual cosa prova di nuovo che
gli Ari eran di passaggio in Margiana e Battriana. Gli Ari rigvedici descrivono i loro
nemici come ricchi e potenti, dotati di carri e di cavalli, di altro bestiame,
di armi acuminate, di ricchezze varie, oro compreso. Questa descrizione concorderebbe – indica Parpola – colla prima fase del CABM in
Battriana per via delle coppe e delle armi dorate rinvenute e le raffigurazioni
di animali domestici, inclusi gli equini.
La differenza di pelle descritta nel Ṛgveda fra le due
compagini porterebbe alla stessa conclusione, nel senso d’una suddivisione
etnica. Qui viene tracciato l’etimo del
termine Dāsa (ib.,
p.150/ col.b), ma la cosa non ci
convince, sinceramente ci pare forzata. L’intento del
Parpola è di minimizzare le differenze fra Ārya e Dāsa, fra Deva ed Asura,
respingendo la tesi precedente dei Dāsa
e degli Asura come anari. Dopo la fusione fra Deva ed Asura persino Indra, il devarāja per
eccllenza, sarebbe stato definito occasionalmente un Asura. In proposito non vien
citato tuttavia alcun passo da esaminare.
Si sa d’altra parte che il principale asura è Varuṇa, il nume piú importante del Rgveda, sebbene per motivi di attualità
sia ossequiato maggiormente Indra. Il discorso del professore appare piuttosto
ambiguo quando si rifà all’avestico Ahura
quale asura per antonomasia, che
Zoroastro avrebbe ristabilito quale divinità principale, anziché il daeva Indra. Parpola non ha la minima conoscenza di cosa
sia ciclicità, sembra che il fatto di elevare a supremo un dio anziché un altro
sia solo una questione di potere o di convenzione, ma le cose non stanno
affatto cosí. Per la verità ci pare che Ahura abbia nell’Avesta lo stesso ruolo posseduto da Varuṇa nel Ṛgveda e che altrettanto si possa dire di Verethragna
rispetto a Vṛtrahan, cioè di Indra
in quanto uccisore del demone Vṛtra. Invece
sul fatto che i Mitanni venerassero sia Varuṇa che Indra potrebbe aver ragione nell’ipotizzare che
provenissero dalla Battriana e dalla Margiana dopo la fusione dei 2 ceppi, ario
e (diciamo noi, di contro alla sua ipotesi identificativa) uralo-altaico o
turanico che dir si voglia. S’intende,
però, che la provenienza degli Ari in generale non può essere avvenuta
dall’Asia Centrale se non come meta provvisoria. Non bisogna dimenticare che erano iapheti,
checché se ne dica, e che quindi facevano parte del ceppo noaico. Parpola non dichiara esplicitamente da dove
provenissero gli Ari. Ammette
giustamente però, a differenza della Gimbutas, che non possano esser venuti
dall’Asia Centrale se non di passaggio.
Ponendo il quesito di come siano finiti là, indica vagamente la sede
originaria nelle steppe nordasiatiche; è la vecchia tesi del Warren, poi
rabberciata da Tilak. Ed allora, ci si
chiede, perché non cita Tilak direttamente?
Spiega che quest’ipotesi è stata respinta dagli archeologi, i quali non
hanno trovato reperti sufficienti a provare valida la tesi suddetta. Ad es. in Battriana ed in Margiana non è
stata trovata traccia di distruzioni violente, quindi il declino dalla I alla
II fase del CABM deriverebbe da altre cause.
Le vestigia d’una espansione verso sud della Cultura di Andronovo (2300-1000 a.C.) delle steppe
del Kazakistan puntano verso il II mill., onde la cronologia sovietica è stata
sospettata d’essere troppo bassa. I
primi cimiteri in stile Andronovo,
negli Urali Meridionali, risalirebbero infatti al 1600 a.C. Ad ogni modo vi sono collegamenti oggi
riconosciuti, non menzionati al tempo dall’autore, di tale cultura con quella
di Afanasevo (3500-200 a.C.). Da notare che i carri per cavalli, seppelliti
assieme ai proprietari delle bestie da soma nella prima delle due culture
citate, mostrano ruote con 10 raggi ciascuna.
Parpola ritiene possibile un collegamento fra i Mitanni, signori dei
carriaggi nel XVI sec., e simile cultura, siccome i carri vicino orientali disponevano di ruote a soli 4 od 8
raggi. Egli è convinto che i Dāsa siano stati
la casta dominante delle culturea tardo-harappane, ma non ci spiega bene come
costoro fossero finiti in India, se non attraverso la fusione cogli Ārya. L’ipotesi
finale di questo problematico discorso è che quando gli Ari vedici raggiunseo
il Gange si trovarono a combattere contro la tribú ostile e barbara dei Māgadhī, menzionati
nell’Atharvaveda. In conclusione, i Māgadhī
sarebbero
parte della primitiva ondata aria, identificata a quella dei Dāsa. La nostra personale ipotesi è viceversa che i
Dāsa fossero la
classe sacerdotale dei ramaiti pre-ari.
Anche noi in un primo tempo avevamo pensato ad una doppia ondata, sul
modello ellenico, ma se vi è stata a nostro parere non ha avuto nulla a che
fare in ogni caso coi Dāsa, che erano di per sé anari; od in quanto camiti
paleodravidici, o piú probabilmente siccome discendenti di Parashurama
(Perseo) mescolati ad essi.
61) Che anche i testi sacri siano fallibili
in qualche punto è possibile, ciò essendo implicito nel concetto di Tradizione,
siccome distinta proprio per questo dalla Rivelazione. La fallibilità può riguardare ad ogni modo
solo elementi secondari, non quanto concerne il nucleo sostanziale
dell’insegnamento. Per es. il
personaggio di Giuseppe, di cui si narra in Gen.-xxxviii
e poi in xxxix-l ossia a conclusione del libro, a giudizio di taluno (L.
Gardner, Le misteriose origini dei Re del
Graal- Newton, Roma 2000, Cap.17, pp. 188-94; ed.or. Genesis of the Grail Kings- Bantam P., Londra 1999) sarebbe da
ascrivere storicamente a due diversi personaggi; vissuti fra il tempo di
Giacobbe e quello di Mosé, pur rimanendo intatto il senso del racconto. Le
scritture vengono attribuite del resto a delle figure profetiche. Nel caso del Pentateuco a Mosé, cosí come il Corano
è assegnato a Maometto; o nel caso dell’India direttamente alla figura
avatarica di Kṛṣṇa, ma da ciò non ne consegue che essi siano stati
scritti realmente da costoro. Semmai da
un corpo sacerdotale di scribi, il quale ne svolgeva le veci nel tempo di fissazione
su manoscritti di determinate tradizioni orali, facenti capo a quel dato
profeta od avatāra.
62) G.Acerbi, La nozione di ‘Olam’ nella cultura ebraica ed il culto solare
giudaico-cristiano, da Noè ad Hebron– Alle pendici del Monte Meru (16-02-17),
§c sgg.
63) Abbiamo altrove (vide Cap.VI, n.211) spiegato come la suddivisone quaternaria sia,
in ogni tradizione, sempre complementare a quella quinaria. Onde otterremmo la serie quinaria
introducendo la figura di Eva fra Adamo e Caino e correlando cosmograficamente
la prima all’Est, il secondo al Polo, il terzo al Sud. A seguire, Noè all’Ovest e Nimrod al Nord.
64) Equiparando Hevel a Jamadagni
(H.Mriga, Il viaggio degli Adamiti
all’emisfero australe III- Nel nido del Simorgh, blog [18-11-15], §c,
p.17) e facendo di lui il vero padre di Lemek
le cose tornerebbero a posto, d’incanto; poiché, in tal modo la discendenza di Qayin-Vāmana rimarrebbe
in contrapposizione a quella di Hevel-Jamadagni,
esattamente come è descritto nel mito hindu, o piú sinteticamente ma confusamente nella Gen.- iv. 23-4. L’uccisione di Caino in prospettiva biblica è
fattore secondario, proprio come il pentimento dello stesso per l’uccisione di
Abele ed il conseguente utilizzo della meditazione a scopo lenitivo. Gli scritti apocrifi mettono infatti in
chiaro che Caino possedeva un corno di tipo shivaico, equivalente a quello di Ṛṣyaśṛṅga. Cfr. a tal
proposito G.Acerbi, La simbologia
fitomorfica: l’orticoltura nel mito delle origini- V.d.T. (A.XXIII,
Vol.XXIII, gen.-mar., N°89), Palermo 1993,
P.I, pp. 34-5, n.13.
65) Ibid.
come alla 62.
66) Shrī Laṅka (ex-Ceylon)
era abitata fino al I mill. a.C. da stirpi primitive (Emb., op.cit., Cap.13, §II, p.175 ss), delle quali i Vedda sono gli attuali
discendenti. Nel V sec. a.C.
subentrarono coloro che divennero in conseguenza di ciò la principale etnia, i
singalesi, arrivati sull’isola via mare partendo dal Golfo di Cambay. Questi indiani venuti dal nordovest costrinsero gli auctoni a rifugiarsi
all’interno dell’isola, ove dimorano ancor oggi in spazi sempre piú
ristretti. Le cronache singalesi li
chiamano Yakka. A metà del III sec. a.C. giunse il buddhismo,
per merito di Aśoka, ben presto
divenendo la religione dominante. Fin
dal I sec. a.C. la capitale del regno è stata conquistata dall’India dravidica,
che per tutto il I mill. d.C. ha continuato ad invaderlo. Nell’XI sec. è avvenuta, attraverso i Chola,
la penetrazione piú massiccia. La popolazione
austronesiana non ha solo occupato Śrī Laṅka, ma anche le
isole coralline attorno al subcontinente.
67) Accettando l’idea che il subcontinente
si prolungasse piú oltre lungo la dorsale oggi sommersa nell’Oceano Indiano, come vuole
la leggenda, si può immaginare che le genti degli arcipelaghi emergenti in
direzione sud-ovest siano ciò che
perdura tuttora di quella colonizzazione partita dall’India preistorica che la Smṛti attribuisce
al VI Ciclo Avatarico.
68) I Boscimani, nome derivato dall’oland. bosjeman (‘uomo dei boschi’), sono un
ceppo disperso di pelle gialla d’un ramo pigmeo un tempo assai diffuso sino
all’Africa Centrale, che si ricollega preistoricamente a nostro parere ai Negritos dell’Asia Sudorientale. Inutile aggiungere che non siamo minimamente
d’accordo con coloro che han fatto degli Ottentotti e dei Boscimani dei
“pre-camiti“ (quindi affini a paleo-sudanesi e a paleo-etiopici), termine che
avrebbe un senso solamente facendo provenire – come abbiamo fatto noi in questo
libro – il ceppo camitico dalla parte meridionale del Nuovo Continente,
risultando perciò connesso ai cainiti austronesiani colà giunti per via
antartica. Anche i Pigmei africani, che
sono dei Negrilli nei confronti dei
quali è possibile tracciare una linea di parentela coi suddetti Negritos, appartengono
alllo stesso ceppo; difatti venerano Gōr, l’elefante bianco con tratti assai simili a
quelli dell’analogo elefante bianco indiano uscito dal Rimestamento dell’Oceano
di Latte, Airāvata; parallelamente all’India, pure tale pachiderma è
abbinato alle piogge in senso pre-zodiacale (A. di Nola, s.v. PIGMEI, Religione dei, p.1.640; apud AA.VV., Enc.,
Vol.4). Un’ulteriore loro divinità è Tore, il nano cornuto (ibid., p.1641), che egualmente presenta
tratti comuni con certi numi della zona austronesiana. A differenza dei Boscimani, gli Ottentotti
(originati da boscimani ibraditisi coi pastori nilocamitici dell’Africa
Nordorientale) pur appartenendo al medesimo ceppo sono maggiormente evoluti ed
oltre a nutrirsi di tuberi, cipolle selvatiche e radici praticano l’allevamento
(A. di Nola, s.v. OTTENTOTTI, p.1.320
ss; ib.). La differenza nell’Africa sub-nilotica fra
costoro e i Boscimani è simile a quella fra Munda e Vedda in India. Tornando ai Boscimani,
il loro carattere prettamente proto-australoide (sebbene qualcun altro
pretenderebbe di classificarli come mongoloidi) è evidenziato dal culto di Cagn/Kaggen;
un essere supremo dai tratti shivaici, fungente altresí da genio degli animali
e signore della caccia. Prende la forma
di Antilope (H.Pager, The Antilope Cult
of the Prehistoric Hunters of South Africa, p.408; apud AA.VV., Les religions de
la prehistoire- Jaca B., Milano 1975) o di Leone (R.Bosi, I Boscimani del Kalahari- Il Saggiatore,
Milano 1961, P.Ter., Cap.1, pp. 108-9), al pari dello Śiva hindu. Cfr. in proposito G.Acerbi, Mrigeçvara. Ricognizioni
su un’eccezionale icona del tempio di Pâçupatinâtha in Nepâl- Alle
pendici del Monte Meru, blog
(10-05-14), p.8. Osservando
foneticamente il nome Cagn, si può
notare la convergenza fonetica – ma secondo noi è un vero e proprio etimo –
coll’ebr. Qayin; d’altronde la radice
nei due nomi è la medesima (√Cgn = √Qyn), giacché in molte lingue la semicons. -y- è interscambiabile colla
corrispondente palat. -j- o la
corrispondente gutt. -g-. Per un parallelo fra la forma cornuta di Śiva e quella di
Caino vide n.64. A dimostrazione di quanto da noi postulato,
D.Bleck (Bo., ibid., p.114) ha
segnalato dal canto suo le concordanze fra le leggende boscimane riguardanti i
corpi celesti e quelle non dissimili degli aborigeni australiani del
sudest. Nei miti astrali hanno un
particolare posto gli asterismi fungenti da perno al Polo Sud ossia Sirio,
Canopo e la Croce del Sud (A. di Nola, s.v.
BOSCIMANI, §1.b, pp. 1.194-5, apud AA.VV., Enc., Vol.1). Non meno degli
aborigeni australiani, i Boscimani hanno coltivato da millenni l’arte rupestre,
che possiede legami misterici colla pratica venatoria e la magia di
caccia. Tali pitture rocciose sono state
paragonate a quelle dell’area franco-ispano-franco-cantabrica (ibid., §29), ma è logico vi siano delle
somiglianze; l’arte parietale mediterranea è stata influenzata da quella
austronesiana attraverso i secoli, nel corso di migrazioni millenarie delle
quali è rimasta scarsa traccia. Cfr.
Cap.I, n.117. Per quel che riguarda le
origini lontane dei Negrilli centro-africani, a parte la stretta parentela coi
Boscimani e gli Ottentotti dell’Africa Meridionale o i Negritos sudestasiatici, è significativo il
fatto che i Pigmei riconoscano come prima coppia umana (Ntaum e Rae) due esseri
nati da uova di Tartaruga (Wikip., s.v.PIGMEI). Il che colloca tutta la stirpe dei Nani in
diretta corrispondenza col ceppo di bassa statura dei Paleoasiatici. In altre parole, col cd. ‘Ciclo della
Tartaruga’, donde provengono anche gli Uralo-altaici e i popoli di razza gialla
(oceaniani). Si badi bene che le
popolazioni estremo orientali e del sudest asiatico, al di là delle nostre
definizioni attuali di comodo, sono in realtà delle commistioni varie fra il
ceppo turanico e quello polinesiano-melanesiano, in altre parole fra la razza
bianca e la razza gialla. Cfr. il nostro
schema distributivo alla n.17 del Cap.IV.
69) Al riguardo cfr. i Flem-Ath (vedi
Intr., pp. 8-9), i quali non trattano però dell’arrivo dei Cainiti in questa
parte di Antartide, che associano al primo periodo atlantideo e cioè
sostanzialmente alla preistoria dell’America del Sud. Cosa che peraltro
condividiamo, per quanto essi non distinguano erroneamente – nemmeno a livello
cronologico – fra tale prima Atlantide e la seconda, quella
egizio-platonica. Tuttavia la scuola
anglo-americana cui il duo attinge, soprattutto attraverso G.Hancock e
C.Wilson, ha constatato attraverso le effigie umane rappresentate nell’arte
amerinda la presenza di ceppi negroidi.
Forse si sono aggiunti, una volta tracciata quella via, degli esponenti
del ceppo abelita (successivi o meno che fossero rispetto quelli di ceppo cainita); visto che nella
tradizione hindu Parasurāma viene ucciso da Rāmacandra, sempre che
ciò non vada inteso solamente nel senso d’una staffetta avatarica. La questione della Gigantomachia non chiarisce affatto il problema, non comprendendosi
bene se siffatti ‘Giganti’ dai tratti titanico-ofidici siano dei sethiti
ibridatisi ai cainiti e poi ribellatisi, come pretenderebbe la tradizione
ebraica, oppure costituiscano un terzo ceppo.
La tradizione hindu fa di Rāvaṇa l’avversario
di Rāmacandra, ma Rāvaṇa a quale dei due rami appartiene, al ceppo
proto-australoide oppure a quello turano?
O, addirittura, ad uno misto, dovuto alla loro ibridazione? La questione
non è facile da dirimere, anche perché secondo consuetudine l’induismo facendo
dei due personaggi degli eroi locali li colloca entrambi in determinate zone
dell’India. Per chiarimenti ulteriori
sul ramo turano, proveniente dall’Asia Settentrionale, vide infra.
70) Vi è peraltro una tela stampata nella
coll.priv. di A.Daniélou (Id., Śiva e Dioniso- Ubaldini, Roma 1980, fig.13
n.num. a mezzo fra pp. 128-9; ed.or. Shiva
et Dyonisos- Lib. A.Fayard, Parigi 1979) ritraente la scena rituale d’una devī con in
mano il Liṅga mentre accoglie l’offerta sacrificale del Toro da
parte di Śiva. Che si
tratti d’un sacrificio è dimostrato dal fatto che l’intera scena si svolge in
una specie di coppa sacrificale decorata in stile geometrico ed allargata a mo’
di catino, sotto cui vi è un oceano pieno di pesci. La devī è sicuramente la Śakti, avente sul
paredro un ruolo dominante; tant’è che è ritratta in grande seduta in trono,
mentre il deva è piccolo accanto
all’animale sacrificale, di maggiori dimensioni. L’opera proviene dall’India del Sud, ma
l’autore non offre alcuna datazione. Al
toro il Daniélou non dà neppure un nome, seppure a fianco sia posta un
altorilievo di Nandikeśvara, con testa
taurina (Khajurāho, X sec. d.C.).
