Cap.
II
Il culto
misterico del Delfino,
dall’India alla Grecia
a) Il
problema degli apporti etnoculturali
all’Induismo storico: Paleo-dravidi ed Indoari
Gli studiosi di orientalistica
sono stati ossessionati, dopo la scoperta della Civiltà dell’Indo nel 1922,
dalla contrapposizione fra la cultura dravidica e quella indoaria in una
maniera che difficilmente poteva corrispondere al vero. Ovverossia, a quanto la tradizione storica
indigena ci aveva proposto. A poco era
valso l’insegnamento di Guénon (1),
premuratosi a suo tempo di far notare che al di là del razzismo eurocentrico
d’epoca post-coloniale, comunque fossero andate le cose in passato, l’induismo
costituiva la fusione di una doppia cultura, fusione dunque e non scontro. I cultori del Veda hanno cercato di dimostrare infatti che quasi tutto in India
derivava dalla cultura aria, confondendo ancora una volta in tal modo – come
già nel secolo precedente – la cultura colla lingua, mentre i sostenitori del
pan-dravidismo hanno assunto l’atteggiamento opposto. Da parte nostra vorremmo qui prendere le
distanze, sebbene in modo equilibrato, da questa esagerata
contrapposizione. Pur dovendo riconoscere
che questo doppio binario di studi ha favorito l’esame dettagliato di tutti e
due i fronti culturali, esistono dei fattori che ci portano a considerare
l’India pre-dravidica e le sue influenze sull’induismo assai maggiori di quel
che si sarebbe spinti a credere di primo acchito. Ciò è il frutto soprattutto delle ricerche
paletnologiche, etnografiche ed antropologiche, le quali han messo in risalto
direttamente od indirettamente la cultura degli abitanti tardo-paleolitici
dell’Eurasia oltre a quella degli arcaici abitanti dei Mari del Sud. Non si deve, però, pensare che gli antichi
fossero del tutto all’oscuro delle loro origini e della provenienza delle loro
tradizioni. Vi sono fattori culturali
nell’induismo che testimoniano l’esatto contrario, seppur avvolti dalle nebbie
dei miti e delle leggende. Dato che tali fattori culturali a ben guardare non
sono reperibili soltanto nella mitologia indiana, ma anche in molte altre
mitologie affini (iranica, ellenica, latina ecc.), non possiamo esentarci dall’analizzare
brevemente di che cosa si tratti veramente.
Prima occorre però fare una
premessa. Quando utilizziamo i termini
‘anario’ ed ‘anellenico’, fatti propri negli Anni ’40 dalla scuola
mediterraneista del Pestalozza e da quella indo-mediterraneista di Padre Heras (2), facciamo appello ad un sostrato pre-ario e pre-ellenico che
costituiva de facto un amalgama di
popoli di varia natura, colle loro tradizioni distinte: Proto-europei
cromagnoidi (3) e Proto-pelasgi in
Grecia, Austronesiani, Proto-asiatici cromagnoidi e Paleo-dravidi in
India. Essendo gli Austronesiani e i
Cromagnoidi i ceppi maggiormente vetusti (Paleo-asiatici a parte), è chiaro che
dovette esservi uno scambio etnico di ceppi minoritari fra Asia ed Europa,
presto riassorbito del resto dalla popolazione (4).
Nello schema cronologico sinora
accettato l’arrivo di Paleo-dravidi e Proto-pelasgi (5), in altre parole del ceppo camitico, nei rispettivi luoghi di
stanziamento definitivo e la loro parziale ibridazione cogli antichi abitatori
dell’Eurasia non ha ricevuto molta attenzione.
Il loro percorso paletnologico è posto nell’indeterminatezza del
Mesolitico o del Neolitico, senza troppa cura, benché costituisca un problema
fondamentale per un’esatta comprensione del periodo protostorico successivo. Per fortuna l’archeologia marina ha
dimostrato che presso le coste dell’Oceano Indiano, nelle sedi storiche del
krishnaismo, è esistita una civiltà
databile a tempi mesolitici ed assai piú
antica di quella dell’Indo. Nonostante
il fatto che quest’ultima appaia visibilmente apparentata ad essa. Ciò prova quindi che le tappe culturali e
cronologiche delineate dalla dottrina cosmologica indigena (in particolare da
quella avatarica), in questo caso la trasformazione kaliyughica (in termini
archeologici, neolitica) da un ambiente vishnuita di tipo krishnaita ad uno in
prevalenza shivaita e shaktico, non è una mera congettura o peggio un dato
fantastico. Siffatta trasformazione non
riguarda esclusivamente la cultura e l’arte, ha un risvolto pure sociale ed
economico. Dacché termina coll’inizio
del Kaliyuga il dominio dei Vaiśya,
cioè dell’elemento per cosí dire <borghese>, che aveva avuto la meglio
nella Guerra di Bhārata (vinta dai relativamente sedentari mercanti e
produttori mesolitici sui pastori e cacciatori nomadi paleolitici); ma
da quel tremendo agone le genti dei borghi ne erano uscite devastate,
impoverite. Per vincere i loro titanici
avversari avevano in tutta evidenza dovuto usare un’arma a quel tempo proibita
in combattimento dalle leggi dell’onore, la scorrettezza. Il dominio dell’homo faber, che nel Mesolitico aveva sostituito pian piano nel
corso della sua ascesa millenaria il villaggio e poi il borgo all’accampamento
tribale del Paleolitico, sino ad allora era durato incontrastato per millenni. La dottrina ciclica ci tramanda per quasi
13.000 anni (6). A quel punto sono sorte in tutto l’arco
geografico indomediterraneo le prime città-Stati lungo i corsi dei grandi
fiumi, subentrando al loro interno – cinto da mura per renderne indipendente il
territorio e difenderlo dalle orde barbariche degl’invasori – nuove
stratificazioni popolari; ciò deve essere necessariamente avvenuto non solo
presso l’Indo ma anche, sebbene in maniera meno massiccia a quanto risulta dai
dati archeologici, nelle vicinanze degli altri grandi fiumi. Era cominciato intanto, a Kaliyuga inoltrato (dal 4.480 a .C. in
poi), l’essicamento della Sarasvatī. Il nuovo elemento popolare darà luogo
alla formazione d’una casta prima inesistente (7), quella degli Śūdra (8),
svolgente mansioni servili. A tale
classe sociale, prettamente plebea nel carattere e nelle attitudini, saranno
appaiati sul piano delle Generazioni Umane i Manava (‘Uomini’); così come ai Vaiśya, o se vogliamo agli Ārya, erano abbinati i Deva (‘Dei’).
Se l’arrivo dei Paleo-dravidi è
lasciato nell’indeterminato, la presunta invasione indoaria è posta dagli
indologi occidentali con spirito eurocentrico in una data sempre piú prossima al I mill. a.C., quasi a
giustificare ante litteram il
colonialismo d’epoca moderna e contemporanea.
La scoperta alla fine del XX sec. dell’essicamento della Sarasvatī, a partire da c.6.000 anni fa, ha ad
ogni modo riportato in discussione il discorso sulla data oggettiva d’entrata
in India delle truppe indoarie. Tanto
che gli studiosi locali, vessati da anni di contrapposizione etnoculturale fra
Ari e Anari e dal danno sociale per la comunità odierna che il riverbero di
questo pseudomito ha prodotto all’interno dell’India democratizzata
post-gandhiana, hanno preferito eludere il problema dell’ingresso sul suolo
indiano di codesti due ceppi affermando che erano colà dalla notte dei
tempi. Un assurdo ovviamente,
storicamente parlando, ma del tutto comprensibile sul piano pratico. Di certo, l’India del Tardo Paleolitico non
era abitata né da Dravidi né da Indoari.
Abbiamo visto nel capitolo precedente come l’ingresso dei Paleo-dravidi
nel Deccan sia di necessità avvenuto in epoca mesolitica, giacché costoro sono
stati artefici della civiltà sommersa di Dvārakā, di cui sono
state reperite tracce a livello archeologico-subacqueo nel ventennio a cavallo
fra il XX ed XXI sec. Non si tratta
quindi solo d’una leggenda relegabile ai sogni mahabharatiani, come qualcuno
avrebbe magari voluto sottintendere (modernisti indiani compresi), bensí d’un vero e proprio mito diluviale;
posteriore al Diluvio Atlantideo tramandato da Platone (9) ed identificabile, semmai, al Diluvio Deucalionico di cui parla
la tradizione greca (10). Anche Platone (Tim.- iii. 22.b) vi fa cenno.
Invece il Diluvio Ogigio può esser interpretato come un’inondazione
minore (11), a meno di assimilarlo
ad uno dei due suddetti (12).
L’ingresso degli Indoari
viceversa, appare assai piú
problematico. Vi sono ragioni egualmente
valide al momento, abbiamo già visto, per ritenere che esso sia coevo a quello
dravidico (13) o di poco posteriore,
sia per accettare la datazione comunemente indicata dagli storici contemporanei
(14). Bisogna comunque fare delle precisazioni e,
di conseguenza, delle distinzioni. Poiché
potrebbe non esser piú valido quanto
dichiarato una volta da Padre Heras, ovvero che “the existence of the Dravidian
peoples prior to the Āryan
invasion is a fact admitted by all”. Lo
spostamento degli Indoari viene dall’orientalistica ufficiale strettamente
associato alla compilazione del Ṛgveda.
Il problema è che questo testo non conosce un animale tipicamente
indiano, la tigre. Come mai menziona
allora piú volte la Sarasvatī,
un fiume essicato oltre 6.000 anni fa?
O tale essiccamento è relazionato al mutamento di condizioni
climatiche susseguenti al Diluvio di Dvārakā citato dal Mahābhārata? Gl’indologi non paiono pensarlo, danno altre
spiegazioni climatiche, ma l’ipotesi non è ad ogni modo da escludere. Sta di fatto, perciò, che chi ha elaborato il
piú antico dei 4 libri vedici conosceva
la parte settentrionale del subcontinente indiano, pur non avendo esperienza di
altre zone dell’India come le giungle del Nepal o del Bengala, ove la tigre era
diffusa. Una mancanza di notizie
dettagliate sul territorio prossimo a quello di stanziamento è tipico di genti
provenienti da altri luoghi. La vecchia
tesi d’una provenienza centroasiatica indeterminata, cui personalmente non
crediamo se non quale fase finale del percoso, è stata ripresa in forma nuova
prima dalla Gimbutas e poi dal Parpola (15) ed altri. In ciò Tilak appare un pioniere, benché ormai
superato almeno nell’idea del loro habitat polare originario (16); mentre la tesi della provenienza
occidentale, precisamente caucasica, fino a non molto tempo fa era la piú accreditata anche a livello accademico (17).
Da parte nostra siamo convinti
che la giusta prospettiva sia quella offerta dalla ‘Bibbia’, sia pur cogli aggiustamenti dovuti in base agli
insegnamenti delle scienze moderne; pensare che fin dall’antichità sia esistita
una razza a parte, cosí è dipinta la
stirpe indoeuropea sostanzialmente nei rigurgiti filo-nazisti di certo celato
teosofismo contemporaneo, e che i compilatori del sacro testo ebraico non se ne
siano mai accorti, sarebbe davvero ridicolo.
Nella Genesi gl’Indoeuropei
non sono stati contemplati ed al loro posto troviamo il ceppo iaphetico,
disceso da Noè esattamente come il ceppo semitico e quello camitico. Quindi, secondo la prospettiva biblica, la
provenienza di tal ceppo non può che essere occidentale (18). Nello stesso tempo
Platone ci tramanda tuttavia attraverso l’avo Solone (il quale era un grande e
nobile legislatore, non un ciarlatano od un utopista ante litteram), casualmente venuto in contatto colle conoscenze sacerdotali
tramesse minuziosamente nei templi egizi, di una stirpe europea di uomini
distinta dalle genti dimoranti oltreatlantico; una stirpe meno evoluta
tecnologicamente, dato che non era in grado a differenza dell’altra di
attraversare l’Atlantico e portar battaglia nelle lontane plaghe d’un oceano un
tempo diverso da quello odierno e definito addirittura “navigabile”, ma che era
tanto forte e coraggiosa in combattimento da surclassare orgogliosamente
avversari meglio dotati dal punto di vista bellico. Questa stirpe non poteva che coincidere con
quei primitivi abitatori dell’Eurasia chiamati dalla paleontologia
“Cromagnoidi” (19), fisicamente piú alti e robusti e quindi piú potenti nella lotta corpo a corpo. In tempi neolitici si rintracciano in Europa
3 nuovi ceppi (20), i quali non
possono esser altro che il frutto d’ibridazione (21) dei nuovi venuti dall’Atlantico (i 3 rami della stirpe noaica,
probabilmente tutti di aspetto brachicefalico) con i Protoeuropei (i
dolicocefali paleolitici). Come d’altronde
ha ammesso da un punto di vista totalmente diverso dal nostro il genetista di
popolazioni Cavalli-Sforza (22), è
probabile sia avvenuto fra il Mesolitico ed il Neolitico un incrocio (23) della popolazione tardopaleolitica
europea con quella mediterranea. Ed è
possibile sia accaduto, in parallelo, anche in Asia fra le popolazioni
cromagnoidi centroasiatiche e quelle dei nuovi arrivati del Vicino e Medio
Oriente.
Le caratteristiche fisiche e
culturali dei Proto-europei, idealizzate e banalizzate ad un tempo, hanno
finito in epoca moderna e coloniale per essere attribuite ai presunti
Proto-indoeuropei; ma essi andrebbero allora meglio definiti
‘Proto-eurasiatici’ (diversi dai Paleo-asiatici, ancor piú ancestrali di loro), poiché anche in Asia
erano stanziati in una zona a vasto raggio.
Cosí intesi, gl’Indoeuropei
sarebbero realmente distinti dagli Iapheti, proverrebbero realmente dall’Asia
Centrale e tutto ciò che abbiamo negato agli uni lo potremmo comodamente
associare agli altri. Persino sul piano mitologico
presto ci accorgeremmo che le cose stanno proprio in tal maniera, ad esclusione
dell’uso del vasellame in ambiente domestico, dell’utilizzo di carri trainati
da cavalli per gli spostamenti e della pratica metallurgica (il ferro soprattutto). Questi appena menzionati sono infatti i tratti tipici dei discendenti di Iaphet, non
dei loro predecessori, che per ora lasciamo ancora un po’ nell’indeterminato
d’una mancata connotazione mitica. Vide infra.
La questione indoeuropea non
poggia unicamente sul problema della provenienza geografica degli Ari e della
loro connotazione etnolinguistica, facilmente risolubile su base biblica ma
insolubile altrimenti; vi è anche il problema della datazione dei loro
spostamenti e, volendo considerarli un’etnia vera e propria relativamente ai
tempi antichi (dai tempi medievali non lo sono piú
a causa dei troppi connubi subiti dalla popolazione euroasiatica in seguito
alle varie invasioni barbariche), occorrerebbe intuire almeno quand’essi siano
giunti nelle loro sedi storiche d’appartenenza.
Abbiamo visto sopra come ciò non sia esattamente possibile, per via dei
numerosi dati contrastanti nel campo.
Non resta altro da fare quindi che spostarci sui contenuti dei libri
sacri e desumere da questi la data della loro compilazione orale. Rimangono indubbiamente valide a tal
proposito le argomentazioni di Tilak circa l’alta antichità degl’inni
rigvedici. Dimostrando in Orion l’aggancio di molti miti vedici
alla mitologia orionica e pleiadica, lo scrittore marathi ha spostato
inoppugnabilmente all’indietro rispetto alle supposizioni errate dei
contemporanei – in ciò essendo stato coadiuvato da Jacobi – il tempo di
creazione letteraria degl’inni. Gliene
va dato atto, ancor oggi, comunque lo si voglia giudicare. Le ulteriori speculazioni in ‘Arctic Home’
sono piú problematiche, personalmente non
ci convincono del tutto. Grave è stato
l’errore di confondere il tempo dei Ṛṣi col tempo degli Ārya. Eppure, in nessuna parte del Veda i Ṛṣi (24)
sono stati identificati agli Ārya.
Di certo il pensiero di Tilak, come avviene inevitabilmente per tutti
gli scrittori, risente fortemente dell’epoca di stesura dei suoi scritti (25).
Tornando al Ṛgveda,
è chiaro che la data di redazione scritta del testo non può aver a che fare
necessariamente colla data d’arrivo sul suolo indiano degli Ārya. Delle genti che arrivano da terre straniere
non si mettono a compilare libri non appena stanziate in un nuovo
territorio. Presumibilmente lo fanno
almeno 300-400 anni dopo. Se l’ultima
ondata aria è giunta in India attorno al 1.200 od al 1.000 a.C., è probabile
che l’ultima redazione dei testi ad opera d’appositi scribi brahmanici sia
avvenuta fra il 900 ed il 600 a.C c. Le
scuole di Ṛṣi (26) che avevano
formulato gl’inni in principio, è chiaro, erano tutt’altra cosa. A loro va attribuita la suddivisione ideale
fra inni dedicati ad Orione, ad Aldebaràn, alle 6 Pleiadi od ai successivi che
con grande intuito Tilak ha delineato nella sua prima opera (27).
Non corrispondendo piú alla realtà
quotidiana il dato astrologico oggetto di speculazione simbolica (una volta
inscindibilmente connesso alla pratica sacrificale), per via dello spostamento
processionale, la stesura scritta dei libri sacri da parte degli scribi dovette
evidentemente adattarsi ad esigenze storiche e politico-sociali. L’esigenza maggiore era quella di conservarli
intatti in una terra e in un ambiente nuovi.
In secondo luogo si doveva per forza di cose giungere ad un compromesso
colle tradizioni locali, il che spiega l’ampio attingere del Veda alle fonti anarie.
Il processo di compilazione
scritta dei testi sacri in epoca protostorica non può metter in ombra il fatto
che il Ṛgveda incorpori maṇḍala ideati per
celebrare il trionfo del Punto Vernale.
La presenza vernale di Orione, Aldebaràn e le Pleiadi ha chiaramente un
significato cosmologico, non astronomico, come riduzionisticamente intendeva
Tilak. Sta di fatto ad ogni modo che in
termini di calendario lunare i periodi astrologici ai quali fanno riferimento
gl’inni vedici, in relazione all’Anno Sacro (Yajña) ed all’inizio effettivo del Kaliyuga (quest’ultimo non contemplato da Tilak se non in maniera imprecisa)(28), siano i seguenti: a) Punto Vernale in Mṛgśiras (Orione): 4.744-3.784; b)
P.V. in Rohiṇī (Aldebaràn): 3.784-2.824; c) P.V.
nelle Kṛttikā (Pleiadi): 2.824-1.864 (29).
Tale precisa calendarizzazione (30)
ci permette di relazionare piú precisamente il tempo di compilazione orale
degl’inni coi luoghi descritti in essi, pur tenendo conto d’un margine di
probabilità che alcune parti degli stessi siano state tardivamente interpolate. Basta analizzarli a grandi linee. Pertanto è facile constatare che tanto
gl’inni orionici quanto quelli aldebaranici menzionano continuamente accanto ai
bovini gli equini come normali bestie da soma oltreché sacrificali. Ciò significa che l’utilizzo del cavallo e
dei carriaggi – evidentemente anche per uso bellico o parzialmente agrario,
benché la pastorizia di tipo nomadico risulti naturalmente dominante – non è
affatto recente, ma risale almeno al Mesolitico (31). Sebbene infatti
gl’inni rigvedici facciano riferimento generalmente ma non sempre ai tempi
neolitici, non abbiamo l’impressione alla lettura di trovarci di fronte ad una
invenzione dell’ultim’ora. Non si nota
del resto negli inni pleiadici una grande evoluzione tecnica rispetto ai
precedenti, segno che l’economia pastorale alla quale le genti vediche erano
soggette era già abbastanza stabile all’inizio del Neolitico. Un quadro di vita vissuta e delle sue
implicanze sia a livello cultuale che economico ci è offerto dal Papesso nella
sua magnifica seppur a tratti ingenua Introduzione
al Ṛgveda, che è in pratica un ampio articolo sul tema (32), quantunque datato. Il Papesso (33) sostiene che parrebbe il Panjāb Orientale, la
‘Terra dei Cinque Fiumi’, l’ambientazione ideale del testo rigvedico a livello
di paesaggio e condizioni climatiche. In
effetti, se è vero che non vengono menzionate città o villaggi, al fine d’una
localizzazione precisa si fanno però i nomi dei fiumi. In x. 75, 1 viene esaltato l’Indo (scr.Sindhu) come il piú potente in portata
d’acque. Ad esso, avanzante come toro
che muggisce, accorrono gli affluenti, quali madri che cercano i loro figli o
vacche desiderose d’allattare (vv. 3-4).
Ai vv. 5-6 vengono nominate la Kubhā (Kabul) ad
ovest e ad est la Gaṅgā, la Yamunā e la Sarasvatī. Il vs.6 cita 4 affluenti di sinistra
dell’Indo uno per uno: Śutudrī (Sutlej), Paruṣṇī (Ravi), Asiknī (Chenab),
Vitastā (Jhelum). Manca solo la Vipās
(Bias), con cui formavano i Paṅcanāda. Il vs.7 dichiara l’Indo “ricco di cavalli,
di carri, di tessuti, d’ornamenti d’oro, di alimenti, di lana” e di speciali
piante da cordame. Il che è un modo per
indicare i commerci in tali settori.
Ora, è vero che il X Maṇḍala è ritenuto
dagli esperti di lingua vedica maggiormente tardo rispetto agli altri, ma non
si può certo pensare che l’ambientazione dell’inno risalga al II od al I
millennio a.C. Se viene ricordata la Sarasvatī, quale fiume sullo stesso piano della Gaṅgā
e della Yamunā ma meno importante dell’Indo,
non può essere altrimenti; tal fatto non può risalire ad una data piú avanzata
del III millennio, allorché il progressivo essiccamento della Sarasvatī è andato a vantaggio dell’Indo (34).
Un’altra cosa che si nota, altresí,
nei ṛc (‘versi laudativi’) è l’alterigia con cui vengono trattati i Dasa o Dasyu. Il vocabolo significa
‘Servo’, ma è la probabile corruzione di Dāśa (‘Pescatore’). Da quanto ora detto deduciamo che lo scontro
fra costoro e gli Ārya era già in atto nel Periodo Orionico,
cioè uno o due millenni prima della cd. ‘Antica Civiltà dell’Indo’.
Gl’Indoari, data per scontata a
questo punto sia la loro distinzione rispetto ai Ṛṣi primordiali ed
ai Proto-eurasiatici cromagnoidi sia la loro provenienza oltreatlantica come
per tutte le stirpi iaphetiche, sono penetrati nel Deccan dopo aver composto
oralmente il Ṛgveda o prima? Il contenuto
cultuale dei sūkta (’inni’) varia dalla serie di
miti ancestrali – precisamente dvaparayughici – riguardanti le Aurore, nei
quali è coinvolto Indra (vedi
liberazione delle <Vacche> tenute prigioniere in una grotta dai Paṇi) in conflitto col demone Vala (35), a quelli kaliyughici concernenti Soma. I primi
necessariamente risalgono ad una sede circumpolare quale potrebbe essere stata
per es. la Groenlandia. Oltretutto Indra, il capo dei Marut (cfr. collo Ζεύς
Πίκος greco od il
Pīcus Mārtius latino)(36), appartiene alla Terza ‘Generazione Divina’; prima di lui sono
venuti rispettivamente Varuṇa (Οὐρανός) e Agni (Φορωνεύς)(37), dalla triplice
natura (38). All’inizio del Kaliyuga, invece, la staffetta passa in mano a Soma (Orione)(39) ed i
miti orionici divengono dominanti. Ma
fra gli uni e gli altri ci sono di mezzo altri miti legati a periodi
intermedi. Se il mito polare della
Liberazione delle Vacche (Aurore) può astrologicamente esser collocato nell’Era
del Leone (10.960-8.840 a.C.)(40),
allorquando al Discendente del P.V. vi era l’Aquario, quello di Aditi (41) e Dakṣa va ascritto
all’Era del Cancro (8.840-6.640)(41),
allorché al Discendente trovavasi il Capricorno. Dakṣa ha infatti, Testa di Capra (42).
I ben 54 sūkta
secondo il Papesso interamente dedicati agli Aśvin, i fatidici
“cavalieri dell’aurora”, risalgono invece all’Era dei Gemelli (6.640-4.480
a.C.)(43). Non meno dei Dioscuri greci, ai quali erano
egualmente associati i cavalli (44),
il nome degli Aśvin (da aśva = ‘cavallo’) testimonia
direttamente la presenza d’equini presso i compilatori di quegl’inni. A conferma decisiva che il cavallo era un
animale domestico già nel Mesolitico.
Visto che, come vedremo nei prossimi paragrafi a proposito di Paraśurāma e dei suoi omologhi
in Grecia ed in Persia, le leggende persiane spostano se non proprio
l’addomesticamento almeno la domatura equina persino molto piú addietro nel tempo. Addirittura oltre 25.000 anni fa. Gl’inni composti durante l’Era del Toro
(4.480-2.320 a.C.)(45) hanno badato
ad esaltare Orione e Sirio, Aldebaràn e le Pleiadi, siccome costellazioni
allora apportatrici in primavera mediante le piogge di fecondità al bestiame e
fertilità al suoli (46). Si spiega cosí non solamente l’importanza nel
Ṛgveda nonché nell’Avesta
degl’inni dedicati al giallo o rosso Soma,
la bevanda inebriante ottenuta da un arbusto montano oggi ignoto, il cui rito
di spremitura era volto magicamente ad ottenere le piogge (47); ma anche perché mai alcuni altri illustrino l’annientamento
d’un demone della siccità, variamente denominato, da parte di un Indra kaliyughicamente riadattato. Indra,
è ovvio, in questo mito non può che alludere cosmologicamente a Sirio e Vṛtra, Namuci ecc.
ad Orione. I miti relativi ad Orione,
Aldebaràn e le Pleiadi sono stati commentati splendidamente da Tilak (48) e ad essi rimandiamo. Ricordiamo unicamente la convinzione da parte
dello scrittore marathi che la suddivisione dello Zodiaco Lunare in 27 porzioni
da parte dei sacerdoti vedici in quei lontani tempi non fosse strettamente
matematica (cioè di 13°20’), bensí
posizionale (osservando quale gruppo di stelle fisse fosse maggiormente
prossimo ai due luminari)(49).
b) Riepilogo
sul popolamento del Deccan da parte degli Ārya:
loro connessioni col Rgveda
Abbiamo constatato dapprima che
gli Ārya non sono autoctoni dell’India, diversamente da come intende la
maggior parte degli studiosi locali. C’è
anzi la grande probabilità che, essendo un ramo
di stirpe iaphetica, non provengano neanche dall’Asia; bensí,
se i nostri calcoli sono giusti, da una terra oltreatlantica. Non stiamo ad indagare ulteriormente quale
possa esser stata questa sede, non è compito di codesto scritto rintracciarla
esattamente, fermo rimanendo il fatto che debba essersi trattato d’una sede per
forza di cose circumpolare. (Non artica,
però, come pretendeva Tilak.) Perché ciò
è chiaramente indicato dai miti vedici delle Aurore, basati in tutta evidenza
sulle lunghe albe delle lontane plaghe sub-polari; oltreché sul mito avestico
del Vara (‘Recinto’) di Yima, che non è naturalmente il Giardino
Paradisiaco propriamente detto. Insomma,
l’Ilāvṛta hindu.
L’emigrazione aria dalla sede originaria è dovuta ad un cambiamento
climatico, conseguente ad un cataclisma.
Bisogna a tal proposito distinguere fra il vero e proprio Diluvio Atlantideo,
da Guénon collocato per interposte parole attorno al 10.960 a.C. in base a vari
dati dei quali lo scrittore francese nel suo consueto stile scorpionico amante
dei segreti non fa aperta menzione, ed il fenomeno di sicuro ad esso collegato
ma posteriore che produce un congelamento nella sede aria e la rende
inabitabile. Quest’ultimo è probabile
abbia a che fare col cd. ‘Diluvio di Ogigia’, il fenomeno probabile che ha
fatto scomparire il Tir na nOg, la
leggendaria ‘Terra di Giovinezza’ celtica.
Si può ad es. immaginare che che lo spostamento della Corrente del Golfo
dall’America Settentrionale all’Europa abbia fatto sgelare delle terre prima
ricoperte dai ghiacci, provocando da un lato dell’Atlantico un’inondazione
secondaria rispetto a quella atlantidea.
Mentre intanto, dall’altro lato dell’oceano, la cd. ‘Atlantide
Iperborea’ (a nostro giudizio soltanto la Groenlandia possiede un’estensione
geografica tale da poter assumere siffatto ruolo) andava sempre piú congelandosi.
Una fenomenica del genere spiegherebbe la confusione fra le due
inondazioni, atlantidea od ogigia, sí da
generare negl’informatori egizi dell’avo di Platone l’idea che l’inondazione
fosse stata unica. Invece col Diluvio
Atlantideo si conclude il Ciclo Occidentale (VIII Ciclo Avatarico), che è nel
contempo la seconda metà del IV Mahāyuga (Grande
Anno). Dopodiché seguirà il Ciclo
Nordoccidentale IX Ciclo Avatarico), che però avrà 2 fasi; la prima sul lato
nordoccidentale dell’Atlantico, la seconda fra il Mediterraneo Orientale e l’Indo. Guardacaso a mezzo fra queste fasi,
paletnologicamente parlando, terminerà il Paleolitico in Europa e comincerà il
Mesolitico; che avrà relativamente breve durata, poiché a fine ciclo inizierà
il Neolitico, ancor piú breve. Per via del suddetto congelamento, coagulante
probabilmente in un unico sforzo di sopravvivenza – stando alla cosmografia
biblica – i discendenti del Ciclo Atlantideo sudoccidentale ed occidentale
(Camiti, Semiti) e di quello Atlantideo-iperboreo (Iapheti), questi ultimi
essendo stati costretti ad abbandonate le zone circumpolari spingendosi a
ridosso degli altri prima di spostarsi sul lato opposto dell’oceano, il centro
culturale e stanziale degli Ārya (‘Eroi’) passa piú o meno dal Nordamerica all’Eurasia
Meridionale. Quivi si svolgono i
passaggi contemplati nel Ṛgveda dall’Era del Leone a quella del
Toro (50). Non sappiamo esattamente se essi nella loro
migrazione oltreatlantica si siano spoastati in massa o a poco a poco. La Genesi
descrive un’unica traversata, ma è chiaro che si tratta d’una idealizzazione
dei fatti realmente accaduti; poiché l’immane gesto ha assunto un valore
allegorico, non può avere quei connotati assai poco realistici. Bisognerebbe raccogliere dati in proposito,
anche a livello folclorico, vagliando tutte le varianti della leggenda
giudaico-cristiana del Diluvio e confrontandole con le tradizioni di altre
genti camitiche, semitiche e iaphetiche per avere una visione maggiormente
aderente alla realtà storica (51). Rimane ancora il problema se interpretare i
<Figli> di Noè come delle stirpi già formate prima della traversata
oceanica, oppure considerarle il frutto di commistioni etniche avvenute dopo lo
sbarco in Armenia (52). Ammesso che sia questa la zona principale di
sbarco e non la costa atlantica europea, secondo quanto si potrebbe dedurre da
certi riti gitani (53).