L’animale al fianco di Śiva è veramente un bovino? Il pizzo sotto il mento, l’espressione della
faccia della bestia, le corna diritte e la coda corta rivolta in avanti la
farebero sembrare piuttosto una capra.
Non è certo un caso, infatti, che in un’analoga scena di due arcaici
sigilli in steatite (H.Mode, L’antica
India- Primato, Roma 1960, p.240, tav.70 supra et infra; ed.or. Das Frühe Indien- Cotta, Stoccarda 1959), compaia quale animale
sacrificale la capra selvativa (markhor).
In un sigillo (sup.) la bestia
è preceduta dalla figura umana per metà inginocchiata, con un ramoscello fra le
corna bovine. Anche la dea ha qualcosa
in mezzo alle corna bovine, parrebbe una gemma, tale da trasformare il
copricapo rituale nell’insieme in un tridente.
Nell’altro sigillo (inf.)
l’ordine di presentazione dell’offerta alla dea è invertito, ma la figura umana
coll’arboscelo fra le corna è poco sagomata e non è ben chiaro il gesto. Avessimo voluto a tutti costi dar la prova di
quanto sostenevamo ossia la probabile presenza di Nandin nell’antica Civiltà dell’Indo, di chiara matrice
paleo-dravidica, avremmo potuto sorvolare sulla distinzione fatta; al contrario
la spiegazione data, pur problematizzando la questione, c’insegna che non c’era
bisogno di un toro sacrificale. Primo,
perché Nandin o Nandikeśvara altri non è che Śiva , che
proprio per questo è cornuto. Con tutto
ciò che comporta il simbolismo delle Corna, cioè il rimando a Kāla ecc. Lo Śiva vetusto quindi non solo era cornuto, ma aveva
corna sia di toro (nelle due immagini analizzate) che di bufalo (ibid., p.237, tav.66, infra); in un singolo caso, si vede una
figura con corna di markhor (ib.,
p.235, tav.64, infra) ed una lunga
protuberanza posteriore, tanto da farne ibrido di tigre. Se il dio colle con corna bufaline è stato
designato come Proto-Shiva, la dea con corna caprine ed appendice retrostante
tigresca la potremmo definire una Proto-Durga.
Le corna di bufalo sono andate scomparendo iconologicamente nei tempi
storici, quelle di toro sono rimaste piú a lungo, per quanto siano andate pure loro
rarefacendosi in epoca moderna. Vedi
tela segnalata dal Daniélou, dove nessuna delle due deità ha le triplici corna
arboree, benché sopravvivano al loro posto il Fallo e la Lancia colla punta a
forma di gemma. La stessa che apparterrà
al figlio Skanda.
71) Vide
Capp. I, n.75, II, n.53 e VII, n.73.
72) Il I ed il II Avatāra sono legati
alla supercasta degli Haṁsa, non hanno a che fare col sacerdozio, che ancora
non esisteva nei primi due cicli. Il
sacerdozio nasce con Varāha, nel III Ciclo Avatarico. Il Verro è stato per questo, da sempre, un
simbolo sacerdotale sia presso gl’Indiani che presso i Celti. Merlino, associato al Cinghiale Bianco, è il
classico esempio a questo proposito di sacerdote archetipico. In India Bhairava,
talora effigiato con Testa di Cinghiale, ci pare abbia funzione analoga. Le Zanne o la Zanna Unica, nel caso di Varāhāvatāra, indicano la
capacità dottrinale di scavare nella realtà per comprenderla a fondo. Narasiṁha, IV avatāra, rappresenta l’altra faccia del sacerdozio ovvero
la capacità d’offrirsi al martirio pur di non venir meno alla propria fede
religiosa. Con Vāmanāvatāra diventa
essenziale il Sacrificio, una prerogativa di per sé aristocratica, come fra i
leggendari Δαίμονες in
Grecia. Paraśu-rāma (prima si
chiamava Rāma secondo una leggenda, che fa risalire la Doppia
Ascia ad un dono di Śiva), VI avatāra, è il frutto d’una reazione sacerdotale alla presa
di potere della classe aristocratica nei Mari del Sud. Tanto è tuttavia il sangue versato in tali
millenni per combattere l’arroganza di quei guerrieri, che lo sresso Paraśu può esser
reputato un appartenente alll’aristocrazia piuttosto che al sacerdozio. La sua origine indiretta è comunque da Brahmā, attraverso Bhṛgu; ecco perché discende dalla famiglia dei Bhārgava, addetta al
fuoco. Vi sono due storie realative a Bhṛgu. Da un lato viene considerato il figlio di Brahmā, dalla cui pelle ha preso vita; dall’altro è
figlio di Varuṇa ed è costui che funge da antenato di Jamadagni, padre di Paraśurāma. Svariate storie collegano il VI avatāra ai Kuru, specie a Karṇa e a Droṇa, ai quali
avrebbe insegnato l’arte di tirar l’arco.
Al di fuori del mito, possiamo intanto constatare che i Kaurava etnicamente discendono da Parśu, questo è il
vero senso dei racconti; perciò, non sono né iapheti né camiti del Ciclo
Eroico, ma piuttosto ramaiti del Ciclo Titanico. Può dirsi la medesina cosa dei Pāṇḍu? No, costoro sono degli ari intendendo il
termine in senso lato, in altre parole dei camiti paleo-dravidici. Dopo la fusione etnoculturale
camito-iaphetica, che ha dato luogo alla formazione del ceppo hindu ed
all’induismo, i tratti assunti dai Pāṇḍava nel Mahābhārata hanno
ricalcato in parte la fisionomia dravidica ed in parte quella aria propriamente
detta (indoaria). Inoltre va specificato
che la discendenza dei Ramaiti dal secondo Bhṛgu, varuniano anziché brahmanico, fa di loro un
ceppo turanico; disceso cioè dal II Ciclo Avatarico, anziché dal I.
73) Vi sono ceppi tribali come i Gond (A. di Nola, s.v. INDIA, Culture arcaiche e anarie dell’, pp. 883-7, §4; apud AA.VV., Enc., Vol.3) che, pur derivando dal primitivo gruppo veddoide,
hanno assimilato la lingua dravidica e la cultura orticola avanzata. In tal modo han potuto conservare, oralmente,
il loro patrimonio mitologico trasmesso per via bardica e sacerdotale. Compresi i dati antropologici, relativi ai
loro rapporti colle altre tribú. Tutti coloro che come costoro hanno subito
una dravidizzazione ed una sanscritizzazione forzata sono caratterizzati da
un’organizzazione familiare di tipo clanico, non hanno suddivisione castale.
74) I Bhīl (Di N., s.v.
cit., pp. 881-3, §2 sgg),
nonostante l’arianizzazione, nelle zone tribali isolate palesano l’antica
cultura venatoria propria dei proto-australoidi; posseggono infatti un
dio-tigre, Vāghdev, con funzioni similari a quelle del dio-leone
boscimano (vide n.68).
75) L’etimo di questo nome è convergente
col lat. viātor (‘viandante’ ), dal vr. vio (‘andare, far strada, camminare’); cfr. col scr.vyādha
(‘cacciatore’), da vyadh (‘colpire’,
ferire’). A nostro giudizio, però, non
si tratta solamente d’una convergenza, ma d’un vero e proprio etimo di sapore
primordiale. Difatti, il vr. vyadh ha come parallelo vyac (‘circondare’), che a sua volta è
una var. di vṛ (id.);
quest’ultima voce deriva dal vr. vī (‘andare’, ma anche ‘afferrare, attaccare, assalire’),
l’equivalente insomma del succitato lat. viāre.
Significativo, peraltro, che nella nostra lingua si trovi come prima
pers.sing. del presente di ‘andare’ la voce ‘vado’ e che il scr.vī giustamente sia collegato (M.Monier-Williams, Sanskrit-English Dictionary Etimologically and Philologically Arranged
with Special Reference to Cognate Indo-European Languages- Munshiram M.,
N.Delhi 1981, p.1004, col.a; ed.or.
Clarendon P., Oxford 1899) col lat. venor
(‘cacciare, dar la caccia’); il quale è secondo noi solo una variante di veneror (‘venerare’, ovvero dar la
caccia in senso erotico), tenendo conto che in tempi lontani la foresta (scr.vana) costituiva lo sfondo naturale sia
della caccia che dell’eros tribalmente inteso.
76) La parola Mūṇḍā , deriva da un termine sanscrito, significa ‘capo di villaggio’ (Di
N., s.v. cit., §9.c, p.903).
77) Stut., op.cit., s.v. PARAŚURĀMA, p.320/ col.b.
78) Di N., s.v. cit., §8.a, p.898.
79) R.Graves
& R.Patai, I miti ebraici-
Longanesi & C., Milano 1980 (ed.or. Hebrew Myths. The Book of Genesis-
Cassell, Londra 1964), Cap.14, p.105.
80) In un nostro art. (Ac., La simb., P.II, p.80) abbiamo indicato
l’quivalenza culturale ed etimologica fra Caino e Crono, nonché fra Abele e
Apollo.
81) Secondo Eschilo (Pe.- lxxix), quando i re persiani invasero la Grecia per
conquistarla reclamarono Perseo quale loro antenato; menzionato da Ker., op.cit., Vol.2, L.pri. Cap.4, p.64.
82) L’Ariete, in questo caso, non ha nulla a che
fare collo Zodiaco, ma semmai colla pastorizia.
83) Il suggerimento è del dott. E.Albrile,
iranista di fama. La mitologia iranica
ha fuso assieme, in maniera quasi inestricabile, la mitologia degli Iranari e
quella dei Turi. Il leggendario Ferēdūn (pahl. e m.pers. Frēdōn, n.pers. Ferēydūn/ Farīdūn, av. Thraētaona) viene descritto (Encyclopaedia Iranica, s.v.FERĒDŪN) come un
titano della dinastia di Āthbiya (scr. Āptya) e corrisponde dunque a Trita Āptya. Entrambi sono vincitori d’un mostro
tricipite: il drago Aži
Dahāka il primo e il demone Viśvarūpa (o Triśiras, figlio di Tvasṭṛ) il secondo.
Thraētaona ha un doppione in Thrita, che come lui prepara il sacro Haoma. Il Drago sconfitto
(vedi Dragone del Nord, la costellazione circumpolare) è stato rinchiuso in una
grotta, in cui è rimasto sino alla ‘Fine del Mondo’ per essere ucciso da Garšāsb. Anche l’Apocalisse giovannea annunciava per lo
stesso periodo la sconfitta del Drago da parte del Cristo del ‘Secondo
Avvento’. In effetti, nel 2000 d.C. vi è
stato un passaggio del perno artico dal Dragone alla Stella Polare, con tutte
le conseguenze che su diversi piani la cosa comportava. Nello Šāh Nāma cotal Ferēdūn vien identificato al figlio di Ābtīn (Āthbiya probabilmente), un discendente di Jamšīd (Yima Kšaēta), il ‘Primo Re’.
Subito dopo l’uccisione del padre da parte di Dahāka, la madre Farānak lo conduce
nella foresta, dove viene allattato dalla vacca Barmāya. Cfr. colla storia di Paraśurāma. Per paura del Drago, non appena il bimbo ha 3
anni, la madre fugge con lui sul M.Alborz.
Non appena giunto ai sedici anni, vendica la morte del padre
sconfiggendo Dahāka, regnante in Gerusalemme (sic!). Un amuleto sasanide
del Mus.Britannico ritrae Ferēdūn, con una mazza
a testa di toro, nell’atto di soggiogare un demone. Questo ritratto palesa il fatto che, non meno
di Abele, il titano persiano era un bovaro ovvero un pastore di vacche. Bisogna ricordare che egli dovette combattere
anche contro i Māzandar, oggi identificati alle popolazioni negroidi
provenienti dai Mari del Sud. Costoro lo
assalirono in seguito nella regione di Khwanērah (av. Khvaniratha), ma
alfine riuscí ad espellerli, tramutandone alcuni in pietra;
infatti l’Avesta gli attribuisce
poteri magici, oltreché medicamentali. Ferēdūn è noto come l’inventore degli antidoti e degli
amuleti. Ha diviso il proprio regno tra
i suoi figli conferendo il Rūm (l’Anatolia e l’Occidente) a Salm, l’Asia Centrale a Tōz (Tur),
la Persia e l’India a Ērez (Iraj).
84) Per tale doppia assimilazione cfr.
H.Mriga, Il Capricorno nel Bene e nel
Male. La simbologia solstiziale dei ‘Tre Figli’ di Adamo, con un’indagine
sull’origine dei culti demonici in rapporto al Cainismo, all’Abelismo e al
Sethismo- Nel nido del Simorgh, blog
(7-02-15), riediz.rived. d’un art. pubbl. in altro blog (Nel Regno Perduto
della…, 22-09-06), pp. 9-10, n.6
85) Nella stesura originaria di codesto
libro vi erano 2 tomi, il secondo dei quali – ancora incompleto – è stato ora
omesso per brevità, in attesa di riciclarlo in una successiva edizione come
libro a sé per motivi editoriali. Il
nuovo titolo dovrebbe essere, a meno di cambiamenti imprevisti, La saga universale del Pesce e del
Pescatore. Esame iconologico e cosmografico degli sviluppi ciclici della
Rivelazione Primordiale. Nei
capitoli vari affrontiamo il percorso del simbolismo ittico, in senso solare
ossia ecumene per ecumene nell’ordine delle 10 Direzioni, attraverso l’intero Manvantara. Abbiamo cosí potuto apprendere – e la cosa è oggidí segnalata in
parte anche da alcuni studiosi indiani – che il
simbolismo avatarico è diffuso in ogni cultura, sennonché ciascuna cultura
giunta al punto del suo massimo sviluppo vi rimane inscindibilmente avviluppata,
entrando in una specie di letargo millenario da cui non riesce mai piú a
risollevarsi. Come se avesse esaurito
definitivamente le sue possibilità di incremento, progresso ed espansione. A meno di apporti da altre ecumeni, che si
risolvono comunque in fenomeni di passività culturale. Per farla breve, le zone artiche e subartiche
comprendono solamente la simbologia del I Avatāra, la Cina unicamente quella del I e del II (gli
altri sono appunto posteriori, presenti solo nominalmente e di marca indiana),
la Polinesia ha invece nozione soltanto dei primi 3. In altre zone del globo, che corrispondono a
periodi ciclici successivi di manifestazione divina, gli avatara intermedi
tendono a disperdersi o ad assommarsi; fermi rimanendo al loro posto, in
genere, il primo od uno dei primi e l’ultimo.
Vale a dire la figura umana divinizzata che ha determinato lo sviluppo
culturale d’una data ecumene e, talvolta, l’avatara od uno degli avatara
immediatamente precedenti. In certe zone
culturali piú sviluppate
del pianeta, viceversa, compaiono tutti o quasi tutti. In nessun luogo come in India, però, il
prospetto avatarico è ugualmente chiaro.
86) Il problema di localizzazione del Narasiṁhāvatāra è di
difficile risoluzione, poiché tale avatara dovrebbe essere correlato dal punto
di vista cosmografico all’ecumene ormai scomparsa del Ciclo Sud-orientale,
situato geograficamente pressappoco in zona pacifica melanesiano-micronesiana;
ma l’identificazione all’animale primario oggetto d’ispirazione iconologica si
è fatta oggi impossibile, dato che non esiste piú attualmente un mammifero
predatore in quelle isole, resti d’un continente inabissatosi in epoca lontana
secondo le narrazioni del luogo. Vedi
mito della pesca delle isole. Si
potrebbe pensare forse alla presenza dello Smilodon, ma per poterlo affermare
con certezza bisognerebbe restituirne i resti archeologici attraverso degli
scavi. Qualche tradizione della
venerazione ancestrale d’un sacro felino, seppur molto dispersa, per la verità
è rimasta e non unicamente in India.
Anche in Africa. Si pensi al
dio-leone boscimano, corrispettivo nel Continente Nero del dio-tigre
veddoide. Boscimani e Vedda sono da
ricollegare, ad esser precisi, al V Ciclo Avatarico; tuttavia è chiaro che le
due divinità alle quali abbiamo fatto cenno, menzionate alle nn. 68 e 74,
risalgono inevitabilmente al ciclo ad esso anteriore.
87) Il sacrificio ai Padri è un culto
guerriero, non sacerdotale, a dimostrazione di quanto dicevasi alla n.72.
88) I Keniti, viceversa, rispetto ai Cainiti
primordiali sono i cultori tardi del Cainismo; al modo come i Sethiani rispetto
agli antichi Sethiti lo sono del Sethismo.
89) Sulle relazioni intercorse fra
Cainiti, Abeliti e Sethiti cfr. Mr.,
art.cit., passim.
90) Hês., Theog., vs.825.
91) Plut., De Is. Et Os.-xxii E.
92) Font., op.cit., Capp. I e V passim.
93) Ac., Sulla q., §4, p.18, n.34.
94) Ac., art.cit., p.19, n.35.
95) Nella Genesi si rinviene soltanto un breve cenno ad essa. Descrizioni maggiormente approfondite si
trovano negli Apocrifi del Vecchio
Testamento.
96) Queste consuetudini oscene nel loro
assieme passano in India per pratiche di tipo tantrico. D’altra parte Shiva, il nume presiedente a
queste, è Kala e cioè Crono; signore dell’orticoltura primitiva, quindi dei
riti di fecondità e di fertilità, dai quali le cerimonie orgiastiche dipendono.