Si può immaginare in ogni caso
che le 3 Stirpi dipinte dalla leggenda come triplice prole d’un unico padre,
senza dubbio fra loro distinte già in partenza, si siano stanziate in territorl
confacenti alle loro esigenze climatiche.
Quindi, se seguiamo la traccia degli spostamenti iaphetici giungiamo a
grandi linee da un lato verso l’Iran, l’India o la Cina; dall’altro, verso il
Mediterraneo od il Baltico. Grosso modo
sono questi i due segmenti divergenti dei popoli di lingua indoeuropea, che
qualcuno ha definito in passato kentum
e satǝm in base alla forma lessicale del numero ‘cento’ in queste
varie lingue. Non è facile reperire
nelle varie letterature indoeuropee qualcosa che renda conto, in maniera
esplicita, della prima fase d’espansione delle genti arie. Adottando ad imitazione di Tilak il metodo
processionale, che lui chiama “l’infallibile orologio del cielo”(54), si ha invece a disposizione un
preciso archivio naturale che non deve esser sottovalutato. Basta saperlo comprendere nelle sue pieghe
talora nascoste, indagando con sottigliezza nella sfera del mito. Cosí
facendo, si può asserire che sino all’Era dei Gemelli la tradizione indiana e
quella greca paiono combaciare, od almeno non sembrano divergere di molto. Segno che il ramo orientale e quello
occidentale degli Iapheti non si erano ancora del tutto separati. All’inizio dell’Era del Toro, ovvero del Kaliyuga (Età del Ferro)(55), i rami iaphetici vari si avviano
per contro verso la dispersione dei ceppi.
Cosa su cui pressappoco era d’accordo anche Tilak, uso del termine
‘indoeuropeo’ a parte. Dal canto nostro
siamo convinti che ciò sia avvenuto probabilmente in conseguenza dell’ultima
grande inondazione ciclica, tramandata dagl’Indiani quale Diluvio di Dvārakā
e dai Greci come quello di Deucalione.
La fase indo-iranica pare al contrario ancora in atto a quest’epoca,
visto che il culto avestico dello Haoma
equivale perfettamente a quello rigvedico del Soma. Sono le tradizioni
orali che contano in tal senso e le tradizioni testimoniano, se non una fonte
comune al Ṛgveda e all’Avesta,
almeno una comunità d’intenti rituali e di significati simbolici fra le due
fedi. Il ragionamento fatto per un testo
vale spesso pure per l’altro, essendovi molti paralleli possibili. Se compaiono in essi anche delle forti
diferenze, queste sono dovute alla riforma zoroastriana, che ha cambiato in
tempi storici certi connotati del vecchio culto iranico. Il fatto che Aristotele od Eudosso
collocassero l’età di Zoroastro 6000 o 5000 anni prima di Platone (56) conferma quanto detto, equiparando
lo <Zoroastro> dell’antica tradizione greca all’iranismo avestico remoto
pre-zoroastriano. Circa gl’inni vedici
Tilak (57) era dell’opinione che la
“forma degl’inni potesse essersi
parzialmente modificata in tempi piú
recenti”, ma che il contenuto fosse
rimasto in sostanza lo stesso. Ragion
per cui poneva la separazione fra Greci ed Ari fra il 3500 ed il 3.000 a.C. c.,
quella fra Indoari ed Iranari alla fine del Periodo Orionico ossia fra il 3000
ed il 2500 c. (58). Da parte nostra porremmo il primo distacco
dei ceppi iaphetici, come detto sopra, nella prima decade dell’Età del Toro
(c.4480-3760 a.C.); cioè in pieno Periodo Orionico, dato che non vi è mai stato
in Grecia od altrove qualcosa d’analogo ai testi sacri indoiranici, ad
esclusione forse degl’Inni Omerici e dell’Edda norrenica. Manca, insomma, fra i testi greci e gli altri
della letteratura indoeuropea alcunché d’analogo al rituale hindu del Soma od al culto parsi dello Haoma.
Collocheremmo viceversa il secondo distacco tribale nell’arco di tempo
trascorso nelle due decadi successive (c.3760-2320 a.C.), poiché se pur vi è
nell’Iran antico a livello iconografico qualche riferimento alla venerazione di
Rohiṇī, manca quasi totalmente rispetto
all’India la devozione verso le Kṛttikā.
Se il Ṛgveda è ambientato
nel Panjāb Orientale durante l’Era del Toro,
come si può escludere che gli Ari non fossero già penetrati nel Deccan, dal
momento che erano loro note persino la Gaṅgā e la Yamunā?
No, non può essere diversamente.
La Smṛti va presa sul serio, non è un trastullo
intellettuale per professori ed eruditi, e la Smṛti
afferma che il Ṛgveda è stato composto poco prima
dell’inizio del Kaliyuga; insomma
all’incirca nella prima metà del Periodo Orionico (4960-4000 a.C.), cominciato
480 anni prima del Kaliyuga, vale a
dire fra il 4960 ed il 4480 a.C. (59). Lo studio ulteriore del Veda ha condotto Tilak ad ipotizzare che il testo piú arcaico del Caturveda accluda, in realtà, materiale tradizionale trasmesso oralmente che fu ideato in data
ancor precedente a quella tramandata riguardo la stesura generale dei 10 Maṇḍala rigvedici. Del
resto il rilievo, sia pur negativo, concesso nel testo ai Dasa prova che la datazione sopra supposta ha basi reali. I Dasyu
non possono essere, infatti, qualcosa di molto diverso dagli abitanti
dell’antica Valle dell’Indo. Abbiamo già
dedotto che costoro erano imparentati etnicamente coi Paleo-dravidi mesolitici
di Dvārakā (‘lett. ‘Dalle-molte-porte’), la
capitale del regno krishnaita. La
penetrazione oltre l’Indo nel Periodo Orionico non è ancora avvenuta, avverrà
successivamente; a lungo andare darà l’impressione d’una nuova invasione, ma
l’avanzata deve esser avvenuta poco alla volta, per osmosi piú che per scontro. Le descrizioni rigvediche suggerirebbero
un’attesa tipica di stirpi nomadi stanziate in dati punti strategici, onde
favorire le razzie di bestiame piú che
una conquista definitiva. Riguardo gli
spostamenti successivi non rientra nel compito che ivi ci prefiggiamo
delinearli, neanche sommariamente, è compito degli archeologi. Sta di fatto che, come si può dedurre da
queste ulteriori precisazioni, la situazione degli Ari vedici nell’epoca da noi
analizzata è pressoché quella che avevamo suggerito nel precedente capitolo
prima d’analizzare in dettaglio il problema.
La Guerra di Bhārata non può
esser stata combattuta fra Ari ed Anari, ma piuttosto fra autoctoni, i Panduidi
essendo probabilmente dei Paleo-dravidi; e i Kuruidi altre genti delle quali
parleremo fra breve, che dal punto di vista paletnologico abbiamo classificato
come Proto-eurasiatici. Non Ari giunti
prima degli altri, come vorrebbe il Parpola (60), ciò anzi essendo assolutamente da escludere; benché pure da
parte nostra abbiamo in un primo tempo – vedi il precedente capitolo –
sospettato qualcosa del genere. Dopo
affannose ricerche bibliografiche, oggi possiamo sostenere con veridicità che
gli Ārya non erano ancora arrivati a stanziarsi nell’Āryavarta,
vale a dire la Pianura Gangetica.
L’archeologia non dimostra nulla, anche tirandola per i capelli, quando
non vi sono basi culturali serie dietro agli scavi. Anche se si cerca di dimostrare
l’indimostrabile, pur di rimanere ancorati alla propria visione delle
cose. In questo caso si deve tuttavia
apprezzare il fatto che, diversamente dal passato, non ci si è limitati ad
ipotizzare una cervellotica discesa degli Ari in India al di là delle
testimonianze di qualsivoglia natura. Si
è badato a ricostruire un percorso credibile, ma ancora una volta l’inganno del
cavallo come mezzo locomotorio esclusivo degli Ari (e chissà mai perché?) ha
determinato l’ennesima incomprensione del quadro antropologico in
questione. Se gli Ari sono stati
preceduti da dei Proto-ari, non si comprende bene cosa sia attribuibile a
costoro. Tutto ciò che è stato
attribuito agli Ari? I conti non tornano
egualmente.
c)
Errori
metodologici e pregiudizi in materia
Prima di passare ad un esame dei
rapporti di civiltà fra l’India e la Grecia in tempi neolitici e protostorici,
riflesso evidente di quelli etnoculturali del periodo mesolitico fra il
Mediterraneo e l’Indo, sarà bene aggiungere qualcosa su ciò che nella penisola
indiana ha preceduto l’avvento di Paleo-dravidi e Indoari e nell’Egeo quello di
Proto-pelasgi e Proto-elleni, cosa solitamente assai trascurata. In quanto l’idea, peraltro errata, che non vi
fossero genti aventi a che fare in qualche modo colle origini della nostra
cultura sembra averci esentato da un’analisi seria del periodo. Unicamente ci si è affidati ad aridi studi di
tipo paletnologico. Ciò sia detto non
per pregiudizio, ma per constatazione.
In questo nostro saggio,
soprattutto nell’ultima redazione del testo, abbiamo voluto giungere ad un
compromesso fra tradizionalismo ed accademismo, nonché fra tradizionalismo e
scientismo in base alle seguenti ragioni.
Lo sviluppo esponenziale degli studi scientifici in vari campi già non
permetteva all’inizio del secolo scorso a visionari (lo diciamo nel senso
migliore) come Tilak di elaborare le loro teorie senza tenerne conto. Figuriamoci oggi! D’altronde ci siamo accorti che spesso, se i
dati presentati dal campo tradizionale e da quello scientifico non collimano, è
a causa di certi fattori che vengono sottovalutati dall’una o dall’altra parte
e che una volta offerti correttamente risolvono per intero le questioni. Almeno, con buona approssimazione a quella
che si può ritenere sia stata un tempo la situazione preistorica reale. Naturalmente, può anche darsi che
intervengano dei pregiudizi in uno dei due campi, tali da impedire
l’accertamento imparziale della verità.
O, se si vuol esser meno presuntuosi, della veridicità. Vedi, ad es., la tesi del Furon da noi
esposta nel capitolo precedente; per un lungo periodo, praticamente tutto il
tempo di stesura di questo libro (ben 24 anni, dunque!), non riuscivamo a
trovare un compromesso fra quanto attestato dall’allora massimo rappresentante
della paletnologia francese nel suo datato ma ciononostante ancora bel Manuale di preistoria e la tesi di fondo
di questo libro. Sarebbe bastato capire
chi fossero questi dannati proto-europei, unici abitatori dell’Europa
pleistocenica, ed il gioco era fatto.
Invece, purtroppo, siamo involontariamente saltati da un pregiudizio
all’altro; in primo luogo incocciando contro i dati archeologici, eppure il
dato di per sé è neutro oltreché inoppugnabile, bisogna semplicemente
utilizzarlo al meglio. Sicuramente il
fatto di non esser riusciti dopo la prima laurea a Venezia (in Lingue e
Letterature Orientali) a frequentare un corso di specializzazione in
Archeologia, colla costrizione a passare prima per una seconda laurea a Torino
(in Lettere Moderne) ad un certo punto abortita, ci ha giocato un brutto
scherzo. In secondo luogo, cozzando
contro altri dati, trasmessi a livello tradizionalistico (para-massonico), che
fino a non molto tempo fa non sapevamo adeguatamente interpretare;
principalmente, l’idea che dal Polo Artico gli uomini dei tempi adamici si
fossero propagati nel globo a raggiera.
Ci pareva da parte nostra, viceversa, che per rilevare l’espansione
delle razze e delle loro relative culture a livello antropico fosse necessario
unicamente adattare la visione del nostro schema al modello proposto dalla
cosmografia puranica. Un modello che è
sottosotto accettato da ogni cultura tradizionale, se la si confronta cum grano salis con quella indiana. Questa però non era la visione giusta. Noi infatti vediamo il sole spostarsi nella
giornata ed illuminare ora un luogo, ora un altro; non per questo le persone si
spostano qua e là per seguire il movimento della luce, piuttosto s’adattano a
sfruttare le trasformazioni della luminosità quotidiana secondo la propria
convenienza. Egualmente deve esser
avvenuto anche coll’insediamento umano nei vari continenti, indipendentemente
da quel flusso di culture e di civiltà che la cosmologia hindu testimonia
essersi svolto in direzione solare.
Vi è una ragione precisa,
tuttavia, che giustifica il nostro errore; vale a dire un’imprecisione della ‘Bibbia’ (61), che ci ha inconsapevolmente o meno molto condizionato. Secondo la Gen.-iv sgg, difatti,
Adamo (l’Uomo del nostro Manvantara,
che la tradizione zingara identifica non per niente a Manu) ha avuto 3 <Figli>.
Come interpretare questo dato?
Abbiamo già visto quanto sia difficile e problematico comprendere la
reale portata paletnologica dei 3 <Figli> della leggenda noaica. Qui è la medesima cosa, se non peggio, perché
si torna maggiormente addietro nel tempo.
La Storia delle Religioni, pregiudizialmente (in ispecie attraverso la
persona del pur grande Eliade), ha dedotto dall’analisi testuale che nella
tradizione giudaico-cristiana non esisteva un computo del tempo ciclico come in
altre tradizioni. Ciò è del tutto falso,
basterebbe rifarsi all’Apocalisse
giovannea per dimostrarlo. La verità,
dunque, è che la ciclicità nella Genesi
è trasposta in allegoria. Allegorica è
la leggenda dei fatidici ‘Sette Giorni’ della Creazione (ibid., §§ 1-2.4°),
allegorica sono pure la nascita e la vita di Adamo ed Eva (ib., §§ 2.4b-3) ed,
altrettanto, si può dire degli altri 3 momenti fondamentali di codesta narrazione:
a) la triplice figliazione dei mitici Progenitori (§§ 4-5.8); b) i Patriarchi
antidiluviani, la corruzione del genere umano ed i tempi immediatamente
post-diluviali (§§ 5.9-10), c) l’edificazione dell’infernale Torre di Babele,
la serie post-babelica dei Patriarchi semiti tramite Eber (Abramo, Isacco,
Giacobbe) e le dodici tribú ebraiche (§§ 11-50). Dato che la tradizione giudaico-cristiana
s’inserisce a suo stesso dire nell’alveo dei discendenti noaici, cioè nel vasto
gruppo di culture camito-semito-iaphetiche, non è difficile intravedere nei
‘Sette Giorni’ di Yahweh-Elohīm (equiparabile concettualmente allo Yima-Kšaeta
iranico, il Jamšīd neoiranico)
qualcosa di conforme ai ‘Sette Manvantara’
induisti. Dal che si può dedurre che gli
altri 4 periodi, all’interno del ‘Settimo Giorno’ (nella serie quaternaria
Adamo-Caino-Noè-Nimrod)(62), altro
non siano che le famose 4 Età mitiche della letteratura indoeuropea (63).
Per cui i 3 <Figli> d’Adamo (s’intende, i 3 ceppi di discendenza
dell’uomo primevo) risulterebbero di conseguenza coincidere o quasi colle
figure dominanti dei 3 cicli minori dell’Età Argentea di classica memoria,
insomma il Tretāyuga degli Indiani. In base a siffatto ragionamento avevamo
identificato Qayin, Hevel e Šeth sin dalle prime stesure di codesto libro vicendevolmente ai 3 avatāra del Tretā
hindu; ovvero a Vāmana, Paraśurāma e Rāmacandra. Sennonché
le cose non quadravano del tutto, giacché Abele moriva e la Gen.- iv. 17 parlava di Lamek come d’un
cainita. Questo Lemek era d’altronde l’unico possibile corrispettivo ebraico del Rāma indiano, in termini etimologici; tanto piú che in v. 25
il nome veniva raddoppiato, alludendo questa volta al padre
dell’<aratore> Noè (64), un
po’ come succedeva nell’induismo con i 2
Rāma indicati. Quindi non ci restava che immaginare vi fosse
stato un passaggio di consegne non solo a livello culturale fra il V ed il VI
Ciclo Avatarico, ma anche a livello etnico.
Cosa che comportava numerosi problemi, poiché induisticamente Vāmana è descritto come un nano, Par(a)śu come un
gigante. Era dunque l’altezza dei membri
della nostra specie un fattore talmente elastico da accorciarsi ed allungarsi
ogniqualvolta un ceppo umano si trasferiva da una sede geografica ad un’altra? Di certo i climi influiscono sulla crescita e
lo sviluppo osseo degli animali, compreso quello dell’uomo, soprattatutto nei
lunghi periodi. Ma se era accettabile un
passaggio dal gigantismo adamico (cosí è
descritto Adamo nella cultura ebraica, con allusione all’ascolto dei Cherubini in excelsis) al nanismo cainita
(correlato, chiaramente, al culto induistico – d’origine austronesiana – di Vāmana, il Primo Orticoltore) nell’arco di 25.920 anni ossia
di 4 eoni (ebr.’ōlam)(65), considerando in parallelo il gran trasferimento dalla fredda
ecumene polar-boreale alla calda ecumene australe per via oceanica (pacifica)
sfruttando sicuramente una rudimentale navigazione, non si poteva al contrario
ipotizzare una veloce riconversione al gigantismo sol nell’ambito di 6.480 anni
ossia d’un ‘grande anno’. Neanche
pensando ad un trasferimento dai caldi mari australi a quelli maggiormente
freddi dell’ecumene polar-antartica, pur tenendo a mente che la forza di
gravità ai poli geografici risulta minore.
Eppure, poggiandoci su Gen.-iv.
17, avevamo finito per accettare assurdamente tale possibilità. Visto che, oltretutto, si presentava in linea
col movimento di espansione in direzione solare delle culture umane secondo la
dottrina avatarica; inoltre anche il <Terzo Figlio> di Adamo, Seth,
veniva dalla tradizione ebraica associato ai Cainiti per mezzo della leggenda
della prima corruzione del genere umano.
Leggenda che i Greci conoscono come quella di Tifone e della relativa
‘Gigantomachia’. Non ci siamo accorti
disgraziatamente che Seth e gli angelici <Figli di El> (la ‘progenie
solare’) a lui correlati (vi. 1-4) per forza di cose non potevano discendere a
loro volta da Caino, secondo quanto pur tramandato dalla ‘Bibbia’; almeno in toto, sul piano etnico, il piano culturale essendo d’altronde
strettamente connesso. Del resto, il
testo biblico parla di Seth quasi come di un secondo Abele. Potremmo
ipotizzare, piuttosto, una duplice ibridazione.
In altre parole, una trasmissione etnoculturale dall’ecumene
austral-orientale (austronesiana) a quella austral-occidentale (sud-amerinda),
fermo rimanendo il fatto d’un apporto grandemente maggioritario proveniente da
nord; nei cui confronti la componente proveniente da sudest ha agito
necessariamente quale fattore spiritualmente disgregante, pur essendo per quei
tempi preistorici culturalmente piú
avanzata.
d) Il
precedente retaggio: Ciclo dei Nani e Ciclo dei Titani
dei Drāviḍa, è necessario
Innanzitutto distinguere fra Proto-australoidi e Paleo-indonesiani; gli uni
avendo raggiunto via mare le coste
meridionali dell’India (66) per poi
slanciarsi verso sud-ovest (67) e
gli altri essendo rispettivamente emigrati via terra fino ai confini
nordorientali del subcontinente indiano, onde poi proseguire lungo il litorale
asiatico-meridionale fino al lato occidentale del Mediterraneo. Ma vi è stata un’ondata da parte di
quest’ultimi che s’è spinta anche verso il Madagascar, non per
circumnavigazione della costa africana, come comunemente si crede; ma semmai
per circumnavigazione delle coste dell’India Occidentale e delle terre allora
emerse della dorsale oceanica, successivamente divenute isole per sommersione,
testimoniata in termini leggendari dai testi sacri. Vedi la leggenda della bevuta dell’Oceano
Indiano da parte di Varuṇa, doppiato in
ciò dal Ṛṣi Agastya. Difatti, per un verso ritroviamo dei
protoaustraloidi in Sud dell’Africa sotto forma dei loro discendenti odierni,
Ottentotti e Boscimani (68); per un
altro verso constatiamo la presenza di paleoindonesiani, sia pur minoritaria,
presso l’antica civiltà indica. A nostro
giudizio i movimenti marittimi del ramo proto-australoide hanno condotto alfine
il tragitto antarto-sudafricano verso sud-ovest, fino alle coste meridionali
dell’America; o meglio dell’Atlantide (Meridionale), collegata all’Antartide
Anteriore, supposta come tale dal prof. C.Hapgood basandosi su antiche carte
nautiche del tipo della mappa cinquecentesca del Piri Re’is. Malauguratamente
quelle preziose carte (salvate qualche giorno prima da mani premurose, secondo
certuni, dall’incendio doloso della Biblioteca di Alessandria d’Egitto) erano
già state messe alla berlina indirettamente da parte di alcuni scrittori come
E. von Daniken e L.Pauwels, sostenitori della teoria irrazionale degli ‘antichi
astronauti’; sicché anche lo storico della scienza americano, benché insegnante
al Keene State College del N.Hampshire, rientrò suo malgrado nella campagna di
diffamazione generalizzata nei confronti dello spinoso argomento (69).
Tornando alla questione, ciò senza bisogno di dover circumambulare
l’Africa Orientale, poiché la penisola indiana si spingeva una volta molto piú a sud, dando retta alla cosmografia
puranica. In tale nuova ecumene il ceppo
proto-australoide secondo la tradizione leggendaria ebraica pare riemergere nel
suo sembiante tipicamente cainita, distinto da quello sethita giunto da nord e
palesante tratti etnoculturali assai differenti. Il che, naturalmente, deve essere accaduto in
tempi piú recenti di quelli dei suddetti spostamenti marittimi all’interno
dell’Oceano Indiano.
Il fatto di classificare come
anari tutte le tribú non-arie ha creato comunque una gran confusione riguardo
il mondo pre-ario. L’unica
giustificazione per questo modo di procedere è che, purtroppo, lo stato di
conservazione dei credi e dei miti antecedenti all’avvento degli Ari è tale che
parrebbe quasi impossibile distinguere nel gran caos creatosi fra componenti
etniche e fattori culturali. Anche
perché molti di questi elementi sono divenuti parte integrante dell’induismo
storico. Perciò è arduo discernere fra
di essi, pur partendo dal Veda, quel
che è da attribuire agli uni o agli altri.
La prima distinzione che va fatta
esaminando la posizione religiosa degli Anari, per sgombrare il campo dagli
equivoci, è di assegnare alla cultura e alla civiltà dravidica quel che le
spetta. Ed è molto, il pantheon induista
non sarebbe tale senza l’apporto dei Drāviḍa, ma non è
detto che tutto quel che come tale rientra nell’induismo esaurisca la loro vera
fede. Evidentemente c’è qualcosa che ci
sfugge nel tentar di ricreare un quadro d’insieme delle loro concezioni mitiche
e della loro condizione spirituale prima della subordinazione agli Ari. La civiltà egizia, la civiltà cretese, la civiltà
sumera e quella elamica erano civiltà camitiche, magnifiche da ogni punto di
vista; perché non avrebbe dovuto essere tale anche quella paleo-dravidica,
altrettanto antica? A giudicare
dall’antica Civiltà dell’Indo, dovremmo avere un’alta opinione di essa. Entrare nei dettagli non possiamo in
quest’occasione, ma di certo appartengono al culto dravidico tipicamente i riti
orgiastici collegati colla pratica agricola e la venerazione della Madre Terra;
intesa non quale controparte in senso spaziale del nume uranico, alla maniera
vedica, ma piuttosto nella sua specificità pagano-sacrificale. La Terra, in quest’accezione, non era un
territorio da percorrere nomadicamente, bensí
un recinto ove operavano segretamente gli dei agrari. Da notare che come abbiamo in precedenza
supposto i Dravidi credevano negli Eroi (Bīr = Vīra), anziché nei Titani (Daitya), non meno dunque degli Ari; essi erano infatti i loro
antenati, come per gli Ārya.
L’unica differenza, logicamente, era che gli antenati dravidici
possedevano un aspetto piú camitico che
iaphetico. Altri tratti peculiari della
religione dravidica sarebbero, a sentir gli studiosi (70), “la sospensione delle normali regole esogamiche o endogamiche
tribali, l’uso del linguaggio osceno, la danza frenetica, l’ebbrezza alcoolica,
la provocazione di rumori violenti, il consumo di enormi quantità di prodotti
alimentari…”. Un po’ riduttivo,
forse. Osservando altri popoli camitici,
come gli Egizi e i Sumeri, possiamo attribuire al paleo-dravidismo molto di piú di quel che si fa di solito. A cominciare dall’impiego dei templi di forma
piramidale, quale si osserva in epoca medievale nell’India Meridionale. L’utilizzo dei templi per le pratiche
devozionali è maggiore, anzi, fra i camiti che fra i semiti e gli iapheti a
causa del loro sedentarismo. Un’altra
caratteristica della cultura dravidica è
l’uso masiccio d’immagini liturgiche, esaltanti mediante la vivacità dei colori
ed il loro geniale accostamento il valore estetico delle forme concrete, a
differenza degli Ari; piú propensi, invece, nelle arti alle formule astratte (mantra, sūkta)
o geometriche (yantra, maṇḍala). Si spiega in
tal modo, per via dell’influenza dravidica, lo sviluppo notevole
dell’iconografia nell’India antica e medievale.
Il confronto coi tempi vedici (pur non sapendo quali siano gli esatti
confini cronologici fra una civiltà e l’altra), da questo punto di vista, è
oltremodo impari. Non crediamo d’andar
lontan dal vero se affermiamo che l’arte camitica in generale, considerando
anche gli apporti di altre civiltà apparentate sorte attorno ai grandi fiumi
dell’area indomediterranea durante il Periodo Neolitico e quello Protostorico,
è l’arte piú bella e gratificante ed
iconologicamente piú preziosa di tutta
l’Antichità. Anche l’allevamento bovino,
impiegato a scopo agricolo, è un tratto saliente dell’etnia camitica e lo
ritroviamo difatti persino presso le tribú camito-nilotiche dell’Africa
Nordorientale (commiste ai gruppi paleo-negritici); le quali (ad es., certi
allevatori come i Nandi) hanno nomi che la dicono lunga sull’origine di certe
vetuste e rinomate deità indiane (quali Nandin,
il veicolo bovino di Śiva), che però stranamente non è
rintracciabile nei sigilli vallindi (70). Forse perché, a parte il nome, la sua
caratterizzazione teriomorfica dipende dal contesto ario-vedico. Vi è altro.
Ad es. la ripartizione ieratica in caste, seppur presente in egual
misura fra gli Ārya, a giudicare dalle figure
sacerdotali indossanti bianche vesti ornate con motivi a trifoglio presenti nei
reperti archeologici dell’antica Valle dell’Indo. Per non parlare del Trifoglio stesso, che
simbolizza qualcosa d’analogo ad una Trimūrti, ad una
Trinità o a qualche altro ternario.
Potrebbe trattarsi forse d’una raffigurazione del Tripuruṣa della Gītā,
testo che considerando la vera età di stesura orale del Mahābhārata era quindi
già stato compilato. E, d’altra parte, Kṛṣṇa non può che collocarsi in tempi
pre-ari se intendiamo questo termine in senso etnico restrittivo. La versione scritta del poema che è giunta
fino a noi appare però fortemente arianizzata e, dunque, non rispondente al
vero dal punto di vista storico; è evidente che la versione primaria, anaria,
ha subito un processo di revisione tematica e di sanscritizzazione sul piano
filologico. Esiste comunque un criterio
sicuro per distinguere gli elementi mitici in base alla loro provenienza. Tale criterio è lo sforzo di classificazione
cronologica che è stato compiuto, con eccelsi risultati, nella formulazione del
Ciclo Avatarico.
Il Ciclo Avatarico non è tuttavia
suddivisibile per etnie, ma semmai per cicli culturali; e questa è l’unica vera
cosa che importi, volendo andar oltre il consueto eurocentrismo. Il paleo-dravidismo corrisponde in tal senso
al II Ciclo Krishnaita, il Ciclo del Kṛṣṇa-auriga
e a quanto ne sussegue nella Civiltà dell’Indo, sebbene il culto vishnuita
scemi momentaneamente a favore di quello shivaita. Il periodo indoario, grosso modo, è quello
seguente alla discesa degli Ind-ari nel subcontinente indiano, dopo essersi
stanziati per qualche millennio probabilmente in area panjabica o
circostante. Se la tradizione hindu
dichiara per bocca dei Tantra che la
Conoscenza vedica ha fatto il suo tempo nell’Epoca Kali, è perché nel Medioevo il processo di induizzazione è giunto
al termine ed ha apportato grandi modifiche alla società indiana. Il Vedismo degl’Indoari di per sé era
parallelo al culto orgiastico dei Paleo-dravidi, cosí come i Camiti lo erano
cronologicamente agli Iapheti, tanto in Epoca Pre-neolitica quanto in quella
Neolitica. Indra e Kṛṣṇa-Jagannātha nella loro
forma originaria appartengono al medesimo tempo, il Mesolitico, pur svolgendosi
i due culti in due zone geografiche separate.
La versione tardiva del Mahābhārata, al
contrario, li unisce facendo di Indra
un dio kritayughico e di Kṛṣṇa
un avatara dvaparayughico; ma è
evidente che le cose dovevano stare diversamente allorché gli Ari non erano
ancora entrati in India. Da dove viene
perciò, ci si può chiedere, il dio aureo dell’induismo tardo? Brahmā, stando alla
storia del Re Pescatore, è connesso ai Dasa
e costoro non sono degli ari secondo quanto abbiamo già stabilito (71); ma neanche dei Drāviḍa,
sono dei discendenti di Paraśurāma.
È col VI Ciclo Avatarico, del resto, che si comincia a parlare nella
tradizione hindu di famiglie brahmaniche vere e proprie come quella di Jamadagni (72). A Kaliyuga inoltrato è avvenuto l’incontro e la fusione del culto
vedico con quello dravidico e questo spiega il trionfo momentaneo di Indra per trasposizione a dio aureo, ma
colla progressiva decadenza del vedismo le cose sono di nuovo cambiate ed è
ritornato a trionfare Brahmā, il dio che il
culto dravidico aveva ereditato dal cd. ‘Ciclo dell’Ariete’ (il Ciclo Ramaita,
parte di quello propriamente titanico, stando i Greci) e che gli Ari avevano
evidentemente messo in penombra. Se Brahmā fosse stato fin dall’origine un dio
vedico, o meglio ario, perché mai avrebbe dovuto esser ripristinato quale dio
del Satyayuga nell’India medievale
ormai induisticizzata? La riformulazione
del Veda poco prima dell’inizio della
Quarta Epoca era accentrata, similmente all’Avesta
orale arcaico (che non deve esser stato concepito in tempi molto posteriori)
attorno all’ossequio a livello cosmologico dell’asterismo di Orione,
identificato a Prajāpati; il quale
altro non è, etimologicamente parlando (prefisso a parte), che l’ebraico Iaphet
ossia l’ellenico Giapeto. Venuto meno
tale culto nello scontro-incontro fra Ari ed Anari, col trascorrere della
precessione vernale, assistiamo insomma ad una lenta ma inesorabile
rivalorizzazione delle tematiche dravidiche; delle quali il Tantrismo
costituiva l’aspetto esoterico piú
pertinente, pur inglobando anch’esso – soprattutto nel Dakṣiṇacāra
(‘Cammino di Destra’) – elementi culturali discesi dal mondo
pre-dravidico. Questi elementi,
rimanendo alle congetture accademiche, parrebbero essere semplicemente quelli
scaturiti dal mondo austronesiano e provenienti dal ramo proto-astraloide da un
lato e dal ramo paleo-indonesiano dall’altro, rispettivamente stanziati nelle
due zone dell’India già indicate. A sud
il ceppo veddoide (73), dedito a
caccia e raccolta (74); ad est il
ceppo mundarico, dedito principalmente alla pastorizia e maggiormente
acculturato, ma in principio praticante il metodo economico dell’orticoltura
primitiva colla zappa ed il bastone da scavo.
Di norma il quadro dell’India
pre-aria e pre-dravidica si esaurisce in tali constatazioni, sacrosante ma
limitative; in questo modo si comprende esclusivamente uno dei due cicli
anteriori tramandati dalla tradizione hindu, il Ciclo dei Nani, concernente i
pigmei asiatico-meridionali (austronesiani).
Donde i Vedda (75) ed i Munda
(76) sono derivati. La tradizione hindu, invece, non si ferma
qua, asserendo che è esistita una primordiale “arianizzazione” del territorio
indiano al tempo del Titano Paraśurāma (77). Come crederle? Per forza di cose dobbiamo crederle,
altrimenti dovremmo metter in discussione anche tutto il resto. Proviamo ad analizzare il problema in
dettaglio, premettendo che una tribú richiamantesi al primo Rāma, i Rāmośī
(78), esiste davvero. Il V ed il VI Ciclo Avatarico hanno visto
quali protagonisti, a vicenda, Vāmana e Paraśu:
l’uno era nano e come tale viene presentato nell’iconografia, l’altro un
gigante ed in questo caso l’iconografia appare meno esplicita. Ma se leggiamo le storie che li riguardano
non possiamo non rammentare i paralleli biblici di Qayin e Hevel. Nella Genesi
i due fratelli – in altra versione della leggenda sono gemelli (79) – non differiscono molto in
altezza, sono diversi per costumi, l’uno essendo presentato quale primitivo
orticultore e l’altro quale ancestrale pastore (80). Fatto inconsueto,
rispetto alle tematiche usuali dei miti, è il piú
vecchio che uccide il piú giovane; sebbene l’omicidio sia in seguito ribaltato
da Lemek, alter-ego di Hevel, che annienta Qayin. Proprio il nome di
questo personaggio ci spinge alla comparazione con Rāma,
Paraśu ovviamente o Parśu se preferiamo. I Greci lo hanno denominato Περσεύς, a dimostrazione che la vicenda a questi assegnata
era di matrice persiana; non la Persia storica, dove il nome si è ristretto ed
è stato sostituito dalla voce Iran in
ragione dell’occupazione aria in tempi neolitici, bensí la Persia preistorica del Tardo Paleolitico (81).
È lecito ritenere comunque che prima dell’occupazione da parte degli
Iranari sia avvenuta quella dei Proto-elamiti, un po’ come è avvenuto in Grecia
coi Proto-pelasgi ed in India coi Paleo-dravidi. Il Ciclo dell’Ariete (82) invece è occorso, esattamente, fra il 29.400 ed il
22.920. Perciò la figura di Perseus-Parśu, crediamo il Ferēdūn
della mitologia iranica (83), è
presumibile abbia svolto la sua funzione avatarica alla fine di questo periodo
oppure a cavallo fra il VI ed il VII Ciclo Avatarico; in una Persia che, come
si può facilmente capire, era indistinguibile dall’India. Visto che la cultura tardo-paleolitica non
aveva ancor subito quel processo di differenziazione linguistico-territoriale
avvenuto dal Kaliyuga in poi. Biblicamente, a partire dall’infernale ‘Torre
di Babele’, il corrispettivo giudaico-cristiano dell’Età Oscura.
Se si vuol capire chiaramente
quanto andiamo dicendo bisogna tener conto che prima di Vāmana
e di Paraśu, cioè di Hermês e Perseús (84), hanno svolto la loro relativa funzione altri 4 avatara e di
codesta loro esistenza è traccia in tutte le zone estremo orientali del globo (85); tranne che per il IV, ma ciò è un
problema che andrebbe trattato separatamente (86). Ciò è attestato oggi
in maniera esplicita da parte degl’indologi indigeni, a differenza di quelli
occidentali. È del tutto evidente che il
conflitto fra Nani e Titani non vada inteso allegoricamente, come la storia
biblica di Davide e Golia. Vāmana (il ‘Nano’), o meglio i suoi discendenti nel ciclo
successivo, è del resto l’aggressore in questo caso ma ne avrà la peggio. Vedi strage dei guerrieri da sacrificare agli
Antenati (87), perpetrata per
vendetta dopo l’uccisione del padre, da parte di Paraśurāma. Abbiamo a che fare, piuttosto, con due cicli
diversificati. L’uno, che potremmo
definire dei Nani, riguarderebbe coloro che la tradizione biblica definisce
Cainiti (88); l’altro, che potremmo
appellare dei Titani (o dei Giganti, ma non è in tal modo che viene presentato
Perseo in Grecia), riguarderebbe viceversa gli Abeliti (Heveliti) o Lamekiti
(Lemekiti) che dir si voglia (89). Non stiamo qui a trattare del ciclo avatarico
successivo, il VII, quello del secondo Rāma; omologabile
al secondo Lemek biblico,
identificabile a sua volta a Šeth. Concerne la storia di Rāmacandra
che sconfigge Rāvaṇa, il mostro a 10 teste, delle quali
una asinina; i Greci gli danno il
nome di Tifeo, Tifone o Tifaone, attribuendogliene 100 (90), ma anche per essi la pelle rossiccia è d’asino (91).
Tifone viene asssimilato a Pitone, il mitico drago di Delfi, consorte
d’una dragonessa dai molteplici epiteti; il principale dei quali è, come è
noto, Δελφίνη
(92). Tifone è stato identificato da Plutarco al
Set egizio (93), che aveva però come
il Coccodrillo – suo veicolo – un doppio
ruolo benefico (ereditato forse dagli ebrei profughi in Egitto al tempo di
Giuseppe e di Mosé) e malefico (in contrasto al culto di Horus)(94).
In sostanza, codesto mito non riguarda l’India, bensí l’America in una delle sue primitive
conformazioni; indianizzato sicuramente dai Paleo-dravidi, descrive in realtà
il primo tentativo di colonizzazione del suolo americano da parte dei
Sethiti. La leggenda ebraica (95) vuole che si siano uniti
orgiasticamente alle avvenenti cainite, generando una promiscuità di culti e di
riti riguardata dai moralisti ebraici con molto sospetto, a dir poco. In verità, è da qui che parte
quell’atteggiamento d’insofferenza verso Cam (ebr. Ḥam) e la sua
progenie riscontrabile in Gen.- ix.
27. La maledizione di Noè verso il
figlio, presa letteralmente, è assurda: viene maledetto per la sola colpa
d’aver visto il padre nudo dopo un’ubriacatura di tipo dionisiaco e d’averla
riferita ai fratelli. È evidente che vi
sia un sottinteso, ossia Cam è visto agli occhi del padre come un mezzo
depravato (nel senso di seguace di pratiche abitudinarie immorali)(96) e per questo gli lancia un
anatema: la sua discendenza verrà schiavizzata.
Spiegando il fatto dal punto di
vista storico, ci troviamo di fronte ad una sorta di visione precognitiva della
decadenza futura del ceppo camitico, dovuta ad una severa riflessione sulle
tendenze negative (sensuali) della cultura camitica. Nella realtà dei fatti, ci pare, abbiamo a che
fare con una mera constatazione di quanto già avvenuto al tempo di stesura del Pentateuco (97). Poiché, piú addietro, ad es. al tempo di dominazione
degli Egizi e dei Sumeri (l’epoca di Noè è peraltro precedente ad essa,
coincidendo con quella del secondo Krishna), non si poteva certo affermare che
i camiti fossero asserviti ad alcun altro popolo. A lungo andare però le cose, come riconosce
la Chiesa, sono effettivamente andate secondo quanto pronosticato e la
spiegazione dell’anatema crediamo sia quella data. Vi è un ulteriore fattore che può spiegare in
associazione a quello menzionato tale maledizione, vale a dire la nascita della
Controtradizione, di evidente carattere demonico (tifonico-asurico)(98); in altre parole, l’eredità
cainito-sethita e fors’anche cainito-abelIta di sud-atlantidea (sud-amerinda)
memoria da parte camitica. I Noachiti
centro-atlantidei (centro-amerindi, ma di un’America Centrale assai diversa
dall’attuale, siccome estesa nel Mar Caraibico)(99) incarnano in certo senso il riscatto nell’ambito dell’VIII
Ciclo Avatarico, che gl’indú
attribuiscono a Kṛṣṇa Gopāla, da parte
sethita. Per tal motivo la ‘Bibbia’
considera palesemente il proprio ceppo semitico, eroico (della natura cioè dei Gibborīm), superiore a quello camitico. Riguardo al terzo ceppo, iaphetico, non si pronuncia
ma decantandone la capacità d’espansione in esteso tradisce una non-celata
ammirazione. S’intuisce, per le stesse
ragioni opposte a quelle per le quali depreca il primo ceppo, ovvero la scarsa
sensualità e la maggior devozione verso il Divino. Naturalmente, a vedere l’Occidente odierno vi
sarebbe da pensare l’esatto contrario, se paragonato agli antichi fautori
camitici della civiltà dall’Egitto all’India; ma del resto l’Europa e l’America
attuali non rispecchiano per nulla il IX Ciclo Avatarico (Nord-occidentale) ed,
al di là del giudizio interessato ed in certo senso non imparziale dei
redattori biblici, va ricordato che in un modo o nell’altro ogni ciclo
costituisce sul piano spirituale un cedimento verso l’imperfezione rispetto a
quello precedente. Il Ciclo
Nord-occidentale non ha a che fare coll’Atlantide di Platone, sul piano
geografico; questa coincide con quella noaico-caraibica, piuttosto, stando alle
ricerche dell’ing. Allen. La data
riportata da Platone riguardo l’inondazione atlantidea tuttavia è invero quella
della fine dell’Atlantide Settentrionale, il cui ciclo di dominio è durato
poco, ma è continuato di seguito nell’Europa Settentrionale. L’errore di prospettiva trasmessogli
dall’Egitto è di sicuro stato causato da un errore di sovrapposizione ciclica e
cosmografica, dovuto al fatto che la catastrofe dell’Atlantide (America)
Centrale, cambiando rotta alla Corrente del Golfo nel Mar Caraibico, ha
provocato indirettamente un terribile seppur lento congelamento nella parte
settentrionale dell’Atlantide (America)(100).
Confrontata alla Grecia del tempo
l’Atlantide tramandata da Solone (l’Atlantide propriamente detta, cioè il
grande arcipelago caraibico ancora emerso durante il IV Grande Anno) apparve a
Platone il prototipo arcaico del vivere civile, ancorché la grande isola fosse
sprofondata di poi per cause naturali, che invece ovviamente gli uomini
sopravvissuti al cataclisma ritennero un castigo divino in senso per cosí dire ‘karmico’ (101). Soprattutto i Semiti,
per il carattere sentimentale (correlato all’El. Acqua) che li caratterizza,
onde pongono l’etica al primo posto a differenza dei Camiti. Anche Esiodo in parallelo a Platone ha
riservato al Ciclo Eroico (sviluppatosi nel IV G.A.) parole elogiative rispetto
al ciclo precedente (III G.A.), accusato di un eccesso di furore bellico
(correlato all’El. Fuoco). Ma la cosa
non può esser presa in senso lato.
Codesta epoca era d’altronde in termini biblici quella di Caino e Abele (102), vessata da guerre disdicevoli;
ossia, unitamente, il Ciclo dei Nani e il Ciclo dei Giganti. Il V Grande Anno ovvero l’Era degli Uomini
(scr.Manuṣa-mahāyuga)
comprende tanto il Ciclo Nord-occidentale quanto il Ciclo Nordico, dei quali abbiamo già
trattato esaurientemente per il compito ivi prefisso. A questo punto si comprenderà tutto il
disappunto espresso nel Ṛgveda da parte dei sacerdoti indoari, di
stirpe iaphetica e quindi affini eticamente ai loro pari di stirpe semitica,
nel ritrovare sul suolo indiano quelle pratiche sconce ai loro occhi – culto
del Liṅga o Śiśnadeva (il Fallo
inteso come dio, o meglio Phallus Dei)
– di tipo orgiastico-shivaico (camito-cainita) che i camiti paleo-dravidici
avevano ereditato dalla loro sede di provenienza; insomma, dalla tradizione
eracleo-krihsnaita ovvero noaico-atlantidea (103). Oltretutto,
rafforzate nella loro consuetudine giornaliera ed annuale dall’insediamento
millenario nel nuovo ambiente asiatico-meridionale del vetusto ceppo
austronesiano, primo detentore della mentalità titano-asurica. Anche i ramaiti d’origine turanica (discesi
da Paraśurāma)
avevano abitudini primitive, ma almeno dovettero apparire piú sobri e contenuti degli altri autoctoni. Da costoro gli Indoari ereditarono, con tutta
probabilità, il culto brahmanico. Non è
avvenuta la stessa cosa in Grecia, dove i Pelasgi hanno trasmesso il culto del
Fallo, al dire di Erodoto (104),
agli Elleni? Parimenti, i Proto-pelasgi
si erano ibridati con gli antichi Danai (discendenti di Danae, la madre di
Perseo)(105); come mostra il mito di
Daianira, madre di Eracle. Seppure il
personaggio sia stato successivamente ellenizzato, facendone il figlio di Zeus;
ma in origine era di certo l’emanazione principiale d’una divinità suprema
maggiormente astratta, al modo del Puruṣottama hindu, che costituisce
assieme a Kṛṣṇa ed al semplice Puruṣa
la Trinità mahabharatiana (106). Fuori del mito è lecito pensare che in tutta
Europa si fossero diffusi dappertutto, nei limiti imposti dalle condizioni
climatiche durante il periodo della glaciazione tardo-paleolitica, quei
proto-europei discesi dal ceppo proto-persiano (proto-turano)(107) che la paletnologia chiama
‘cromagnoidi’. Possibile anzi probabile
che tal ceppo disponesse d’una netta dominante cro-magnoide, ma che nascondesse
al suo interno una ibridazione minoritaria col ceppo austronesiano, vista
l’importanza sul suolo mediterraneo delle incisioni e delle pitture parietali
prima dell’arrivo in epoca pre-mesolitica di nuovi venuti da Oltreatlantico. Dopo quest’apparente digressione, allorché
piú avanti affronteremo il tema ittico a Creta e a Delfi, si constateranno le
affinità cultuali dirette fra il Κῆτος della leggenda di Perseo ed il Delfino apollineo delfico-cretese (108).
Altre connessioni indirette saranno svelate, prima ancora, da un’analisi
del simbolismo zodiacale del medesimo cetaceo in questo stesso capitolo; e, a
proposito del Tripode delfico ad esso concatenato, verranno esaminate nel
prossimo capitolo le sue vere origini. In
base a quanto ora spiegato (109), le
relazioni etnoculturali fra i vari fattori presi in considerazione appariranno
senz’altro piú chiare.
e) Rāja Khidār: l’aneddoto della
‘Disseccazione’ del Pesce
e della ‘Rivivificazione’ del
medesimo
Ora torniamo all’argomento
principale del nostro dibattito: la tematica ittica. Altre storie simboliche col Pesce per
protagonista, dapprima inerte ma in seguito capace di tornare alla vita e
fuggire nell’oceano, ritraggono le gesta leggendarie della figura indo-islamica
di Rāja Khidār alias Seyidnā El Khidr (var.Kwājā Khizr). Tali storie sono commentate da Coomaraswamy
in uno splendido articolo (110),
alla luce di corrispondenti riferimenti iconografici d’Epoca Mughal (XVIII-XIX sec.). L’autore dopo aver sottolineato le analogie
strutturali tra Pesce (Matsya),
Coccodrillo (Makara) e Serpente (Nāga), rileva la presenza nel folclore indiano d’una dinastia
facente risalire la propria origine all’unione d’un re umano con una nāginī. A parere di Coomaraswamy ciò poteva esser
messo in rapporto col ratto di Vāc, la Parola
Divina; personificata nei panni d’una Apsaras,
o “Vergine delle Acque, nata dalle potenze dell’Oscurità...” Abbinavasi a cotale re umano quale alter-ego
un “eroe solare, figlio d’una vedova”, insomma uno ierofante; “allevato lontano
dal mondo e nell’innocente ignoranza del suo vero stato”, sul modello del
Parsifal della saga graaliana.
L’aneddoto della ‘Disseccazione’
del Pesce, emblema della Rivelazione Paradisiaca, e della ‘Rivivificazione’
dello stesso – c’insegna lo studioso – è rintracciabile in India comunque
persino nei Brāhmaṇa (J.B.- iii. 193). Śarkara, lo Śiśumāra-ṛṣi (il Rishi sotto forma di
Delfino ), essendosi rifiutato di lodare Indra
viene gettato su una spiaggia desolata e disseccato dal vento boreale; fino a
che il ‘Re degli Dei’, nella forma di Parjanya
ossia di dio della pioggia (cfr. col lat. Iuppiter
Pluvius)(111), lo
rivivificherà. Soltanto dopo, però, che Śarkara abbia composto un canto di lode
in onore del nume. Salito in cielo, egli
diverrà la costellazione del Delfino, situata nei pressi del Capricorno. Attraverso Śarkara, pertanto, si crede che
Indra regoli il flusso delle ‘Acque’ (P.B.-
xiv. 5, 15).
È lecito quindi indirettamente
asserire che, pur non essendo il personaggio indo-islamico sopra indicato
legato ad alcuna specie ittica particolare, anche la vicenda di El Khidr (o El Khizr) rientri nell’ambito del culto del Delfino; cioè d’un
culto di tipo apollineo ma non piú aureo, a meno di trasposizioni sempre possibili (112).
Le figure greche che ora presenteremo ivi di seguito s’inseriscono in
tale filone interpretativo, pur con delle eccezioni, poiché è indiscutibile che
pure in Grecia vi fossero richiami all’Età dell’Oro e all’originario Paradiso
Artico cui alludono enigmaticamente le storie di El Khidr (lett. ‘Il Verde’).
A questi fa da contraltare nel mondo greco-islamico (Qūr.- xviii. 82) –
com’è noto – un personaggio chiamato Dhū’l-qarnain; lett.
‘Quello delle due Corna’; il quale, pur non avendo nulla a che fare colla
tematica ittica, è coinvolto in tematiche ad essa correlate. Questi altri non è se non l’Alessandro Magno
trasfigurato da una leggenda siriaca del IV sec. d.C. (113). La storia emblematica
narrata nel sacro testo islamico (vv. 82-98) narra delle 3 vie seguite dal
grande condottiero, a mo’ di cakravarti (azionatore
della ruota-cosmica), per conferire ritualmente alle 4 Direzioni – oltre le
quali ne va concepita un’altra in senso quintessenziale – il loro ruolo di
garanti del sostegno del mondo. Per
questo, essendogli stato concesso da Dio di realizzare quanto può umanamente
esser realizzato, ecco che Alessandro giunge dapprima dove tramonta il sole (ad
O), presso una fonte limacciosa (Porta degl’Inferi); vi dimorano delle genti,
che verranno castigate o ricompensate, a seconda di quel che avranno
fatto. Presa una seconda via, si reca
nel luogo ove sorge il sole (ad E) ed incontra un popolo senza casa né
vestiario. Evidentemente, si allude qui
alle genti paradisiache, anche se nel testo non si aggiunge niente al
riguardo. Piú difficile da interpretare è la terza via, per la quale egli
arriva in mezzo alle due montagne (a nostro giudizio i Poli, o meglio N e S). Quivi vi è gente che appena comprende
parola. Essa gli chiede di porre una
barriera fra lei e la corruzione, apportata da Gog e Magog. Sicché Dhū’l-qarnain domanda
che vengano portati ferro e rame fuso, onde colmare i versanti fra le montagne,
rendendo impossibile scalare la muraglia da parte di Gog e Magog. La leggenda ha un senso solo se si tien conto
di quanto appena detto, ossia che ivi Alessandro funge da <Signore della
Ruota>. In tal maniera, è chiaro che
la sua iniziativa è quella di verificare tutti i pilastri del mondo, poiché è
per essi che l’anima deve passare per giungere a Dio; vale a dire – in
relazione all’ultima età ciclica, da O a N, da N a E, da E a S. Quivi, naturalmente, è posta la Porta
dell’Assoluto.
f) Glaukós, un parallelo ellenico
– in 4 forme allotipiche – di Matsyendra
Tra l’El-Khidr indo-islamico, il Γλαυκός greco ed il Matsyendra (od il Mīna) hindu,
ciascuno dei quali è associato leggendariamente ad un ‘Pesce Miracoloso’, vi è
per certo un’esatta equivalenza, quantunque la leggenda shivaita riportata nel
precedente capitolo si discosti tematicamente dalle altre due. Tutti e tre questi numi ad ogni modo
configurano essenzialmente la funzione spirituale personificata nell’insieme
presso i Latini da Giano e Saturno, cioè rispettivamente il Signore della
Rivelazione Primordiale ed il Trasmettitore della Tradizione Primeva (114); concetti questi che taluno
sommariamente identifica (per certi aspetti ciò avviene anche a livello
tradizionale, come mostra il personaggio composito di Yima Kšaēta
nell’antica Persia, islamizzato di poi in Jamšīd), ma che
andrebbero in verità distinti. Proprio
come accade mitologicamente parlando colle figure di Urano e Crono in Grecia
oppure di Varuṇa e Kāla,
alternativamente Yama e Savitar, in India. Si deve sottolineare a tal proposito, per
esser precisi, che la prima delle due suddette funzioni (rivelativa, o
rivelatrice che dir si voglia) è detenuta dalla coppia Giano-Yama e presa a
prestito da quella di Urano-Varuna per trasposizione verso l’alto; analoga cosa
dicasi per la seconda funzione (trasmissiva, o trasmettitrice), assegnata alla
coppia Crono-Kala, ma concessa pure alla coppia Saturno-Savitar per
estensione verso il basso del loro dominio simbolico
Vi è inoltre nel folclore
siciliano un certo Cola Pesce (115), che può essere considerato
l’equivalente italico del Glauco greco.
La Seppilli (116) lo ha
paragonato pure ad altri soggetti della mitologia pagana o della fede
cristiana, coi quali sembra in qualche modo in contatto tanto da un punto di
vista filologico come da quello culturale; tra di essi ricordiamo Poseidone (117), Odino (118), San Nicola e Santa Klaus (119). Si tratta però di
identificazioni piuttosto sommarie, che andrebbero meglio specificate, per le
quali rimandiamo in ogni caso al bel libro dell’autrice.
Circa Glauco (dal gr. glaukós = ‘verde-azzurro’), va
innanzitutto specificato che i vari personaggi della mitologia ellenica i quali
portano siffatto nome sono con tutta probabilità dei doppioni d’un unico
personaggio divino. Il Kerényi (120) c’informa a questo riguardo che
secondo i racconti cretesi in origine egli era un leggendario <pescatore>
trasformatosi in seguito, dopo aver gustato il <fiore> d’una Pianta
Miracolosa conferente l’Immortalità, in una divinità marina. O se preferiamo in un dio-pesce, descritto
figurativamente col busto umano e la coda pescina. Il Graves (121) dal canto suo riassume diversamente la storia, asserendo –
sulla base di Ateneo Gramm. (vii. 48 ss),
Tze-tze (Sc.- vs.754 ss), Ovidio (Met.- xiii. 151 ss), Pausania (Per. – ix. 22, 6 ss) e
Servio (in Verg., Georg.- i. 437 ss) – che Glauco Antedonio (figlio di
Antedone e Poseidone, ma talora senza il matronimico è figlio di Doride e
Nereo) notò un dí le virtú curative di un’Erba Miracolosa seminata da Crono
nell’Età Aurea; siccome un ‘Pesce Morto’ (emblema dell’Ignis Primigenus ormai quasi spento), adagiato su quell’Erba (la
Gnosi intesa come Alimento, corrispondentemente al detto indiano Jñana Anna, di valore universale),
subito riprendeva vita. A nostro parere
tale personaggio viene da lui erroneamente troppo differenziato rispetto
all’omonimo figlio di Minosse e Pasífe.
Lo stesso studioso però, nonostante la mancata omologazione tra le due
suddette forme di Glauco – alle quali riteniamo se ne debbano aggiungere anche
altre due, ossia Glauco il Vecchio (figlio di Sisifo e padre di Bellerofonte) e
Glauco il Giovane (nipote di Bellerofonte) – giustamente considera tale Magica
Erba analoga all’Erba d’Oro dei Druidi
(122). Il che appare assolutamente
inoppugnabile.
f)
Il duplice aspetto ittico e
piscatorio
di Glauco e di Minosse
Facciamo notare altresí che pure
l’italico Cola Pesce possiede non meno di Glauco una natura parimenti ambigua,
per metà umana (era figlio di pescatore) e per metà animalesca (diventa pesce)(123).
Ciò significa che ci troviamo di fronte tanto in Grecia quanto nella
Magna Grecia, non troppo diversamente dall’India, al mitologhema del Grande
Pesce e del Re Pescatore; il primo dei quali dai connotati semiumani ed il
secondo, invece, dai tratti semizoomorfici.
Ricordiamo, a titolo comparativo, che il Pesce Aureo indiano è un
<pesce parlante>, sebbene Manu
(svolgente la parte nella nostra ipotesi, che convalideremo soltanto nelle conclusioni
finali, di Re Pescatore) non abbia alcun tratto ittico. Per tale motivo si comprende bene la ragione
onde Glauco in una diversa versione del mito (124) sia <figlio>, in altre parole un alter-ego, di Minosse
– cfr. con Matsyendra e Mīna, i personaggi tantrici illustrati nel precedente
capitolo (§s), chiamati appunto
‘Padre’ e ‘Figlio’ – ovvero di quel Sacerdos-rex
greco delle origini successivamente demonizzato – al modo dello Yama indiano – che non per nulla Omero (Od.- xi. 791-5) descrive in occasione
della Discesa all’Ade di Ulisse quale ‘Giudice dei Morti’; egli tiene in mano
uno Scettro d’Oro, comparabile all’(Aurea) Verga impugnata da Iānus e all’(Aureo) Daṇḍa di Yama, che evidentemente lo caratterizza
similmente al suo duplice corrispettivo latino ed indiano come ex-signore
dell’Età dell’Oro. Tale Scettro, ponendo
l’inevitabile equazione Re Minosse = Manu-rāja, è
ovviamente tutto ciò che perdura nelle tradizioni dell’Età del Ferro dell’Aurea
<Canna> – ammesso e non concesso che fosse già in auge questo sistema di
pesca – del Re Pescatore primevo; o, se si vuole (invertendo i contrassegni fra
l’Uomo e il Pesce), dell’Aureo Corno del Grande Pesce Unicorne. L’etimo ci aiuta del resto a ricostruire
l’unità originaria perduta del simbolo in questione. Secondo quanto abbiamo rilevato in precedenza
pigliando a prestito quel che è stato postulato da Padre Heras, il gr. Μίνως corrisponde difatti
etimologicamente al scr. Manu; nonché,
attraverso la sua piú arcaica
forma cretese, al paleo-dravidico Mīn (poi
sanscritizzato in Mīna). In altre parole, ai nomi dei due personaggi
essenziali dell’equivalente hindu di codesto mitologhema greco, imperniato
sulle figure di Minosse e Glauco. I
tratti vicendevoli di Re Pescatore e Pesce non sono ben marcati in terra egea,
appaiono sfumare l’uno nell’altro rispetto all’ambiente brahmanico indiano; un
po’ come avviene, nell’India medesima, in ambiente tantrico. Eppure nel complesso abbiamo a che fare con
un parallelismo tematico notevole fra India e Grecia, come avremo modo di
delineare piú chiaramente ivi di seguito.
In un’ennesima versione dello
stesso tema Glauco, o meglio Glauco il Vecchio, viene definito ‘Melicerte’ (125) – nome minoico correlato al fen. Melkarth = ‘Guardiano della Città’, ebr.
Moloch (126) – ed in questo caso egli è considerato il figlio di Sisifo o
di Atamante (127). Costoro unitamente equivalgono al doppio
aspetto appena evidenziato di Glauco Antedonio e di Minosse, come vedremo tra
poco. Essi fan riferimento infatti dal
punto di vista ciclico alle due metà (Grandi Anni) dell’Età Aurea, presiedute
simbolicamente la prima dal Grande Pesce e la seconda dal Re Pescatore. Anche se i due emblemi, abbiamo già visto,
possono essere in realtà invertiti; alternativamente si ha, secondo quanto
abbiamo altrove mostrato (128), un
vero e proprio sdoppiamento simbolico fra un Pesce Maschio e un Pesce Femmina o
supposti tali oppure addirittura fra le due metà grafiche della sagoma ideale
del Pesce medesimo.
g) Eolo e i Tre Eolidi
È noto che Sísifo, figlio di Eolo
ed Enarete nonché consorte di Merópe (uno dei molteplici epiteti greci della
Settima Pleiade)(129), individua un’arcaica figura
titanico-solare connessa specialmente all’aspetto primaveril-annuale e
mattutin-giornaliero del Sole in tempi pre-olimpici; tant’è che dopo la sua
demonizzazione, avvenuta senza dubbio in tempi eroici, codesto titano è stato
ritratto agl’Inferi (ibid., vv.
829-40) nei panni di un dannato intento per contrappasso – nei confronti
evidentemente d’una consimile ma piú positiva funzione ancestrale di nume
solare – a riportare continuamente un aspro
e perfido <macigno> sulla cima
d’un <colle>, da cui esso è destinato presto a rotolare giú, ciò rendendo
vano ogni ulteriore sforzo da parte del protagonista della pena (130).
Mentre Atamante, considerato
talvolta figlio di Minía (sc. A.Rh.- i.
230), è alternativamente noto quale fratello dello stesso Sisifo insieme a
Salmoneo e quindi nella veste del secondo dei Tre Eolidi (131). Cotal Atamante va ricordato pure per la
sua pazzia, provocatagli dalla Regina degli Dèi. A causa di siffatto impazzimento quegli aveva
finito per dilaniare con una freccia il proprio figlio Learco, generatogli da
Ino al pari di Melicerte, avendolo scambiato per un <bianco cervo> (132). Abbiamo già commentato
simbolicamente l’episodio fin dal nostro primo articolo (133), in cui veniva suggerita la possibilità di una comparazione
tra il mitema testé citato e quelli similari di altre tradizioni. Segnatamente, si faceva colà riferimento alla
leggenda ebraica di Lamek saettante Caino,
nonché a quella indo-ellenica di Apollo-Orione e Rudra-Prajāpati. Si badi che Atamante è sicuramente da
connettere ad Issione. Giacché Frisso
(il ‘Ricciuto’) ed Elle (la ‘Cerbiatta’), prole che l’Eolio avrebbe avuto da Νεφέλη – connesso a νέφος = ‘nuvola’ – quale figura
allotropica di Era simboleggiante a giudizio di Graves la Luna Piena, sono
alternativamente concepiti per l’appunto quali <figli> di codesto titano (134).