97) Il materiale pre-letterario di cui ha
fruito il testo biblico del Pentateuco,
a mo’ di canovaccio (A.Soggin, Introduzione
all’antico Testamento. Dalle origini alla chiusura del Canone alessandrino-
Paideia, Brescia 1979 [I ed. 1968], P.pri., Cap.VI, §1, pp. 97-9), risale ad un
periodo fra il XIII ed il X sec. a.C.
Donde provenisse siffatto materiale da parte degli studiosi che hanno
elaborato codesta teoria non è ben spiegato, ma ad ogni modo la datazione è
compatibile con il dato di coloro che come noi (inutile aggiungere che altri la
pensano diversamente) ritengono Mosé – il depositario della Rivelazione che fa
capo ad esso, secondo la tradizione tramandata presso la Chiesa e la Sinagoga –
identificabile al Faraone Amenofi IV (Akhenaton, 1.353-1.336 a.C) nell’Egitto
del Nuovo Regno (1.550-1069) ed il fratello Aronne al Reggente (il cugino Smenkh-ara-on, 1.335-1.334 a.C.) della
XVIII dinastia. Quest’ultimo è stato
preceduto brevemente da un’enigmatica sovrana, Neferneferuaton, che si crede sia stata Nefertiti o piú probabilmente Merytaton,
la figlia di Akhenaton e Nefertiti nonché sposa di Smenkhara. Tornando a Mosé,
uno o due secoli ci pare siano sufficienti per la formazione d’una tradizione
orale. La catena di trasmetttitori
degl’insegnamenti mosaici – al dire del Soggin Tōrāh significa appunto ‘insegnamenti’, donde deriva il
senso di ‘Legge’ – è giunta necessariamente sino all’inizio del I mill.
a.C. La tradizione orale aveva a quel
punto raggiunto un certo grado di fissità prima di passare alla redazione
scritta (ibid., §2 sgg).
La cultura epico-religiosa e
letteraria come per altri popoli veniva assicurata in Israele, dopo lo
stanziamento definitivo nel Paese di Canaan, tramite il santuario. Bisogna tener conto, a tal proposito (ib., p.103) che la maggior parte dei
manoscritti andò perduta nei saccheggi e nei roghi che seguirono al doppio
esilio del VI sec. a.C. e del I sec. d.C.
L’attribuzione del Pentateuco
a Mosé è oggi messa in dubbio (P.II, Cap.I sgg),
ma è evidente che la paternità come per le scritture d’altri popoli vada intesa
in senso lato. Un profeta non è né
trasmettitore tradizionale né un autore, è un rivelatore e come tale va inteso
se non si vuole equivocare sul suo messaggio spirituale. A giudizio di J. Astruc (§3, p.130), Mosé si
sarebbe servito di memoriali pre-esistenti per redigere il Libro della Genesi, donde sarebbe sorta la suddivisione fra fonte
yahweista (contrassegnata con Y, o J nel caso in cui si trascriva il Nome
Divino alla latina) e quella elohista (contrassegnata con E). Altri, rispettando la
testé citata ipotesi documentaristica, hanno supposto la riunificazione da
parte del redattore di vari frammenti disomogenei. Anche la teoria frammentaristica è stata
respinta non meno della prima, a favore di una complementaristica, quando H. Ewald
ipotizzò l’esistenza di 2 fonti elohiste.
Piú tardi E. Reuss e J. Wellhausen ordinarono cronologicamente le 3
suddette fonti, ponendo la fonte yahweista (Y)
come la piú antica
(c.X-IX sec.) e a seguire le due elohiste, una (E) di poco posteriore (c.VIII sec.) e l’altra deuteronomica
(abbrev. con D) meno antica (c.VII
sec.). Una quarta fonte, definita
sacerdotale (abbrev. con P),
conterrebbe materiale soprattutto rituale (vedi ad es. la seconda parte dell’Esodo e la prima dei Numeri). Poi, in seguito
alle critiche, anche la fonte P è
stata suddivisa in vari sottocodici (§§ 4 sgg
e 5, p.136). Rimaneva da spiegare come e
dove le 4 fonti fossero nate. H.Gunkel
argomentò, dapprima, che esse erano il prodotto di un’opera redazionale
piuttosto che creativa (§6, p.138); mentre il prof. Cassuto, negli Anni ’30,
formulò “l’ipotesi d’una redazione unitaria avvenuta all’Epoca di Davide o poco
dopo sulla scorta di tradizioni più antiche” (p.139). Stando a tale congettura, la ricerca delle
fonti e la discussione intorno a queste diveniva inutile e persino impossibile. Fra gli Anni ’30 ed il 1945 avvenne una serie
di rivalutazioni della tradizione orale, con gran soddisfazione della Chiesa e
della Sinagoga, ma quest’istanza – già profferita all’inizio della ricerca sul Penatateuco, allorché si imitavano gli
studi omerici, che postulavano la trasmissione dell’opera da parte di un numero
imprecisabile di aedi prima della redazione definitiva del testo scritto –
alfine cadde. Oggi si tende a parlare
solamente di ‘strati tradizionali’, in ossequio all’idea di Traditiongeschichte propria di I.
Engnell (§7 sgg). A nostro modesto parere, senza entrare nel
merito della questione non avendone la dovuta competenza, ci pare che l’ultima
soluzione ora proposta sia quella adeguata; da parte nostra infatti siamo
convinti che anche nel mondo ebraico come altrove debbano esser giunte a grandi
linee 2 forme tradizionali distinte, l’una per cosí dire abelita
(la fonte elohista, forse disgiunta arbitrariamente in doppia forma) e l’altra
noaica (la fonte yahweista). La fonte
sacerdotale potrebbe benissimo essere semplicemente d’origine mosaica. Lo stesso Guénon paragonava la bipartizione
ebraica fra Askenaziti e Sefarditi a quella fra Rom e Sinti e, non a caso,
questi ultimi sono a vicenda leggendariamente discesi a loro dire da Abele e
Noè.
98) Il fatto che la Gigantomachia sia associata all’Asino, simbolo collegato ad un
antico passaggio di Canopo al Polo Antartico (cfr. al riguardo Ac., Il mito del G., p.14, n.27), potrebbe
riallacciarsi ad una presenza assai minoritaria sul suolo
atlantideo-meridionale del ceppo ramaita-lamekita (abelita), meno ancora di
quello cainita. Tanto che scarsa traccia
ha lasciato nella leggenda ed invisibile orma a livello archeologico. Per
quest’ipotesi cfr. Mri., Il Capr.,
p.3. L’Asino infatti non è connesso ai
ramaiti unicamente per via del VI Ciclo Avatarico, ma pure per il II Ciclo
(dalla fine del quale, posteriormente al ‘Rimestamento dell’Oceano di Latte’,
tale ceppo in effetti proviene), quantunque il simbolo sia in seguito passato a
denotare il Cavallo Bianco Unicorne. Pegaso,
il Bianco Cavallo Alato di Perseo, non ne è che una variante, visto che nasce
dalla Testa di Gorgone (Γοργόνειον). Da un
punto di vista cosmologico si rifà a Canopo ed è conforme alla Cavalla delle
profondità oceaniche (Vadabā) di cui
parla la tradizione hindu, nata dal fuoco ascetico (Vadabāgni) di Aurva, nipote di Bhṛgu e bisnonno
di Parśu; da un punto
di vista ontologico invece indica il ‘Settimo Raggio, veicolo verso il Paradiso
Supremo’. Evidentemente, dunque, Pegaso
equivale all’Asino Unicorne e Tripode dell’Avesta. Di solito si mette in relazione alla Cavalla
non l’Unicorno ma il ‘Terzo Occhio’, che potremmo definire per contro il ‘Sesto
Raggio’; il rimando, in questo caso, è solamente al Paradeśa. Occorre
rammentare, onde capire al meglio questo simbolismo alla rovescia, che nel VI
Ciclo avviene il cd. ‘Rovesciamento dei Poli’; fatto da taluni interpretato,
troppo limitatamente, quale fenomeno geo-magnetico.
99) È la
situazione geografica descritta in modo chiaro dal filosofo greco. Platone, per la verità, chiama ‘Atlantide’
solo la grande isola al di qua del continente; ma altri soprattutto in campo
esoterico, durante l’Età Contemporanea, hanno esteso la definizione ad
includere tutte le terre al di là dell’Atlantico.
100) Platone allude, senza mezzi termini, ad
un continente di vaste proporzioni oltre l’Atlantide e facilmente raggiungibile
da isola ad isola. Si deve perciò
presumere che le distanze marittime non fossero quelle attuali.
101) Cfr. Ac., Sulla q., §6, p.28.
102) Secondo qualcuno (Sogg., op.cit., P.sec., Cap.II, p.152)
l’episodio narrativo di Caino ed Abele non sarebbe appartenuto in principio
alle tradizioni leggendarie d’Israele, ma sarebbe stato tratto da un altrove
imprecisato. A nostro giudizio,
comunque, non proverrebbe dalla fonte Y,
bensí dalla E.
Vide n.167.
103) Si analizzino, a titolo esemplificativo,
le caratteristiche dei Camé amerindi nelle tradizioni Maya-quiché. Costoro appartengono alla Seconda Era ed
appaiono, alternativamente, come i ‘Gemelli’; sono caratterizzati dal numero 7,
in evidente rapporto coll’Ebdomade planetario, e da una pratica meditativa
corrispondente di tipo ermetico. Sul
piano comportamentale presentano una tendenza all’orgia ed al cannibalismo,
tipica della Razza Nera. Ciò valga, fra
l’altro, per coloro che negano la sua presenza in America. Come succedeva una volta per l’Elefante, o
meglio il Mammut.
104) Hēr., Hist.- ii. 51, 1. Scrive lo
storico di Alicarnasso (colonia dorica secondo il Càssola rimasta isolata e di
poi ionicizzata) che i Greci “…nel
rappresentare le statue di Ermes col membro virile eretto non hanno imparato
dagli Egizi, bensí dai Pelasgi: per primi furono gli Ateniesi a consolidare tale pratica
e da costoro impararono tutti gli altri.”
Codesti Pelasgi, al dire del Càssola, provenivano dalla Beozia; spiega
Erodoto subito dopo (ibid., 51, 2)
che essi si fusero coi Greci, insegnando loro i Misteri dei Cabiri. Del resto avevano un tempo abitato in Creta
ed anche in altre isole quali Samotracia.
I Pelasgi, riguardo il Fallo eretto di Ermes erano soliti narrare una
sacra leggenda, la quale veniva svelata solamente nei Misteri Cabirici (ib., 4)
105) L’arcaico nome dei Greci era quello di
‘Danai’ (Ker., op.cit., Cap.3, p.49), ma discendenti di Danao erano tutti coloro
che abitavano fra la Grecia e la Libia; i discendenti di Egitto, il gemello di
Danao, quelli stanziati fra l’Egitto e l’Arabia. I due gemelli erano figli di Belo
(equiparabile, filologicamente, ad Apollo), che gl’indiani chiamano Bali o Vali e gli ebrei Hevel o
Hebel. Occorre ricordare che Perseo
è figlio di Danae, la danaide per eccellenza?
106) Per questa equivalenza trinitaria si veda
Ac., art.cit., §3, pp. 9-10.
107) Ci scusiamo per il neologismo, ma non
troviamo altra espressione per designare i discendenti di Perseo-Parashu. Questi primitivi detentori della Doppia
Ascia, praticamente la medesima cosa a livello grafico dello Stemma di Davide
(un tempo assegnato a Seth), sono i veri inventori del simbolo. Cfr. Ac., I
D. Av., p.45/ col.a. Esso appartiene a costoro, i quali sono
identificabili ai primi Lamekiti (il secondo Lamek della Genesi, invece, non è che un discendente od un alter-ego di Seth),
giacché sono stati gli scopritori dei 2 Poli; ed è a causa loro che, a partire
dal VI Ciclo Avatarico, è avvenuta tradizionalmente la cd. ‘inversione dei
Poli’. Cfr. Ac., Il mito del G., p.15, n27.
108) Vedi Cap.VI, §§ a-d.
109) Un quadro risassuntivo del significato
etnoculturale delle tre simboliche figliazioni d’Adamo, che i Germani
denominavano latinamente Mannus (scr.
Manu), vien tracciato in H.Mriga, Il viaggio degli Adamiti verso l’emisfero australe- Nel nido del
Simorgh (blog, ago-dic. 2015), 4 PP.
110) A.K. Coomaraswamy, Khwaja Kadir e la fontana della vita- R.S.T., (lug.-dic., NN 20-1),
Torino 1966, pp. 133-48; ed.or. Khwāja Khadir and the Fountain of Life, in the Tradition of
Persian and Mughal Art- Ars Islamica (I, 1934),
ripubbl. In What is Civilization?-
Oxford U.P., Oxford, Cap.XVII, pp. 157-67).
111) Parjanya,
il <figlio> di Dyaus Pitar (corrispettivo
hindu di Iuppiter ed al ter-ego di Indra nella signoria divina), al pari del suo doppione piú noto è
effigiato dal Toro. Come accade
d’altronde per tutte le deità pluviali dell’area indomediterranea.
112) Ibid.
come alla 108.
113) L.Bonelli (a c. di), Il Corano- U.Hoepli, Milano 1979, p.271, n.1.
114) Abbiamo cercato di dimostrare l’argomento
in alcuni altri nostri scritti precedenti e non ci sembra qui il caso
d’insistervi troppo. Se ciononostante vi
fossero delle obiezioni, potremmo affrontarle in altra occasione. Va chiarito,
ad ogni modo, che la Rivelazione – scr. Śruti, dal s.f. Śri = ‘Luce’;
donde origina il concetto correlato di Śri = ‘Fortuna’, la dea nata dal ‘Rimestamento
primordiale dell’Oceano di Latte’ alla fine del II Ciclo Avatarico – è la sapienza diretta pervenutaci dall’Età
dell’Oro (il Paradiso adamico ed evaico, per cosi dire); la Tradizione la conoscenza
indiretta trasmessaci dall’Età dell’Argento (i 3 <Figli> di Adamo nella
leggenda biblica, allegoria dei 3 cicli argentei). Giano e Saturno costituiscono in tal guisa i
primi due antenati di riferimento nel novero dei “patrî Penati” ( Verg, Aen.- vii. 265-70), i mitici avi
ossequiati dai Latini sotto forma di simboliche verghe, associate ai “santi
fochi” e ai “santi arredi”. Quelle
verghe, con valenze erotiche, altro non erano se non le “sacre effigi” (iii. 260)
della stirpe, o meglio dei loro culti dell’Unità Divina e delle sue ipostasi
cicliche. Per un approfondimento
rimandiamo al nostro art. I Penati,
un’indagine sui misteriosi simulacri recati da Enea nell’«altra Ilio» (in
prep.).
115) Una delle diciassette versioni
popolari – raccolte dal
Pitré – di codesto
personaggio d’una fiaba siciliana omonima che lo ha per protagonista, di
provenienza palermitana, è stata inserita nelle
Fiabe italiane trascritte in lingua da I. Calvino (Einaudi, Torino 1971,
N°147, pp. 602-4; I ed. 1956). Essa
narra la storia d’uno strano tipo che “se stava in mare dal mattino alla sera”
e a cui alfine, per maledizione materna, accade di divenire “mezzo uomo e mezzo
pesce”. Calvino nelle sue Note ci fa sapere che le altre versioni
della leggenda hanno prodotto in passato un’accesa diatriba tra B.Croce, A.Graf
e G.Pitré; informandoci peraltro che la prima menzione di siffatto racconto
compare in R. Jordan, poeta provenzale del XII sec.
116) Cfr. A.Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti- Sellerio, Palermo
1977, App.sec., p.294 ss.
117) Ragionando sul nome del personaggio
siciliano, Nicola Pesce, la Seppilli
(Sepp., op.cit., p.309) dopo averlo
ricondotto alla cultura della Magna Grecia (ibid.,
p.294) e aver desunto (ib., p.310)
che le funzioni di Poseidone sono state ereditate da San Nicola – donde la
menzione dell’uomo di mare col nome di Nichola
de Bar da parte di R. Jordan, trovatore di Tolosa del XII sec. – lo
definisce alfine (ib., pp. 348-9)
giustamente come il prodotto ormai desacralizzato di un complesso
mitico-ritualistico d’un lontano passato.
118) Un altro possibile rimando è ad Odino,
che personalmente abbiamo riportato nell’etimo all’Es-Ētin paleo-siberiano
e nel contempo all’Äjan-Ojan o Od’en mongolo-manciú (Ac., Il culto del N., p.77, n.72). Vi è difatti tutta una serie di vocaboli
elencati dall’antropologa triestina (ibid.
come alla 116, pp. 310-21), che cominciano per nic(k)- ed indicano un antichissimo signore (o mostro) del mare, la
cui etimologia è riportata dall’autrice al Nechtan
celtico e al Neptunus romano. L’appellativo anglosassone di (Old) Nick,
riferito al Diavolo (nel senso dell’Avversario Divino), rientra nella serie.
119) Circa il passaggio da S. Nicola a S. Klaus
ed i legami con Babbo Natale li abbiamo analizzati in 2 nostri articoli: Il doppio volto di Babbo Natale. Father Christmas
e la sua eredità culturale- Alle
pendici del M.Meru (blog, 25-12-2012)
e La vera origine di Babbo Natale-
Alle pendici del M.Meru (blog,
13-10-2015). Una sintesi riveduta e
parecchio ampliata dei 2 scritti è in preparazione in Babbo Natale, i Re Magi e la Befana, dai vecchi prototipi shamanici ad
oggi- Herakles, N°3 (riv. on line,
in prep.).
120)
K.Kerényi, Gli Dei e gli Eroi
della Grecia- Garzanti, Milano 1976 (I ed.it. Il Saggiatore 1963; ed.or. Die Mythologie der Griechen- Rhein-V.,
Zurigo 1955), Vol.1, Cap.6, p.106. Le
fonti da costui citate sono Ath.,
verso 296/b sgg; sc. Ly., verso 811 sgg ed Ov., Met.-
xiii. 151 ss.