Ma chi è questo Issíone, oltreché
lo sposo di Dia? Il Graves (135) lo ritiene una personificazione
assiale-zenitale del Sole. Siccome un
noto mito lo descrive legato sulla schiena, per punizione del Signore
dell’Olimpo, ad una ‘Ruota di Fuoco’ alata che corre perpetuamente per l’aere
senza posa. Tale condanna è insomma
parallela a quella di Tàntalo, che ne è difatti per certi versi un alter-ego,
costretto com’è a reggere sul proprio capo il Sole a guisa di <pietra ardente>(136).
La punizione inferta ad Issione è legata, in modo piú specifico, ad un
tentativo di connubio con la paredra di Zeus da parte di quegli; parimenti a
quanto avvenuto nei confronti della medesima da parte di altri in occasione
della Discesa della dea agl’Inferi, presso Oceano e i Titani. Piú verosimilmente essa è da spiegare
mediante l’assunzione, nell’ambito d’un meno vetusto trimorfismo divino (vide infra), di un ruolo supremo da
parte di Zeus; in conformità ad un’anteriore e pressappoco equivalente sovranità
solare e celeste, appartenuta ad un piú antico nume d’origine chiaramente
pre-eroica (137). A conferma di tale ipotesi, è possibile
dedurre un’analoga interpretazione riguardo la funzione essenzialmente mediana
di Issione analizzando un’immagine riportata dal Cook (138); trattasi di un’icona presente nella decorazione, contenente
rilievi simbolici sul tema degl’Inferi, d’un sarcofago romano rinvenuto in un
monumento sepolcrale in mattoni dislocato sulla Via Appia Nuova. Il sarcofago è stato successivamente traslato
in Vaticano, nella Galleria dei
Candelabri. La rappresentazione in
esso contenuta illustra una scena titanica ove in sequenza tre uomini barbuti,
egualmente intenti in uno sforzo sovrumano, sono sottoposti ad una triplice e
vana fatica. Il primo di costoro,
Sisifo, è inginocchiato su una gamba, mentre con l’altra tenta energicamente di
sollevare un enorme ‘Masso’; il secondo, Issione, è vincolato invece ad una
‘Ruota a Sette Raggi’, raffigurata a volte diversamente in forma radiata o fiammeggiante. Ed infine il terzo, Tantalo, è effigiato
ritto nell’atto di sollevare inutilmente verso la bocca dell’acqua che
irrimediabilmente cade a terra. La
posizione rispettiva delle prime due figure di tale trimorfia all’interno della
scena è una prova ineludibile della veridicità delle nostre precedenti
supposizioni circa il ruolo mattutino-ascendente di Sisifo e quello
meridiano-assiale, in senso zenitale, di Issione.
La terza delle suddette figure,
ossia Tantalo, riserva però qualche difficoltà d’interpretazione; dato che –
abbiamo visto prima – il nome di cotesto titano parrebbe già associato a quello
di Issione, in virtú d’allotipo di quest’ultimo. Pertanto avremmo dovuto aspettarci piú
logicamente in terza posizione, dopo costui ed in luogo di Tantalo, la figura
semmai di Elio-Iperione; il titano solare per antonomasia (139), cui Kerényi (140) attribuisce
in modo acconcio un ruolo crepuscolare-discendente. Infatti si raccontava tradizionalmente che
Iperione ogni sera dopo il tramonto entrasse in un’Aurea Coppa, la quale
trasferiva il dio dormiente, di certo stanco per le fatiche giornaliere, dalle
Isole delle Esperidi al Paese degli Etiopi (cioè da Occidente ad Oriente del
mondo allora noto ai Greci); quivi sembra lo attendesse un carro già equipaggiato
di veloci destrieri, nonché la Dea dell’Aurora.
La sostituzione di Elio con Tantalo si spiega, tuttavia, in base alle
seguenti considerazioni. La pena da cui
è afflitto lo ‘Zoppo’ (141) è
testimoniata da Omero nell’Od.- xi.
582 ss: Tantalo è ivi descritto in
uno stagno, con l’acqua che gli arriva alla gola; ma egli non può berla, perché
altrimenti essa si allontana da lui, quasi risucchiata ai piedi del titano, ed
al posto di questa appare l’oscura terra.
Codesto supplizio va compreso palesemente in riferimento al tramonto del
Sole nelle acque oltre l’Oceano ed al mito di Iperione, cui abbiamo poco fa
accennato. Onde si può lecitamente
affermare che Tantalo, al di là della sua presenza nella raffigurazione citata
del sarcofago romano, possa essere inteso quale figura solare in senso lato,
come probabilmente in principio accadeva ad Elio medesimo. Per spiegarci meglio, se l’identificazione di
tal personaggio con Glauco Melicerte, figlio di Sisifo, avvicina Tantalo a
quest’ultimo in funzione creativa (142);
viceversa, l’immagine del medesimo con la ‘Pietra Ardente ‘ sul capo (143) l’apparenta ad Issione, secondo
quanto s’è già appurato. L’epiteto di
‘Zoppo’ tuttavia e l’identità nei confronti di Talo/Tauro, o di Calo/Crono (144), sono tratti che si addicono
soprattutto al terzo membro della trimorfia della summenzionata decorazione; il
quale dal punto di vista ciclico prima considerato incarna una ‘Seconda
Generazione’ di numi, quella titanica vera e propria, facente capo nell’ambito
del Grande Eone all’Età Argentea. Non
per niente, l’attributo di ‘Zoppo’ è proprio tanto del Crono ellenico quanto
del Saturno latino. Nella mitologia
greca a sentir Platone (Tīm.- 40. XIII/
e) la coppia numinosa Crono-Rhea e gli altri titani apparterrebbero ad una ‘Terza
Generazione’ divina, essendo queste divinità ciclicamente precedute dalle
coppie Urano-Gea e Oceano-Teti; ma ciò è solamente il frutto d’una diversa
suddivisione del Grande Eone, in 5 Grandi Anni anziché in 4 Età mitiche.
Tal attribuzione evidenzia chiaramente
in Crono e Saturno (145) un lato
oscuramente demonico, relativo al Tempo e alla Morte, sebbene di valore
iniziatico (146). In proposito, si noti che il nome latino del
dio romano corrisponde a quello sanscrito del dio vedico Savitar/Savitṛ; appellativo
di Sūrya (‘Sole’), l’Āditya
per eccellenza, il cui carattere presenta difatti tratti piuttosto asurici
(demonici) che devaici (divini). Piú o
meno come quelli dell’Elio greco. Se
l’uno (Sūrya-Savitar)
s’oppone in India ad Indra o a Kṛṣṇa, l’altro (Elio-Iperione) cosí come Crono-Calo o Tauro-Tantalo è solarmente
avvicendabile a Zeus o ad Eracle; che a loro volta, al pari di Indra e Kṛṣṇa
(o Viṣṇu, la sua forma
divina archetipica) venivano concepiti nell’Ellade quali alternativi signori
dei 12 ‘dèi della Pioggia’. Mentre Ἥλιος e Sūrya
disponevano ciascuno d’un un rispettivo dominio sugli altri 6 titani delle
sfere planetarie, concepiti anche come titani solari, poiché i 7 Pianeti erano
definiti ‘Sette Soli’. Del resto altre
definizioni tipiche quali i 7 ‘Raggi Solari’, i 7 ’Cavalli del Sole’ o le 7
‘Lingue del Fuoco’ si riferiscono allo stesso soggetto. La distinzione fra gli
antichi 6 Numi – o 7 comprenendo quello supremo – e i piú recenti 12 Dei – o 13
per analogo motivo – accenna ovviamente
a calendari diversificati: uno assai vetusto, di tipo bimestrale e planetario,
di cui si ha un riflesso ancor oggi nelle 6 stagioni della cronologia annuale
indiana; l’altro meno antico, rispecchiantesi nelle 12 stazioni solari
dell’anno zodiacale indomediterraneo (147). Abbiamo buone ragioni difatti per ritenere
che il calendario sacro annuale di 360°, diffusosi anticamente presso una vasta
area geografica dall’Africa Settentrionale (ove è stato rinvenuto il piú datato
esempio)(148) all’Eurasia, debba
originariamente essersi basato (almeno, secondo le tradizioni indoeuropee) su
un anno solare composto di cicli stagionali di 60° giornalieri; dai quali
erano, di fatto, esclusi i 5 giorni intercalari. Non importa se sia stata nota o meno codesta
distinzione astronomica, visto che la cosa non sarebbe comunque cambiata sul
piano astrologico, l’Astrologia misurando in gradi giornalieri e non in giorni
astronomici (149). Nel computo in gradi il problema insomma non
sussisteva, la gradazione giornaliera non corrispondendo esattamente alle 24
ore diurne e notturne, bensí a cifre standardizzate le quali non si
modificavano neppure negli anni bisestili (60° X 6 = 360°). I cicli stagionali formati da bimestri
anziché da trimestri hanno poi evidentemente subito un dimezzamento in unità
mensili, per renderle il piú vicine possibile al ciclo lunare (30° X 12 =
360°), secondo quanto c’indica la filologia.
Si noti a tal proposito che il gr. μήν
significa tanto ‘luna’ quanto ‘mese’.
È il caso adesso di tornare
indietro a Salmoneo, fratello di Sisifo ed Atamante, tenendo conto che la
seconda di queste due figure mitologiche costituisce un allotipo – in base a
quanto si è già appurato – d’Issione.
Risulta quindi logico presupporre che vi possa essere un qualsivoglia
nesso tra Salmoneo, il terzo fratello, ed Elio-Iperione o Tantalo nel senso
solar-discendente poco fa spiegato. In
effetti occorre aggiungere che la punizione di Sisifo, concernenete il
<masso>, appare concatenata all’antagonismo di tale personaggio nei confronti
di Salmoneo; dal momento che quest’ultimo eolide alla morte del padre aveva
usurpato il trono, spettante di diritto invece al primo (150). Codesta titanica
contrapposizione tra l’uno e l’altro fratello risulta oltremodo simile
all’antitesi presente nell’ambito della mitologia hindu fra Prajāpati e Rudra (151). Essa non è altro che la distinzione
demiurgica, avvenuta nel ciclo argenteo del Tretā, fra un nume
creatore incarnante la trasmissione
della Tradizione Primordiale ed un altro con valenze opposte. Il nume antagonista ovviamente rappresenta il
divino fattore provocante la frantumazione dell’Unità Divina, personificata dal
primo nume; atto cosmico questo per mezzo di cui vengono generati
ipostaticamente ‘Sette Figli’ di natura asurica, uno dei quali (Dakṣa)
riproduce nel Settenario cosí formato il dio supremo.
In quanto a Sisifo dobbiamo
rilevare che costui, al fine di vendicarsi dell’usurpazione del trono da parte
del fratello Salmoneo (fuor di metafora del predominio celeste, giacché il
padre Eolo – alla maniera del Vāyu indiano
rispetto a Varuṇa – è a nostro parere un
travestimento funzionale di Urano), compie un incesto colla <figlia> di
questi, Tiro. Nel caso di Prajāpati viceversa l’incesto avviene colla
propria <Figlia>(152), non con
quella del rivale; ma ciò non cambia molto la scena, l’esito finale degli
avvenimenti essendo in fondo il medesimo.
Il che ovviamente allude ad una trasmissione spirituale della Tradizione
dall’una all’altra ‘generazione’ di numi attraverso, comunque, il fratello
intermedio (Atamante). Si deve allora
desumere da tutto ciò che Sisifo (153) abbia
avuto in Grecia lo stesso ruolo tenuto in India da parte di Prajāpati, ovverosia incarni l’aspetto
benefico-creaturale di Crono (154);
e che Salmoneo, il leggendario <usurpatore del trono>, ne raffiguri per
contro l’aspetto malefico-distruttore.
Non meno di Tantalo o di Elio-Iperione, insomma. La perdita d’attualità mitica avvenuta poi
fatalmente per i Sette Titani con l’entrata in scena dei Dodici Dei capeggiati
dal “tiranno” Zeus, ovvero la generale demonizzazione in cui essi sono caduti
allorché si son trovati di fronte alle nuove prerogative degli Dei Olimpici, ha
coinvolto in tutta evidenza anche Sisifo; nonché Issione, o l’alter-ego
Atamante.
i)
Minosse e la figura enigmatica di
Minýas
Resta ancora da chiarire chi fosse
quel Minía (Μινύας) che, alternativamente ad Eolo,
compare quale padre di Atamante. Se Atamante svolge la parte di Issione, è
evidente che Minia non può esser altro che una variante di Eolo ossia di
Urano. Nell’induismo egualmente Varuṇa essendo un nume delle acque celesti
presenta quale doppione Vāyu, il Dio del
Vento o se preferiamo dell’El. Aria, assimilabile metonimicamente al Cielo; ma
simultaneamente rappresenta un allotropo di Matsyendra
o Mīna, tantricamente alternantisi in veste
pescina o piscatoria. Questi ultimi,
infatti, quando uno di contro all’altro incarnano la parte di ‘Pescatore’
svolgono una funzione celeste ed assiale; allorché, viceversa, alludono
parimenti al rosso ‘Pesce’ guizzante nell’ambito delle cd. ‘Acque Superiori’
svolgono un parte solare. Tutti e tre i
nomi citati (Varuṇa, Vāyu, Matsyendra/Mīna) sono concepibili in India,
naturalmente, come appellativi di Maheśvara (‘Grande Signore’); in
riferimento all’aspetto supremo del dio, il quale tende ad equipararlo a Brahmā-Prajāpati anziché a Rudra-Śiva. Nell’Ellade invece non esiste alcun nume super partes, convogliante in sé tutte e
tre le funzioni sopraddette, che le assommi nella propria persona divina. Perciò gli omologhi Urano, Eolo e Minia, pur
apparendo visibilmente sovrapponibili da un punto di vista mitologico, non sono
identificabili ad alcun <grande dio> fra i Greci che faccia da consorte
mitico ad una <grande dea> (155). Qualcosa di simile per la verità lo si nota
nel pantheon, ma rimane sempre allo stato latente, come fra i Celti.
Abbiamo dunque individuato il
solare Minía quale variante funzionale in Grecia di Eolo, signore dei venti,
nonché dello stellato Urano; pressappoco come in India Matsyendra/Mīna rispetto a Vāyu, oppure a Varuṇa. Soltanto la terna di nomi indiana ha una
propria reale unità di culto, quale molteplice espressione d’un unico nume, ma
è possibile forse che anche in Grecia un tempo le cose stessero cosí.
In questo caso non si tratta di titaniche trimorfie solari proprie
dell’Età Argentea come quelle di Sisifo-Issione-Tantalo, od in alternativa di
Sisifo-Atamante-Salmoneo (156), ma
qualcosa di piú elevato in
senso aureo; sebbene si abbia a che fare con semplici denominazioni, non aventi
una particolare relazione tra di loro, al di fuori di quanto riferito. Resta ancora da chiarire tuttavia se la
relazione apparente fra le voci di Minía e Minosse – attestata tanto dal nome
quanto dalla parentela con Glauco – sia
qualcosa di reale, o meno. Il primo nome
è menzionato da Giuseppe Flavio, nelle ‘Antichità giudaiche’ (i. 1. 6), in
occasione della descrizione da parte di codesto autore del Diluvio di Noè;
inoltre l’Arminni (lett. ‘Alta Terra
dei Minni’), ossia l’Armenia, viene esortata dal profeta Geremia (Ger.- li. 27) a porsi contro Babilonia (157).
Questo Minia è ad ogni modo da rapportare, per certi versi, all’Oannēs mesopotamico (158). Necessita alfine
rilevare che Glauco al di là del suo aspetto piú specifico di discendente di
Poseidone, il signore del mare in epoca olimpica (uno dei 3 Dei del Triregnum, nei cui confronti si nota la
classica semideificazione d’un titano, posto in posizione subordinata), viene
talora presentato quale figlio di Minosse e talvolta quale nipote di
Minia. Sicché non ci pare azzardato a nostro
giudizio avvicinare codesti due capostipiti mitici greci, rispettivamente, alle
figure indiane omologhe di Manu e Mīna. Glauco (159), inserito nell’una o nell’altra
linea genetica, viene comunque a configurarsi quale nume equivalente ad una
delle due divinità hindu appena citate (delle quali è forse una forma
intermedia, simile al Matsyāvatāra). Lo stesso accade per Minosse e Minia, ma con
delle differenze (160).
Minosse, ripetiamo, è sicuramente
un personaggio connesso all’Età dell’Oro, non, meno di Manu. Anche se non funge esattamente da
re-pescatore, bensí da traghettatore
d’anime, poiché non meno dello Yama hindu e del Giano latino è stato
demonizzato. Colla sua Aurea Verga,
c’informa Omero (161), giudica i
defunti che ne fan richiesta attraversando le ampie porte dell’Ade e li assegna
al posto che loro spetta. I commentatori
contemporanei dell’Odissea vedono
delle incongruenze in questa descrizione (162),
sospettando la solita interpolazione, sennonché Virgilio (Aen.- vi. 638-41) al pari di Omero riporta la stessa immagine di
Minosse portiere dell’Averno. Che in
un’urna, al modo dei giudici istruttori romani (quaesītores),
tiene i loro nomi ed esamina le loro vite.
È il giudice della Campagna del Pianto, il primo regno infernale; dove
stanno i pargoletti morti in tenera età coi loro teneri vagiti, che Enea subito
ode appena entrato oltre la Porta dell’Erebo (Tramonto), dopo aver addormentato
il cane tricefalo (Cerbero) con un’apposita focaccia a base di mele ed erbe
soporifere. E poi ancora tutti gli altri
infelici: i condannati ingiustamente, i suicidi per amore (fra i quali Didone,
di cui Enea piange la sorte), i guerrieri morti ingloriosamente. Altre funzioni di Minosse, in senso divino
anziché infernale, sono esaminate piú
oltre (163). Il viaggio di Enea nel mondo sotterraneo
dell’Averno prosegue fino al Tartaro, “di Radamanto il tristo regno” (vs.840 ss).
Nel secondo regno infero vengono puniti i rei a causa delle colpe
commesse in vita, ma si trovano pure per paradosso tutte le divinità dell’Età
dell’Argento”; ossia “gli antichi Titani” (vv. 805-6). Nel terzo regno stanno infine i Campi Elisi,
nei quali vaga Orfeo coll’eptacordo per trastullare i beati. Quivi Enea, dopo aver depositato il Ramo
d’Oro sulla soglia di Proserpina (regina degl’Inferi), incontra il padre
Anchise predicente le glorie future di Roma.
Da tutto ciò si deduce una cosa a conferma di quanto prima sostenuto,
cioè che Minosse non funge nel contesto da dio aureo, bensí da dio bronzeo; cosí come Radamanto da nume argenteo ed Orfeo, è ovvio, da nume
aureo. Che Minosse sia inteso quale Zeus
infero non fa meraviglia, la cosa essendo accaduta anche per Giano,
identificato a Quirino (164).
Riguardo Μινύας, è chiaro che costui ha avuto sin dall’inizio un ruolo meno
importante di Minosse, diremmo argenteo anziché aureo. Proprio come il Mīna
indiano. Oltreché con questi, si può
tracciare un parallelo col Mīn egizio, circa
il quale vide infra (165).
Notevole il fatto che codesta divinità sia identificata dal Fontenrose a
Perseo (166) e che a sua volta
Perseo venga equiparato dal punto di vista funzionale ad Apollo (167) nonché all’ugaritico Baal (168).
l) Ruolo del
Delfino e della Seppia
nell’iconografia
di Glauco Melicerte, Apollo ed Eros
Dal punto di vista iconografico è
reperibile un’unica immagine di Glauco a cavallo del Delfino, in base ad una
leggenda eziologica narrata da Pausania (Per.-
i. 44, 8)(169), storico pagano della
seconda metà del II sec. d.C. Il
Kerényi al riguardo compie
un’interessante distinzione iconologica fra la suddetta rappresentazione di Glauco Melicerte e
quella, del tutto similare, di Eros su Delfino.
La differenza fra tali raffigurazioni consisterebbe a parere dell’autore
austro-ungarico (170), poi vissuto e
morto in Svizzera, nel fatto che Eros diversamente da Glauco dovrebbe stringere
fra le mani la Seppia; norma che, in genere, è ben lungi dall’esser applicata (171).
L’effigie identica delle due divinità marine permetterebbe, invece, di
cogliere in entrambe i tratti del ‘Divino Fanciullo del Mare’; è probabile, ad
ogni modo, che l’una (del nume su Delfino) si riferisse in origine al Solstizio
Invernale e l’altra (pure su Delfino, ma colla Seppia in mano) al Solstizio
Estivo. Ancora il N. ci rammenta come in
ambiente dionisiaco, ad es. a Corinto, Melicerte ovvero Palemone (172) fosse considerato un secondo
Dioniso. Per quanto codesto dio nella
sua forma marina piú recente sia stato
altrimenti ritratto (vedi coppa del pittore Exechia, ora al Mus. di Monaco di
Bav.) nell’aspetto consueto d’un essere barbuto, boccheggiante come un ubriaco
e semidisteso sul dorso, colla testa china in avanti e le mani all’indietro;
sul ponte d’una barca a vela, il cui albero maestro appare trasformato in
tralci di vite, con 7 grossi grappoli d’una che fanno pendant con altrettanti delfini guizzanti nel mare tutt’attorno (173).
Mentre in ambiente apollineo (ad
es. a Taranto) la medesima rappresentazione del Divino Fanciullo su Delfino
pare alludesse ad un secondo Apollo, il quale riceveva l’epiteto di Taras (174).
Per ciò che concerne
l’iconografia di Eros Fanciullo dobbiamo segnalare che a Pompei (Casa dei
Vetti) troviamo un Eròtio aleggiante sule Acque, colla Verga in mano a guisa di
frusta e le Redini d’una Biga trainata da 2 Delfini nell’altra (175).
Nell’ansa d’un vassoio di Bondonneau d’epoca romana (III sec. d.C., Mus.
del Louvre, Parigi) si può altresí notare
una scomposizione della suddetta figura numinosa in 2 Amorini; ciascuno dei
quali sta in piedi su un Delfino, in contrapposizione araldica all’altro, e
fiancheggia una coppia di Tritoni sorreggenti la Conchiglia di Venere distesa
nel mezzo (176). Altrove (177)
viceversa i 2 Amorini sono disposti a cavallo del Delfino, in maniera
egualmente antagonistica. In tal caso
però li vediamo entrambi stringere in mano un Laccio (sul tipo del Pāśa dei numi
indiani), il simbolo prima considerato delle due opposte fasi cicliche del
Divenire essendosi quivi condensato in un emblema che è in effetti il segno
d’una avvenuta duplicazione delle stesse fasi; in altre parole, ci troviamo
dinnanzi ad un’enfatizzazione del medesimo motivo tematico. Notiamo, infine, che in un cammeo in onice
della Collez. appartenente al Mus.Arch. di Firenze campeggiano 3 Eroti
trastullantisi con 2 Delfini (178);
uno di loro è ritratto sulla schiena di codesti cetacei, a loro volta
intrecciantisi per le code. Mentre gli
altri Amorini sono immersi per metà nell’acqua, ciò che denota ovviamente un
dimezzamento del loro valore simbolico.
Ivi il motivo dei 2 Delfini prima analizzato assume un’evidenza senza
dubbio maggiore, essendo raffigurato assieme ai fattori di
opposizione/complementarietà anche un fattore unificante intermedio, dato
dall’Eròtide al centro della scena. Lo
si confronti coll’Erotio pompeiano sulla Biga trainata da 2 Delfini (vide supra), nella cui immagine scenica
in luogo dei 2 Amorini laterali stavano le 2 Redini impugnate dall’unica figura
alata dell’Eros Fanciullo.
m)
Aspetti marini di Afrodite
La Madre Terra per vendicarsi
dell’eccidio dei 24 Giganti (179)
giacque col Tartaro, generando il mostro Tifone, dotato d’una spaventosa
<Testa d’Asino> e con teste serpentine in luogo delle gambe (180); che – come abbiamo già visto in
precedenza – costituiscono per un verso un rimando a Canopo, e per l’altro al
Dragone del Nord, i due asterismi opposti facenti da perno polare
rispettivamente antartico ed artico (181)
durante il VI Ciclo Avatarico. Di fronte
allo spettacolo orripilante della presenza di Tifone, ecco gli Dei trasformarsi
in animali. Zeus in Ariete, Era in
Vacca, Artemide in Gatto, Apollo in Corvo, Hermes in Ibis, Ares in Cinghiale,
Dioniso in Capra e Afrodite in Pesce (182). Secondo quanto attesta la poesia latina (Ov.,
Met.- v. 50):
Giove in monton, – dic’ella [l’egizia
terra] – onde ritratta
S’è con le corna la testa d’Ammone;
In negro corvo Apolline s’appiatta,
In giovenca bianchissima Giunone;
La suora a Febo si trasforma in gatta,
Il figliuolo di Semele in caprone;
Mercurio in ibi si nasconde, e mesce
Venere il suo bel corpo in sozzo pesce.
A parte questo motivo
simbolico, non vi sono altre forme ittiche di Afrodite. La natura pelagica della dea del desiderio,
denominata non a caso Pelagia, è
dimostrata comunque da altre raffigurazioni; innanzitutto, da quella effigiante
l’occasione della nascita di costei (183). Padre Urano la genera dai propri genitali, o
meglio dalla schiuma (ἀφρός) delle
onde attorniantisi al suo fallo caduto nel mare, che il figlio Crono aveva
reciso. In una variante lei esce
direttamente dal <Fallo> di Urano (184). L’epoca di tale versione mitica, variante compresa, non combacia
però col momento di gestazione dell’equivalente dea indiana, Varuṇānī (o Vāruṇī), paredra (o
figlia) di Varuṇa. Secondo un’altra leggenda, probabilmente piú veritiera dal punto di vista cosmologico, era
emersa nuda dalla spuma del mare e, cavalcando una conchiglia, s’era diretta
all’isola di Citera, poi nel Peloponneso ed infine a Cipro; per stabilirvi la
sua residenza definitiva, rimasta immutata fino ad oggi (185). Di qui il suo nome ed
i soprannomi arcinoti di ‘Citerea’, dal capo ornato di viole, o di
‘Cipride’. Vi è chi invece come noi
suppone un’etimologia diversa, sia per il nome greco (186) che per il secondo appellativo (187). Una terza leggenda (188), questa volta mesopotamica
(relativa ad Aštoret/Ištar), narra che dei pesci
avevano trovato un uovo molto grande nell’Eufrate e lo avevano spinto sulla
riva; dopodiché una colomba lo aveva covato e da qui era nata la Dea
dell’Amore. Quest’ultimo racconto la
mette in parallelo con Eros, considerato in genere il figlio del suo connubio
con Hermes od Ares, ma tale paternità spiega esclusivamente il carattere
androginico. Questi infatti è ritenuto
altrimenti il primo nume, nato senza padre né madre dall’Uovo Cosmico (189).
Quindi Afrodite potrebbe risultarne la figlia, non già la madre; dal
momento che a seguire nella serie di Generazioni Divine, per gli Orfici, è
proprio Urano.
Ora tratteremo degli aspetti
propriamente iconografici del tema, in base alle varie posture della dea ed ai
dettagli delle icone che la raffigurano, al fine di sviscerarne gli ulteriori
segreti che la caratterizzano.
Soprattutto quelli connessi al mare e alle acque. Il prof. Becatti (190) ha distinto 2 tipi e 2 sottotipi di Afrodite Anadiomene, o
Venere Marina; il tipo maggiormente rappresentato sarebbe quello a torso nudo,
appoggiato a un pilastrino, su cui svetta un vaso perpendicolarmente sulla
destra (191) talvolta in posizione
obliqua (192) o talaltra diritta (193).
Il sottotipo mostra l’aggiunta d’un chitone, tunica stretta in vita da
una cintola, indossato dalla Venere (194). Il tipo meno rappresentato è caratterizzato
viceversa dal torso nudo e da un delfino appoggiato ad uno scoglio (195), il suo sottotipo in questo caso essendo
dato da un erotio adagiato prono sul delfino (196); ma vi sono 2 sottovarianti, stabilite una dal chitone (197) e l’altra dal putto nudo senza
delfino (198).
Il Becatti da ottimo studioso
qual era (è scomparso nell’ormai lontano 1973) ha svolto una complessa indagine
per spiegare al meglio l’iconografia ed il senso proprio delle varianti, visto
che la diffusione di molte copie in varie grandezze provava l’importanza del
soggetto. Pur tenendo conto del fatto
che dal Cinquecento in poi i restauratori hanno modificato gli attributi
originari delle statue monche con altri attributi secondo il gusto del tempo,
rendendo il terreno della ricerca iconologica molto insidioso. La suddivisione tematica principale, al dire
dell’autore (199), sarebbe insomma
fra l’Afrodite seminuda al bagno – con accanto il Vaso (non esattamente
un’idria) e ricoperta nella metà inferiore da un panno frangiato retto dalla
mano sinistra – e l’Afrodite emergente dalle onde ovvero Anadiomene col Delfino
(200). A parte dunque l’Afrodite vestita dalle Ore,
di cui abbiamo già trattato in relazione ad Οὐρανία e che secondo il Burkert è la piú bella raffigurazione della dea
(cosa che senz’altro condividiamo, anche se la preoccupazione
stilistico-estetica è l’ultimo problema che ci affligge in questa nostra
disamina), il Becatti cita quali esempi decisivi dei 2 motivi sopraddetti
vicendevolmente la Cnidia marmorea di Prassitele (prima metà del V sec. a.C.,
secondo altri del IV)(201) e
l’Anadiomene perduta del pittore Apelle (IV sec.). Di quest’ultima rimane una copia, colla dea
che si strizza i capelli, in una pittura pompeiana del I sec. a.C. (202); ne seguono altre, simili, nei
primi secoli dell’E.V. Della Cnidia
perdurano molte copie romane, la migliore delle quali è considerata l’Afrodite
Colonna al Mus. Pio-Clementino (203). Un terzo tema è stabilito dall’Afrodite
Pudica nuda, col braccio destro piegato
e la mano su un seno, mentre la sinistra copre la zona pubica (204).
Anche in tale icona compare il Delfino, a volte cavalcato da un Erotio
(come nella bellissima Afrodite Medici, Gall.Uff., copia del I sec. a.C.)(205), oppure il Vaso col panno (vedi
ad es. l’Afrodite Capitolina, Mus.Capit., Roma)(206) od il Tronco d’albero.
La Felletti Maj ha supposto (207)
che la tipologia della Pudica sia stata ideata alla fine del IV sec. a.C., in
ambiente post-prassitelico, rilevando la presenza alternativa accanto
dell’Amorino senza Delfino (208). L’originale dell’Afrodite Medici risalirebbe
d’altronde, secondo vari studiosi, alla prima metà del III sec. a.C. (209).