121) Grav., op.cit., §90.j, p.277.
122) Op.cit., §90., pp. 278-9, n.7.
123) Sepp., op.cit., passim. Vide,
inoltre, la n.115 di questo capitolo.
124) Ibid. come alla 121. Vedi per una parafrasi ed un commento a tale
versione il Cap.VII, §q.
125) Op. cit., §§ 70, p.207, n.5 e 71, p.209,
n.4. L’autore pare identificare altrove
Melicerte e Talo, alias Tauro o
Tantalo, il secondo dei quali sarebbe da intendere nell’etimo come lo ‘Zoppo’ (ibid.,
§92, pp. 286-7, nn. 1 e 7).
Tutti gli appellativi testé citati non sono che varianti solar-saturnine
di Kálōs-Krónos. Vide
n.129. Cfr. inoltre Ac., Le ‘Caste’ , pp. 23, n.27 e 24-7,
n.29. Uno strano racconto narra d’altra
parte di come Melicerte sia stato gettatto prima in una caldaia d’acqua
bollente e poi nel mare; ma, è credibile si abbia qui a che fare con emblemi
uranico-solari d’antico sapore shamanico.
Sul tema cfr. M.Riemschneider,
Miti pagani e miti cristiani-
Rusconi, Milano 1973 (ed.or. Antiker
Mythos und Mittelalter. Quellen und Parallelen der Gral und Artussagen- Koehler
und Amerang, Lipsia 1967) , Cap.III, pp. 77-80.
L’autrice collega il motivo dell’orcio, da Ullas (dio ittita della vegetazione) a Glauco Melicerte,
coll’inaugurazione o la cessazione dell’Età Aurea.
126) Melkarth (Wikip., s.v. Melkart), secondo quanto indica il nome, era il dio tutelare
della città di Tiro. Come in altre
contrade del mondo, veniva considerato l’antenato della famiglia reale. Era l’equivalente fenicio dell’Heraklês greco e fu venerato in tutte le colonie fenicie:
da Malta alla Sicilia, dalle coste puniche a quelle ispaniche. In una stele siriaca (Amrit, 550 a.C.) è
ritratto infatti ritto su Leone. Benché
nessuna fonte classica connetta in realtà Melkhart
al figlio di Ino, sappiamo che costei era figlia di Cadmo di Tiro. Uno scrittore fenicio (Sanchuniátōn), parafrasato in greco da Filone di Biblo (I-II
sec. d.C.) e citato dal vescovo Eusebio di Cesarea (III-IV sec.) ha descritto
d’altronde Melkhart quale figlio
dell’accadico Hadad, dio della
folgore (coll’Ascia nell’altra mano) ed assimilabile a Zeus. Riguardo l’ebraico Moloch (ibid., s.v. Moloch), legato al
sacrificio canaita dei bambini, va specificato che la tradizione rabbinica
dipingeva tale culto in rapporto ad una statua di bronzo riscaldata (con
fisionomia semiumana) alla base della quale c’era un’apertura in cui venivano
gettati i bimbi in sacrificio. Era
questo nume dal nome grecizzato connesso a Melqart e a Melicerte, come è stato
sostenuto da alcuni? Non si sa con
certezza, qualcuno parla d’un errore assimilativo. Le testimonianze archeologiche e letterarie
provano però che a Cartagine venivano effettivamente compiuti sacrifici di
bambini in onore di Ba’al Hammon (il Crono-Apollo fenicio), probabilmente una
variante rituale di Melkart. Anche
Melicerte, in certo senso, viene sacrificato seppur in forma meno cruenta. Quindi è probabile che una connessione col
<Moloch> cananeo vi fosse davvero, perché tale figura numinosa pur avendo
da un lato una fisionomia divina trattandosi d’un figlio di Hadad, lo Zeus o
Iuppiter mesopotamico, ha serbato nel contempo rudi tratti titanici al modo di
Crono o Saturno. Come d’altro canto si
può rilevare, a ben guardare, pure in Glauco Melicerte. I Fenici per inciso vengono classificati fra
i popoli semitici per via della loro lingua, ma vi è chi afferma siano stati di
ceppo camitico; non meno quindi dei Cananei, che pare fossero d’origine
cretese. E proprio Creta chiude il
nostro cerchio, se si pensa ai sacrifici di giovani che venivano richiesti ad
Atene da parte del mitico Re Minosse
dopo la morte di Androgeo.
127) §71.a-b, p.208.
128) Ac. , Il culto del N., p. 69, n.7 e pp.
73-4, n.48.
129) Cit., §67.a, p.194. L’atlantide figura
anche quale figlia di Enopione, a sua volta prole di Dioniso, ed altrimenti
come madre di Talo; nipote di Dedalo, chiamato anche Calo o Circino, Talo,
Tauro.
130) §67,
p.197, n.2. Il Graves interpreta,
giustamente, l’immane ‘masso’ come il disco solare e la ‘cima del colle’ come
lo zenit della volta celeste.
131) §70.a, p.202.
132) §70.g, p.204.
133) Cfr.
anche Ac., La simb., p.34, n.12.
134) Ibid. come alla 131, inoltre il §70.l, p.205.
135) §63,
p.187, n.2.
136) Ker., op.cit., Cap.5, p.68.
137) Op.cit., Vol.1, Cap.9, pp. 149-50. Sulla natura solare di certa parte del culto
del ’Signore dell’Olimpo’ e su alcune analogie di siffatto culto con quello
d’Issione, diffuso tra Romani ed Etruschi oltreché tra gli Elleni, si veda A.B.
Cook, Zeus. A Study in Ancient Religion-
Biblo & Tannen, N.York 1964 (ed.or. Cambridge 1914-40), Vol.I, Cap.I, §6.a-d, p.186 ss; ed, in particolare, la
sezione riguardante l’iconografia di quest’ultimo personaggio numinoso (ibid., §6.d, pp. 198-211).
138) Co., op.cit., Vol.I, §6.d (i), pp. 204-5 e fig.148.
139) Ker., op.cit., Vol.1, Cap.12, p.179.
140) Op.cit., p.178.
141) Sul
nome Tántalos cfr. n.125 .
142) Ibid.
143) Graves
(op.cit., §108, p.357, n.2)
interpreta la <Pietra> pendente sul capo del titano come “masso
incombente su di lui” e pertanto lo identifica, in tal senso, a Sisifo e non ad
Issione come abbiamo fatto da parte nostra.
144) Ib.
Cfr. Co., op.cit., pp. 296-8.
145) Queste
due figure titaniche andrebbero invero distinte, funzionalmente parlando,
nonostante i loro nomi si applichino nella cultura greco-romana al settimo
pianeta del sistema solare; ma i loro equivalenti indiani (Kāla e Savitar), almeno a livello etimologico,
mostrano viceversa tratti decisamente solari.
Comparati biblicamente Crono e Saturno corrispondono invece a vicenda,
sul piano mitico, al primo e al terzo dei <Figli> di Adamo; i quali,
cosmologicamente, alludono ai 3 Eoni di cui è composta l’Età Argentea. Se talora i due nomi vengono accomunati, è
sol perché appartengono entrambi a tale epoca.
Proprio come Caino e Seth nella Genesi
rappresentano nell’insieme i due estremi della generazione umana prototipica –
la corrispondente generazione divina nella ‘Bibbia’ non è contemplata per via
del monoteismo cui andava soggetto il culto ebraico, a differenza di quelli
pagani, al tempo in cui è stato redatto il sacro testo – in epoca post-adamica, allorché l’uomo
cominciò a dedicarsi all’orticoltura. La
comparazione fra i suddetti nomi divini indiani o greco-latini e quelli umani
prototipici ebraici (Qayin/Kāla/Kalōs >
var. Krónos e Šeth/Savitar/Sāturnus > var. Saviturnus) chiarisce, comunque, che l’onomastica umana e divina è
la stessa; tanto nelle lingue iaphetiche, o indoeuropee che dir si voglia,
quanto in quelle semitiche. Vale del
resto la pena di aggiungere che la terna di nomi alludente al signore
dell’orticoltura ancestrale (nel doppio senso, indicato, umano e divino) fa
riferimento, sia pur velato, al bastone da scavo quale mezzo orticolo
fondamentale; secondo quanto ci tramandano in silenzio alcune arcaiche parole
presenti nelle nostre lingue mediterranee, come il lat. cāla > var. cāia (‘bastone’), gr. κάλως > varr. κάννα (‘canna,
bastone diritto’) e κάμαξ (‘bastone,
cavicchio’). Vero che il gr. Κρόνος significa
‘Cornuto’, ma le Corna erano già in sede preistorica un emblema delle 2 fasi
principali del tempo ciclico; ed è per questo che la voce è apparentata tanto
al termine Χρόνος (‘Tempo’), quanto agli altri vocaboli citati,
aventi un nesso simbolico coll’Asse della Ruota Celeste. Tant’è che Crono, non meno del Saturno
latino, è in Grecia il signore dell’agricoltura. Riguardo l’etimologia di Sāturnus, la faccenda
parrebbe complicarsi, poiché si deve far ricorso al vb. sero (‘coltivare’); ma non si tratta invero che di un sinonimo di colo (id.), connesso all’altra serie piú arcaica di
nomi. Il scr. Kāla è altresì
congiunto al concetto di tempo in senso ciclico, pur essendo affine di per sé
al lat.arc. Càelus (‘Cielo’), che ha
difatti proprio nell’antica lingua indiana un corrispettivo ribaltato
cosmogonicamente in Khala
(‘Terra’). Alla serie andrebbero apparentati
anche da un lato il Kāma indiano, nume che difatti in veste
asurico-tretayughica a differenza di quando è raffigurato col Pesce (in veste kritayughica) od
il Pappagallo (in veste bronzea), ha per effigie una verga o meglio un albero
od un fallo; e dall’altro, l’Hímeros greco. Cfr. a
proposito del primo O’Flah., op.cit.,
Cap.V, §G sgg; sotto forma
di Nathurām, una sua ipostasi in forma di pianta o di
feticcio fallico, Kāma – nato
dall’ardore di Brahma – viene bruciato ritualmente.
146) Agl’iniziati
venivano poste catene o lacci a mani e piedi e fatti camminare a stento per
simboleggiare il dominio sul desiderio, che spinge all’azione.
147)
L’argomento è dibattuto piú diffusamente in G.Acerbi, Kâma-Kâla.
Érôs e Thánatos ovvero il motivo ierogamico- Heliodromos
(Il Cinabro), N.S. (Aut. ’96-Inv. ’97), N°11, Catania 1997, P.I, pp. 47-50,
n.6.
148) Vide n.151.
149) In
altre parole, la suddivisione geometrica dell’Anno Sacro in gradi che è propria
del calcolo astrologico esige dei numeri simbolici, i quali si richiamano ad
una realtà sovramondana. Per contro, la
suddivisione matematica dell’anno civile fa leva sull’aspetto fenomenico ossia
apparente dell’anno; è a questo che s’applica, in sostanza, il calcolo
astronomico. Non si sa quando sia stato
per la prima volta ideato l’anno civile, sicuramente in tempi posteriori a quello
sacrale; ma, anche in mancanza dell’anno astronomico, il calcolo approssimativo
dell’anno astrologico consentiva d’esprimere valutazioni in termini stagionali
accettabili in tempi relativamente limitati.
È lecito
ipotizzare che l’uno sia nato dall’altro per esigenza di perfezionamento matematico
del calcolo, dovuta probabilmente alla mancata corrispondenza stagionale
effettiva a lungo andare dell’inizio annuale.
Ciò ha prodotto involontariamente un allontanamento rituale prima dalla
realtà fenomenica, che pur essendo tale costituiva ad ogni modo uno specchio di
quella ultramondana; e dopo, nel tentativo susseguente di riadattamento del
calcolo, un perdersi in studi tecnici che proprio per la loro alta
specializzazione richiedevano un ulteriore tributo della mente. Siamo lieti che alcuni storici della scienza
(G. de Santillana & H. von Dechend, Il
Mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo- Adelphi,
Milano 1983; ed.or. Hamlet’s Mill. An
Essay on myth and the frame of time- Gambit, Boston 1969, Interm., p.103)
la pensassero in questo campo pressappoco come noi, che pur veniamo da altre
esperienze, se è vero che hanno scritto le seguenti parole a proposito del
fatto che l’astrologia non sia un lascito tardo della cultura umana: “Il
maggior divario tra il pensiero arcaico e quello moderno sta nell’uso
dell’astrologia. Non s’intende con ciò
l’astrologia comune o giudiziaria, oggi ridivenuta capriccio e moda tra il
pubblico ignorante, evasione dalla scienza ufficiale e, per il volgo, un altro
genere di arte occulta dal vasto prestigio ma altrettanto incompresa nei
principi. È necessario risalire ai tempi arcaici, a un universo che non
sospetta minimamente della nostra scienza e del metodo sperimentale su cui essa
è fondata, inconsapevole dell’arte terribile della separazione che distingue il
verificabile dal non verificabile. Era
quello un tempo ricco di un’altra conoscenza di corrispondenze cosmiche che
trovavano riprova e suggello di verità entro uno specifico determinismo, anzi
un ‘sovradeterminismo’, soggetto a forze del tutto prive di ubicazione. Il fascino e il rigore del Numero facevano
obbligo che le corrispondenze fossero esatte in molte forme (in questo senso
Keplero fu l’ultimo dgli arcaici).”
Anche di Newton essi (ibid.,
Introd., p.32) scrivono – riportando uno scritto di J.M. Keines – che egli “…
non fu il primo dell’Età della Ragione, bensì l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei
babilonesi e dei sumeri, l’ultima mente eccelsa che guardò il mondo visibile e
intellettuale con gli stessi occhi di coloro che incominciarono a costruire il
nostro mondo intellettuale un bel po’ meno di diecimila anni fa …” In sostanza i due concepiscono l’astrologia
come una lingua franca del passato, universlmente nota (ib., Conc., p.405).
L’impressione tuttavia, nonostante la giustezza delle loro osservazioni,
è che gli autori tradiscano ancora qualche pregiudizio di tipo scientista nei
confronti di questa scienza od arte che dir si voglia. L’astrologia (scrivendo il termine al
maiuscolo, giacché si tratta di una disciplina ben precisa e non vaga, come si
possa pensare da parte dei profani) comprende vari settori: l’Astrologia
Naturale o Cosmologia e l’Astrologia Giudizaria sono i principali, ma non i
soli, e ciascuno di questi è legittimo.
Del resto è il temine stesso scientia
che, che passando per lo scīre latino, ci riporta all’ a.ingl. ski (‘cielo’). Ma il cielo inteso semplicemente come ‘ombra
(gr. skaia), scr. chaya (id.).
150) Grav., op.cit., §67.e, p.195.
151) Al riguardo
vedi G.Acerbi, La Leggenda del Cervo,
della Cerbiatta e del Cacciatore…- V.d.T. (A.XXI, Vol.XXI, lug.-set. ’91,
N°83), Palermo 1992, pp. 147-56 sgg.
152) Ac., art.cit., pp. 147-8. Cfr. Grav., op.cit.
153) Il Graves (op.cit., §67, pp. 196-7, n.1) lo apparenta al Tešub iittita, dio solare della ‘Quarta Era’ ciclica
(dopo An, Kumarbiš e Ayaš) o della ‘Quinta Era’ (contando pure il primevo Alaluš), scrivendone latinamente il nome in base ad
Esichio; cosí: Sesephus, anziché Sīsyphus, gr.
Σίσυφος. Etimo a
parte, valga o no l’ipotesi del N., il ruolo del titano ellenico ci sembra
correlato piuttosto alla funzione saturnio-solare svolta da Kumarbiš (hur.Kumarbi),
il Crono anatolico. Vi è da ggiungere
tuttavia che Tešub equivale
nell’induismo a Rudra-Śiva; poiché essi
hanno entrambi il Toro per veicolo, di contro alla Leonessa – od al Leone –
sormontato dalle loro paredre, rispettivamente Hepat e Durgā. È inoltre da segnalare che Śiva presiede, in
veste di Kālapuruṣa, tanto all’Età Argentea (in qualità di signore
dei 7 Daitya) come all’Età Ferrea (in
qualità di signore dei 27 Nakṣatra, gli
asterismi lunari).
154) Crono (varr. Calo, Talo, Tauro) in Grecia
è il corrispettivo di Kala in India. Prajāpati è stato
assunto ad aspetto creaturale di Kāla dalla sapienza vedica, ma poiché equivale in
senso argenteo al titano greco Giapeto (pref. pra- a parte), padre di Prometeo ed avo di Elleno (vide n.37), non può esser stata la
figura originaria di riferimento in India di Sisifo; che, ovviamente, è non
solo pre-olimpico ma anche pre-ellenico.
S’intuisce, semmai, che questo ruolo sia stato una volta espletato da Sūrya; il quale,
per via dei suoi 3 volti asurici (vide
n.38) doveva essere di conseguenza l’equivalente sia di Sisifo che di Issione
(var. Atamante) od Elio (varr. Iperione, Salmoneo, Tantalo). Ecco il motivo per cui Sūrya è figlio di Kaśyapa (dal scr. Kaśyapa =
‘Tartaruga), un allonimo di Kūrma, l’avatara del Ciclo Nordorientale. Essendo
Vāyu
il dikpāla (‘signore direzionale’) del Nordest ossia Eolo, il
padre dei 3 Eolidi, si vedrà come i conti tornino perfettamente. Lo stesso Prajāpati è paragonabile a Kaśyapa, dato che si tratta di due varianti della prima
figliolanza divina di Brahmā; l’una discesa
dal ceppo ario, proveniente dal ceppo nordasiatico-orientale attraverso il
percorso iperboreo-atlantideo, e l’altro disceso direttamente dal ceppo
iperboreo-turanico.
155) In Grecia la tematica della ‘Grande Dea’
non era diffusa come in India, seppure la s’intuisca chiaramente dietro le
sembianze della famosa ‘Triplice Dea’ di gravesiana memoria. Fra i Latini si può scorgere forse qualcosa
di piú, non fosse che per l’importanza del culto della ‘Grande Madre’. In ogni caso, neppure in ambiente italico esso
è mai assurto all’importanza che ha sempre avuto viceversa in ambito indiano la
Śakti.