Onde si può immaginare col Becatti che la Pudica costituisca un tipo
misto fra l’Afrodite-nuda-al bagno e l’Afrodite-emergente-dalle acque, in altre
parole fra l’icona scultorea di Prassitele e quella pittorica di Apelle. Al riguardo rimarchiamo da parte nostra che
un modello di Pudica di foggia arcaica, non nuda ma con addosso una veste, è
rintracciabile in un bronzetto di c.20 cm dell’arte samia (Olimpia, VI sec.
a.C., ora al Mus.Naz. di Atene)(210). Ragion per cui è possibile che da Prassitele
ed Apelle nel modello della Pudica sia stato presa solamente la nudità ed il
bell’aspetto di stile classico, non ieratico.
Il Becatti fa palesemente derivare dalla Cnidia (211) il concetto di Anadiomene sul mare, elaborata a suo parere
sciogliendo il gesto della mano e trasformando la nudità dalla preparazione al
bagno in acque sorgive a quella in acque marine, ottenendo in tal modo
un’Anadiomene diversa da quella di Apelle (212). Le Afroditi di Cirene (213) non differiscono di molto da quelle del tipo dell’Afrodite
Capitolina (vide supra), ma al posto
del Vaso col panno hanno il Delfino cavalcato dal piccolo Eros. In un caso si trova invece il drago, in un
altro l’Ippocampo. La Felletti Maj
pensa, comunque, che l’attributo originario di codesto modello afroditico sia
il Vaso col Panno (214); mentre per
il Becatti, all’opposto, il tipo primario è quello dell’Afrodite Medici (215).
Non si conoscono d’altronde esempi classici di Anadiomene, il piú antico essendo per l’appunto l’Anadiomene
Medici del I sec. a.C., il cui originale risalirebbe – come detto sopra – al
III sec. a.C. e sarebbe stato ottenuto nel modo supposto dal Becatti (216).
Vi è inoltre da osservare che la Pudica talora detiene simultaneamente
il Vaso col Panno ed Eros ritto su Delfino, come nella copia del Mus.Arch. di
Venezia (217); oppure, come in
quella del Mus.Conservatori di Roma (218)
è il Putto ergentesi sul Delfino che versa direttamente il Vaso
d’Acqua. Non bisogna d’altra parte
dimenticare che questo Hūmor, gr. Ὕδωρ, altro non è che Soma cioè Acqua di Grazia; la quale può
esser intesa primordialmente come Luce immortale in relazione ad Eros oppure,
sacrificalmente, come benefica Pioggia in rapporto al tema della fecondità e
della fertilità.
n)
Afrodite e la Conchiglia
Un tipo particolare di Pudica è
l’Afrodite Landolina del Mus. di Siracusa (219),
reggente colle mani la Conchiglia innanzi al grembo (220). Al di là delle
interpretazioni estetizzanti, sicuramente valide ma limitative, non si può non
tener conto di ciò che la Conchiglia significa a livello simbolico. Non è solamente l’emblema acqueo del
Femminino (221), della Natura
Naturante ovvero della Provvidenza, un concetto in realtà pagano e quindi
pre-cristiano; ma piú profondamente il contrassegno dello Zero Metafisico (222), dato che contiene la Perla. La Perla, infatti, è legata al potere
creativo o salvifico delle Acque. Ha una
valenza talvolta lunare, connessa alla Gran Madre in quanto datrice di vita; ma
talora rimanda all’Embrione siccome momento primo dell’esistenza animale o,
addirittura, al Caos che la precede emblematizzato dall’Oceano (223).
La pittura della Doppia Pudica dipinta nella Casa di Romolo e Remo, a
Pompei (224), illustra l’utilizzo
della Venere come fontana in senso decorativo; in mezzo alle 2 statue,
inquadranti un’esedra, compare infatti il Vaso d’Acqua zampillante accanto
all’Airone. La presenza d’un Fauno
mollemente sdraiato su un’arcata al di dietro di loro, per la verità non ben
rilevabile nei contorni dell’immagine in BN riportata dal Becatti (225), accentua la trasformazione o
quasi delle 2 suddette figure in Ninfe.
Anche la femmina reggente un bacile per l’acqua in mezzo a 2 cespi in
fiore, raffigurata a torso nudo e lembo
obliquo del mantello attorniato alle gambe, della pittura del viridario nella
Casa della Caccia di Pompei (226)
viene interpretata dal compianto Professore come una Ninfa (227); ma gli attributi aviari che la fiancheggiano (una civetta ed
una colomba) e la sormontano nel riquadro soprastante (un maschio ed una femmina
di pavone immersi in una verzura ed araldicamente contrapposti ai lati d’un
fusto arboreo) parrebbero spingere in tutt’altra direzione, piú prossima alla visione d’una vera e propria
dea della fecondità e della fertilità del giardino – ossia ad una Venere, col
Bacile in luogo della Conchiglia (cfr. la Landolina) – che non ad una semplice
ninfa dei boschi o delle sorgenti termali.
Secondo il Becatti (228) il pilastrino d’appoggio di
eredità fidiaca (V sec. a.C.) che caratterizza la raffigurazione scultorea
tanto di Afrodite quanto delle Ninfe suggerirebbe di per sé l’idea della
sorgente. Per questo esso è
rintracciabile financo nella figura del Bel Narciso, che appoggiandosi allo
stesso inclina il capo di lato con efebico sguardo come se si specchiasse in
una fonte per rimirarsi e compiacersi della propria immagine (229).
Non si dimentichi a tal proposito, a scanso d’equivoci, che il tema del
Narciso concerne il Principio della Creazione; e che le Acque sottostanti, di
conseguenza, alludono segretamente alle forme immateriali procurate dalla
Natura Naturante. Altra cosa a giudizio
del nostro autore sarebbe invece il pilastrino con base e capitello sagomati su
cui è depositato il Vaso della Venere Marina, in questo caso costituendo
insomma a differenza del precedente un mero elemento architettonico (230).
Non siamo però d’accordo su questo punto e, forse, non del tutto neanche
sull’altro. L’Iconologia delle Religioni
c’insegna a questo riguardo un fatto importante, a smentita dell’asserzione in
apparenza logica del Becatti; ovvero che, posta una data icona, ogni elemento
che fa parte di essa deve esser interpretato alla medesima stregua. Ciò avveniva almeno nell’arte tradizionale,
simbolica per eccellenza, all’insaputa degli artisti stessi. E persino nell’arte moderna si potrebbero
scoprire fattori che, nonostante la volontà del compositore dell’opera,
tradiscono determinate idee. Quindi se
il Vaso, il Delfino ed Afrodite ricoprono un determinato significato simbolico
ossia rappresentano una scala di valori a seconda della capacità intuitiva e
culturale di chi li contempla nel loro assieme, non può essere che un ulteriore
elemento facente parte integrante della medesima scena a livello compositivo
(tale è il Pilastrino, benché a volte possa mancare) e solidale cogli altri sia
da interpretare in maniera diversa da questi.
O tutto il contorno della figura è simbolico, o niente lo è. Una figura mitologica è un simbolo, dunque
tutto l’insieme della scena è simbolico.
Donde si può ricavare che il Pilastrino di necessità raffiguri in
entrambi casi qualcosa di fisso, non di convenzionale, crediamo da parte nostra
esattamente l’Axis Mundi. Che poi la coscienza di codesto rapporto col
cosmo sia venuto meno ed abbia finito per fungere da elemento semplicemente
decorativo, cioè estetico, è assai probabile; ma allora in entrambe le icone,
non in una sì e nell’altra no. Inoltre
la cosa varrebbe pure per gli altri elementi, benché la natura profonda delle
rappresentazioni tradizionali faccia in modo che delle menti deste possano
scoprire in essi principi che magari gli autori delle opere avrebbero persino
smentito se fossero stati interpellati al riguardo. I cantastorie moderni e contemporanei nulla
sapevano dei valori enunciati nelle fiabe da loro tramandate, eppure in queste
gli studiosi di tradizioni popolari hanno scovato un nucleo di idee che le
riporta ad uno shamanismo ancestrale.
Simile cosa accade coll’arte.
Tant’è che nell’icona di Afrodite colla Tartaruga, caratterizzante in
modo specifico Afrodite Urania secondo Becatti (231), ritroviamo un riferimento al II Ciclo Avatarico o Ciclo
Nord-orientale; il cd. ‘Ciclo della Tartaruga’, nel quale è posta in ambito
hindu la nascita della figlia-sposa di Varuṇa,
l’equivalente indiana di Οὐρανία. Di poi divenuta, fra i
Greci, la Musa dell’Astronomia; ma evidentemente connaturata colla fase
primordiale di Afrodite, le cui sculture ellenistiche non sono che una tarda
raffigurazione basata su concezioni piú
filosofiche che misteriche; altrettanto non si può dire, tuttavia, per la piú classica Urania di Fidia o di chi per lui (232).
Anche la Tartaruga, in fondo, non è che una variante della Conchiglia e
viceversa.
Nel rilievo votivo dedicato alle
Ninfe Nitrodi ad Ischia, ora traslato al Mus.Nazionale di Napoli (233), osserviamo 2 Ninfe Laterali a gambe incrociate; disposte in
maniera simmetrica, ciascuna con Pilastrino e Vaso, affiancano una Ninfa
Centrale reggente colle mani la Conchiglia alla maniera derll’Afrodite di
Siracusa. Parecchie sono le varianti
formali ad Ischia ed altrove (234). Le Ninfe, ad es., possono avere il panneggio
della Pudica e non tenere le gambe incrociate; oppure può differire la
posizione del pilastrino o la disposizione, verticale anziché rovesciata, del
Vaso. La tipologia tipica delle Ninfe a
gamba sinistra incrociata compare anche nei sarcofaghi romani, ove sono
scolpiti altri mitemi legati alle sorgenti; oppure esse appaiono accanto a
Satiri e Sileni (235), od anche nella libera composizione
statuaria d’una singola Ninfa con vaso e Pilastrino (236).
Riassumendo, si possono delineare
3 tipologie di copie di rilievi creati per decorare giardini, ninfei e fontane (237).
La piú diffusa è quella
dell’Afrodite Anadiomene, ritenuta maggiormente antica per le sue
caratteristiche stilistiche (238). Da questa sembra sia derivata la seconda, col
mantello discendente sulla gamba sinistra e la pezzuola sul capo, dotata in
sostanza di forme piú aggraziate ed uno stile più mosso (239). La terza è data dalla
gamba flessa, con accentuazione ulteriore del dinamismo della figura; vedi la
statuetta con diadema del Mus. del Bardo, a Tunisi (240). Il mantello non è piú
stretto sotto l’ascella, ma poggiato sulla spalla sinistra. Tutte e tre queste tipologie mostrano per
attributo generale il Vaso col Pilastrino, ma a volte le prime due propongono
il Delfino, con o senza il Putto. Il
terzo tipo figurativo, esclusivamente con Vaso e Pilastrino, è quello proprio
per rappresentare le Ninfe. L’Asta ed il
Putto attorno ai quali s’avvolge la Coda del Delfino (241) non è peraltro un particolare irrilevante e nemmeno
incongruente, come pretendeva il Becatti (242);
ma significativo del ruolo svolto dal Delfino quale signore della ‘Superficie
delle Acque’, in senso zodiacale, ed in opposizione complementare alla
Conchiglia od altri equivalenti emblemi invece del ‘Fondo delle Acque’ (243).
Non condividiamo minimamente la
tesi manicheistica di chi, facendo di tutte le erbe un fascio, vorrebbe
riportare tutti i modelli esaminati a quello delle Ninfe o di Ino-Leucotea (244).
o) La Conchiglia nel mondo indiano, da Varuṇa a Viṣṇu
Śaṅkha (245), l’avversario del Matsyāvatāra recante il Veda (lett. il Caturveda)
– alfine da questi recuperato – sul ‘Fondo dell’Oceano’ (cioè nel Caos
precedente alla cosmogonia)(246), è
la personificazione della Conchiglia nel I Ciclo Avatarico. Ogni avatara e quindi ogni avversario divino
presiedono ad un intero ciclo di manifestazione di 6.480 anni, sebbene
visibilmente appaiano soltanto alla fine del ciclo. L’induismo insegna non per niente che dallo Śaṅkha (‘Conchiglia’), appaiato
microcosmicamente all’Orecchio (ove, una volta tappato, secondo la Mait.U.- vi. 21-3 è possibile ascoltare
il Paraśabda ovvero il ‘Suono Supremo’), fuoriesce l’Auṁ; e l’Auṁ, identificato
al Sole (ibid., 4), conduce all’Aśabda
ossia al ‘Non-suono’. La Conchiglia
d’altra parte è sinonimo di Perla e la Perla
(Mukta, lett. ‘liberata’,
s’intende… dalla conchiglia dell’ostrica) è assimilabile al Bindu (lett. ‘punto, puntino; goccia,
macchia; zero’), l’Immanifesto donde per cristallizzazione si forma il
Principio da cui si sviluppa la Manifestazione.
Ossia il summenzionato Auṁ, che ne è come
un’ipostasi sonora. Alter-ego di Śaṅkha (247) è
sicuramente Bali (Orione), figlio di Varuṇa,
anche lui effigiato in funzione di mitico <avversario> del I Avatāra; viene ritratto come tale nell’atto
di fuoriuscire dalla Conchiglia, in altre parole nel compimento dell’Ātmāyajña. Come ben ci mostra una miniatura popolare del
Jammu (248), dove il nume ha corna
di capra (l’animale sacrificale per antonomasia) e coda di leone ad
evidenziarne il carattere apollineo-solare, insomma shivaico. Ad assistere alla scena rituale del
combattimento col Matsyāvatāra, reggente in
una mano fra l’altro lo Śaṅkha (al modo di
Viṣṇu) e dipinto a spada sguainata, sta sornione il Veda. O forse, come vogliono
K.C. Aryan e S. Aryan, Brahmā in forma
dicefala (249). Altre volte, viceversa, la terza figura
manca.
Come Viṣṇu si sia impadronito di tale arma è narrato nel Mahābhārata. In un passo (Ādip.- xxi) si racconta che l’Oceano vasto e profondo, oscuro ed
immutabile, pieno di pesci sufficienti a nutrire la balena e reso inaccessibile
dalla presenza di altri terribili mostri, dimora del fuoco subacqueo oltreché
di Varuṇa, dei Nāga
e degli Asura, era il genitore della
grande conchiglia chiamata Pāñcajanya. In un altro passo (Droṇap.-
xi) si chiarisce che fu Hṛṣikeśa (Kṛṣṇa)
a donarla a Keśava (qui Viṣṇu)
dopo aver vinto Varuṇa nelle
profondità oceaniche ed aver annientato il dānava Pāñcajana, possessore di tale conchiglia. Secondo taluni (250) lo Śaṅkha,
a volte, costituisce un attributo pure di Śiva. Da notare che il
termine Śaṅku, del resto con opposto
significato (251), è un nome di Mahādeva oltreché di Kāma (252).
Ad ogni modo lo Śaṅkha apparteneva
primieramente a Kāma (253), o se vogliamo a Varuṇa (254). Dato che il primo corrisponde ad Eros ed il
secondo ad Urano, il gioco è fatto.
Abbiamo dimostrato, praticamente, l’equivalenza della Conchiglia di
Venere con quella del corrispettivo maschile indiano (Varuna) della dea greca,
anche se il corrispettivo maschile greco (Urano) per la verità non dispone di
codesto attributo. Il problema semmai è
che nemmeno la figlia-consorte del nume hindu, Vāruṇī-Varuṇānī, dispone della
Conchiglia; ma ce l’ha in dotazione comunque la vera sposa di Varuṇa e cioè Gaurī,
o meglio Jagadgaurī (la ‘Gauri del Mondo’), omologa
indiana di Γῆ (ion. Γέα/Γέη). In apparenza non sembrerebbe esserci nulla in
comune fra la devī hindu e la dea ellenica,
quantunque l’etimo (soprattutto la var. ep.ser. Γαῖα, dor. Γᾶ) dia a
pensare, eppure l’identità è data dal colore della prima. Infatti Gaurī significa
‘Gialla, Giallognola’ e questo è il colore della Terra nell’iconologia, non
solo induista, anche buddhista. Nelle
pitture nepalesi di foggia tibetana il maschio posto in amplesso (yab-yum) colla Terra nei panni d’una
femmina dalla pelle gialla – nei dipinti il color di Prajñaparamitā (255), ad esser sinceri, risulta ocra – è Vajradhara (256),
identificabile a Vajrakāla o a Kālacakra, di color blu a simboleggiare il Cielo nel suo
continuo Divenire. Da notare che tale
amplesso non indica solamente un rapporto di tipo cosmologico, come quello fra Puruṣa
e Prakṛti; bensí
l’Unità Divina, colla Sua Presenza manifestata in senso shaktico (257).
Un’ulteriore conferma di quanto appena da noi sostenuto, la ricaviamo
dal fatto che in realtà Vāruṇī riceve la
Conchiglia per condivisione dell’attributo quand’è unita in forma composita a Cāmuṇḍā,
ipostasi di Kālī caratterizzata appunto dallo Śaṅkha (258).
Da Varuṇa
(o Kāma), come suddetto, la Conchiglia passa
a Viṣṇu. Di Viṣṇu,
cosí come di Brahmā,
non si sono trovate tracce nel mondo preistorico a livello archeologico. Che esistessero già tuttavia queste due deità
all’inizio del Kaliyuga sono i testi
vedici stessi a darcene notizia. Certo
la cronologia dell’Orientalistica ufficiale differisce alquanto da quella
tradizionale, ma noi è su quest’ultima che facciamo affidamento in codesto
libro. Dell’altra, stilata appositamente
per sviare i falsi sapienti (coloro che fanno dell’erudizione un fine anziché
un mezzo, come dovrebbe essere), poco c’importa; poiché, detto con tutta
sincerità, lascia il tempo che trova. Ad
ogni modo le prime immagini giunteci su Viṣṇu,
tanto per stare al metodo storico, risalgono esclusivamente al III sec.
d.C. Il primo tempio vishnuita di cui si
abbia conoscenza pare essere invece quello di Badarī
(259), alle fonti del Gange. La radice della formazione di tale culto è
da porre, sicuramente, nella venerazione degli Eroi (260). La prima forma di Viṣṇu descritta nel Mahābhārata
(precisamente nell’Ādiparva ed in riferimento alla sua
ipostasi di Nārāyaṇa), possiede soltanto 2 mani, reggenti mazza (gadā) e ruota (cakra);
mentre le prime forme a 4 braccia, una mezza dozzina, risalgono al Periodo Kuṣāṇa e sono preservate ora al Mus. di Mathurā (261). La Conchiglia iconograficamente appare piú tardi, a partire dal Periodo Gupta (262), nella mano sinistra inferiore. È divenuta ben presto una delle 4 armi
fondamentali del dio assieme alla Mazza (in alto, a destra), alla Ruota (in
alto, a sinistra) e all’Abhayamudrā (in basso, a
destra). Non ha importanza qui stabilire se l’icona di Viṣṇu si sia evoluta o meno da quella del Bodhisattva (263), stilisticamente parlando, essendo un fattore estetico di cui
per l’occasione non teniamo conto. Quel
che conta per noi in questo momento è l’origine concettuale dell’arma in
questione. Nel IV sec. la mano destra
inferiore è posta in varadamudrā (264), ma l’arma caratteristica di tal
posizione sarà in seguito il Loto (Padmā)(265).
Tutte e quattro le principali armi in dotazione al dio si trasformeranno
nel XII sec. (al dire del Desai, ma noi non siamo per nulla d’accordo) in āyudapuruṣa (lett. ‘arma-persona’, cioè
personificata)(266), ossia in
personificazioni di divinità ausiliari del nume. Saranno unicamente i testi tardi ad offrir
spiegazioni circa il significato delle varie armi, ma è supponibile che come
per il resto esse rispecchino idee collaudate da parecchio tempo, cioè pratiche
antiche tramesse dalla tradizione per via orale. Il Desai cita in proposito il V.Dh.P.- iii. 85, 16-8. Su codesta base iconologica pian piano
s’innesteranno altri caratteri indigeni, una fisionomia del genere ricorrendo
un po’ in tutte le divinità d’origine vedica, è ovvio.
Rimane da segnalare il fatto che
la Conchiglia già nel Mhbh., Sabhāp.- 10, 38/b viene presentata quale tesoro (nidhi) di prosperità, in relazione a Kuvera (o Kubera), con queste parole: “I piú
belli fra tutti i gioielli, le regine fra tutte le gemme (267) nell’ambito del Trimundio, ovvero Śaṅkha e Padmā, in forma
personificata, accompagnati da tutti i gioielli della terra (pure loro alla
stessa maniera) ossequiano Kuvera.” Kuvera
altro non è che l’ennesima forma di Maheśvara, come d’altronde il
corrispettivo greco Dioniso – sia in veste epictonia che in quella ipoctonia –
lo è di Crono. Interessante rilevare
ancora, per quanto esuli dal nostro programma di ricerca, che nel V.Dh.P.- iii. 85, 2-11 è offerta una
dettagliata descrizione iconografica delle armi dei 4 Vṛṣṇi-Vīra (268) o
discendenti di Vṛṣṇi (principe del
Regno Yādava nell’India Nord-occidentale) nel
quintuplice culto bhāgavata-pāñcarātra (di Para-Vāsudeva alias Puruṣottama, Vāsudeva alias Kṛṣṇa, Saṁkarsana
alias Baladeva, Aniruddha alias Sāmba e Pradyumna alias
Kāma)(269).
Para-Vāsudeva, si noti, è identificabile
anche a Nārāyaṇa. Ciascuno dei 4 vyūha
(‘porzioni’) dell’Essere Supremo tiene in mano delle armi proprie: a parte Kṛṣṇa–Vāsudeva, che
possiede quelle consuete di Viṣṇu
(Conchiglia compresa), Balarāma-Saṁkarṣaṇa – inventore in tale funzione, a volte
ricoperta dal gemello, dell’agricoltura e come tale rapportabile al culto degli
Ārya oltreché identificabile al Noè giudaico-cristiano – detiene il
Pestello e l’Aratro; mentre Aniruddha-Sāmba ha la
Mazza, Pradyumna-Kāma Arco e Freccia. Senza star ad analizzare tutti gli sviluppi
del culto vishnuita che qui non ci riguardano segnaliamo una peculiare
raffigurazione di Viṣṇu,
questa sí importante, che anziché 4 armi
ne ha in dotazione solo 3. È una
scultura di Nālandā (VIII-IX sec. d.C.), nella regione del
Magadha (all’incirca l’attuale
Bengala) caratterizzata dalle solite armi (Mazza e Ruota) tenute nelle mani
superiori; sennonché le mani inferiori sono insolitamente congiunte davanti al
petto nell’atto di voler suonare ritualmente lo Śaṅkha a
mo’ di selvaggio corno (270), quasi
a voler radunare i fedeli vaiṣṇava. La Conchiglia era difatti usata quale richiamo alle adunanze sacre, come
successivamente i buddhisti hanno adoperato la campana. Il suo uso bellico non sarà ivi preso in
considerazione, basterà esclusivamente rammentare che ciascuno degli eroi
mahabharatiani possedeva uno Śaṅkha personale,
diverso da quello degli altri.
p) Ninfe, Oceanine, Nereidi e Tritoni
In greco il termine Νύμφη significa oltreché ‘Ninfa’ anche
(al minusc.) ‘sposa, giovane donna’. Le
Ninfe erano le giovani e graziose abitanti dei luoghi piú ameni del mare (Oceanine e Nereidi), dei fiumi (Potàmidi) e
delle fonti (Nàiadi). Vi erano poi anche
le Limniadi (271), presiedenti alle
acque stagnanti. Mentre le Driadi
abitavano i boschi e le Amadriadi eran preposte agli alberi, le Napèe alle
valli, le Orèadi ai monti (272) e le
Meliadi ai frassini (273). Il culto delle Ninfe ha comportato
l’edificazione di santuari chiamati ninfei,
quelli appunto ai quali abbiamo accennato sopra (274).
La miglior disamina d’insieme del
mito delle Ninfe e del loro culto è quella offertaci in sintesi dal Kerényi (275).
Giustamente l’illustre grecista le connette a Hermes (276), ma a nostro parere non l’Ermete
argenteo, che ha per parallelo in India il Vāmanāvatāra; quanto
piuttosto l’Ermete aureo (277),
figlio della Ninfa Maya (278) ed imbattentesi nella Tartaruga (279), il cui guscio egli impiega una
volta morto l’animale per creare lo strumento musicale della Lira (280).
Similmente al cinese Fu hsi (281), che la utilizzò per creare i
Trigrammi. La Tartaruga indicava –
almeno per i Cinesi (vedi anche il doppione P’an
Ku) – la suddivisione dello spazio nella diade spirituale Cielo-Terra,
colla quale l’Uomo costituiva nei primordi una Triade; le scritture hindu non
molto diversamente (Śat.B.-
vi. 1, 1, 12) interpretano il simbolo come un’immagine del Trimundio (Cielo,
Atmosfera, Terra) nato dal Brahmāṇḍa (‘Uovo di Brahmā’), talora facendo delle 4
<Gambe> del rettile un’allusione al Caturveda
nella sua pienezza ovvero ai 4 Punti Cardinali (282). Il Mārk.P.- cviii. 74 su questa base – a cui si sottintende il Punto Intermedio,
identifica il Kūrma con Nārāyaṇa, “in cui ogni
cosa è stabilita”. La Tartaruga di
Hermes prova dunque che pure le Ninfe si richiamano, sostanzialmente, al Ciclo
della Tartaruga; infatti esse sono per altro verso, ecco un nuovo elemento onde
confermare la loro dipendenza da quel ciclo, appaiabili ad Afrodite Urania (283).
La dea, non a caso, in una speciale icona posa il piede sinistro sul
carapace a placche cornee di tale animale.
Ciononostante come insegna Kerényi (284),
“sia anticamente che piú tardi le Ninfe
appaiono anche a sé stanti” rispetto ad Afrodite, senza peraltro
l’accompagnamento classico dei Satiri oppure dei Sileni (285): “con bei volti e vesti lunghe, guidate da Ermes e per lo piú in numero di tre.” Subito di seguito aggiunge che “il tre sembra
sia stato il loro numero fondamentale, quello delle Cariti e delle altre note
triadi [meglio dire terne, N. dell’A.] femminili che costituivano,
tutte, la forma disgiunta di una grande dea triforme.” Ciò valendo anche per le
Ninfe, potremmo quindi dedurne che codeste figure femminili – non meno d’altre
terne del genere – non sono che una triplicazione di Afrodite in relazione alle
Direzioni. Non si dimentichi, del resto,
che la dea è la figli a-consorte del signore dello spazio cosmico. E a tal proposito si spiega il ricorso alla
Conchiglia quale simbolo di riferimento ciclico (286) anche per le Ninfe (287),
non meno che per Afrodite, come abbiamo visto ad Ischia ecc. Se relativamente tardi, di certo dopo
l’ellenizzazione della Grecia, sono divenute le figlie di Zeus (288) è perché sono andate incontro
inevitabilmente a quella forma di olimpizzazione subita da tutti i numi
pre-olimpici; probabilmente in origine il mito le faceva discendere dalle gocce
del sangue di Urano evirato da Crono, non meno delle Meliadi, alle quali
esclusivamente questo significativo mitologhema è rimasto fissato per mano di
Esiodo 289).
Fatto quest’inciso, torniamo
all’illuminante visione del Kerényi, rispetto a cui dissentiamo solamente
sull’eccessiva distinzione fra le Nereidi, le Naiadi e le altre (290); le une a suo dire sarebbero
perenni e le altre no, come le fonti di provenienza. A nostro giudizio trattasi in ogni caso di
ninfe, da porre sullo stesso piano, nonostante la diversa durata della loro
apparente esistenza fenomenica. La fine
d’una fonte o d’un corso d’acqua non significava la fine della loro esistenza,
ma il trasferimento in altra sede, visibile od invisibile che fosse. Mentre concordiamo pienamente sul loro ruolo
di nutrici piuttosto che di madri, come dimostra la vicenda amorosa di Anchise
con Afrodite. Nell’Inno Omerico a costei
dedicato (Hom., Hym.- v. 250-80) la
dea rimpiange d’aver commesso la grave debolezza d’essersi unita ad un
mortale, lei che era abituata altrimenti
a soggiogare la volontà altrui.
Viceversa, spingendosi gli Dei immortali a congiungersi con donne
mortali, aveva finito anch’ella per concepire un figlio, Enea, giacendo con un
mortale. E pensa a quando il figlio di
Anchise avrà visto la luce del sole e sarà affidato alle Oreadi dimoranti sul
Monte Ida (291). Ad esse si uniscono in amore i Sileni, ed
Hermes, nella prondità delle grotte.
Alla nascita delle Ninfe germogliano meravigliosamente sulle zone
inaccessibili delle montagne abeti e querce, che talora gli uomini tagliano col
ferro (292). Ma allorché giunge il loro destino di morte
comincia tutt’attorno la corteccia ad inaridire e cadono i rami, intanto che le
anime delle Ninfe abbandonano la luce visibile.
Nel caso di Enea, il cui nome è lasciato in incognito, le Ninfe invece
lo alleveranno; e quando Afrodite tornerà col bambino simile ad un dio lo
affiderà ad Anchise, che lo condurrà ad Ilio (293) battuta dal vento. Per
concludere il discorso sull’argomento, va ricordato sulla scorta del Kerényi
che Satiri e Sileni, alla medesima stregua delle Ninfe, rappresentavano la
maschilità feconda al plurale (294).
Fra le deità pre-olimpiche si
annoveravano anche le Nereidi (le ‘Umide’), figlie di Nereo, una delle numerose
varianti del ‘Vecchio del Mare’; oltre alle Oceanine, figlie a loro volta di
Poseidone ed Anfitrite. In base ad altra
versione queste ultime erano figlie di Oceano e Teti, costituendo insomma un
allonimo delle prime. O forse, delle
titanidi addirittura maggiormente vetuste.
Le Nereidi, 50 di numero secondo Esiodo, in ambiente terrestre venivano
raffigurate sempre in maniera antropomorfica (295); mentre in ambiente acqueo erano poste a cavallo di tritoni,
ovvero d’imprecisabili se non fantasiosi sauri marini (296). In quanto ai Tritoni,
bisogna aggiungere che in teoria avrebbero dovuto esser effigiati in forma di
esseri umani nel busto ma con coda pescina dietro un corpo serpentiforme (297), essendo delle moltiplicazioni di
Tritone (298), figlio pure di lui di
Poseidone e consorte. In verità ciò non
avviene, i Tritoni hanno fisionomia a parte (299). A questo gruppo di
divinità va associato Nereo, di cui non esistono molte raffigurazioni. In una tazza etrusca a figure rosse di stile
attico rinvenuta sul Monte Abetone (300)
si scorge Nereo senza particolari attributi lottare contro Eracle, con in testa
la pelle di leone ed in mano il Delfino (c.510-505 a.C., Mus.Naz. di Villa
Giulia, Roma), evidentemente strappato al dio marino. Da una seconda immagine dello stesso tipo si
vede chiaramente che il Pesce è in mano a Nereo (301), non ad Eracle, secondo logica; perciò ne deduciamo che nella
coppa etrusca il pittore abbia mal disposto le mani dei due personaggi, oppure
abbia commesso un imperdonabile errore d’attribuzione. Sempre che la prospettiva fotografica non
tradisca. L’agone è un episodio dell’XI
Fatica. Racconta R.Graves (302) che il figlio di Zeus non
conosceva la via per giungere al Giardino delle Esperidi ed allora si era recato
al Po, dimora eletta di Nereo, attraverso l’Illiria; quivi le ninfe del fiume
lo condussero dal dio del mare, che giaceva addormentato, ma l’eroe l’agguantò
e lo tenne ben saldo costringendolo nonostante le metamorfosi attuate dal nume
onde sfuggirgli di mano a rivelargli profeticamente il segreto per
appropriarsi delle Mele d’Oro. Nereo
allora gli consigliò di non coglierle colle proprie mani, ma di servirsi di
Atlante, cosa che ovviamente egli fece e con degli stratagemmi (prima uccise il
Drago Ladone, poi accolse sulle spalle il peso del globo celeste, per ridarlo
infine al precedente reggitore con una scusa dopo che questi gli aveva
procurato i fatidici pomi) lo beffò ottenendo l’agognato premio. Un sembiante con gambe ofidiche gli è
diversamente assegnato nel fregio ovest del Grande Altare di Pergamo (180-180
a.C., ora al Mus.Stat. di Berlino), ritraente la Gigantomachia e fiancheggiante
la scalinata; in questo caso il Vecchio del Mare, figlio di Ponto e di Gea, ha
accanto la sua consorte Doride (303). Il Graves (304) lo identifica a Proteo per la straordinaria capacità, come
questi, di mutar forma; segnala in aggiunta una pittura vascolare molto arcaica
in cui il nume ha coda di pesce (305) e
3 animali (Cervo, Leone, Serpe) gli fuoriescono dal corpo, a simboleggiare il
mutamento stagionale. Gli animali
menzionati debbono essere intesi quali emblemi, vicendevolmente, della
Primavera (per il cambio di corna), dell’Estate (a causa della terra riarsa) e
dell’Autunno (per via dell’entrata in letargo, sottoterra, degli animali). E naturalmente il normale aspetto del nume,
di canuto vegliardo, deve esser concepito quale emblema dell’Inverno (306).
Delle Oceanine non conosciamo alcuna rappresentazione artistica, mentre
per quel che concerne Oceano e Teti, Poseidone ed Anfitrite ed altre deità
marine parallele rimandiamo ai paragrafi ed ai capitoli successivi. Dei due personaggi ultimi diremo solo
qualcosa, tra breve, per completare il quadro sin qua delineato.
q)
Poseidone ed Anfitrite
In Epoca Classica Poseidone
veniva scolpito nei rilievi a tutto tondo quale nudo atleta barbuto dotato di
Tridente. Iconologicamente
quest’attributo poteva esser tenuto in posizione eretta, colle punte verso
l’alto; come nel bronzo di Creusa (c.480-470 a.C., Mus.Naz., Atene), in Beozia,
trovato in mare (307). Oppure brandito al modo d’una lancia, come
avviene appunto nel bronzo d’Istiea
(Eubea); ripescato da una nave sprofondata (c.460, Mus.Naz., Atene) ed
assegnato a Calamide, scultore beota od attico della prima metà del V sec. (308).
Vi è una terza icona, che oltre al Tridente riporta anche il Delfino; a
titolo di esempio citiamo la copia di opera bronzea di Lisippo (IV sec. a.C.),
conservata al Mus.Lateranense di Roma (309),
ma di tale tipo d’icona parleremo meglio nel prossimo capitolo. Una quarta e diversa posa, questa volta senza
Tridente, è quella del fregio-est del Partenone (Mus. dell’Acropoli, Atene);
dove Poseidone è seduto a concilio cogli Dei, non piú nudo ovviamente, accanto ad Apollo ed Artemide (310).
In Epoca Ellenistica il Tridente è stato impugnato obliquamente, ma è in
Epoca Romana che s’è sviluppata un’iconografia del dio unito alla paredra. Prima di analizzarla vogliamo però citare un
importantissimo altorilievo di Ostia a carattere votivo, oltreché denso di
simboli. A parte la nave colle vele
istoriate ed il faro, rilevati dal Bianchi Bandinelli (311), si distingue nella scultura Nettuno col Tridente in
posizione eretta; alle cui spalle stanno il suo tipico tempietto (312) ed una seconda nave,
evidentemente suoi emblemi secondari. Ma
spicca, fra tutto il resto, il possente Occhio Frontale (313). L’autore parla (314) di “grande occhio apotropaico che
sorge nel rilievo senza alcuna connessione formale col resto”. Invece le cose stanno esattamente
all’opposto, a dimostrazione della scarsa vena degli ‘specialisti’ a
comprendere per davvero il materiale a loro disposizione. Non è unicamente un occhio apotropaico,
benché ques’interpretazione possa valere sul piano semplicemente letterale,
bensí un Occhio Frontale o Ciclopico (315), il cui significato è legato alla
Barca e al Tridente. La Via è talvolta
descritta, esotericamente, come una navigazione sopra il mare delle passioni al
modo di Ulisse; che non per nulla ha costantemente quale avversario Poseidone,
di cui ha offeso il figlio Polifemo, orbandolo con un <palo rovente> dopo
averlo ubriacato (316). Poseidone prima di diventare un dio olimpico
era sicuramente un nume titanico del tipo del Kāla indiano,
una versione indonesiana del quale ha conservato l’aspetto oceanico. Nella storia greca di Perseo (317) Poseidone ricopre il ruolo di
strenuo oppositore saturnino del titano medesimo, la cui valenza solare è già
stata da noi sottolineata attraverso la comparazione con personaggi vari (318).
Paraśu, corrispettivo hindu di Perseo, ha per padre una figura (Jamadagni) solitamente raffigurata col
tridente sul capo, alla maniera di Śiva. Il Tridente allude, fra le altre cose, anche
al ‘Terzo Occhio’. Questo vale tanto per
i numi indiani quanto per quelli greci.
In tale ottica si comprende perché mai dalla testa recisa di Medusa
fuoriescano Pegaso e Crisaore, i figli che Poseidone aveva concepito colla
bella fanciulla prima che Atena (omologa alla Minerva romana) la trasformasse
in mostro. Pegaso, il cavallo alato, ha
lo stesso valore del ‘Terzo Occhio’; e Crisaore (‘Colui che ha la Spada
d’Oro’), rappresenta il ‘Settimo Raggio’ in senso apollineo. Quanto poi a Medusa, basta pensare che dopo
la decapitazione il Γοργόνειον funge in mano a Perseo da strumento
pietrificatore; poiché il ‘Terzo Occhio’ ha doppia valenza, eternizzante nei
confronti di ciò è alto spiritualmente o distruttiva nei confronti di ciò che è
basso. Infine Perseo dal suo canto aveva
ricevuto dalla madre l’appellativo “di Eurimedonte, come se egli fosse anche un
«sovrano del mare» e sposo di Medusa (319),
non soltanto il suo uccisore (320).” Insomma, un alter-ego di Poseidone
medesimo. Circa l’associazione del
Tridente di Poseidone con la sua Aurea Corona Tripuntata rimandiamo al
Cap.VII. Il fatto che l’Occhio si
trovasse in un rilievo votivo in marmo della necropoli di Ostia (adesso è al
Mus. di Torlonia, a Roma) è per un semplice motivo; indicava, in tutta
evidenza, un indirizzo spirituale preciso nel post-mortem da parte
dell’interessato. L’opera appartiene
all’incirca al 180-190 d.C.
Per quel che concerne la paredra,
Anfitrite, occorre rammentare che raramente ella viene rappresentata da sola;
in genere compare al fianco del suo paredro (Nettuno, anziché Poseidone, presso
i Romani), su un carro trainato da cavalli marini, che possono variare di
numero. In un mosaico di Costantina
(tipico esempio d’arte romana africana, ora al Louvre) vediamo 2 putti
sorreggere un drappo sotto il quale campeggiano come in trono i guardiani del
mare aureolati (321), nudi sino alla
cintola (in acqua sarebbe incoerente trovarli vestiti), lei col manto che le
ricopre deliziosamente le gambe e lui che – sebbene faccia sfoggio per intero
della sua virilità – tiene il manto regale appoggiato alla spalla sinistra (322).
I Putti sono una variante degli Erotidi alati che avevamo preso in
considerazione in precedenza (323),
trattando dell’iconografia di Eros Fanciullo in rapporto alla Venere su
Conchiglia (324). Nella diversa scenografia d’un bassorilievo
marmoreo dell’Ara di Domizio Enobarbo – un esempio d’arte conservato alla
Coll.Stat. d’Antichità di Monaco di Baviera, comunque assai piú antico (c.100
a.C.) di quello appena esaminato (seppur maggiormente difficile da collocare
con precisione cronologica) – riconosciamo la coppia Poseidone-Anfitrite
stancamente seduta su un carro in riposo, non trainato da alcun animale,
anziché da quattro cavalli come nella precedente scena frontale; dinnanzi e
dietro di loro stanno tuttavia delle Nereidi, accovacciate su tori o cavalli
marini, che si può immaginare adibiti al numinoso traino. Su una zampa e sulla coda ofidica d’un
cavallo retrostante al divino cocchio si notano anche 2 Erotidi Alati, ma su
tutti domina il Tritone semiumano nel tratto superiore al centro della scena,
mentre suona la terribile buccina (conchiglia ritorta donde proveniva un suono
ordinatore o pacificatore delle tempeste) (325).
r) Ino-Leucotea, Melicerte-Palemone, Matuta e
Portuno
Ivi affronteremo la leggenda di Ἰνώ (figlia di Κάδμος e sposa di Ἀθαμάς uno dei 3 Eolidi), che impazzita
gettasi in mare col figlio Μελικέρτης, ma viene salvata miracolosamente da Ποσειδάων (o da Ζεύς secondo altra versione) e trasformata in Λευκοθέα. Su Melicerte – una delle
4 forme di Glauco – abbiamo fatto cenno
in precedenza (326), non su
Ino. La pazzia di Ino è conseguente a
quella del marito, che già le aveva uccis o il figlio Learco (327).
L’intera storia, però, è quella che narreremo ora di seguito (328).
Atamante aveva avuto quale prima consorte Neféle, sorella di Seméle (329), la madre di Dioniso. Ripudiatala per Ino, aveva generato colla
figlia di Cadmo Learco e Melicerte; dopodiché era stato convinto dalla seconda
moglie con delle falsità a sacrificare Frisso, il figlio della prima. Una volta posto tuttavia in salvo dalla vera
madre, Hera aveva rivelato in sogno al padre il disegno perverso di Ino. Sicché Atamante preso dal furore aveva ucciso
Learco, figlio in seconde nozze, e s’era avventato sulla stessa Ino
costringendola a fuggire. Giunta al
mare, costei s’era gettata in acqua coll’altro figlio, Melicerte, per la
disperazione. Ma una divinità, Zeus
secondo una versione o Poseidone in base ad un’altra, l’aveva salvata per mezzo
del Delfino trasformando lei in Leucotea ed il figlio in Palemone (330).
Adesso cercheremo d’analizzare piú approfonditamente il mito, ripreso da
Pausania (Per.- i. 44, 7-8),
sviscerandone gli aspetti figurativi ancora una volta sulla scorta del Becatti (331).
Il sofista Filòstrato di Lemno (II-III sec. a.C.)(332), nelle sue Immagini
(ii. 16) descrive una pittura esistente nei portici d’una villa napoletana
ritraente l’arrivo di Palemone. Il
divino fanciullo del mare al suo arrivo all’Istmo di Corinto veniva accolto nel
tempio di Poseidone. Nella descritta
pittura si scorgeva il Delfino “scivolare lentamente nelle acque senza
disturbare il sonno di Palemone”.
Poseidone veniva effigiato sorridente nell’atto d’accoglierlo. L’Istmo, personificato, era adagiato al suolo
accanto a 2 Fanciulle, alludenti ai mari congiunti presso di esso. Il Becatti (333) ritiene la pittura “forse immaginaria”, ma è chiaro che la
descrizione di Filostrato coglie immancabilmente nel segno. Il conio corinzio, in età romana, s’è
ispirato attraverso numerosi esempi (334)
alla suddetta leggenda. Scorgiamo in
alcune monete la dea che con in braccio il figlio sta per gettarsi in acqua,
ove fa capolino un delfino (335); in
altre compare Palemone prono su Delfino (336),
talvolta il tutto essendo collocato su un’ara od altrove (337). Il Divin Fanciullo
ricorre alternativamente in piedi (338) o a cavalcioni del mammifero
salvatore (339). Il culto di Ino rimane in ogni caso ancorato
all’aspetto terrestre della dea ed all’ambiente beotico, mentre quello della
miracolata Leucotea quale protettrice della navigazione diventa invece
panellenico e si estende all’intero ambiente egeo (340). In Asia Minore la
venerazione di Leucotea giunge sino alla Colchide, ma anche le coste
occidentali del Mediterraneo conoscono tale culto ed altrettanto le coste
italiche (campane, laziali, etrusche).
L’Od.- v. 457-85 celebra il
salvataggio di Ulisse, naufrago durante la tempesta provocata dallo sdegnato
Poseidone, da parte della signora del mare (Θαλασσομέδοισα)(341) col proprio
velo, che lo tiene a galla (342) e gli permette in tal modo di
giungere all’Isola dei Feaci; Nonno (Dion.-
ix. 81 ss e x. 121 ss), invece, descrive Leucotea come
nereide (343). A questo proposito bisogna notare che, in
realtà, non solo Leucotea ma anche le sue sorelle fungevano da nereidi. (344). Leucotea veniva d’altronde ossequiata quale
procuratrice della bonaccia e guida dei
marinai che avevano perso la rotta.
Anche in senso spiritualmente trasposto, è chiaro. Statue marmoree o bronzee della nereide
vengono segnalate da Pausania, ma non ne è sopravvissuta alcuna (345).
Qualche simulacro di figura marina è sospettata di esserla, ma non è
dato di sapere con certezza. Il Becatti (346) cita comunque un esempio
iconografico rilevabile in un cammeo viennese del XVI sec., il quale non sembra
aver riscontro nell’Antichità, nonostante l’arcaismo stilistico evidente che lo
carattterizza. Sicuramente antica è
viceversa l’effigie della dea, con stretto il figlioletto nelle braccia, nel
mosaico dei Cavalli di Cartagine (347). Altri erroneamente ha intravisto in questa
raffigurazione la poetessa Saffo, ma si vedono probabilmente a lato della
figura femminile dei tritoni (o marinai invocanti protezione?).
Nel processo di ellenizzazione
delle dee indigene italiche rientra l’antichissima Mātūta Māter,
identificata da Servio a Leucotea (in Verg., Georg.- i. 437). Cicerone,
Plutarco e tutta la tradizione pagana e cristiana sino a Sant’Agostino confermano
(348). Matuta era la dea laziale dell’aurora,
ossequiata a Roma già in tempi regi. Un
tempio a Satrico (349), a lei
dedicato, risale infatti al VI sec. a.C.
Nell’Urbe medesima è presente ancor oggi un tempio, architettonicamente
datato all’ultimo periodo repubblicano (350),
ma secondo il Becatti subentrato ad un sacello edificato in onore della dea al
tempo di Servio Tullio (351). Essa veniva raffigurata in trono con un bimbo
in braccio, come nel Medioevo certe Madonne; sono state rinvenute molte
statuette di tal genere, seppur appartenenti ad una fase piú recente. Matuta era l’indigena e rosea dea dell’alba,
la perfetta equivalente dell’Eos ellenica “dalle rosee dita“ nella definizione
omerica, di cui l’Aurora latina non costituiva che un doppione letterario senza
particolare culto (352). Il Becatti nel descriverla dimentica un fatto
importante ossia che fungeva da controparte di Giano, in quanto Mātūtīnus Pater (353), alternativamente a Iāna (354), poi parificata a Diāna, od alla Ninfa Venīlia (madre di
Turno). Il che, immancabilmente, fa di
lei una deità primordiale. Ciò è
sufficiente a spiegare parimenti la sua posteriore equiparazione a
Ino-Leucotea, dato che Giano dopo esser stato in origine il dio degli inizi (prīma) – comprendendo la mitica Età dell’Oro siccome avvio dei
cicli umani ed i solstizi in quanto passaggi da un settore all’altro del cielo
in senso solare, ovviamente pre-planetario e pre-zodiacale – è stato riciclato
in un secondo momento ad uso della classe produttiva quale Iānus
Quirīnus
ed identificato a Romolo (355) divenendo
in veste di divinità presiedente all’artigianato il signore delle porte (ianitor) e necessariamente anche dei
porti. Benché di quest’ultimo aspetto ci
sia giunta scarsa testimonianza, forse perché si trattava d’un attributo
debole, piú teorico che reale. Lo
deduciamo dalle prerogative del <figlio> di Giano e Matuta, Portuno (356).
La mitica ’Arca’ attribuita a Giano ed ereditata dal cristianesimo come
la ‘Barca’ della Santa Romana Chiesa non era la Nave di Saturno, bensì l’Arca
del Diluvio primevo (357). Nel cattolicesimo si è trasformata in un’Arca
Zodiacale, visto il numero degli Apostoli; cosa che non può non esser riportata
al culto solare essenico, d’origime evidentemente noaica. Il che fa pendant
cogli altri attributi trasmessi al Papato dal sacerdozio romano, quantunque
simultaneamente in linea cogl’insegnamenti giudaici (Anello del Pescatore,
Mitria, Chiavi ecc.), ognuno dei quali conserva perciò un doppio richiamo
simbolico. Saremmo tentati di dire, al
Monte Sion e all’Eden (358); o, piú
limitatamente, all’Isola Bianca e all’Isola Verde (359). Perfino l’etimo del
nome Mātūta, da māne (s.ind. col
senso di ‘mattino’, donde l’a.mātūtīnus) rinvia
alla prima luce mattutina, l’alba essendo naturalmente intesa quale immagine
del principio della vita. A lei al dire
di Varrone venivano elargite in dono rustiche focacce (testūācia)
cotte in vasi di terracotta (testū) dalle matrone
romane durante le feste dette Mātrālia. Anche in Grecia, c’informa puntualmente il
Becatti (360), erano offerte focacce
ad Ino a scopo oracolare, ce ne dà notizia Pausania (Per.- iii. 23, 8). Nella
fase arcaica del culto della Māter non era
però contemplato alcun riferimento al mare.
Resta quindi problematico, nella visione accademica, il motivo
dell’identificazione alla nutrice dionisiaca greca. Da parte nostra crediamo invece d’averlo sopra
spiegato. Il Becatti (361) risolve comunque magnificamente
il problema dal suo punto di vista, che in fin dei conti è convergente col
nostro nei risultati se non nelle premesse, mostrando l’affinità fra il
concetto di candore proprio a Λευκοθέα (lett. la ‘Bianca’) e quello di
mattutinità attribuibile alla Māter romana. Di qui discenderebbe indirettamente, per
associazione logica fra le idee di alba e di inizio, il significato
propiziatorio conferito alla nereide in relazione alla navigazione e ad ogni
altra attività marittima. Sebbene altre
attività come la pesca non siano invero menzionate da alcuno in rapporto a
Leucotea o a Matuta. Riferisce Plutarco
che l’espulsione d’una schiava dal tempio ogni anno al tempo delle Matralia
fosse un carattere comune ai due culti (362),
ma non ne conosciamo di preciso la motivazione.
Si può solo supporre che, essendo le due dee associate ai parti ed alla
prole, fungessero da richiamo all’infanzia dell’umanità; al tempo cioè in cui
non esisteva nel mondo alcuna forma di schiavitù, donde la concretizzazione
dell’interdizione all’ingresso nei templi ad esse dedicati, quasi che l’esser
divenute schiave rappresentasse un’offesa alla natura incorruttibile della
donna. La donna è tentatrice ed agente
di corruzione presso l’uomo, come Ino nei confronti di Atamante, ma è capace
subitamente rinunciando a tutto di risorgere spontaneamente purificandosi nelle
acque al modo di Leucotea. Non ha
bisogno dell’intero processo di purificazione che al contrario deve subire
l’uomo per riottenere la Grazia Divina, essendo meno complessa ed
artificiosa. Potrebbe sembrare un
controsenso dal punto di vista sociale quanto appena affermato, ma non lo è;
poiché sicuramente le antiche matrone presso i Latini come presso gl’Indiani
non appartenevano di per sé ad alcuna casta, dato che queste erano unicamente
riservate agli uomini e le donne vi partecipavano per riflesso attraverso i
loro mariti od i loro padri. Questa
concezione potrebbe parere limitativa per le femmine, ma costituisce viceversa
il ricoscimento d’un privilegio naturale rispetto alla situazione del maschio. Lo stato incontaminato della femmina lo
s’intuisce all’istante, essendo simile a quello degli animali, che pur colle
loro debolezze ed i loro forti istinti sono rimasti perpetuamente nella
condizione paradisiaca originaria.
Il Becatti (363) analizzando il contrasto fra il furore dionisiaco della
tebana Ino, che si getta in mare col figliolo trascinandolo seco nel proprio
suicidio, e del tratto all’opposto squisitamente materno di Matuta sottolinea
l’estrema vaghezza dell’intervento di Poseidone. Rimanendo incerto il luogo di riemersione
della dea sotto la rinnovata forma di Leucotea, si spiega il resto della
leggenda colla Nereide Πανόπη/Πανοπεία (364) che assieme alle sue 100 sorelle
la raccoglie dalle acque e la trasporta alle foci del Tevere. Ciò è attestato financo in Virgilio (Georg.- i. 436-7): “… e i naviganti
sulla spiaggia incolumi scioglieranno i loro voti a Glauco e a Panopea e ad Ino
Melicerta.” Dopodiché sarà ospite della
Profetessa Carmenta (365), che le
paleserà il suo destino prossimo, ovvero quello di divenire Matuta; quasi che
fosse subentrata in lei una doppia trasformazione: da Ino a Leucotea, da
Leucotea a Matuta. Ed un santuario le
sarà riservato a Roma, accanto al tempio della Fortuna Virile (366).
Aggiunge peraltro il Becatti (367)
che l’ellenizzazione della dea latina presuppone l’espansione romana in
campo marittimo, ciò che non sarebbe potuto accadere prima del II sec. a.C. Ellenizzandosi, il culto di Matuta si sposta
dall’interno verso la costa, verso cioè i centri portuali sia del Tirreno
(Napoli, Marsiglia) che dell’Adriatico (Pesaro, Aquileia).
Anche Portūnus
appare conneso agli antichi culti, dato che pure a lui era dedicato un apposito
flamine e le Portūnālia non meno delle Matralia sembrano
risalire molto addietro nel tempo (368). A giudizio di Varrone (in Verg., Aen., V. 241) Portuno fungeva sia da
signore delle porte che da signore dei porti (369), suoi attributi essendo la Clāvis
(‘Chiave’) ed il Clāvus (lett.
‘chiodo’, met. Il manubrio a forma di chiodo del timone della nave, quindi
‘timone’), secondo quanto viene testimoniato anche da altri scrittori latini (370).
In proposito Becatti (371)
ipotizza che Portuno fosse in principio un semplice dio delle porte e che
l’opzione portuale si sia aggiunta solamente da quando Roma cominciò ad
affacciarsi al traffico marittimo (372),
che però divenne ben presto dominante rispetto all’altro aspetto. La trasformazione del culto ebbe delle
conseguenze perfino sul piano iconografico, con la sostituzione dell’Ancora al
Timone, come si nota nel bassorilievo
di stile ellenistico del pannello del pilone destro dell’Arco di Benevento
(II-I sec. a.C.)(373). Non esiste, che si sappia, un’anteriore
iconografia sul piano figurativo.
Inoltre Becatti (374), rifacendosi fiduciosamente a G.
De Sanctis ma a nostro parere gravemente sbagliando, dichiara che in principio
“non vi era alcun rapporto tra la primitiva ‘Mater Matuta’, divinità della
prima luce, e il primitivo Portuno, dio delle porte…; forse la ‘Mater Matuta’
era piuttosto collegata con un probabile ‘Pater Matutinus’, figura parallela a
Giano con cui fu poi assimilato…” (375). L’assimilazione fra due deità non può esser
dovuta alla vicinanza casuale fra di loro di due templi, sarebbe troppo banale,
dato che non vi è prossimità senza causa (376)
nella strategia antica di suddivisione dello spazio. Inoltre, siamo convinti, secondo quel che già
abbiamo sopra congetturato, che la figura di Portuno abbia funto da
<figlio> di Giano fin dall’Alta Antichità. O, come altri ha sostenuto, da suo alter-ego
in qualità di portinaio; per esser addetto, in un secondo tempo, al porto
tiberino (377). Perché separare, poi, Giano da ‘Matuta’ se è
la tradizione stessa che ne fa due consorti?
Circa la questione del Padre Mattutino è chiaro che, se la Madre
Mattutina è una delle 3 spose di Giano, il Padre Mattutino non può che esser
lui medesimo in un suo appellativo particolare; assolutamente coerente colla
propria fisionomia di dio aureo e degli inizi, che rappresentano la natura
essenziale del nume. Si potrebbe
asserire tuttavia, volendo cavillare, che il Mattino rimanda alla Primavera e
all’Equinozio; non al Solstizio, che è per contro correlato all’Inverno ed alla
Mezzanotte. Ciò parrebbe, perciò,
incoerente colla sua signoria del mese di Gennaio. Se si pensa comunque che nella ‘Terra
Nascosta’ alla quale rimanda etimologicamente il nome del Lazio, di cui non
certamente a caso egli era mitico sovrano, il lungo giorno artico escludeva tanto i solstizi quanto gli
equinozi, è ovvio che il simbolismo quaternario a lui attribuito in tal senso
non può che essere per forza di cose un’applicazione posteriore. In altre parole, la quadrifrontalità aveva in
origine un significato direzionale, pre-annuale e pre-giornaliero; le 4 Facce
al modo delle 4 Teste di Brahmā ne nascondevano
evidentemente una quinta (378),
invisibile sia nell’icona latina che in quella indiana, (benché la si ritrovi
in pratica esclusivamente nel simulacro di Śiva o Ganeśa), di
carattere supremo. Col che torniamo al
tema degli inizi, il quale è la caratteristica fondamentale di Giano (379).
Poiché il Centro, direbbe Guénon (380),
oltre ad essere un’immagine dell’Immanifesto “è il punto di partenza d’una
irradiazione assimilata a quella della luce”.
s)
Iconografia di Glauco Antedonio e
di Scilla
Nelle Metamorfosi (xiii. 151-3) Ovidio descrive Glauco Antedonio, da lui
distinto nettamente rispetto a Glauco Melicerte, in questi termini (381):
Ecco fendendo il mar Glauco s’avanza
Del pelago novello abitatore
Che in Antedon testé mutò sembianza;
E veduta colei n’arde d’amore
Seco s’adopra ogni dire, ond’ha fidanza
Di farle indugio e rammollirle il cuore;
Pur ella fugge, e impaurita arriva
In vetta a un monticel presso la riva.
Innanzi a un golfo sopra al mar sospesa
Nuda rupe s’appunta in un cacume:
Qui fermossi; e dal loco ardua difesa
S’affisa in quel non sa se mostro o nume:
Ammirane il colore e della stesa
Chioma lungo le spalle il gran volume
E dagl’inguini in giú come
decresce
In strana forma di ritorto pesce
Ei se n’accorge e da un ronchion vicino
Vergin, – disse – non son mostro né fera;
Son dio del mar; né Proteo o il
figliuol d’Ino
Né Triton piú di me nell’onde impera.
Mortal già fui, ma pur dato al marino
Studio in quel mi piacea da mane a
sera;
Or a trar reti, or dalla riva inteso
A moderar il fil su canna appeso.
L’innominata vergine cui
Glauco tenta, ahinoi invano, di far bella mostra è ovviamente Scilla (ibid., 150), che dopo aver ascoltato
dalla bianca Nereide Galatea la storia del suo amore per Aci, schiacciato per
gelosia da Polifemo sotto un masso, se ne va da sola e nuda al suo solito
riparo; poiché non si fida del mare, temendo un inganno, a differenza delle
Nereidi che s’allontanano a nuoto. Non
appena la vede Glauco se n’innamora. A
lei, cercando d’intenerirla, spiega di essersi traformato in un uomo dalla
verde barba e dalla coda di pesce dopo aver gustato
determinate erbe dal magico potere (ib.,
157-9). Ciò è avvenuto dopo aver visto i
pesci da lui pescati nell’atto di toccare certe erbe riprender vigore e
comportarsi sull’arena come in mare, ciò che lo spinge ad imitarli
(155-6). Non si dimentichi ad ogni modo
il senso esoterico di questa metamorfosi (382),
che altro non rappresenta se non il consumarsi della natura mortale e profana
nella divina natura per mezzo dell’amore per Scilla, vale a dire per la
sapienza segreta.
Mentre ammiro e ristò tutto lo stuolo
Fugge nell’onde, ed abbandona il lito,
E in esso me tra lo stupore e il duolo,
Che ne cerco il perché e smarrito.
Opra è questa d’un dio? pensava; o solo
Virtú che da natura erba ha sortito?
Pur qual erba fu mai tanto potente?
Dissi; ne colsi, e ne saggiai col dente.
Non appena io gustai del succo ignoto,
che i precordi sentii nel petto mio
Rimescolarsi di subito moto,
E avermi altra natura, altro desio.
Né star potendo ivi medesmo immoto,
Addio,
terra! – esclamai – per sempre addio! –
Balzai nel mar; gli Dei del salso regno
De’ suoi i fanno e d’onoranza degno.
E pregan l’alma Teti e l’Oceano
Che mercé lor si tolga e si consumi
Quanto è in me di mortale e di profano:
E me da capo a piè purgan quei numi;
Che detto nove volte un carme arcano,
Soppor mi fanno il petto a cento fiumi:
Ecco in me piú cader fonti diversi,
Qual tutto in capo il mar mi si riversi,
Ciò che avvenne fin qui narrarti io posso
Senso alcun non serbai del rimanente.
Me poi trovai, qual da sopor riscosso,
Da quel che fui di corpo altro e di mente.
Questa allor verde barba, e il largo dosso
Vidi e i ceruli bracci, e la pendente
Chioma ch’io traggo a fior d’acqua, e l’estrema
Parte che in pesce si ricurva e scema.
Accorgendosi di non piacere a
Scilla, Glauco si duole della sua trasformazione ed irato se ne va allora in
cerca della dimora incantata di Circe (160).
Colà – nella Sicana terra – le domanda mercede, richiedendo sollievo
tramite le arti magiche ad un amor che oltrepassa ogni misura (xiv. 2-4). E
Circe soddisfa la richiesta di “formare con sacro labbro arcani accenti”,
sennonché essendosi invaghita del nume marino – vuoi per vizio o per
maledizione di Venere – prova a spingerlo a ricambiare col disprezzo chi non
l’ama ed offrendogli il proprio talamo lo invita a vendicarsi di quel tacito
rifiuto pigliando piacere con lei (5-6).