Nonostante la scuola mediterraneista si sia prodigata per dimostrare,
peraltro giustamente, la prevalenza della figura femminile su quella maschile
nelle pratiche religiose pre-indoeuropee.
Il fatto è che la figura maschile nalla pianura indo-gangetica non è mai
apparsa del tutto disgiunta dalla sua controparte di sesso opposto. Mentre, nel Mediterraneo, è accaduto che
l’una fosse praticamente obnubilata dall’altra.
Di qui la mancata assunzione del paredro a ‘Grande Dio’. Riteniamo da parte nostra che, tenuto conto
degl’indubbi ed ormai comprovati rapporti di reciprocità fra il mondo anario
egeo-mediterraneo (pelasgico) e quello anario indo-gangetico (dravidico),
quanto appena rilevato provi l’origine pre-dravidica cioè indigena (il che
significa quasi sicuramente austronesiana) di siffatta concezione. In altre parole, è possibile ipotizzare che
la venerazione della coppia divina Shiva/Shakti costituisca la trasposizione
australe d’una primigenia forma di shamanismo di matrice nord-orientale; di cui
è traccia in tempi preistorici e protostorici da un lato nel wuismo estremo
orientale e dall’altro nello shaktismo mediorientale, di provenienza
proto-australoide.
156) Il nome
di Σαλμ-ων-εύς di primo acchito parrebbe apparentato a quello di
Salm, il terzo figlio del grande
sovrano Thraētaona (Farīdūn), dominante l’Asia Minore e la Grecia. Si può perciò supporre che, oltre al senso
geografico letterale, la terna di nomi pre-iranica ne detenesse uno
titano-solare al modo della doppia triformia greca esaminata.
157) Op.cit., §1542, p.566, n.12. Quantunque altri (A.Penna, Antico Testamento- Utet, Torino 1973,
Vol.II, p.657) interpreti diversamente il testo biblico, traducendo “…convocate
contro di essa i regni di Ararat, di Minni e di Ashkenaz.” In nota, però, si chiarisce che si elencano
tre popolazioni dimoranti in Armenia.
158) Vide n.457.
159) C’è un
quarto Glauco (vedi §f) da non
dimenticare, il cd. ‘Glauco il Giovane’ con padre Bellerofonte; anziché l’aureo
Minosse, l’argenteo Sisifo od il bronzeo Poseidone. Tale Glauco è nipote del cd. ‘Glauco il
Vecchio’ (Ker., op.cit., Vol.2,
L.pri., Cap.8, p.83), secondo Omero figlio di Sisifo e secondo altri di
Atamante, ma la paternità argentea in ogni caso non muta.
160) Vedi
§g.
161) Hom.,
Od.- xi. 791-1.
162) Cfr.
ad es. A. Cantele Maselli (a c. di), Odissea-
Principato, Milano-Messina ?, p.293, n.791.
163) Vedi
Cap.VII.
164)
G.Acerbi, La Fenomenologia
Evoliana- Simm. (ott., N°36), Roma 2014 (booklet on line), p.7, n.17.
165) Vedi Capp. III-IV.
166) Font., op.cit., Cap.XI, p.296.
167) Op.cit., Cap.XIII, p.388. L’equiparazione
fra Perseo ed Apollo implica che – come scrive l’autore – …first Dionysos kills Perseus, then Perseus kills Dionysos… Questo doppio annientamento mitico
ritualmente ambientato a Delfi è simile a quello biblico di Caino che uccide
Abele, ma poi viene ucciso da Lamek.
Qualcuno potrebbe obiettare che Lamek non è Abele. L’obiezione in questo caso sarebbe troppo
semplicistica, dal momento che Abele è paragonabile ad Apollo; e corrispondendo
Apollo a Perseo, secondo quanto appena rilevato, basterà rifarsi al
Parashu-rama hindu per capire che Perseo-Lamek è in realtà un unico nume
frammentatosi in due… analoghe leggende.
Forse non aveva torto Soggin (vide
n.102) quando ha segnalato la non-ebraicità della storia fratricida, che pare
risalire per l’alta arcaicità del contesto ai tempi paleolitici. D’altro canto Caino non è paragonabile solo a
Dioniso, ma anche a Shiva (vide n.64),
il corrispettivo indiano di Dioniso secondo Daniélou et al.
168) Cit., Cap.XII, p.323.
169) Ker., op.cit., Vol.1, Cap.15, p.243.
170) Op.cit., pp. 243-4.
171) In una
statuetta di marmo pompeiana proveniente dalla cd. ‘Casa di Cerere’ (della metà
del I sec. d.C., ma di gusto ellenistico) ed appartenente al Mus.Arch.Naz. di Napoli, la quale è stata
adattata a fontanella da giardino assiene a 3 altre composizioni simmetriche, si assiste invece all’Erote dimenantesi
mentre è a cavalcioni del Delfino; dal fondo del mare, al di sotto del ventre
del cetaceo, il Polpo afferra il Divino Fanciullo per un braccio e riuscirebbe
a trascinarlo nel ‘Fondo delle Acque’ se non intervenisse il pesce salvifico –
che ha denti da mostro del mare – a condurlo via sulla sua groppa. Cfr. in proposito AA.VV., Riscoprire Pompei [Catal. Della Mostra
romana, tenutasi presso il Mus.Capit. fra la fine del 1.993 e l’inizio del ’94] – “L’Erma” di Bretschneider, Roma 1993,
p.228, fig.126, con comm. a p.230.
172) Melicerte fu denominato ‘Palèmone’
allorquando la madre (Ino-Leucotea) fu costretta da Atamante a gettarsi nel
mare con lui per la colpa d’aver lasciato fuggire Frisso ed Elle (figli di
Nefèle, la prima consorte) sul Montone dal Vello d’Oro. Una figura dai simili connotati era l’etrusco
Portuno, signore delle porte nonché dei porti, che a Roma dopo l’ellenizzazione
del culto si confuse con Palemone.
173)
J.Charbonneaux-R.Martin-F.Villard, La
Grecia arcaica (620-480 a.C.) – Rizzoli,
Milano 1969 (ed.or. Grèce arcaïque- Gallimard, Parigi 1968), P.sec., p.106,
fig.116).
174)
Charb.-Mart.-Vill., op.cit.,
p.134, fig.161.
175) Mor., op.cit., tav.V COL a fr. di p.34. Cfr. coll’iconografia di Kāma, che i Greci
designavano col nome di Imero (gr. Ἵμερος =
‘Desiderio’). Vide Cap.I, nn. 246-7.
176) R.
Bianchi Bandinelli, Roma. La fine
dell’arte antica- Rizzoli, Milano 1979 (I ed. 1970, ed.or. Rome. La fin de l’art antique-
Gallimard, Parigi 1970), P.pri., Cap.I, p. 102, fig. 94.
177) R. Bianchi
Bandinelli-A.Giuliano, Etruschi e Italici
prima del dominio di Roma- Rizzoli, Milano 1985 (I ed. 1973; ed.or. Les Etrusques et l’Italie avant Rome-
Gallimard, Parigi 1972), P.qui., p.342, fig.398 (stamnos del IV sec. a.C., da Clusius-Volaterrae).
178)
A.Giuliano, I cammei della
Collezione Medicea del Museo Archeologico di Firenze- De Luca-Leonardo,
Roma-Milano 1989, pp. 166-7, fig.40.
179) I
Giganti, dalle lunghe barbe e dai capelli inanellati, erano insorti per
vendicare i titani, loro fratelli. Sulla
presumibile natura etnica di costoro cfr.
Mri., Il Capr., p.9, n.8;
inoltre, nn. 69 e 98 di questo Capitolo.
180) Questa
versione, diversa da quella succitata esiodea, è tratta da 36.a; il racconto è basato su Pindaro (P.T.- i. 15 ss) ed Igino (Fab.- 152).
181) Bisogna
tener conto, in questo caso, del rovesciamento dei Poli a partire dal VI Ciclo.
182) Ecco il
piú antico Zodiaco solare, a 8 Segni. Vide Capp.I, n.248 e IV, n.4.
183)
Nell’altorilievo ionico del cd. ‘Trono Ludovisi’ (V sec. a.C.),
appartenente al Mus.Naz. delle Terme (Roma), scorgiamo Afrodite Urania
emergente nuda dalle Acque e subito vestita dalle Ore (Mor., op.cit., p.14, fig.n.num.). Cfr. Hom., Hym. in Ven.- 2. 5 ss. Da notare che i fedeli di A.Urania, ad es. a Corinto,
si recavano in pellegrinaggio in un santuario posto sulla cima d’un monte; ove,
ci tramanda Pindaro (framm.107), venivano accolti benevolmente dagli officianti
del tempio. Inutile aggiungere che il
Monte, di per sé, è un rimando all’Età Aurea.
Per questo in Hom., Hym.- v. 1
la dea “che ama il sorriso” è chiamata Afrodite d’oro”.
184)
F.Càssola (a c. di), Inni Omerici-
F.L.V. (A.Mondadori), Milano 1975, p.279.
185) Grav., op.cit., §11.a, pp. 40-1.
186) Personalmente
concordiamo con chi la mette in rapporto col mese di Aprile, dato che il 21 di
codesto mese il Sole entra nel Segno del Toro, domicilio di Venere. Al modo come il 21 marzo entra in Ariete,
domicilio di Marte, che non per niente conferisce il nome al mese.
In tale funzione Afrodite è equiparabile all’omonima figlia di Zeus e di
Dione (Hom., Il.-v. 370), dei delle
sorgenti, ossequiati a Dodona. Cfr.
Ker., op.cit., Cap.4, p.66. Ciononostante va chiarito che la natura vera
della dea è assolutamente pre-olimpica, il che è come dire pre-zodiacale, come
indica chiaramente l’appellativo di ‘Urania’; da Urano, donde anche per
metatesi sillabica deriva quello latino di ‘Venere’ (var. Venilia, paredra di
Giano).
187) Essendo
Cipro un’isola ricca di rame (Cu),
metallo che per la sua rossezza vien di norma associato alla Cipride, è lecito
supporre che sia avvenuto il contrario di quanto in genere si sostiene. Cfr. a tal proposito Til., The Or., Cap.VII, pp. 170-5; inoltre,
per la trad.it. Ac. (a c. di), Or., pp.
187-91 ed, in particolare, p.190, n.****.
Lo scrittore marathi l’apparenta nell’etimo al scr. Śukra (lo
‘Splendente’, da śuc (‘brillare’), il sacerdote in divinis degli Asura (Anari);
venuto in conflitto con Bṛhaspati, il sacerdote dei Deva (Ari).
188) Grav., op.cit., §15, pp. 48-9.
189) Ker., op.cit., p.65.
190)
G.Becatti, Ninfe e divinità
marine. Ricerche mitologiche iconografiche e stilistiche- DeLuca, Roma
1971, §1, p.17, coll. a-b.
191) Bec., op.cit., tavv. I-X. Il reperto delle tavv. I-VI è stato trovato ad
Ostia, nell’iposcenio del Teatro, e risale probabilmente al I sec. d.C. Il reperto acefalo delle tavv. VII-VIII, in
cui è andato perduto il pilastrino sulla destra, proviene invece in parte dalla
Casa dei Triclini di Ostia ed in parte da altri siti (I-II sec. d.C.). Alle tavv. IX-X abbiamo un’altra copia coeva
trovato nello scavo della scena del Teatro.
Le altre tavole riportate nel libro non presentano significative
varianti, tranne la fig.13 della tav.XII, la quale mostra l’erma al posto del
pilastrino (Mus.Chiaramonti, Vatic.).
192) Op.cit., tav.XIV, fig.15 (Mus. del
Prado, Madrid).
193) Cit., tav.XV, fig.16 (coll.priv., Port
Sunlight); opera del II sec. d.C., in cui il Vaso è proporzionalmente di
maggiori dimensioni ed il pilastrino è ridotto quasi ad un cubo.
194) Tav.XX,
figg. 26-8.
195)
Tav.XXIV, figg. 33-4. La mano
destra posa sulla coda eretta del cetaceo, in posizione verticale rovesciata
(II sec. d.C.). Altri esempi alla
tav.XXV, figg.35-6 (rispettivamente al Museo di Vienna e di Saragozza).
196)
Tav.XXVI, figg. 37 e 39 e tav.XXVII, figg. 40-3. La prima proviene dagli scavi presso il Foro
di Dugga e la seconda, rinvenuta in quelli di Minturno, è stata acquistata nel
XIX sec. dal Mus.Arch. di Zagabria.
197)
Tav.XXVIII, fig.44 (Gall.Borghese, Roma).
198)
Tav.XVI, fig.38.
199) §2,
p.25/ col.a.
200) Il
Becatti ci ricorda (p.24, col.b) che
il Delfino contraddistingue oltre alla Venere Marina (o Anfitrite), Poseidone
ed altre figure collegate al mare nelle decorazioni di terme, ninfei, fontane e
giardini. Cfr. a tal proposito nel
riquadro di tipo pittorico d’un mosaico pavimentale di Età Adrianea (Africa
Proconsolare, Mus. di Timgad) la Venere Marina nuda – a parte la gamba sinistra
fasciata dal manto di regina – a fianco di Poseidone in forma di centauro
marino, con Oceano che fa capolino da dietro (riconoscibile per le antenne da
granchio sul capo e la coda serpentina), in B.Band., op.cit., P.sec., Cap.I, §1, p.227, fig.210. In mezzo alle Gambe Equine vi è appunto il
Delfino, sennonché il Becatti dimentica – e bastava osservare attentamente la
sua tav.XXXIII, fig.57 (Bec., ibid.)
– che il Delfino in causa ha denti da orca o da squalo; dato che non è
propriamente il Delfino salvatore dei marinai, tipo quello del musico (= gandharva) Arione, che ci rimanda
all’Età dell’Oro. Cioè, al mito di Manu salvato dal Mahāmatsya. Questo Delfino è piuttosto il Κῆτος, il titanico
‘mostro del mare’ contro cui combatte Perseo, vale a dire un parente stretto
dell’altro animale in chiave ermetica. Cfr.
col Leviatano ebraico.
201)
Charb.-Mart.-Vill., La Gr. cl.,
P.qua., p.344, fig.401.
202) Wikip.,
op.cit., s.v.AFRODITE DI APELLE.
203) Op.cit., s.v.AFRODITE CNIDIA.
204) Bec., op.cit., tav.XXX, figg. 47-50.
205) Wikip.,
op.cit., s.v.VENERE DE’ MEDICI.
206) Ibid. come alla 201, fig.402. La scultura in marmo è attribuita a Scopa, il
maggior rappresentante del Mausoleo di Alicarnasso; l’originale apparterrebbe
infatti alla seconda metà del IV sec., ma gli specialisti in materia sono
scettici, benché Plinio l’additasse come superiore persino a quella di
Prassitele (ib., P.sec., p.224).
207) Ibid. come alla 199.
208) Ib.
209) Ib., col.b.
210)
Charb.-Mart.-Vill., La Gr. arc.,
p.138, fig.167.
211) In una
moneta di Cnido compare l’Afrodite di Prassitele (ibid. come alla 202).
212) Ib. come alla 209.
213)
Tav.XXXI, fig.5; per una scultura analoga ora al Mus. delle Terme di
Roma cfr. Mor., op.cit., a fr. di
p.9, tav.III a sin.
214) Anche
la sensuale tipologia dell’Afrodite Esquilina (rinvenuta a Villa Palombara
sull’Esquilino nel XIX sec.), del I sec. a.C., ha il Vaso col panno. Cfr.
G.Becatti, The Art of Ancient Greece and
Rome. From the Rise of Greece to the Fall of Rome- H.N. Abrams,
N.York-Milano 1967, Cap.VIII, §3, p.257, fig.231.
215) Bec., Ninf., p. 27/ coll. a-b.
216) Op.cit., pp. 25/ col.b e 26/ col.a.
217) Cit., tav.XXX, fig.49.
218) Fig.50.
219) Bec., The Art, fig.230.
220) Bec., Ninf., p. 27/ col.b.
221) J.Cooper, An Illustrated Encyclopaedia of Traditional
Symbols- Thames and Hudson, Londra 1978, pp. 151/ col.a e 152/ col.a.
222) Vano
sarebbe obiettare che i Greci non avevano lo zero matematico. Il Fato, allorché non è considerato il
semplice Destino ma viene posto al di sopra di Zeus, ci rimanda infatti allo
Zero Metafisico ovvero a qualcosa che è al di sopra del Principio della
Creazione, esattamente come la Conchiglia di Venere. Cfr. sul tema Ac., Met., passim.
223) Coop., op.cit., p.128/ coll. a-b.
224) Bec., op.cit., p.28/ col.a.
225) Op.cit., tav.XXXI, fig.53.
226) Cit., tav.controfrontespizio.
227) Ibid. come alla 224.
228) P.28/
col.b.
229)
Tav.XXXVIII, fig. 77-8.
230) P.29/ col.b.
231) P.31/ col.b.
Il Becatti si rifà in ciò ad un saggio di S.Settis, cit. alla n.50,
sull’argomento. La Tartaruga in
questione (ibid., tav.XXXIV, fig.60)
è situata sotto il piede sinistro rialzato di un’Afrodite ellenistica, con Vaso
e Pilastrino, del Mus.Nazionale di Copenaghen.
L’utilizzo della statua come fontana è provato, in questo caso, dal foro
per l’acqua nella bocca del vaso.
232) Cfr.
la copia antica dell’Afrodite con Tartaruga di Fidia, o forse d’altro autore
della seconda metà del V sec. a.C., del Mus.Statale di Berlino
(Charb.-Mart.-Vill., La Gr. cl.,
P.sec., p.163, fig.173). La dea – anche
in tal caso purtroppo acefala – è ivi ricoperta da una veste, modellata con
panneggio, ma non sono presenti accanto a lei altri attributi oltre alla
testuggine; che, in tempi primordiali, doveva evidentemente essere una
testuggine marina.
233) Bec., op.cit., tav.XXXVI, fig.69.
234) Op.cit.,
p.32/ col.a.
235) Pp. 32/
col.b e 33/ col.a.
236) Tav.XXXV,
fig.65.
237) P.33/ coll.
a-b.
238) Tavv.
I-XXIX.
239) Tavv.
XXXII-XXXIII.
240)
Tav.XXXV, fig.66.
241)
Tav.XXXIII, figg. 56-7.
242) P.34/
col.b.
243) Vedi
Cap.III.
244) §6 sgg.
245) Lat. concha (‘conchiglia; perla’), gr. κόγχη (‘conchiglia; scatola cranica’).
246) Stut., op.cit., s.v. ŚAṄKHA 2, p.388/ col.a.
247) Śaṅkha viveva nel
Bianco-celestiale Palazzo (Sabhā) di Varuṇa (Sabhāp.- ix).
248) K.C.
Aryan & S.Aryan, Rural Art of Western Himalayas- Rekha, N.Delhi
1985, p.92, fig.85 (coll.priv. del primo dei 2 autori).
249) Ar. & Ar., p.98, comm.
alla fig.85. Fanno notare i due illustri
studiosi d’arte popolare che ad osservare la scena parrebbe essere Brahmā, benché stranamente nel
foglio miniato (della serie dei Daśāvatāra vishnuiti) si vedano
solo 2 teste. Stesso discorso andrebbe
fatto per il Veda, solitamente
distinto in 4 figure od una figura sola con 4 teste.
250) Stut., op.cit.,
s.v. ŚAṄKHA 1, p.387/ col.b. Per una conferma cfr. Lieb., op.cit., s.v.
ŚAṄKHA, p.253/ col.b-1.
Secondo il Diz. Mon.Williams (op.cit.,
s.v. ŚAṄKU, p.1047/ col.b)
Śaṅkhuneśvara è menzionato nel Mahābhārata quale forma di
Śiva. Śaṅkhu è anche il nome d’un
particolare Liṅga, inoltre Śaṅkha è il nome
del daitya che ha portato il Veda in
fondo all’oceano dopo aver vinto gli Dei (ibid.,
s.v. ŚAṄKHA, p.1047/ col.c).
251) ‘Pene, colonna’.
252) Cit.,
s.v. ŚAṄKU, p.1047/ col.b.
253) Lieb., op.cit.,
s.v. KĀMA(DEVA), p.121/ col.b.
254) Op.cit., s.v. VARUṆA, p.331/ col.a.
255) S.v. PRAJÑAPARAMITĀ, p.225/
coll. a-b.
256) S.v.
VAJRADHARA, p.320/ col.a.
257) L’idea che Dio, ovvero
l’Esistenza-in Sé, sia rappresentabile da un ente singolo è falsa. Il concetto numerale di ‘unità’ deriva dal
verbo ‘unire’, applicato a due enti opposti ma complementari, non
viceversa. La verità è che fin dagli albori del tempo gli esseri umani
si resero conto che dietro le apparenze delle vicende fenomeniche stavano due
forze fondamentali, una maschile e l’altra femminile. Come giustamente insegna taluno (F.D.K,
Bosch, The Golden Germ. An Introduction
to Indian Symbolism- Munshiram M., N.Delhi 1994, Cap.II, p.51 ss; ed.or. Mouton & C.,
’S-Gravenhage), sebbene limitatamente al Ṛgveda, ma potrebbe benissimo
essere riferito anche alla tradizione cinese e a tutte le altre. Spesso il giudeo-cristianesimo, colla scusa
della trascendenza, ha confuso Dio e cioè il Principio della Creazione (o
Manifestazione, che dir si voglia) coll’Avversario Divino. Vedi ad es. i Gesuiti alla corte
dell’Imperatore della Cina, i quali illustrando la natura del dio cristiano ad
una cultura estranea finirono per indicare a lui prossimo quello che per i
cinesi fungeva da equivalente del nostro Diavolo… In altre parole la differenza fra il Λόγος (la ‘Parola’ Divina) ed
il Δημιουργός (semplicemente ’Artefice’ del
Mondo) – come insegnano i Vangelli Apocrifi – dipende dal fatto che l’uno è
accompagnato dalla Sapienza, a lui congiunta come una femmina (Prajña Paramitā significa non a caso
‘Sapienza Suprema’), l’altro vi si oppone in netto contrasto. La lotta fra gli Elementi contrari costituisce la natura del
mondo, oltreché la base della filosofia ionica.
La Quintessenza risolve in unità intellettuale il loro opporsi perenne,
ma solamente l’Unità Divina è la risoluzione finale. Vi è un pricipio tuttavia che la supera, il
principio femmineo nel suo stato immanifesto, principio che il Ṛgveda designa
come Aditi (lett. ‘Illimitata’), in
alternativa a Dakṣa. Oltre rimane unicamente quella che potremmo
definire, insomma, la ‘Grande Unità’ della Non Manifestazione (lo Zero
Metafisico) e del Principio della Manifestazione (l’Unità Divina). Se l’interpretazione dei testi appare talora
difficile (cfr. x. 72, 2-4 e 90, 1 a
titolo di chiarimento) è per la ragione che Aditi
e Dakṣa possono fungere non
soltanto nel senso supremo suddetto, ma anche in un’accezione piú limitata, per cosí dire demiurgica oppure
intermedia fra le due menzionate.
258) Lieb., op.cit.,
ss.vv. CĀMUṆḌĀ/-Ī, p.54/ col.a
e VĀRUṆI-CĀMUṆḌĀ, p.331/
col.b.
259) Des., op.cit.,
Cap.I (n.num.), Intr., p.2.
260) Op.cit., p.3.
261) Cit., §I, p.8.
262) Secondo l’autore
rassomiglierebbe nella forma al Vaso d’Ambrosia (Amṛtaghaṭa).
263) Ibid. come alla 261.
264) Ib.
265) P.6.
266) Stut., op.cit.,
s.v. ĀYUDAPURUṢA, pp. 50/
col.b e 51/ col.a. Cfr.
anche V.R. Mani, The Cult of Weapons. The
Iconography of Āyudha
Puruṣas-
Agam Kala P., Delhi 1985. Quest’autore
scrive (ibid., Cap.1, p.6) che some
works in Sanskrit ascribable to the early centuries of the Christian era make
references to contemporary conceptions of anthropomorphic Āyudhas. Quindi non può trattarsi d’una applicazione tardo-medievale, essendo già
in voga all’inizio dell’era Cristiana. Bhāsa, ad es., riferisce (ib., pp. 6-7) che l’apparizione delle
armi personificate di Viṣṇu – fra di
esse pure il Pāñcayanya Śaṅkha – è avvenuta al tempo
del conflitto fra Vāsudeva (Krishna) e
Duryodhana. Insomma, stando alla datazione tradizionale,
prima dell’inizio del Kaliyuga. Da notare ancora che lo Śaṅkha, cosí come altre armi, è
passato come semplice attributo da Viṣṇu ad un suo āyudapuruṣa quale Sudarśana, la personificazione
del suo Cakra.
267) Nella trad. del Ganguli (op.cit., Vol.II, p.23) abbiamo those princes of all gems al maschile (il soggetto è Śaṅkha and Padma), ma in italiano ‘gemma’ è
femminile e si usa ‘regina’ nella nostra lingua per la comparazione fra gli
oggetti, non ‘principessa’. Il maschile
dell’originale è dovuto al fatto che in effetti il termine Śaṅkha in sanscrito è maschile, onde sebbene Padmā
al contrario sia femminile, prevale concettualmente nell’apposizione il
maschile.
268) Des., op.cit.,
pp. pp. 6-7. Il passo è riportato in
sanscrito per intero a p.20, n.53.
269) Il
nome originale del dio era infatti Ānakadundubhi (Stutl., op.cit., s.v. VASUDEVA, p.475/ col.b), che sicuramente non appartiene alla
sfera linguistica indoeuropea. Affermano
d’altra parte gli Stutley (ibid., s.v. VĀSUDEVA, pp. 475/
col.b e 476/ col.a) che soltanto in un secondo momento l’indigeno Vasudeva (lett.‘Buon Dio’) è stato
identificato al vedico Viṣṇu, generando vari sincretismi; ma noi preferiremmo
dire ‘sincresi’, poiché trattasi di fenomeni religiosi legittimi e tutt’altro
che spuri.
270) Des., op.cit.,
p.14 e fig.12.
271) Gr. Λιμνάς, άδος (‘abitante
del lago, stagno o palude’), var. Λιμνῆτις,
ιδος (id.), voci derivate da λίμνη (‘lago,
stagno, palude’).
272) Toc., op.cit., s.v. NINFE (LE), p.355/ col.a.
273) Mor., op.cit., s.v. MELIADI, p.334/ coll. a-b.
274) V ide §n.
275) Ker., op.cit., Cap.10, pp. 166-8.
276) Op.cit., p.166.
277) Vide Cap.I, n.251.
278) È l’equivalente della Māyā hindu, ma
non la dea tarda richiamantesi alla Settima Pleiade, con Hermes in funzione
orionica. Vide n.prec.
279) Op.cit., pp. 152-3.
280)
Pleonastico segnalare il rimando alla costellazione boreale omonima (Lyra) che ha fatto da perno polare durante
il I Ciclo Avatarico.
281) Ac., Il Druid., p.15, n.3.
282) Vi è
una differenza naturalmente fra tale suddivisione dello spazio, la quale risale
al II Avatāra, e quella propriamente attribuita a Vāmana, il V Avatāra. Quest’ultima infatti comprende un quinto
punto, il Centro, i famosi ‘Tre Passi’ essendo effettuati in verticale.
283) Ibid. come alla 274.
284) Ker., op.cit., p.167.
285) I
Satiri dalla pelle caprina corrispondono in India ai <Figli> di Dakṣa, i Sileni ai Kinnara (uomini dalla testa di cavallo
e corpo umano o viceversa), gr. Κένταυροι.
286) Che la
Conchiglia quale elemento simbolico risalga al II Ciclo Avatarico (il Ciclo del
Nordovest o Ciclo della Tartaruga) è provato, oltretutto, da una leggenda
camciàdala; secondo questo strano racconto, strano ovviamente ai nostri occhi
di civilizzati, il dio supremo Kutka si
era dato alla sodomia dopo che una Conchiglia ch’egli aveva cercato di
violentare lo aveva evirato. In tale
insolito mitologhema (A. di Nola, s.v.SCIAMANESIMO,
§6, p.895; apud AA.VV., Enc.,
Vol.5,) gli specialisti dell’argomento vedono una proiezione sessuale in chiave
religiosa dei Camciadali, parzialmente dediti alla pederastia; ma, al di là di
questo, ogni mito ha sempre un senso cosmologico oltreché ontologico. Benché quello citato sia assai difficile da
interpretare a livelli superiori a quello antropologico, proviamo egualmente a
farlo. Dopo esserci informati sulla
sorte degli antichi abitanti della penisola di Camciatka, dei quali ci rimangono
dopo la russificazione massiccia avvenuta nel XVIII sec. soltanto dei resoconti
di viaggio del Settecento, veniamo a sapere dal Paulson che il nume sunnominato
(trascritto da altri Kutkhu, Kuthku o Kutchu) era il dio creatore nonché salvatore del mondo. E che
identificavasi al Grande Corvo (Kutg)
dei Coriachi, nulla di piú. Vi è
traccia presso altre tribú
paleo-siberiane, tuttavia, d’una disputa cosmica fra un grande uccello ed un
grande crostaceo (gambero o granchio che sia) fungente da divino avversario
allo scopo d’impedire l’atto cosmogonico.
La Storia delle Religioni c’insegna inoltre che l’evirazione è in genere
l’atto di passaggio d’un nume da un culto dominante ad una posizione cultuale
da deus otiosus. Il fatto che a farlo sia la Conchiglia
significa perciò che in posizione dominante da quel momento in poi subentrava
una divinità-femmina, ovvero una concezione femminea del Divino. È ciò che in
effetti tramandano pure la tradizione cinese e quella indiana, nonché la
tradizione greca e (fuor di metafora) quella… giudaico-cristiana attraverso la
leggenda evaica. Il nostro Medioevo
attribuiva del resto ad Alessandro Magno una visita nel cd. ‘Paradiso delle
Donne’, ubicato in Oriente; da identificare, insomma, all’Ecumene Orientale,
dedito non a caso ai piaceri del sesso secondo i testi sacri hindu. Non in senso demonico, ma semmai ‘shakta’. Si
trattava, in sostanza d’uno shaktismo primordiale, verso cui convergono persino
le tradizioni taoiste. Le pratiche
omosessuali potrebbero esser state dunque in principio, come in certi misteri
antichi a noi noti, non il frutto di perversioni tribali; ma semplicemente, al
di là di quel che ne possa pensare la nostra cultura omofoba (o con
atteggiamento esageratamente opposto), un rituale poi degenerato dopo la
perdita dell’originario significato spirituale in costume vizioso.
287) Ibid. come alla 283.
288) M.Bulteau, Le figlie delle acque- Ecig, Genova 1993 (ed.or. Mythologie des files des eaux- Ed. du Rocher,
Monaco 1982), p.97.
289) Bult., op.cit., pp. 97-8.
290) Ker., op.cit.,
pp. 166.
291) Il Monte Ida
era situato dietro Troia, un altro a Creta.
Questo nome ci ricorda Īḍā, la dea vedica dell’abbondanza (anche in veste di
vacca); che a sua volta rimanda ad Ilā, cioè all’Ilāvṛta.
292) La libera
crescita di grandi alberi sulle zone scoscese dei monti ed il rispetto umano
per loro in tempi molto arcaici è testimoniata anche da Platone. Vide
n.3.
293) Ἴλιος ha a che
fare, dal punto di vista etimologico, coll’
Ilā-vṛta; per questo
la città era costruita attorno al sacro boschetto d’un colle, ad immagine
dell’originaria Selva Paradisiaca di cui è memoria presso molte tradizioni.
294) Ibid. come alla 287. Solo una delle nereidi, Centuripe, a volte è
effigiata isolata; cosí appare in una terracotta del II-I sec. a.C., ora
di appartenenza privata, in cui la ninfa è posta anziché su un sauro marino su
un kêtos.
295) Nel
Monumento delle Nereidi a Xanto, in Cilicia (Anatolia Sudoccidentale), fra le
colonne del peristilio d’un tempio ionico dell’inizio del IV sec. a.C. c. se ne
vedono solamente 3 – al modo delle Ninfe delle Sorgenti e dei Fiumi – colla
gamba sinistra sollevata a postulare una corsetta danzante; la ricostruzione di
tale facciata è stata edificata per il Museo Britannico, a Londra. Cfr. al riguardo Charb.- Mart.-Vill., La Gr. cl., P.pri., p.94, fig.98. Inoltre per un ingrandimento di una delle tre
fanciulle velate che danzano, simulanti l’accompagnamento funerario dell’anima
nell’Aldilà, vide ibid., P.sec., p.192, fig.219. Il drappeggio delle loro vesti, sollevate
dietro la schiena dalla mano destra come fosse un velo, le rende oltremodo
impalpabili. Altre volte, come nelle 5
metope del Tempio di Sele, le Nereidi sono effigiate a coppie per ciascuna
metopa; ognuna di esse ha il braccio sinistro alzato e piegato ad angolo retto,
tanto che nell’insieme paiono librare nell’aria al modo delle ombre (Bec., The Art, Cap.III, §12, p.109, fig.95). In numero maggiore appaiono per contro e con
vesti nere da lutto in un idria di stile corinzio recente del c.550 a.C. (Cere,
Etruria; ora al Louvre, Parigi).
Nell’immagine in terracotta (Idem,
La Gr. arc., p.74, fig.79) le Nereidi in atteggiamento mesto attorniano il
corpo disteso di Achille colla destra tesa cerimonialmente in avanti, come
ancor oggi taluni fanno individualmente sulle bare dei morti quale gesto finale
di commiato. Nella parte sottostante del
catafalco compare un Γοργόνειον
leonino, a lingua penzolante; minaccioso per un verso, poiché la morte
è essenzialmente un dramma cosmico, ma rassicurante per altro verso a causa
della connessione del simbolo colla Porta Solare. In una terza raffigurazione del fregio di
stile ionico dell’architrave del tempio di Asso (c.550-525 a.C., anch’essa al
Louvre), nella Troade, osserviamo parimenti varie Nereidi fuggire intanto che Eracle lotta con Tritone
(ibid., p.159, fig.198). La scena, pure in tal caso, è di tipo
antropomorfico.
296) Quando
si ha a che fare non con Tritone, ma con dei Tritoni, la fisionomia tipica di
questi mostri è interamente di sauropodi (o, se vogliamo. di draghi marini) a
parte i lunghi aculei dei quali son dotati sul dorso spiovente e la coda
pescina; come avviene nel mosaico in stile macedone di Olinto (c.400 a.C., in situ), ove si assiste ad una sfilata marina di 2 Nereidi su
Tritoni che, precedute da Tetide, in segno di onore recano le armi ad Achille
piacevolmente seduto nella dimora della Regina dell’Abisso per il lungo riposo
dopo la morte (Charb.-Mart.-Vill., La Gr.
cl., P.ter., p.291, fig.335).
297) Non
molti anni fa è stato rinvenuto al largo del Mar del Giappone un grosso pesce
serpentiforme, masssiccio e d’una lunghezza impressionante; potrebbe esser
stato un tempo maggiormente diffuso nei mari del globo ed aver ispirato, cosí, la versione
serpentina dei Tritoni.