Ma Glauco, disimpegnandosi dalla profferta amorosa della maga, le
confida esser piú facile che il mare si riempia di fronde e i monti si
ricoprano d’alghe piuttosto che lui ami altra donna all’infuori di Scilla. Vedendo l’assoluta preferenza del nume per la
rivale la sdegnata Circe, non potendo rivolgere verso l’oggetto del suo
desiderio l’odio provocatole dalla pur garbata ripulsa, comincia a tritare e
mescere erbe pronunciando nel contempo misteriose formule magiche; dopodiché
lascia la propria dimora vestita d’un ceruleo manto, seguita da un corteo di
belve, e camminando sulle acque si reca presso l’insenatura ad arco ove è solita
ritirarsi Scilla dal sole meridiano (7-8).
Giunta sul luogo (383), lo
cosparge di nero veleno, prima appositamente preparato. Non appena la ninfa arriva sul posto, avviene
la sua terribile trasformazione in un orrido mostro a 6 teste e a 12 gambe, ciò
provocando il pianto disperato di Glauco (9-11).
Curvo in arco s’apriva un piccol seno
Grato ricetto ove solea ritrarse
Scilla al calore e alla marea, nel pieno
Meriggio, allor che il sol l’ombre fa scarse.
Questo infettò la Dea d’atro veleno,
Qui di radiche ree succhi cosparse,
E in ciò mormorò tre volte nove
Magico carme in voci oscure e nuove.
Scilla viene, ed insino all’alvo è scesa.
Quando mostri latrar presso a sé vede:
Fugge, li caccia di terror compresa,
Che parti di suo corpo esser non crede;
Ma fuggendo li attrae; cerca, e sorpresa
Trova ceffi di can per gamba e piede,
Rabbiosi cani, al tronco inguin soggetti
Col tergo, e uniti all’imo ventre e stretti
Glauco pianse e aborrí
sempre la rea
Che usò tanto ostilmente erbe efficaci.
Restò Scilla, e involò (ciò sol si potea),
Di Circe in odio…
Nell’iconografia contemporanea il
vecchio Glauco, ovvero un Glauco senza specificazione ulteriore, si mostra con
pelle e barba color smeraldo e coda pescina; insomma, come una specie di
solitario sireno, che in mano stringe un ciuffo di erba magica. Non si tratta, in ogni caso, d’una
raffigurazione tematicamente troppo recente.
Già nel XVII sec. ne è rintracciabile una analoga, a parte il rosato di
sottofondo dello scenario fantastico, ne Le
Temple des Muses di B.Picart (Parigi 1725)(384). Non conosciamo alcuna
immagine antica di questo tipo di Glauco, le prime risalendo al periodo
rinascimentale, barocco od arcadico; da quando insomma, in opposizione alla
visione dominante cristiano-medievale, si cominciò a rivalorizzare i testi e
gli autori greco-latini antichi. Il
motivo preferito tuttavia è il desiderio vagheggiato per Scilla, una Scilla
naturalmente seminuda e prosperosa come si addiceva a quei tempi di ridondante
voluttà; la magia verde del cambiamento shamanico di forma in tali composizioni
passa in secondo piano rispetto alle icone del Glauco solitario cui abbiamo
sopra accennato. Ovviamente in tale
corteggiamento Scilla non si è ancora trasformata in mostro, Circe non avendo
parte alcuna nel ritratto artistico. Nel
Cinquecento troviamo anche un’opera iconologicamente a sé stante, creata
dall’architetto napoletano P.Ligorio (1510-83): il rilievo del Glauco-Proteo (385) nel Parco dei Mostri di Bomarzo,
presso Viterbo. Il parco, chiamato anche
Bosco Sacro, fu realizzato in stle grottesco su commissione del Principe P.F. Orsini;
che lo dedicò alla moglie Giulia Farnese, omonima della concubina di Cesare
Borgia (Papa Alessandro VI). Ivi il nume
ha forma interamente ittica e la sua bocca è splancata come una Bocca degli
Inferi, il tutto rientrando forse in un percorso ermetico a tappe, fatto di
splendide raffigurazioni scultoree, disperse architettonicamente in un giardino
che con esse si confonde.
In un piatto ovale decorato del
XVI sec., da Urbino (386),
contempliamo il soggetto da un altro punto di vista: Scilla seminuda, legata a
un albero per un braccio se non è un’illusione ottica, sta per esser ghermita
dal furente innamorato che si leva a braccia aperte sulle onde. Dietro alle spalle un villaggio parrebbe
alludere al villaggio omonimo della nereide.
Sempre nello stesso secolo (1597) troviamo il Glauco e Scilla (387) di
A.Carracci (c.1583-1618), raccolto dalla Gall.Farnese di Roma; la pittura
ritrae due amanti nudi sensualmente abbracciati, tutt’attorno circondati da uno
stuolo d’Amorini. Uno di questi, con
arco e freccia puntata su di loro, celebra l’evento; ai lati stanno un Tritone
sulla destra che suona la buccina e 3 Nereidi, sulla sinistra, che guardano
ammirate. Pittoricamente è da segnalare
come affine quantunque piú recente
d’oltre un secolo il Glaucus et Scylla
(388) di Jacques Dumont (c.1701-81),
figlio d’uno scultore. La tela ad olio,
del 1726 c., appartiene al Mus. delle Belle Arti di Troyes. Glauco appare mollemente adagiato su uno
scoglio mentre mira rapito la bella Scilla su un altro di fronte, assai vicino
eppure troppo lontano; intanto sopra di lui, che sogna ignaro l’incontro
amoroso colla bella, un Erotide gli lancia una freccia al cuore ed un gruppo di
Nereidi sulla superficie del sottofondo marino paiono sorridere compiacenti in
lontananza. Poco prima del Seicento
un’opera analoga tratta dalle Metamorfosi
ovidiane è stata composta da parte del pittore fiammingo B.Spranger
(1546-1611), che ebbe una funzione di primo piano presso la corte imperiale di
Vienna e di Praga. Il quadro, ora al
Mus. di Storia dell’Arte di Vienna, evidenzia un Glauco quasi implorante;
seppur questa volta piú prossimo a Scilla, la quale dall’alto del suo scoglio
non pare troppo curarsi di lui (389). Dello stesso tenore delle precedenti è
l’opera secentesca di Laurent de la Hyre (1606-56): sotto un cielo lievemente
rosato Glauco è uscito fra il verde da un mare brumoso che sembra in realtà un
grande fiume e mira inebriato sopra di lui una Scilla prosperosa mollemente
adagiata a petto nudo su un lastrone di pietra, mentre Cupido gli lancia una
freccia. Il dipinto francese, in olio su
canapa (c.1840-44), sta nel Padiglione Sud al Mus. J.P. Getty di L.Angeles (390).
Nello Scylla et Glaucus di
P.P. Rubens (1636 c.)(391), olio su
tela del Mus.Bonnat (Bayonne,
Aquitania), Scilla disperata non è
ancora trasformata in mostro canino; sebbene dei cani l’assalgano come fossero
demoni che vogliono penetrare in lei, mentre Glauco assiste a braccia aperte,
impotente di fronte al maleficio. In
pieno Seicento troviamo ancora un dipinto, assai intimamente tetro nei colori,
del pittore e poeta napoletano Salvator Rosa (1615-73). L’artista, un romantico ante-litteram, veniva
attratto dai paesaggi malinconici e fantastici.
Il suo Glauco e Scilla (392) non rispetta la leggenda, ma
sembra ritrarre la donna nell’atto di concedersi spontaneamente allo spasimante;
la si vede infatti con una gamba all’indietro, appoggiata contro di lui,
l’intero corpo reclinato eroticamente su un fianco e colla mano destra
appoggiata allo scoglio come per aprirsi meglio all’amante, la veste sollevata
da dietro in attesa di una difficile ma non impossibile penetrazione.
Un’altra
immagine, ambientata in una pozza fra le rocce ove lo spasimante cerca di
ghermire la donna colla rosa sopraveste slacciata ed un seno scoperto
fuoriuscente in modo scomposto dalla sottoveste azzurra, mostra Glauco nudo ed
eroticamente eccitato (393). È un’opera barocca di Filippo Lauri
(1623-94), figlio del paesaggista fiamming B.Lauwers dal nome poi
italianizzato. Troviamo la ninfa per intero in forma umana e senza armi
simboliche solamente in un dipinto tardo, databile al’inizio del XVIII sec., di
N.Vaccaro (394). Il pittore napoletano (1640-1737), ammiratore
di Salvator Rosa e discepolo di N.Poussin,
ritrae una Scilla che fugge da Glauco, mentre la guarda dall’alto la dea
Diana. In tale ottica il pittore esclude
il pensiero profondo, perdendosi nelle storie avventurose e sentimentali, come
ha fatto del resto nella sua vita d’artista abbandonando l’arte pittorica per
fare l’impresario teatrale d’una cantante di cui s’era innamorato. Un’ulteriore immagine pittorica del medesimo
motivo (395), di stile meno
ricercato delle precedenti e d’epoca contemporanea (1841), appartiene a W.Turner (1775-1851).
Descrive la scena del rifiuto nel fortuito incontro fra i due in maniera
un po’ anticonvenzionale, con dei bagliori di luce e di colore, ma sembra
perdersi in una romantica vaghezza. La
coppia, immersa vulcanicamente in un mare rosso e giallo da parere lava, è
intenta nel solito trantran amoroso; in cui lui tiene la destra piegata sul
petto e la sinistra aperta a mano tesa, ma lei lo respinge senza pietà
allungando le braccia in avanti con le mani in atteggiamento di
noncuranza. Chiudiamo l’analisi come
l’abbiamo aperta, con un rilievo a tutto tondo del Novecento, detta ‘Fontana
delle Naiadi’ (Roma, P.za Esedra, poi spostata a P.za della Repubblica)(396); quest’’opera, la maggiore dello
scultore monumentale M.Rutelli (1858-1941), contempla un Glauco dai connotati
piuttosto ambigui. Ci troviamo di fronte
difatti ad un essere informe, ricoperto d’alghe e di salsedine (come lo
descriveva Platone), che tiene in braccio una misteriosa creatura (Scilla,
Arianna o chi altro?)(397)
sollevando in alto la gamba sinistra come per muoversi nell’acqua della
fonte. Un ulteriore Glauco – oppure
Tritone? – (398) di G.L. Bernini
(1598-1680) compare fra le gambe d’un irato Nettuno: il primo suona la buccina
ad evocare forze ignote, mentre il dio del mare muove il Tridente possentemente
verso il basso nell’atto di suscitare una terribile tempesta. La scultura è stata realizzata nel 1620 per
il Card. A.D. Peretti, facendo parte d’una fontana creata per la peschiera di
Villa Montalto a Roma (399). L’originale si trova al Victoria and Albert Museum.
Esiste anche tra le famose fontane del Bernini, tutte collocate in uno
scorcio panoramico di notevole effetto, la Fontana del Tritone (1642-3) in P.za
Barberini. Richiesta da Papa Urbano VIII
(400) è stata realizzata in
travertino e reca nelle code dei 4 Delfini delle Api, emblema del Casato
Barberini. Il Tritone, che suona la Buccina,
poggia sulla Conchiglia e questa è sostenuta dalle 4 Code intrecciate dei
Delfini, sulle quali sono collocati gli stemmi araldici dei Barberini
coll’emblema delle Api.
È senza dubbio al figlio di
Antedone o di Doride che tale simbologia ricorre, non a Melicerte; sempre
correlato alla madre Ino e comunque mai con sembianze semittiomorfiche, bensí a cavalcioni del Delfino. Riguardo le altre 2 forme di Glauco, del
figlio di Minosse non conosciamo alcuna interpretazione artistica, mentre del
nipote di Bellerofonte, ne citiamo una in nota (401). Sono in parecchi però
che sospettano essersi trattato all’origine del mito delle 4 forme di Glauco
d’un unico personaggio dedito in complesso a varie avventure, non fosse che per
il motivo delle erbe magiche; le quali compaiono tanto nella leggenda del
Glauco figlio di Poseidone o di Nereo, in questo caso in doppia veste dapprima
positiva e dopo negativa, quanto in quella del Glauco figlio di Minosse e di
quello figlio di Sisifo o di Atamante (in ogni caso nipote di Minia). Negli ultimi due casi la valenza è egualmente
doppia, ma la positività e negatività dell’erba si desumono dalle due storie
separate. Infatti, se Glauco figlio di
Poseidone o di Nereo si trasforma a causa delle erbe magiche in un nume marino,
questa sua metamorfosi agirà da repellente nei confronti di Scilla (a parte
l’applicazione malefica ulteriore nei riguardi della ninfa); mentre, per quanto
concerne l’omonimo figlio di Minosse e quello altrettanto omonimo di Sisifo,
l’erba incantata libera rispettivamente dalla morte o la determina. L’uno difatti coll’erba che ha ridato vita ad
una serpe rinasce dalla ‘Giara del Miele’ (Mondo Infero), l’altro invece
coll’erba ippomane è divorato dalle cavalle imbizzarritesi, abituate dallo
sciocco cavaliere a mangiar carne credendo di poterle rendere cosí maggiormente agili nella corsa. Dietro quest’evento stava il disprezzo da
parte del padre di Bellerofonte verso il potere di Afrodite, che vendicandosi –
col permezzo di Zeus – aveva condotto nottetempo le suddette cavalle ad
abbeverarsi ad un pozzo a lei consacrato oltreché a mangiare un’erba che le
faceva ammattire. Glauco, amante delle
corse coi cocchi, non sapendo nulla dell’accaduto le aveva legate ignaro; ma,
avvolto nelle redini dal loro imbizzarrimento era stato trascinato nella pista
di corsa per poi esser mangiato vivo. In
tal modo pagò il fio per non aver fatto coprire le sue cavalle (402).
Quel che è piú difficile da capire
è cosa mai colleghi tale figura a Melicerte.
C’informa il Graves (403) che
Glauco il Vecchio, secondo altre fonti, si gettò in mare per la morte di
Melicerte, il figlio di Atamante; ovvero che il nome di Glauco gli fu applicato
dopo la sua morte, ma era lui stesso a chiamarsi Melicerte. Ciò rende assai
complicato tutto il quadro dei personaggi con nome Glauco sinora analizzato, dato che la figura di Glauco
Melicerte, di cui si veda al §r, non
pare aver niente in comune con costui. Ed oltretutto quest’ultimo è l’unico dei
vari Glauchi a non aver a che fare con un’erba magica, positiva o negativa
negli effetti che fosse. L’unico
aggancio possibile, ma è un parallelo debolissimo, è la natura titanica
d’entrambi. Vide n.126.
Circa Scilla, figlia di Forco e
di Cheto (od Ecate), una delle piú antiche icone a noi nota è la placca in
terracotta di Melo appartenente al V sec. a.C. e depositata al Mus.Britannico
londinese. Ritrae la ninfa titanizzata
nella forma consueta semiumana di donna dalla coda serpentina, con scaglie da
sauro, mentre dal ventre spuntano 2 o 3 teste canine (404); indossa sul capo un berretto frigio ed è nuda sino al
gonnellino, che le ricopre pudicamente il ventre. Un’altra icona di poco piú recente, ma sempre comunque del V sec., è un
cratere campaniforme beota a figure-in rosso su fondo nero. La titanessa ha lo stesso sembiante umano
dalla testa in su, colle solite teste canine inguinali e la coda di dragonessa
acquatica, ma questa volta impugna la Spada nella sinistra (405). Una successiva icona,
del IV sec., vede Scilla fiancheggiare una Nereide a cavalcioni di 2 Delfini;
si tratta di un rhyton apulio a
figure-rosse foggiato a testa arietina, appartenente alla Collez. di Antichità
di Kiel, ma dall’immagine riportata (406)
non è chiara la fisionomia della figura a fianco. La Scilla dell’urna funeraria in alabastro della fine del III sec. a.C. c.
(Mus.Guarnacci, Volterra)(407) non
presenta caratteri particolari se non per il fatto di fungere da <Regina
degl’Inferi>, presso cui è seduta una donna nuda (la persona scomparsa, una
donna o forse l’anima d’un uomo). Una
seconda urna in travertino proviene da Castiglion del Lago (loc. Castellano) e
risale all’inizio del II sec. a.C. c.
Mostra la peculiarità di Scilla con 2 Code Pescine, ma a differenza
della posteriore Sirena Bifida le ha piú
lunghe e ritorte (408). Nella numismatica la presenza della demonessa
del mare è notevole. Un’icona del 415-06
a.C., su moneta siracusana, la tratteggia col Tridente sulla spalla sinistra
sotto la quadriga guidata e incoronata da Nike (409). In un’altra
pressappoco coeva (420-380) rinvenuta a Cuma (Campania) si vede Scilla, come di
consueto, con coda pescina e teste canine alla cintola (Collez. Schonwalter)(410).
Sul retro si osserva una testa femminile diademata. Su una moneta lucana di Eraclea (M.Grecia),
risalente al periodo 390-40 a.C., Scilla – adagiata sul capo di Atena – è
intenta a scagliare una pietra colla mano sinistra (411); similmente appare in uno statere lucano di Thurium, ma questa
volta tiene in pugno un timone, mentre sul retro una Nike incorona un toro (412).
In un denario del 42-38 a.C. (Epoca di Sesto Pompeo) si ha da un lato
Scilla, impugnante un timone a mo’ di clava, con 3 interi cani che le
fuoriescono dal pube e 2 code pescine araldicamente contrapposte (413).
Sull’altro lato della moneta si nota Nettuno sulla Columna Rhegina (il promontorio calabrese piú prossimo alla Sicilia) e ai lati rispettivamente un uccello su
una verga ed uno scettro. L’uccello
viene di solito interpretato come un’aquila, ma a nostro parere potrebbe essere
un picchio (414). Sotto la Colonna Reggina vi è inoltre uno
strano essere, pressoché indecifrabile, impugnante il tridente colla sinistra
come fa talora Scilla. Si potrebbe
pensare anche a Cariddi, a volte effigiato come un mostro simile, ma non esiste
alcuna immagine di Cariddi tridentato.
Codesto conio ha segnato la vittoria di Sesto Pompeo, figlio minore di
Pompeo Magno (l’altro era Gneo Pompeo, già morto come il padre), dopo la
vittoria navale su Ottaviano nelle tormentate acque dello Stretto di
Messina. Il figlio sopravvissuto del
grande nemico di Cesare si era infatti rifugiato dapprima in Spagna e poi in
Sicilia, dove dopo le tragiche Idi di marzo del 44 a.C. era riuscito a radunare
un ingente flotta, che bloccava i traffici nel Mediterraneo.
Personalmente non conosciamo
raffigurazioni precedenti a quelle menzionate.
Graves (415) ha citato
tuttavia un sigillo minoico, di certo assai piú arcaico delle icone appena
esaminate, nelle quali asseriva di vedere un mostro dalla testa canina che dal
mare spaventava un uomo su una nave; da ciò si può dedurre che il simbolo fosse
in principio cinocefalo e che alludesse sul piano cosmologico alla presenza
vernale di Sirio, ovvero in tempi precedenti a Canopo (in alternanza
all’immagine di giumenta da parte di altre dee).
Bisogna peraltro far
attenzione che la leggenda di Scilla ha delle varianti, in una non essendo il
figlio di Antedone a recarsi da Circe, bensì la figlia di Forco. In una seconda variante Scilla viene
“avvelenata” in maniera similare a quella della versione principale della
storia, cui si è rifatto Ovidio, ma dalla gelosa Anfitrite anziché dalla gelosa
Circe. La <gelosia> d’un nume e la
conseguente demonizzazione dell’altro, siano essi maschi o femmine, trasmette
l’idea da un lato d’un immancabile decadenza del mito riguardante il primo di
essi e del relativo culto; dall’altro, della comparsa conflittuale d’un secondo
nume, di piú recente tradizione. Di
Circe si può dire che le uniche
raffigurazioni ricorrenti sono in rapporto al ruolo sostenuto nell’Odissea o, meno, alla storia
coinvolgente Pico e Canente; qualche volta di piú
ella è mostrata in veste d’oppositrice di Scilla, ma mai lo è al posto di lei
Anfitrite. In siffatto ruolo Circe
compare in una raffigurazione pittorica (olio su canapa, 1886) del pittore
pre-raphaelita J.M. Strudwick (416),
oggi al Mus.Nazionale di Liverpool. Ivi
la maga, fuori della porta di casa, è intenta ad avvelenare l’acqua con un
intruglio e Scilla è un’avvenente giovane ignara del pericolo. La versione cui l’autore pare abbia attinto è
quella della fanciulla che si reca al bagno (ma è una strana acqua metaforica,
diffusa fra le case e i giardini come in un’inondazione); dato che nella scena
manca Glauco, l’oggetto della disputa amorosa.
In precedenza tuttavia, in un piatto decorato di Urbino del 1535, F.X.
Avelli (417) aveva descritto la
scena fra Circe, Scilla e Glauco in maniera dissimile: Circe osserva maligna
dall’alto d’uno scoglio erboso Scilla immersa nuda in una vasca d’acqua presso
Glauco, sdoppiato ed intento alla pesca.
Piú accentuata in senso magico è
l’ambiente pittorico immaginato e realizzato dall’olandese E.H. van der Neer
nel 1695 (418); questi pone i due
amanti nello specchio d’acqua d’una spelonca, ma li sorprende l’incantatrice
che senza indugio manovra beffardamente la sua Verga sulla rivale Scilla. In questo filone s’inserisce anche la Jealous Circe (olio su canapa, 1892) di
J.W. Waterhouse, una pittura ove la maga si erge solitaria con una coppa di
fluido magico fra le mani e lo lascia cadere nella pozza all’interno d’un antro
in cui è solita andare a bagnarsi Scilla (419)
.
Un’ulteriore iconografia relativa
a Scilla è quella che l’affianca a Cariddi, il mostro maschile – figlio di
Poseidone e di Gea – ancor piú temibile
che l’accompagna nell’Odissea quale
personificazione del gorgo dell’altra riva dello Stretto di Messina. La storia della rivalità fra Circe e Scilla
rientra nelle Metamorfosi ovidiane ed
è evidentemente piú antica rispetto alla
coppia omerica di mostri Scilla-Cariddi, seppur di per sé indichi un momento di
decadenza del culto rispetto al mito del semplice amore ricambiato nei
confronti di Glauco, visto che dà la trasformazione orrenda della fanciulla già
per scontata. Un rilievo a tutto tondo
di epoca adrianea, copia del II sec. d.C. d’una scultura del II a.C., (Villa
Adriana, Roma) mostra un compagno di Ulisse tutto contorto essendo azzannato da
una grossa testa di cane – Scilla evidentemente – dalle unghie affilate al pari
d’un felino (420). Non molto diversamente, in un affresco
rinascimentale del 1575 di F.Allori (1535-1607) Scilla fronteggia invece
Cariddi: ma anche qui è ridotta a gigantesche teste canine nell’atto di
ghermire dei compagni di Odisseo, che passano accanto ad essa per evitare il
peggio dall’altro lato dello Stretto (421). Nella messinese Fontana di Nettuno, opera di
G.A. Montorsoli del 1557, la coppia di mostri è posta sul basamento al di sotto
del dio del mare (422). Parecchio suggestiva nell’estetica, ma non
altrettanto palese nel contenuto, è la rappresentazione di H.Füssli (1741-1825)
Odisseo dinanzi a Scilla e Cariddi,
composta nel periodo 1794-6 (423). Ulisse alza lo scudo per ripararsi
dall’orrore della vista e la sua tribolazione è immiserita a livello d’una
povera zattera. In alto, sulla roccia
della gola, campeggiano 2 mostri dai non ben chiari connotati. In un folio
miniato del 1475 (una foglia dorata colorata a tempera) osserviamo da un lato
Scilla con 2 Teste Canine presso l’omonimo promontorio e, dall’altro, 3 Sirene
colle ali e la metà inferiore d’uccello (424). Le Sirene tengono in mano rispettivamente una
Cetra, una Campana ed un manoscritto, evidentemente uno spartito musicale. L’opposto promontorio, Cariddi, non è invece
accompagnato in questo caso da alcuna raffigurazione mostruosa.
Circa Doride, la sposa di Nereo e
madre di Glauco allorché questi non riceve l’appellativo di Antedonio, oltre alla sua già segnalata
presenza nel fregio dell’altare di Pergamo è da ricordare quella
nell’altorilievo dell’altare di Domitius
Ahenobarbus; situato alla base della statua di Marco Antonio, seconda metà
del II sec. d.C., ora nella Gliptoteca di Monaco di Baviera. Doride, a cavalcioni d’un ippocampo, reca
nelle mani due fiaccole onde illuminare la processione delle nozze della figlia
Anfitrite con Pos eidone. L’attorniano
degli Erotidi. In quanto poi a Nereo, vide il §p. Mentre per altri dati su Anfitrite
vide supra il §q e, infra, i Capp.
VI-VII. Come abbiamo già rilevato in
questo stesso paragrafo, comunque, mai la consorte di Poseidone viene ritratta
nel ruolo di Circe quale femmina gelosa di Scilla. Il Fontenrose (425) fa di Scilla una variante mitica di Échidna-Delphýne, vale a dire della dragonessa di Delfi, mettendo in
rilievo soprattutto la storia che la connette ad Eracle nell’XI Fatica (vide Cap.VI, §l)(426); nella quale
viene annientata, ma il padre Forco la rigenererà.
t) Il motivo delle Sirene e dei
Sireni
La Sirena (almeno la Mermaid) costituisce l’equivalente del
Glauco semipescino, ma quest’ultimo non è ritenuto di fatto un sireno, benché
ne abbia tutte le caratteristiche: fascino dell’anziano (sí da suscitare un’indicibile gelosia in Circe
verso la rivale), forte propensione erotico-sentimentale nonostante l’età
avanzata, coda di pesce.
Rappresentazioni figurative dei Sireni, a parte l’iconologia letteraria,
non ci sono note, e se esistono sono rare.
A differenza di quelle delle loro controparti femminili, che invece sono
assai numerose; però è plausibile che le due raffigurazioni semiantropomorfiche
debbono aver avuto una genesi comune, dalla quale si sono differenziati i due
sessi. Forse il primo Sireno o la prima
Sirena aveva natura androginica. Donde
sono nate, allora, i Sireni e le Sirene (427)?
Di norma le Sirene vengono
reputate le figlie di Achelòo oppure di Forco, al pari di Scilla (428).
Per capire chi siano veramente è quindi indispensabile comprendere la
loro paternità e le ragioni della loro mitica nascita. Acheloo è figlio di Oceano, l’uno con corna
di toro e l’altro con corna di granchio.
Oceano è posto da Platone nell’ambito del II Grande Anno, dopo Urano;
perciò Acheloo, con coda di pesce serpentiforme (429), va assegnato alla seconda metà dello stesso ciclo che
bibiblicamente chiameremmo evaico. La Coda Serpentina testimonia che è una
divinità pre-orticola, ma non ancora post-paradisiaca, d’origine insomma per
cosí dire ‘melanesiana’. Come sia stata trasmessa da quella plaga
(quand’era un continente insulare non ancora parzialmente sommerso, al pari
dell’Hawaiki nel ciclo precedente)
alla Grecia è questione archeologica, ovviamente di difficile risoluzione (430).
La Coda Pescina indica in generale il richiamo paradisiaco, la metà
superiore del corpo umana (non meno di quella dei primi 2 Avatara hindu) si
richiama in particolare al I G.A., allorché la natura divina ed umana si
trovavano in armonia; tuttavia la metà inferiore del corpo serpentiforme e le
corna taurine certificano l’avvenuta degenerazione del culto, scaduto a pratica
pre-sacrificale. Di qui prenderà avvio
un poco piú tardi (all’inizio del III
G.A.) il vero e proprio culto sacrificale, legato antropologicamente alle
pratiche orticolo primitive, che la Genesi
(iii. 17-9) descrive come la ‘Caduta dell’Uomo’. In altre parole, Ἀχελῷος corrisponde concettualmente all’Akāla upanishadico (Mait.U.-
vi. 15), contrapposto a Kāla, cioè a Κάλως (varr. Κρόνος e Χρόνος).
Non a caso si trova in area austronesiana, precisamente a Giava, un
vecchio nume marino indonesiano di nome Kala. Non può essere un lascito della
colonizzazione induistica, giacché in India l’equivalente nome di Shiva (con
allungamento della prima a, a
differenza dell’altro) non assume mai funzione oceanica, benché abbia
conservato il Tridente quale emblema
temporale (vedi Trikāla).
Fontenrose (431) per
la verità identifica i due personaggi mitici di Oceano e Acheloo, il che a
grandi linee non è scorretto, ma la figliolanza mitica va interpretata quale
riproposizione in tono minore d’un principio spirituale; minore per il
contenuto sacro, anche se talora maggiore per lo sviluppo culturale. Si esamini per un confronto al riguardo la
serie paterna greco-ellenica Urano-Crono-Zeus-Pan, divinità vicendevolmente
preposte alle ‘Quattro Età’ esiodee, sebbene la prima di esse sia in certi casi
sdoppiata come fra gli Orfici; che pongono prima Eros e poi Urano quali numi
primevi, mentre Platone piú correttamente distingue fra Urano ed Oceano (432).
Il fatto che Eracle stacchi un
corno ad Acheloo, come vedremo piú
innanzi (Cap.IV, §l), ne fa un
unicorno; ma questo è un tema che non possiamo trattare al momento, prima di
aver esaurito la simbologia ittica.
Diremo tuttavia, fin d’ora, che l’Unicorno –nonostante la cosa sia da
certuni negata (Cap.VII, §v) –
costituisce lo sviluppo iconografico del Pesce Monodono e cioè del
Narvàlo. La trasformazione da pesce
monodono in pesce unicorne serpentiforme possiede una sua logica, risalente
alla diversità fra la natura umana perfetta delle origini e quella un po’
degenerata dei tempi immediatamente successivi alla ‘Caduta’. Similmente alle Erinni le Sirene erano nate
dalle gocce di sangue versate da Eracle nel divellere il <secondo> corno
di Acheloo (433). La loro nascita assomiglia a quelle delle
Ninfe, delle quali condividono a volte la triplicità; sebbene in principio
fossero due, come nell’Odissea. Ma anche delle Ninfe è lecito pensare la
stessa cosa: al pari di esse, crediamo fossero una volta soltanto
appaiate. In fondo le Sirene altro non
sono che delle ninfe marine, non meno delle Nereidi. Siamo convinti che le prime nella loro
primitiva formulazione alludessero alle anime delle genti paradisiache. Probabilmente la loro danza, cosmologicamente
parlando, rimandava a quella mattutina delle Aurore polari nella Terra
Iperborea. Mentre le Nereidi si
richiamano, coerentemente, alle anime delle prime genti dedite all’orticoltura. Ma Eracle è figura mitica abbastanza recente. Si può dire altrettanto anche per le
Sirene? Certamente no.
La tesi di Kerényi et al., tesi che personalmente
condividiamo solamente in parte, è che il loro aspetto ornitomorfico sia
precedente a quello ittiomorfico (434).
Per questo egli le apparenta alle Arpie, ma ciononostante sottolinea
un’ulteriore affinità colle Muse, poiché esse suonano strumenti musicali (lira,
flauto) accompagnandosi col canto; fattore che ci fa ricordare i Gandharva (‘Musici’) indiani, donde la Musica
in quella tradizione è chiamata Gandharvavidyā. Sono gli equivalenti dei Gandarewa dell’Avesta (435). Essi costituiscono i
consorti numinosi delle Apsaras, vale
a dire delle Sirene induiste. Nel Ṛgveda
compaiono un solo Gandharva ed una
sola Apsaras, questo essendo
probabilmente il numero anche dei Sireni e delle Sirene prima della loro
posteriore duplicazione, triplicazione ecc. (436). La coppia funge da guardiana del Soma, da intendere come Bevanda di Luce,
Elisir di Lunga Vita, Bevanda d’Immortalità.