298) Nella
terza rappresentazione cit. alla
n.295, per via del disfacimento parziale del bassorilievo in andesite della
lastra dell’architrave proprio nel punto d’effigie del Tritone, non è possibile
capire quale sia l’aspetto iconografico del mostro. In un altorilievo sul frontone in stile
attico dell’antico tempio di Atena, eretto sull’Acropoli ateniese (c.560-550
a.C., ora al Mus. dell’Acropoli), l’agone fra Eracle e Tritone risulta invece
assai piú chiaro dal
punto di vista iconologico; questa volta il mostro è scolpito con 3 busti
umani, a giustificare il nome, ma con soma ofidico e coda pescina Cfr. col vedico Trita o Trita Āptya (lett. il ‘Terzo – s’intende, forse, nume – sorto
dalle Acque’), av.Thrita, un doppione
di Indra; in altre parole, un dio
dell’Età del Bronzo ed in correlazione colla terza casta, come d’altronde
Plutarco asserisce di Tritone. Infatti
Tritone è, a sua volta, un allotipo di Poseidone. Tant’è vero che in un càntaro ad un’ansa di
stile beotico, decorato a figure nere e con un muso di verro nel becco
(c.525-550 a.C., Mus. del Louvre), troviamo una facies assolutamente inusuale di Poseidone che lo apparenta
strettamente al figlio Tritone. Ivi il
dio mostra, esattamente come lui, corpo serpentiforme e coda pescina
(Charb.-Mart.-Vill., La Gr. arc.,
p.70, fig.75). Il Villard non si
pronuncia sul nome, ma lo riconosce quale dio del mare e non come tritone. Dato che regge il Pesce colla mano destra
potrebbe esser scambiato per Nereo (cfr. n.301), sennonché la Palmetta sulla
sinistra lo distingue nettamente da costui.
Inoltre si notano in contrapposizione zodiacale il Delfino ed il
Granchio, rispettivamente dinanzi e dietro l’ignoto dio del mare, benché la
scena sia mascherata dalla presenza subacquea d’altri delfini che gli fanno
corteo. Questa simbologia in nessun modo
può appartenere a Nereo, che è un nume primordiale e pre-olimpico; appartiene
invece a Poseidone, notoriamente uno dei 3 iddii del Triregnum olimpico e come tale vincolato allo Zodiaco Solare. Anche se, a dire la verità, è probabile vi
sia stato un travaso di attributi dall’uno all’altro. Vi è un ulteriore particolare, notato dal
Villard, che ci fa propendere per la seconda soluzione: l’Occhio in cima
all’ansa del vaso. Codesto emblema è un
attributo non soltanto di Poseidone, ma pure del suo corrispettivo romano,
Nettuno. Vide nn. 31 e 316. Non si
dimentichi a tal riguardo che il detentore per antonomasia dell’Occhio Frontale
in Grecia, ossia Polifemo, è al pari di Tritone un <figlio> di
Poseidone. D’altra parte tanto il dio
ellenico quanto quello corrispondente romano impugnano il Tridente ed il
Tridente era in ambiente greco-latino un contrassegno esoterico delle 3 Vie
ermetiche (di Destra, di Centro e di Sinistra, non meno del Tridente di Śiva in ambiente
indiano.
299) Vide n.296.
300)
Charb.-Mart.-Vill., op.cit.,
P.ter., p.316, fig.362.
301) Abbiamo rinvenuto la raffigurazione on line, in un magnifico sito spagnolo
riccamente illustrato d’anfore attiche a figure rosse (H.V. López, Heracles)
che la pone proprio al §11, dedicato all’Undicesima Fatica. Benché purtroppo
l’autore non fornisca i dati per poter rintracciare la pittura vascolare in
qualche testo ed inquadrarla storicamente e stilisticamente, in questo caso non
ci sono dubbi che il Pesce sia sollevato in aria dal dio del mare, un tempo in
possesso – si tramanda – anche del Tridente di Poseidone. Per un’iconografia un po’ piú ampia di
Nereo cfr. inoltre, sempre on line,
l’art. anonimo di un argentino Nereo, el sabio viejo del mar (blog, 13-02-11).
302) Grav., op.cit., §33, p.114, n.2.
303)
J.Charbonneaux-R.Martin-M.Villard, La
Grecia ellenistica (330-50 a.C.) – Rizzoli, Milano 1978 (Grèce hallénistique- Gallimard, Parigi
1970), P.ter., p.279, fig.300.
304) Grav., op.cit., §133.d-e, pp.
467-8.
305) In un anfora attica a figure rosse (c.490
a.C.) troviamo riuniti tutti e tre i tratti salienti del nume, che presenta per
l’occasione coda di pesce, soma ofidico ed in piú stringe in mano il delfino. Un ulteriore particolare è dato dalle creste
(o pinne, se si vuole) da rettile sulla schiena, al modo di certi Tritoni. Ibid.
come alla 299.
306) Il quadro climatico cosí tracciato
delinea la presenza in tempi pre-zodiacali d’un vetusto calendario stagionale
trimestrale anziché mensile, al quale deve esser subentrato in un periodo
intermedio quello stagionale bimestrale,
ancor oggi in vigore in India.
307) Charb.- Mart.-Vill., La Gr. cl., P.sec., p.108, fig.113.
308) Op.cit.,
p.137, fig.146.
309) Mor., op.cit.,
p.410, fig.n.num.
310) Cit.,
p.154, fig.163.
311) R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere-
Rizzoli, Roma 1976 (Rome, le centre du pouvoir-
Gallimard, Parigi 1969), Cap.6, p.334.
312) B.Band., op.cit., Cap.3, p.156, fig.165.
È una moneta del tempo di Ottaviano, cioè della Fine del I sec. a.C.
313) Cit.,
p.334, fig.376
314) Ibid.
come alla 311.
315) Vide
n.301.
316) La vicenda narrata in Hom., Od.- ix. 463-566 interpretata dal punto
di vista esoterico indica che Ulisse (cioè l’iniziato) ha percorso gl’Inferi ed
ha incontrato Πολύφημος (lett.’Molto
famoso’), il Kakodaímōn per eccellenza, il quale alla maniera dell’Orco
delle fiabe ha tentato di divorarlo assieme ai suoi 12 compagni (fatto notato
in Grav., op.cit., §170, p.679, n.3);
ma egli è alfine riuscito a fuggire dall’Antro della Morte (ibid.) tramite l’Ariete, il segno
zodiacale dell’inizio della primavera, in altre parole un simbolo dei Misteri
Minori in senso eleusino. D’altronde
l’Occhio Ciclopico, secondo quanto dimostrato dal Cook (ib.), era in Grecia un contrassegno dell’Occhio Solare e quindi
l’Ariete fungeva al tempo di Omero da Axis
Mundi dal punto di vista vernale. La
fuga di Ulisse-Nessuno (il ‘Tredicesimo Compagno’ = il nuovo ’Ariete’ ossia
l’Agnello d’Oro, in senso pre-cristiano) dal nume monocolo può dunque esser
interpretata come un ratto dell’Occhio Frontale, di cui l’eroe s’impadronisce,
secondo quanto avviene difatti in certe narrazioni islamiche di probabile
origine indiana. Al riguardo il Graves
menziona, in parallelo, l’uso degli antichi fabbri-antenati della Sicilia
preistorica di tatuarsi un occhio in mezzo alla fronte quale emblema del
clan.
317) G.Acerbi, Il mito del Gokarna e il drammatico agone fra Perseo e Medusa- Alle
pendici del Monte Meru (blog,17-01-13),
passsim.
318) Vide
n.105.
319) Μέδουσα infatti significa ‘Sovrana’’, essendo il
femminile di Μέδων (‘Sovrano’),
uno dei termini coi quali si designava in Grecia il signore del mare (op.cit., p.51): ἁλός–μέδων (‘dominatore del mare’), ποντο–μέδων (‘id.), ἑυρυ–μέδων (lett. ‘dall’ampio dominio’).
320) Ker., op.cit.,
Cap.3, p.52.
321) Cfr. n.200.
322) B.Band., Roma. La f., p.viii, fig.1.
323) Cfr. §l.
324) Vide
n.176. In un’altra simile immagine
di Venere su Conchiglia sorretta da Tritoni (op.cit., P.pri., Cap.I, pp. 100-1, figg. 92-3), in questo caso
seduta in atto di pettinarsi piuttosto che distesa su di essa, non ci sono
Delfini e i 2 Amorini Alati che la fiancheggiano mirandola con doni di
prosperità stanno in piedi sulla schiena dei Tritoni; ritratti secondo la moda
romana in forma metà semiumana metà semiequina sul davanti, con 2 mani e 2
gambe, e coda di lungo serpente sul retro.
Si tratta del coperchio della cassetta nuziale di Secundus e Proiecta
(IV sec. d.C., Mus.Britannico, Londra), rinvenuta nel XVIII sec.
sull’Esquilino; in tale iconografia, è bene sottolinearlo, convivono elementi
pagani con elementi cristiani. Codesto
motivo iconologico, c’informa inoltre il Bianchi Bandinelli (ibid., p.102), lo si ritova ”in numerose
argenterie e si ripete con frequenza nei mosaici del IV secolo in Tunisia e in
Algeria.”
325) B.Band., Roma. L’art., Cap.2, pp .52-3, figg.51-2. Per una migliore illustrazione vedi Bec., op.cit., Cap.X, p.304, fig.280.
326) Cfr. §§ h e l.
327) Non è facile capire il mitologhema della
pazzia di Atamante ed Ino. Da parte
nostra proviamo a dare una spiegazione a livello cosmologico, altre di diverso
tipo essendo ad essa naturalmente correlate.
La si prenda comunque, da parte del lettore, con beneficio
d’inventario. La pazzia di
Atamante-Issione, il titano solare, è chiaramente riferibile alla presenza
annuale del Sole in Orione per via del sacrificio di Learco in forma di
<bianco cervo>. Probabilmente si
tratta d’un tema vetusto, riadattato poi al calendario lunare dell’Età del
Ferro, ossia della Grecia neolitica.
D’un simile calendario poco ci è giunto, per la verità, ma il mitema può
esser interpretato anche in relazione all’Età del Toro; vale a dire, se si
prende in considerazione il calendario solare, essendo Orione un paranatéllon della costellazione del
Toro è evidente che l’uccisione del cervo equivale ad un sacrificio
taurino. Stabilito questo punto
indiscutibile, proviamo ad analizzare il resto, assai piú
problematico. Atamante prima
d’innamorarsi di Ino su ingiunzione di Era aveva sposato Neféle, ma costei non
era altro che “un fantasma creato da Zeus a somiglianza di Era” (Grav., op.cit., p.202, §70.a). Subito l’oltraggio da
parte di Atamante, che essendosi congiunto ad Ino aveva avuto dalla dea 2
figli, Neféle era salita furibonda all’Olimpo e si era rivolta direttamente
alla Regina degli Dei. Hera le aveva
promesso vendetta, vendetta che sarebbe ricaduta sul marito; sennonché la
rivale Ino aveva tramato in modo da provocare una carestia di grano, tale da
costringere Atamante a rivolgersi all’oracolo delfico, opportunamente corrotto
per fare gl’interessi della seconda moglie.
Il messaggio oracolare era stato infatti di sacrificare Frisso ed Elle,
onde permettere alla terra di tornare fertile (ibid., p.203, §70.b-c). Mentre il padre piangente era in procinto di
compiere il gesto sacrificale sulla cima dell’Olimpo, Eracle trovatosi per caso
da quelle parti (sic!) gli sottrasse
il coltello. Presto arrivò in volo un
aureo ariete, inviato da Hera mediante Hermes (oppure inviato da Neféle avendolo
ricevuto da Hera), e condusse sulla sua celeste groppa i due giovani fino alla
Colchide; Elle (lett. ‘Cerbiatta’, con riferimento chiaro ad Aldebaràn, la
‘Settima Pleiade’) presa da vertigine cadde sullo stretto che da lei prese
nome, l’Ellesponto (attuali Dardanelli, separanti l’Europa dall’Asia). Arrivato a destinazione Frisso sacrificò
l’animale a Zeus Liberatore (ibid.,
§70.d-e) e mise il Vello d’Oro nel
tempio di Ares (ib. §70.l), di cui il ‘riccioluto’ giovane (Φρίξος, da φρίσσω =
‘arricciarsi’) altro non era a nostro giudizio che una parziale
incarnazione. Inutile aggiungere che
l’Aureo Ariete ed il Vello d’Oro rimandano alla successiva Età dell’Ariete, che
anche i Sumeri e i Babilonesi veneravano in maniera piú o meno
simile. Circa la divina nascita di
codesto animale vide n.343. In ultimo rimane da spiegare il rapporto fra
Leucotea, Melicerte e il Delfino. Forse
abbiamo a che fare pure in questo caso col passaggio vernale da una
costellazione all’altra, cioè dall’Ariete ai Pesci, se è vero che il delfino
veniva considerato dagli antichi simbolicamente un pesce. Ma è piú logico considerare un rapporto colla
costellazione omonima del Delphinus,
corrispondente al Capricorno (cioè al Solstizio Invernale), che nella Via
Mediana rappresentava i ‘Misteri Minori’.
Diversamente da quanto sosteneva Guénon, il quale sull’argomento ha
fatto un po’ di confusione a causa della sua non perfetta conoscenza
dell’Astrologia. Ciò infatti valeva
durante l’Età dell’Ariete (2320-160 a.C.) sia da un punto di vista tropicale
che siderale.
328) Mor., op.cit.,
s.v. INO, p.286/ col.a.
329) I grecisti fanno di Σεμέλη un nome
della dea ctonia, ponendolo in corrispondenza col lit.žēmė (‘terra’),
a.sl. zemlja (id.). Cfr. al riguardo G.Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano- R.Sandron,
Palermo-Milano 1922 (ed.or. F.Tempsky-G.Freytag, Vienna-Lipsia 1908), s.v.SEMÉLĒ, p.720/ col.a.
330) Vide
n.172.
331) Bec., Ninf.,
§3 sgg.
332) Non sappiamo esattamente, dato che non
abbiamo avuto modo di consultare il testo, a quale dei 3 Filostrati di Lemno si
riferisca l’autore. Di certo non a
Filostrato «l’Ateniese», autore delle Vite
dei sofisti; forse a suo genero, il Filostrato «di Lemno» propriamente detto, che ha
scritto le sue 65 Immagini ispirandosi
ai supposti 65 quadri d’una villa napoletana e che è stato denominato “il
fondatore della critica d’arte”. Il
problema è che vi è un terzo Filostrato, detto «il giovine» e nipote di
quest’ultimo, che ad imitazione del nonno ha composto altre 17 Immagini; cui sono seguite nel IV sec.,
questa volta in campo scultoreo, le Descrizioni
di Callistrato.
333) Bec., op.cit.,
p.39/ col.b.
334) Op.cit.,
tav.L, fig.81 (sottofigg.I-XXIV).
335) Cit.,
sempre della fig.81 la sottofigura XXI e la XXIII.
336) Sottofigg. I, III e V.
337) Sottofigg. IV, VI-VII e XII.
338) Sottofigg. IX e X.
339) Sottofigg. VII, XIV e XV-XVIII.
340) P.40, coll. a-b.
341) Vi è una ragione precisa per cui Ino si
trasforma in Leucotea ed è quella rilevata in alcune varianti tra di loro
connesse e menzionate in Ker., op.cit.,
Cap.11, pp. 170-2. Poseidone, dopo esser
stato sottratto dalla madre Rhea alle grinfie del padre Crono, era stato
allevato dalla Ninfa Arne (lett. ‘Sorgente della pecora’) in un gregge di
ovini. In Hyg., Fab. clxxxviii si racconta diversamente d’una dea di nome Teofane
nuzialmente rapita da Poseidone e portata in una terra di nome Crumissa
(attuale Crimea?), che potrebbe significare secondo Kerényi “Isola
dell’Ariete”. Ivi Poseidone trasformò la
sposa in pecora e sé stesso in ariete.
Da questo connubio nacque l’aureo montone, destinato a condurre in
Colchide Frisso ed Elle, per dar poi luogo al viaggio degli Argonauti una volta
che era addivenuto un semplice Vello d’Oro custodito da un drago. Orbene, secondo una variante narrata da
Diodoro Siculo (v. 55) Poseidone sarebbe stato condotto da Rhea per lo stesso
episodio nell’isola di Rodi, fra i Telchini.
Costoro, postagli quale nutrice l’Oceanina Cafira (figlia di Oceano),
foggiarono per lui il Tridente al dire di Callimaco (Inno a Delo, vs.31) e gli fecero conoscere la loro sorella Hália (da ἅλιος = ‘appartenente al mare’); di cui il dio marino
s’innamorò, una volta giunto in età adulta.
Da costei ebbe 6 figli ed una figlia di nome Rhódos, che avrebbe dato nome all’isola omonima. Avendo i figli tracotanti di Poseidone
impedito ad Afrodite in viaggio verso Cipro di sbarcare a Rodi, la dea li punì
colla follia, tanto che violentarono la madre e Poseidone successivamente a
causa di questo loro atto violento li fece sprofondare sottoterra. Halia, per contro, si gettò in mare divenendo
Leucotea; la ‘dea Bianca’, sulla quale il Graves, mediante comparazioni con
analoghe deità britanniche, ha costruito il suo famoso saggio The White Goddess. (cit. al Cap.I, n.292) In
sostanza – conclude l’autore – Rodo non è diversa da Roda, cui si attribuisce
come madre Afrodite od Anfitrite. E, del
resto, qualcun altro menziona Elio anziché Poseidone come padre. Onde se ne deduce in sintesi che Halia,
Leucotea, Afrodite, Anfitrite e Cafira (var. Cabiria o Cabira, madre dei
Cabiri) non sono che allotipi di un’unica antica signora del mare.
342) Al dire di Apollonio Rodio (Arg.- i. 917), c’informa il Kerényi (op.cit., Cap.15, p.243), il ‘Velo’
equivaleva al Nastro Purpureo’ concesso agl’Iniziati dei Misteri Cabirici in
Samotracia; tant’è che costoro lo serbavano sempre attorno al proprio corpo
onde evitare i pericoli del mare, con allusione ovvia al “mare delle passioni”.
343) Bec., op.
cit., p.41/ col.a.
344) Ker., op.cit.,
Cap.15, p.240. A tal
proposito Kerényi (ibid., pp. 236-41)
riferisce che esse in veste di ninfe o di nereidi fecero da nutrici al secondo
Dioniso; cioè al figlio di Zeus e Semele, non il Dioniso cornuto figlio di
Demetra-Persefone, concepita nei Frammenti
Orfici- 145 (a c. del Kern) come una seconda Rhea. Le nutrici sono descritte talora in numero di
3, talora di 4 (vedi simbolismo delle fasi lunari); proprio come le figlie di
Cadmo, Semele e le 3 Sorelle. Come tali
appaiono anche nell’iconografia, ove una di esse allatta il bimbo Dioniso con
accanto Sileno, secondo gl’Inni Orfici-
54 educatore del nume. I Sileni non meno
dei Fauni sono le controparti maschili delle Ninfe, come i Tritoni delle
Nereidi, a dimostrazione che il concetto di ninfa della sorgente e di nereide
marina arriva spesso a sovrapporsi.
Bisogna tener conto che la furia erotico-orgiastica delle Menadi o
Baccanti diretta verso le selve montane era intesa quale divina pazzia (Μαινάδες < μανία
= ’furore, pazzia; estasi, entusiasmo’ < Μήν = ‘Luna’), coinvolgente
Bacco-Dioniso in un significato esoterico cha dal punto di vista cosmologico
aveva a che fare colla Luna Piena in Orione.
Cfr. nn. 10, 39, 46 e 327. Ivi l’ Οἴνος (‘vino’, ma
anche ‘filtro, bevanda magica’) tiene il posto del Soma, o dello Haoma,
l’inebriante liquore vedico-avestico; ma, nel contempo, rimanda al tema della
fecondità (seme/fallo) e della fertlità (pioggia/axis mundi). In alcuni miti,
non per nulla, l’ira della lunare Hera rende folli le fanciulle tanto da
spingere a credere d’essersi trasformate in vacche; quella di Afrodite, invece,
le trasforma in ninfomani. Ciò, è
naturale, s’appaia alla forma taurina di Dioniso. Per cui, come si vede, anche in questo caso
le due varianti materne ed i miti che ne conseguono s’incontrano e si
confondono in un unicum. Tornando alle 4 figlie di Cadmo, lo sposo di
Armonia, sappiamo che oltre a Semele – la principale nutrice di Dioniso – vi
erano Autonoe, Agave ed Ino. Ciascuna in veste, non troppo celata, di Menade. Autonoe era infatti la madre di Atteone,
dilaniato dai suoi 50 cani dopo esser stato trasformato in cervo da parte di
Artemide, sorpresa nuda al bagno assieme alle sue 60 ninfe (le Oceanine); pasto
di chiaro aspetto dionisiaco, favorito dall’unguento – acqua della magica fonte
ove la dea amava bagnarsi, insomma la Via Lattea – da lei gettato colle mani
sul cacciatore. Agàve (Ἀγαύη, da ἀγαυός = ‘sublime,
famoso’, qui forse nel senso di ‘gaudente’) aveva invece quale figlio Penteo,
divenuto oggetto di caccia dionisiaca da parte della madre e delle altre due,
poiché aveva vietato a Tebe il culto di Dioniso. Secondo Kerènyi (ib., p.241) l’invasamento delle Baccanti era un modo per
riguadagnare la visione interiore della terra come fonte di latte e di
miele. Cfr. col concetto di ‘Terra del
Latte e del Miele’, applicato di poi alla Terrasanta ma in verità riferito al Ṣiyyōn (cfr. Cap.I, n.49), presso gli Ebrei. La quarta sorella, Ino, non solo si gettò
impazzita in mare col figlio Melicerte; ma, a dimostrazione che trattavasi
d’invasamento vero e proprio, secondo una data versione aveva gettato prima il
bimbo in un caldaio d’acqua bollente e soltanto in seguito s’era buttata col
figlio morto negli abissi marini.
Oppure, a giudizio di Pindaro, aveva gettato in acqua bollente il figlio
maggiore Learco e poi col minore vivo s’era buttata in mare. Un comportamento anche questo di tipo
dionisiaco, che rammenta altresí la sorte del Glauco figlio di Minosse, di cui
tratteremo al Cap.VII, §§ r-s.
345) Bec., op.
cit., p.41/ col.b.
346) Op.cit.,
p.42/ col.a.
347) Cit.,
tav.XXXIX, fig.79. Il Cavallo è un noto
contrassegno di Poseidone, non meno del Delfino.
348) Pp. 43/ col.b e 44/ col.a.
349) Antica città sulla Via Appia, presso
Anzio, promontorio marittimo sede d’una vetusta località balneare per i ricchi
romani.
350) Mor., op.cit.,
p.328/ coll. a-b.
351) Bec., op.
cit., p.44/ col.a.
352) Mor., op.cit.,
s.v. EOS, p206/ coll. a-b.
353) Op.cit.,
s.v. MATER MATUTA, p.328/ col.b.
354) Cfr. con la Yamī vedica e la Yimak avestica. Non importa che la raffigurazione o la
citazione di codesta dea sia tarda, risulta palese dall’etimo, il quale
rispecchia un’arcaicissima concezione di divinità gemellare alla base di tutta
la costruzione mitica del ceppo di lingua indoeuropea.
355) A.Pastorino, La religione romana- Mursia, Milano 1973, P.sec., Cap.II, §1,
p.189.
356) Portunno non viene classificato, di norma, quale
discendente diretto di Giano; ma essendo figlio di Matuta, una delle tre
consorti di Giano, ed avendo prerogative assolutamente simili – a parte forse
la prevalenza della signoria sui porti per motivi marittimi – è assai probabile
che lo sia.
357) Vide
Cap., n.262.
358) Vide Cap.I, n.49.
359) Ibid.,
n.60.
360) Op.cit.,
p.44/ col.b.
361) Cit.,
pp. 44/ col.b e 45/
col.a.
362) P. 45/ col.a.
363) Pp. 45/ col.b e 46/ col.a.
364) Pānopē, madre di Re Evandro, è detta provenire
dall’Arcadia. Può esser considerata, in
quanto nereide, praticamente un doppione di Ino.
365) In onore di Carmenta venivano allestite
le Carmentālia, con un relativo flamine. Valga per costei quanto detto per
Panope. Cfr. n.prec. Un’ulteriore identificazione nell’interpretatio romana è avvenuta con Albunea (dal lat. albus = ‘bianco’), altra dea di genere aurorale al pari di Matuta
incarnata da una ninfa, cui erano sacre le sorgenti sulfuree cosiccome una
grotta ed un bosco sui colli di Tivoli oltre ad un tempio sopra la cascata
dell’Aniene (Cal., op.cit., s.v. ALBUNEA, p.124). Era nota quale Sibilla Tiburtina.
366) La vicinanza dei templi indica una
prossimità cultuale. In proposito U.Pestalozza (Religione mediterranea. Vecchi e nuovi studi- Frat.Bocca, Milano
1951; rist. Cisalpino-Goliardica, Milano 1971, Cap.XIV, pp. 402-3) scrive che
il culto di Venus Verticordia, in
principio strettamente associato a quello della Fortuna Virilis, era volto ad ottenere la pudicizia al posto della
libidine. Ma col tempo il culto si è
scisso in due e l’uno era dedicato mediante un bagno rituale alle mulieres honestiores, che venivano cinte
di mirto dopo un lavacro della statua di Venere, cui seguiva l’ingestione d’un
filtro d’amore; l’altro alle mulieres
humiliores e alle meretrici, le quali pur coronate di mirto, facevano il
bagno nella pubblica vasca degli uomini dopo l’offerta d’incenso alla Fortuna
Virile (conciliante alle donne i favori degli uomini). Orbene, il fatto che il tempio di questa dea
si trovasse in prossimità di quello di Matuta, si spiega col fatto che costei
era una tipica deità della vita muliebre.
367) Bec., op.
cit., pp. 46/ col.b e col.47/
col.a.
368) Op.cit.,
pp.47/ col.a.
369) Cit., pp.47/ col.b.
370) Ibid.
371) Pp. 47/ col.b . 48/ col.a.
372) Altri
(G.Dumézil,La Religione romana arcaica-
Rizzoli, Milano 1977 [ed.or. Payot, Parigi 1974], P.Sec., Cap.III, §1, p.292),
nonostante sia d’un opinione convergente in sostanza con quella meglio
argomentata del Becatti, riporta la teoria un po’ azzardata di G.Bonfante di
far risalire l’attribuzione a Portuno delle porte e dei porti ai tempi durante
i quali gli antenati dei Romani vivevano ancora sulle palafitte. Dumézil fa in pratica di Portuno un collega
di Giano, benché più limitato nella funzione, e non accettando la filiazione da
Matuta non si accorge neppure che il nesso di Giano col mattino (ibid., pp. 292-3) è decisivo per fare di
lui il corrispettivo maschile di colei che oltretutto funge da sua paredra
mitologicamente. Cfr. nn. 375 e 379.
373) Bec., op.cit., pp. 48/ coll. a-b.
Sul fianco sinistro di Portuno si scorgono prima Eracle e poi Apollo.
374) P.49/ col.a.
375) Vi è chi è
persino piú drastico rispetto a quanto asserito dal De Sanctis e dal
Becatti. Vide n.372. Il Dumézil,
rilevando piú o meno la stessa cosa, non accetta neanche d’apparentare la Madre
Mattutina al Padre Mattutino pur cogliendo giustamente in Matuta il
corrispondente latino della vedica Uṣas
(Dum., op.cit., Cons.prelim.,
Cap.V sgg). Ma banalizza la nozione rigvedica di Uṣasaḥ (al plur.) interpretando le
Aurore come la continuità indefinita del semplice fenomeno astronomico
mattutino allontanante le tenebre, in relazione ad un ordine cosmico piú
calendariale che veramente cosmologico, e non riconoscendo a costoro di
rappresentare il fenomeno circumpolare preziosamente illustrato da Tilak. Nega inoltre il lato materno del personaggio
in questione, che al contrario è fondamentale nella figura della Mater romana, esaperando inoltre senza motivo l’interdipendenza della dea colla
cultura indoeuropea. Quantunque
l’interpretazione delle schiave scacciate a forza dal tempio di Matuta, in
relazione alle Tenebre anziché alla Notte, sia assolutamente corretta. Pur non essendo l’unica interpretazione
possibile, secondo quanto sembra unilateralmente credere l’autore. Il simbolismo ha sfaccettature molteplici,
applicate a vari piani. Purtroppo
Dumézil tende a tacciare di primitivismo tutto ciò che esula dalla sua visione
storicizzante e neo-positivista, in sostanza negando valore al mito ed al tema
della ‘nostalgia del Paradiso’, come direbbe Eliade.
376) Vide
n.366.
377) Mor., op.cit.,
s.v. GIANO, p256/ col. b.
378) Non si deve confondere questa simbologia
quinaria con quella ternaria, che pagonando le 2 Teste di Giano (Guén., Simb., §18, p.118) al Passato ed al
Futuro, ne sottintende in relazione al ‘Triplice Tempo’ (scr.Trikāla) una mediana
alludente al Presente. Questa è
un’applicazione secondaria, a meno d’intendere i 2 Volti come Iānus-Iāna, ossia un
Androgine (ibid.); mentre nel caso
del contrassegno quaternario, col ‘Quinto Volto’ sottinteso, ci troviamo
dinnanzi ad una frontalità paradossalmente mirante verso l’alto. Non per niente, Guénon (ib., p.119) parla di Giano come non soltanto del ‘Signore del
Triplice Tempo’, ma addirittura del ‘Signore dell’Eternità’. Giano in effetti non è che il Brahman e la sua metafisica, checché ne
dica qualche scettico, è l’equivalente latino della metafisica brahmanica. Di certo, chi confonde l’ontologia
upanishadica col panteismo, non ha compreso quasi nulla né di questa né di
quella latina.
379) Dumézil (ibid. come alla 372, §1, pp.290-1) fa in
apparenza di Giano il dio degli inizi, sennonché dichiara poi (ib., p.293): “…Giano è collocato nel
tempo storico al posto che gli spetta: cioè agli esordi. Si diceva che egli fosse stato il primo re
del Lazio, re di un’età d’oro, in cui uomini e dei vivevano assieme (Ov. F., 1,
247-248)”. Ivi inserisce una nota su quella
che definisce la “pseudo-storia del Lazio primitivo”. E continua: “Entrato così nella «storia»,
Giano ricevette i complementi consueti di una vita umana: moglie, figli, amici,
che qui hanno poco importanza. Altre
versioni si spingono ancora più lontano: quando il Chaos dei Greci fu noto
anche a Roma, i pensatori romani attribuirono a Giano la sua stessa posizione
primordiale.” È difficile fraintendere una divinità ed un sacro
contesto in cui essa è inserita maggiormente di quanto abbia fatto l’autore
francese. Del resto, ciò s’inserisce
sulla medesima linea di pensiero che fa della cd. ‘triade capitolina’ – ma il
primo termine è sbagliato, poiché si tratta semmai d’un triregnum alla maniera greca – l’unico caposaldo della struttura
arcaica della religione romana (P.I sgg),
buttando a mare ogni dottrina ciclica tradizionale, aggiunge in modo totalmente
assurdo un poco piú oltre: “…Questo aspetto fu poi accentuato dai poeti, …come
per esempio Settimio Sereno …che chiamò Giano …principium deorum. E in ultimo
il dio venne presentato come «la più antica divinità indigena dell’Italia»
(Herodian. 1, 16, 1), «il primo degli antichi dei che i Romani chiamavano
Penati» (Procop. B. Got. 1, 25). Partendo precisamente da questi testi, e
dimenticando che essi sono soltanto riferimenti ad alcuni fra i molti prima tutelati dal dio, vari studiosi
hanno costruito la singolare teoria che fa di Giano realmente un dio più antico di Giove, il «dio principale» della più
antica religione, il quale sarebbe stato posto in secondo piano rispetto a
Giove da una «riforma»”. Che dire
dinanzi a tanta incomprensione? Dumézil
parte dal concetto che i prima erano
attribuiti a Giano ed i summa a
Giove, il che è vero, per il fatto che un conto è un dio primevo ed un conto un
dio supremo. La primazialità indica una
fase temporale o meglio ciclica di dominio, la supremazia un dominio
nell’ambito d’un determinato pantheon.
Non si può confondere le due cose, come han fatto spesso gli storici
delle religioni, Pettazzoni compreso.
D’altronde la precedenza di nascita è un fattore che è valso da sempre
nella storia umana, soprattutto in ambito giuridico, tranne oggigiorno; in
campo divino, ad imitazione di quello umano, è valso il medesimo
principio. La stessa suddivisione in
caste, che Dumézil ha deformato a suo uso e consumo teorizzando un
trifunzionalismo etnico di stampo indoeuropeistico anziché limitarlo all’ambito
strettamente sociale, è valida solamente in ragione della maggior antichità
d’una casta sull’altra.
380) Guén., op.cit., §16, p.109.
381) Publio Ovidio
Nasone (a c. B.Riposati-A.Manzo-L.Goracci), Le
Metamorfosi- Bietti, Basiano [Mi] 1973, L.XIII, p.469 ss.
382) Non per nulla
nella Cantica Prima (vv. 63-72) del Paradiso
l’Alighieri paragona la trasformazione di Glauco in uomo-pesce nel gustar dell’erba a quella di lui che
mirando negli occhi Beatrice, la quale tutta
nell’etterne rote fissa stava.
Questa esperienza interiore è definta in tali termini: «Trasumanar significar per verba/ non si poría; però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba.»
383) Oggi il posto
è conosciuto come ‘Rupe di Ulisse’, nei cui pressi si stende il borgo di
Scilla, fondato dai Tirreni e poi passato ai Greci.
384) A.Grossato, Il Libro dei simboli. Metamorfosi dell’umano
tra Oriente e Occidente- Mondadori, Milano 1999, Cap.VI, §43, p.153.
385) L’identificazione
fra Glauco e Proteo, quali varianti del ‘Vecchio del Mare’, è suggerita anche
da Graves (ibid. come alla 122).
386) Wikimedia
Commons, enc.fig. on line, s.v.URBINO (PIATTO CON GLAUCO E SCILLA, da
Ovidio, 1570 a.C.).
387) Wikim., s.v.: GLAUCUS ET SCYLLA-AGOSTINO
CARRACCI-1595-FARNESE GALLERY-ROME.
388) Wikim., s.v.: GLAUCUS-ET SCYLLA-JACQUES-DUMONT-ROMAIN-MUSEE-TROYES.
389) Wikim., s.v.: BARTHOLOMÄUS SPRANGER 006.
390) Wikim., s.v.: LAURENT DE LA HYRE-GLAUCUS AND SCYLLA.
391) Wikim., s.v.: PETER PAUL RUBENS-SCYLLA ET GLAUCUS.
392) Wikim., s.v.: SALVATOR ROSA GLAUCUS AND SCYLLA 15092012421.
393) Wikigallery.org., s.v.: GLAUCUS AND SCYLLA by FILIPPO LAURI.
394) Wikim.C., s.v.:VACCARO
NICOLA-1637-1717-ITALY-GLAUCUS-FLEEING-FROM- SKYLLA-TH.
395) Wikim., s.v.: JOSEPH MALLOR WILLIAM TURNER, ‘GLAUCUS
AND SCYLLA’, 1841.
396) L’intero complesso
è esaminato fotograficamente, pezzo per pezzo, in Wikim., s.v.: FONTANA DELLE NAIADI.
397) Molto
importante il fatto che, in alternanza a Scilla, Glauco amasse Arianna;
l’allusione nel secondo caso, anziché alla Rivelazione del Paradiso Polare o
alla Tradizione dell’Età Argentea, è alla ritualità dionisiaca dell’Età Ferrea.
398) Wikim., s.v.: GIAN LORENZO BERNINI, NETTUNO E IL
TRITONE, 1622-23 c..
399) Il Cardinal
Alessandro Damasceni Peretti, nipote di Papa Sisto V, era di Montalto di Marche
e veniva denominato Cardinal di Montalto.
400) A.Cocchi, Fontana del Tritone, articolo on line.
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