Sotto tale aspetto presiedono anche all’Amṛta,
che è in fondo un altro nome del Soma,
insomma favoriscono l’Amore in senso celestiale. Ovviamente tuttavia esiste una controparte
negativa a tale tipo di influenze, potendo essi causare malattie ed in
particolare la pazzia o la perdizione, ciò che corrisponde piú o meno nella mitologia greco-romana ai mali
causati dall’ascolto del canto delle Sirene.
Nelle tradizioni europee i Sireni sono invece figure secondarie, di essi
non si parla quasi mai, non avendo lo stesso ruolo pregnante delle loro
corrispondenti femminili.
L’interpretazione storicistica di Kerényi pretenderebbe che dalle
raffigurazioni sui monumenti funerari le Sirene siano passate alle fiabe
raccontate dai navigatori. Codesta interpretazione,
lo diciamo apertamente pur nel massimo rispetto del grande storico delle
religioni, appare troppo semplicistica; oltretutto, non spiega come tali icone
siano giunte a far parte del simbolismo funebre e come si siano generate. Evidentemente Kerényi pensava in questo modo
di giustificare la sua tesi del passaggio dalla forma aviaria delle medesime a
quella pescina. Ma la cosa non ci
convince affatto. Riteniamo, viceversa,
che la ricostruzione del significato del loro culto debba passare per altre
vie; non fosse che per il nome di una delle due incantatrici menzionate da
Omero nell’episodio dell’incantamento di Odisseo, Imeropa, da Ἵμερος (‘Desiderio’)(437). L’accostamento possibile
del nome citato a quello di Eros proviene non solo dall’etimo, ma anche dalla
comparazione con Kāma, l’omologo dio del desiderio
hindu raffigurato a cavalcioni del Pesce.
Ciò è significativo, dal momento che gli Erotidi fanno spesso da
contrappeso funzionale alle Sirene. E gli
Erotidi, nonostante la loro apparente giovanissima età (ma è esclusivamente una
metafora ad indicare la loro primordialità come categoria sociale o, intendendo
in riferimento alle singole anime, la loro natura pre-natale di anime del Regno
del Morti desiderose di rinascere), possono senza dubbio essere paragonati ai Σειρῆνοι od ai Gandharva indiani. Anche se gli uni s’accompagnano costantemente
al Delfino o ai Delfini (piú raramente ai
Coccodrilli o al Coccodrillo), mentre gli altri possiedono code pescine oppure
ali e zampe d’uccelli.
La tesi del Kerényi basasi
sull’evidenzia iconografica, ma questa è pericolosa, giacché testimonia
semplicemente lo stato attuale dei ritrovamenti e non la ciclicità cosmologica
in cui s’inseriscono necessariamente tutti i numi. In pratica, se analizziamo il materiale
archeologico oggi a nostra disposizione effettivamente parrebbe sostanziata
l’idea che le Sirene fossero delle donne-uccelli, visto che in tal modo le
raffigurava l’Antichità. Il mito della
trasformazione in uccelli è narrato da Ovidio (Met.- v, 555-63)(438): le Sirene erano delle vergini,
le quali chiesero agli Dei di poter subire la metamorfosi in uccelli onde poter
cercare meglio Proserpina, rapita da Ade (439).
Questa versione sembra la forma edulcorata dell’altra nella quale è
Demetra a punirle, trasformandole evidentemente in demonesse, per non aver
difeso la figlia mentre assieme raccoglievano dei fiori. La scena è ricordata anche da Ovidio, ma
l’intento idealistico del vate sulmonese lo spinge a trovare una spiegazione
maggiormente elevata, spiritualizzante anziché punitiva, al medesimo
fatto. La spiegazione alternativa della
punizione da parte di Afrodite, essendo stata criticata dalle vergini per la
sua lascivia (Scholia ad Od.- xii. 168)(440), lascia il tempo che trova; sebbene, in qualche modo, tracci un
legame indiscutibile fra la dea dell’armonia cosmica e le Sirene. Non per niente la loro madre risulta essere,
a seconda delle versioni, Tersicore (musa della danza e del canto corale) o
Melpomene (musa del canto e della tragedia), insomma una delle 9 ninfe montane
dette Muse; e costoro sono nate da
Urano e Gea secondo il siciliota del I sec. a.C. Diodoro Siculo (Bibl.- iv. 7) oppure da Armonia, figlia
ed ipostasi di Afrodite (441).
Sul che interviene un passo di Plutarco (Quaest.conv.- ix. 14, 6)(442) conciliando Omero con Platone, a
sentenziare che il “suono di miele” di codeste creature non ha significato
mortifero se non in rapporto a ‘Questo
Mondo’; che è il Mondo Fenomenico, ove tutto è limitatato dagli ostacoli terreni
e dai legami carnali. Per cui la
<cera nelle orecchie> dei compagni di Ulisse si deve intendere appunto
come l’incapacità dell’uomo comune a lasciarsi trasportare dall’armonia delle
Sfere per giungere in un Aldilà non condizionato e non condizionante. L’iniziato, invece, che come Ulisse vuole
egualmente ascoltare quella musica ultraterrena è preso da folli slanci d’amore
che i comuni mortali non possono comprendere.
Platone descrive nella Resp.-
617/b-c le 8 Sirene preposte
all’Ebdomade e al Cielo delle Stelle Fisse.
Ciascuna emana una nota e tutto risponde all’Anágkē
(‘Necessitas’), madre delle 3
Moire (443).
Il canto straziante delle Sirene, al dire di Giamblico (De misteriis Aeg.- xv. 65), veniva
affidato difatti da Pitagora ai propri discepoli a scopo meditativo quale
compito serale prima del sonno affinchè si purificassero dagli accidenti
gornalieri (444). Le Upaniṣad (Mait.U.- vi. 22) pongono a questo proposito la tecnica dell’ascolto
dell’Auṁ, attraverso i padiglioni auricolari,
fra i mezzi per raggiungere le 2 forme del Brahman,
lo Śabda e l’Aśabda
(il ‘Suono’ e il ‘Non-suono’). E l’Auṁ, si deve rammentare, è ciò su cui meditavano in uno
splendido silenzio gli esseri umani del Satyayuga
(445).
Alcune delle immagini piú antiche a noi note sulle Sirene sono figurine
alate dell’VIII sec. a.C, con teste e seni di donne, ma senza braccia (446). Una di esse è addirittura
bifronte (447). In fondo è cosí
che dovette concepirle pure Omero, benché figurativamente non ne descriva le
fattezze fisiche. Ma tutte le opere
artistiche concernenti l’episodio di Odisseo mostrano sempre donne alate, mai
delle mermaid. Ciò significa che le raffigurazioni della
donne-pesci hanno origini diverse da quelle locali, per esempio nordiche. Ciò spiegherebbe meglio, che non la tesi del
Kerényi riguardo le storie raccontate dai marinai, la trasformazione di una
forma composita nell’altra. A meno che,
ed è quel che realmente pensiamo noi, la doppia forma coesistesse fin
dapprincipio per poi sdoppiarsi a seconda dei luoghi e delle circostanze
temporali. Il problema tuttavia rimane
legato a cosa si debba intendere realmente per quel “dapprincipio”. Ci spieghiamo meglio. Siccome le Sirene vengono associate anche in
Grecia alla figlia di Urano, Afrodite (come in India le Apsaras a Vāruṇī, dea del vino e dell’ebbezza
estatica), sia dal punto di vista letterario-mitologico che
artistico-figurativo, ecco che rispecchiano financo nel nome la loro dipendenza
da quella dinastia divina primeva. Ossia
discendono da quella generazione umana che abitò lo Śākadvīpa durante il
Ciclo Nordorientale, insomma il II ciclo Avatarico. Infatti è durante il Rimestamento dell’Oceano
di Latte (lo sconvolgimento dell’Oceano Artico, avvenuto c. 49.000-50.0000 anni
fa secondo i dati puranici) che è nato il mito di Varuṇa
(lett. Varuna e cioè Urano, checché ne dicesse Eliade, il quale erroneamente lo
paragonava a Vṛtra). Il fatto quindi che abitassero il cielo o le
acque le connota, distintivamente, come donne-uccelli o donne-pesci fin dai
primordi. Indi hanno finito per
rappresentare l’armonia delle Sfere, dei Sette Pianeti e dei Nodi (uno vale per
2), donde la cosmologia trasmessa shamanicamente alla Grecia e raccolta
tardivamente da Platone da tempi
remoti. In seguito, dopo l’incontro in
Eurasia fra Ari e Turi, a causa probabilmente dell’associazione zodiacale fra
Marte e Venere le Sirene sono passate ad indicare l’accompagnamento dopo la
morte ed è per questo a nostro giudizio che le ritoviamo raffigurate nelle
steli funerarie o nel vasellame assieme alle Sfingi (448).
Kerényi, viceversa, non offre alcuna spiegazione a tal fatto. Lo dà per scontato, ma non era questo
sicuramente il senso primario del simbolo in origine prima della loro
olimpizzazione. L’idea che anche le
Sirene di Odisseo svolgessero questo compito è presumibile, ma vale
esclusivamente sul piano exoterico. Del
resto, anche le Ninfe avevano a che fare colle anime dei defunti, anzi secondo
l’interpretazione del De Antro Nympharum
(449) erano le anime dei defunti
(cadute nella generazione); ciò non toglie che la loro funzione funeraria
costituisca un’applicazione posteriore, divenuta preponderante rispetto
all’altra nel momento in cui si sono persi i legami fra i vivi e i morti, un
tempo assai meglio percepiti dagli uomini.
Quale fosse invece la loro natura originaria lo abbiamo già dimostrato
al §p, dove è stato sottolineato il
loro carattere spazial-direzionale anziché annual-temporale. Per le Sirene valga un analogo discorso. In questo caso, però, non è la strategia di
suddivisione primordiale dello spazio a contare, bensí il valore armonico del
loro canto silenzioso e monotonale.
Inutile aggiungere che questo produce l’incantamento di cui necessita la
mente umana per raggiungere mete oltremondane.
Sotto tale profilo, si potrebbe dire che le Sirene rappresentino in sé
lo sviluppo antropomorfico della Conchiglia di Venere, che è simbolicamente una
variante della Tartaruga; rettile al quale pur esse si connettono
ermeticamente, non meno delle Ninfe, secondo quanto mostra il loro
accompagnarsi canoro collo strumento della Lira (450).
Non vale la pena di analizzare
altre icone di tipo ornitomorfico, giacché non aggiungono nulla al nostro
discorso. Diciamo che dal IV sec. a.C.
le Sirene cominciano a possedere le braccia (451), ma le
gambe umane spuntano solamente dal I sec. a.C. in poi (452). L’applicazione funebre, invece, è presente
già a partire dal periodo classico tardo. Solamente nella pittura
dell’Ottocento tali creature assumeranno l’aspetto interamente umano di
stuzzicanti fanciulle sulle rive dei mari od immerse in acque vorticose. Con qualche eccezione, dove l’aspetto aviario
non le ha abbandonate (453).
Passiamo allora alle Sirene di tipo pescino, le cd. Mermaid. Uni- o bicaudate
esse non si trovano nell’arte antica, ma unicamente nell’arte medievale,
alternate alle vecchie forme di sirene ornitomorfiche (454). Tuttavia sono presenti nel
folclore di varie genti in tutti i continenti, il che le riporta ad un contesto
sacrale estremamente arcaico o addirittura ancestrale e quindi pre-letterario,
se non adirittura pre-figurativo. La piú antica raffigurazione di Mermaid che conosciamo, almeno cosí
è specificato da parte degli studiosi eurocentrici, parrebbe quella della dea
assira Atargatis, che si era
trasformata in sirena vergognandosi d’aver determinato la morte del suo
amante. Ma le cose non stanno affatto
cosí, basta pensare a Sedna (455), la leggendaria fanciulla-foca
eschimese dai tratti gorgonici; a dimostrazione che tal tipo di creature si
rifanno ad un contesto marino-fluviale, ma non esattamente pescino, il quale da
un continente all’altro può peraltro mutare a seconda del mammifero acquatico
preso di mira nel simbolismo. Vedi, ad
es., il dugongo od il lamantino rispettivamente nei Mari del Sud o
nell’Atlantico. Per quel che concerne la
suddetta divinità mesopotamica, definita altrimenti Dirceto o Dea Siria e
sposa del dio della folgore accadico Hadad
(analogo al Tešub hurrita e all’omonimo nume hittita), occorre precisare
che le erano sacri pesci e colombe. Ciò
che potrebbe spiegare l’iconografia delle Sirene come pesci od uccelli, al di
là delle semplificazioni introdotte a livello storico ed interpretaivo da
studiosi pur validisssimi per altro canto quali Kerényi. Sul piano dell’etimo la dea viene considerata
una specie di agglomerato culturale fra la dea del mare Aṭirat,
la dea lunare Anat e la dea
dell’amore Aṭtart (456); i pesci che le sono sacri
alludono alla fecondità, le colombe all’eros (457).
La controparte maschile di questa dea, sotto forma di sireno, è senza
dubbio l’assiro-babibolese e cananeo Dagon
o Dagan/Zagan (fen. ed ebr. Dāgôn)(458);
assimilabile, peraltro, al mesopotamico
Oannēs (459).
Questi è stato presentato da Berosso (Βήροσσος) nelle ‘Babiloniche’ (Βαβυλονιακά),
durante il IV sec. a.C., quale eroe culturale e civilizzatore. Insegna le scienze, le arti e le lettere ed è
trasmettitore del Libro sacro. Vien in
genere considerato un dopppione di Ea (460), signore dell’Abisso (Apsū) e dio della
sapienza. Si può ipotizzare che,
essendosi il culto di Dagon diffuso
in tutta l’area vicino orientale, essendo stato fatto conoscere dai Fenici ai
Greci, costoro l’abbiano adottato chiamandolo Tritone. Il problema però è
che figurativamente Tritone non assomiglia a Dagon, dal momento che il nume
greco ha scaglie di rettile più che non di pesce, a parte la coda. A differenza di Dagon-Oannes il dio Ea ha per
emblema la Capra-pesce, in altre parole il Segno del Capricorno, ma ciò non è facile
da spiegare; dato che Ea equivale a Giove, non a Saturno. Veniva venerato ad Eridu, dove era collocato
un tempio alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Similmente al dio di Noè, avvisa il nocchiero
Pirnapištim (Zitnapišti) di costruire un vascello per affrontare il prossimo diluvio (461), recando seco il seme d’ogni vita per poi ricostruire il mondo
distrutto dall’inondazione. Qualcuno
indica questo racconto come la possibile fonte della storia biblica, ma
potrebbe anche esserci stata una fonte orale comune precedente. Poggiandosi sugli studi del prof. Robertson
Smith, i coautori Mackenzie e Squire (462)
ricordano
che in una serie di narrazioni legate al culto di Atargatis e comuni all’Egitto (Hierapolis) e alla Mesopotamia la
dea e suo figlio – cfr. con Afrodite ed Eros – si gettano nella santa vasca del
tempio oppure nell’Eufrate tramutandosi in pesci; ciò per ribadire che il senso
divino della vita nelle acque era incarnato dal Pesce, l’animale sacro che le
abitava. Ecco il motivo onde Ea, il
signore delle acque dalla forma di Capra-pesce, veniva ritenuto un dio della
fertilità e della fecondità.
D’altronde, i due doppioni di Dagon e Oannes sono stati
iconograficamente appaiati alla Spiga, che simbolicamente era ritenuta
alternativa al Pesce (463); egualmente accadeva nell’America
Precolombiana, ove però il ruolo della Spiga di Grano era coperto dalla
Pannocchia-di-Mais (464).
Non per niente alcune deità egizie come la dea-madre di Mendes, Hatmehit, e Rem sono da reputare divinità ittiche: la dea porta il Pesce in
testa ed è associata a Hathor e Iside, mentre il dio è una divinità del
grano. Quest’ultimo non è diverso da Remi, un aspetto di Sobek, il dio acquatico col capo o l’intera sagoma di coccodrillo;
il quale a sua volta rimanda a Nun,
l’impersonale nume dell’Oceano Primordiale (465).
Riguardo l’iconografia vale la
pena dapprima di citare una scultura di Dagon-Oannes intento a nuotare fra le
onde rinvenuta da P.É. Botta
nel 1843-4 durante gli scavi a Khorsābād (Iraq, presso
Mossul), sede dell’antica Dur Šarrukīn, capitale dell’Impero Assiro. Da essa lo scrittrore anglicano S.
Baring-Gould (XIX-XX sec.) ha tratto un’illustrazione, pubblicata in Curious Myths of the Middle Ages (P.II,
p.495). Un’altra immagine di Dagon che
indossa una veste pescina, colla testa fungente da copricapo a mo’ di mitria
papale, è stata ricavata da un’incisione d’un cilindro assiro e pubblicata
dall’archeologo inglese A.H. Layard (XIX sec.), continuatore degli scavi
pionieristici di Khorsabad, in Ninveh and
Babylon (1882, p.168). Accanto al
dio sta una figura alata (divina) ed insieme venerano l’Albero della Vita coi
suoi 13 Frutti, oltreché l’emblema dell’Occhio Solare Alato di Aššur. Cfr. coll’emblema di Ahura Mazdāh. Una terza icona in veste ittica, questa volta
reggente la Borsa dei Semi della Vita (466)
nella mano destra, è presente in un’illustrazione di E. Wallis in Illustrerad
verldshistoria utgifven (1875,
Vol.I)(467).
Circa l’iconografia di Atargatis è presto detto (468). La vediamo ittiforme in una
moneta in cui sulla faccia opposta sta il busto di Demetrio III (I sec. a.C.),
pretendente al trono dell’Impero Seleucide, il quale comprendeva oltre alla
Siria e alla Mesopotamia la Persia e l’Asia Minore. Altre volte la dea – sempre in un conio –
viene effigiata di schiena (ci pare almeno, non di fronte, come pretenderebbe
il commento) ritta su Tritone, reggente la Cornucopia colla sinistra e la
Colomba colla destra, mentre lei tiene viceversa nella mano sinistra la Colomba
e nella destra l’Asta del comando (469).
Sull’altra faccia è effigiato il busto dell’imperatore laziale Antonino
Pio (II sec. d.C.), in parte d’origine gallica.
Di Ea potremmo ricordare l’impronta di sigillo cilindrico
accadico (c.2.300 a.C.) del Museo Britannico (470), ove si scorgono i
due fiumi Eufrate e Tigri, ripieni di pesci, spuntare dalle sue spalle; in alto
si vede l’uccello Zū che piomba
sulle acque e in basso si fa strada fra le montagne con una coltella il
dio-sole Šamaš, desideroso di sorgere.
Mentre ai lati stanno da una parte Ištar alata e dall’altra il
bifronte Isimud (Usumu), messaggero ed emissario del dio della
sapienza (471). Si
consideri inoltre il bassorilievo d’una lastra ornamentale in granito posta su
una vasca cultuale e e ritraente 2 Capricorni opponentisi in posizione araldica
(Periodo Elamita Medio, 1500-1100 a.C.), di proprietà del Louvre (472).
La mermaid (dall’a.ingl. mere
= mare) nel contesto dell’Europa Settentrionale non ha un’equivalente sotto forma
aviaria, ma è probabile che l’abbia avuta in passato (473), come è avvenuto in Grecia e in India. Ad essa s’affianca il Merman, come il Sireno alla Sirena.
Entrambe le coppie possono risultare, naturalmente, benevole o
malevole. Negli ultimi secoli esse –
specialmente le femmine – sono state sovente oggetto d’ispirazione artistica,
soprattutto a livello pittorico (474),
essendo personaggi del folclore nordico.
Si rammenti, a titolo d’esempio, La
Sirenetta (1837) di C.H. Andersen (475)
o la protagonista femminile de Il
pescatore e la sua anima (inclusa ne La
casa dei melograni, 1891) di O. Wilde (476). Entrambe – benché vengano chiamate ‘sirene’
sono delle mermaid – hanno un
problema: non posseggono un’anima e soltanto l’amore d’un uomo innamorato di
loro può conferirgliela. In entrambi i
casi la vicenda si svolge affinché alla fine la fanciulla dalla coda di pesce
possa ottenerla, o per partecipazione come nel caso del racconto irlandese
oppure per motivi etici in quello danese.
In questo caso, addirittura, parrebbe addirittura che la fanciulla si
unisca quasi direttamente a Dio, avendo negato il proprio ego per amore del
principe. Nella tradizone popolare italiana, in particolare abruzzese, abbiamo
invece La sposa sirena (1956)(477); che Calvino raccolse da G.Gigli
in quel di Taranto, ed avendola trovata in un linguaggio lirico, ha cercato di
renderla in un lingua piú popolare. Ivi è una fedifraga che viene buttata dal
marito in mare ed accolta nel Palazzo delle Sirene sul ‘Fondo delle Acque’, dove
danza con loro ma è triste per la lontananza da casa, sino al ritorno inatteso
dal marito pentito sulle ali d’un Aquila (la Scopa della Strega del Mare,
attestata anche in Andersen (478),
nell’originale)(479). Il tema delle Mermaid (o Sirene che dir si voglia), si noterà, è comunque sempre
legato ad uno scrittore dotto. Trattasi
d’un motivo decisamente poco popolareggiante.
Nel caso della fiaba pugliese, ove chiaramente l’influenza greca appare
notevole, riemerge il simbolo della schiuma in cui vanno a finire le Sirene
dopo la morte anche secondo le fiabe nordiche.
Ivi è il nome stesso della protagonista, la moglie adultera, a chiamarsi
Schiuma. Onde capire in profondo il significato di
questo concetto si pensi all’Afrós
(appunto ‘Schiuma, Spuma’), generato dal Fallo d’Urano precipitato nelle Acque
(della Manifestazione, s’intende), donde è nata Afrodite Urania; la quale,
perciò, raffigura l’Armonia Celeste.
(Cfr. con Atargatis e alla sua trasformazione in sirena dopo l’uccisione
involontaria del maschio, il deus otiosus
di tipo uranico). Di contro alle sue
parziali incarnazioni, le Mermaid
appunto, ma il termine in greco – come vedremo piú
innanzi – ha il medesimo senso di quello anglosassone. Ciò spiega perché figure quali la sorella di
Alessandro Magno, Thessaloníke, si siano tramutate in mermaid; secondo la leggenda la
principessa era stata bagnata dal fratello coll’acqua d’un fiasco ottenuto
presso la Fontana d’Immortalità. Al
momento della morte, non potendo morire si era gettata in mare, ma in tal modo
era avvenuta la sua trasformazine in sirena.
Raccontavano i marinai che per avere una felice navigazione, una volta
incontrata, bisognava rispondere alla domanda da lei formulata sulla sorte del
fratello che Alessandro regnava come prima.
Atrimenti scatenava procelle e rendeva la rotta difficile e
perigliosa.
Le mermaid sono presenti soprattutto nel folclore delle Isole
britanniche e in quello europeo (480). Una delle rappresentazioni artistiche
maggiormente antiche, reperibile sul capitello d’una colonna, è quella della
Cappella normanna del Castello di Durham. nel nord dell’Inghilterra. Nel folclore britannico le mermaid sono divenute veicolo di presagi
infelici per i marinai, affermando loro che non avrebbero toccato mai terra,
oppure al contrario avvisando le barche che erano prossime alla spiaggia. Vi sono mermaid
selvagge od interessate ad insegnare agli umani la cura delle malattie. Talora nuotano nei fiumi o nei laghi, salvano
gli uomini e le donne dall’annegamento; o magari al contrario tirano giú nel profondo, come nel testo d’una celebre
canzone inglese. Seppure in questo caso
riferito, per trasposizione geografica, al Nilo (481). I merman vengono descritti piú estranei al mondo umano, che rigettano
ostilmente. La merrow, la ceasg e la ben-varrey sono le equivalenti della mermaid anglosassone rispettivamente in
Irlanda, Scozia e nell’Isola di Man.
Nella Cattedrale anglicana di San Brendano a Clonfert (nel centro
dell’Irlanda), sul pilastro sud dell’arco del cancello, è raffigurata una merrrow con specchio e pettine (482); tratti tipici anche delle
Sirene, che M. Bulteau (483) riporta
alla Lilith ebraica (la Lilitū sumera, affine
alla Lamia greca) L’altorilievo allude ad un passo dell’anonimo Viaggio di San Brendano, in cui è
descritto il comportamento dei monaci nell’udire il languido canto delle mermaid: irresistibilmente essi cadono
addormentati, dimentichi di sé. In
Irlanda questo tipo di sculture, peraltro abbastanza raro e limitato a 5
esemplari, ha preso piede a partire dal XIII sec. Le ben-varrey,
viceversa, offrono tesori agli uomini.
Pure nel folclore dell’Europa continentale si conoscono alcuni personaggi
femminili che possono essere annoverati fra le mermaid nordiche: la Melusina in Francia, la Lorelei in Germania,
la Nissa in vari paesi. Un discorso a
parte meritano però le Rusalka slave,
la controparte delle Sirene e delle Mermaid
nell’Europa Orientale.
Al dire del Bulteau (484) la storia tardo-medievale di
Melusina comincia nel 1387 (485) a
Lione con Le Roman de Mélusine di
Jean d’Arras, commissionato da parte del figlio del re di Francia, duca di
Berry e Auvergne. Altri per contro fanno
dipendere la storia dalla mitologia pre-cristiana e la dipingono quale spirito
delle acque del tipo della nota Dama del Lago nei romanzi graalici. Presenta coda di pesce al modo delle Sirene
oppure coda di serpente come le Nereidi.
La sua leggenda è diffusa nel nord e nell’ovest della Francia, in Olanda
e Lussemburgo (486). Risulta essere la figlia di Elinas, vedovo re
d’Albania, e della Fata Presina, che il sovrano aveva intravisto presso una
magica fonte ed avendola inseguita e ritrovata aveva finito per unirsi a
costei. Tuttavia, affinché la fata
acconsentisse a sposarlo, aveva dovuto giurarle che non avrebbe mai assistito
alla nascita dei loro figli. Siccome
però era venuto meno al giuramento allorché Presina aveva generato tre gemelle,
tra le quali appunto Melusina, la fata lo maledisse e l’abbandonò. Avvisandolo peraltro che un discendente della
propria sorella, regina dell’Isola Perduta, l’avrebbe vendicata (487).
Anche la figlia Melusina dopo avere partecipato assieme alle sorelle ad
una spedizione punitiva nei confronti del padre, da loro detronizzato, finí per subire simile sorte. Dopo essere andata a dimorare presso la
Fontana-delle-Fate, infatti, sposò il Conte Raimondino (488),
ma da questi ebbe figli deformi. Sulla
roccia donde sgorgava la fonte fu costruito il Castello dei Lusignan,
un’imprendibile fortezza. La donna-serpe
o pesce è chiaramente un contrassegno di Potenza, alla maniera della Śakti hindu, dato che alcune casate
reclamano la discendenza da lei (489). Nel suo aspetto benefico era paragonata alla
Vergine e venerata quale costruttrice di torri e torrioni, ma in quello
malefico pigliava forma di vecchia o di serpente e veniva temuta come
distruttrice di fortezze e di castelli (490). La sua iconografia varia da donna-pesce (491) a donna-serpente (492), nel primo caso apparendo talora
da sirena bifida (493); ma a volte
possiede sembiante esclusivamente umano, pur avendo in mano non meno delle Mermaid lo Specchio ed il Pettine,
intanto che zampilla acqua dai seni (494). Il Bulteau ipotizza lontane origini
orientali, sulla base della somiglianza con l’Echidna scitica, coniugata ad
Eracle e madre dei 3 <Figli> donde sono state generate le 3 tribú originarie di quella popolazione (Sciti
propriamente detti, Saci e Shaka)(495). Non meno delle Apsaras indiane d’altra parte Melusina ha a che fare colla pioggia,
apportatrice di benessere alla terra riarsa.
Sua sorella Palatina custodisce il tesoro del Re d’Albania al modo di
una celeste dea delle acque, sovrana d’abbondanza; l’altra sorella, Mélior,
detiene in un castello armeno lo Sparviero, messaggero celeste conduttore del
Lampo. Dal che si comprende quale sia il
vero ruolo delle 3 sorelle, o meglio delle 3 antiche dee sopravvissute
all’ecclissi del mondo pagano sotto il giogo cristiano. Il suddetto autore con un salto pindarico
davvero notevole le pone in rapporto a Varuna (496), ma non ha tutti i torti, anzi ha ragione; non abbiamo noi
asserito la stessa cosa in relazione alla Sirene, facendole derivare da
Afrodite, ossia dalla <Schiuma> provocata dalla caduta del <Fallo>
di Urano (Axis Mundi) nel mare? Dato che Afrodite Urania (Venere) equivale
biblicamente ad Eva, non fosse che per il mito della <Mela> (Imago Mundi), è chiaro che codeste
<Tre Sorelle> corrispondono simbolicamente alle <Tre Spose> di
Adamo. Il che è come dire ai 3 aspetti
della Shakti. L’autore ha dimenticato
infatti che è Eva medesima in certe
circostanze (497) ad esser
raffigurata con coda di serpe, alla maniera di Eleusina e che tale simbologia
composita trovasi anche in Grecia (le Nereidi, Echidna stessa o Medusa) e in
India (Ulūpī). Ulūpī
è una nāginī, figlia di Kauravya, il re dei Nāga. Arjuna ha
terminato di allestire il rituale dedicato
all’acqua e sta per venir fuori dal Gange per allestire il rituale del fuoco,
quando viene trascinato sul fondo del fiume da un essere sconosciuto, che si
presenterà poi a lui come la figlia del Nāgarāja. Risaliti a galla, costei gli confida di
essere stata presa dal desiderio per la sua mascolinità dopo averlo visto bagnarsi
nella corrente e di non essere stata capace a resistergli, non essendo ancora
maritata. Dopodiché l’eroe, pur
trovandosi in stato di purità, acconsente ad acccondiscendere ai desideri della
nāginī, anche perché lei minaccia il suicidio
altrimenti. Alfine, egli viene condotto
nel palazzo di Kauravya, ubicato
laddove il Gange entra nella pianura. Vide Mhbh.-
i. 214 (216 ediz. Calc.).
In quanto alla Lorelei (ted. Loreley), costei è la figlia d’un pescatore
di nome Leonore, abbreviato in Lore. La giovane abitava in una casa di marinai
presso il Reno, vicino alla quale il fiume formava un gorgo determinato da una
grossa roccia a strapiombo sull’acqua.
Il passaggio perciò risultava pericoloso per le imbarcazioni. Di qui a divenire un luogo maledetto di
convegno fra gli spiriti sotto la luna il passo fu breve. La bella diciottenne amava passeggiare da
quelle parti. Alla festa della Vergine
nel vicino centro il curato scelse Lore per recitare una preghiera alla
Madonna. Sennonché la volta celeste
improvvisamente si oscurò ed un lampo la squarciò. Quel fatto convinse i fedeli che era la
collera di Dio contro tale creatura, che intratteneva contatti cogli
spiriti. Avventatisi contro di lei,
volevano gettarla dalla rocca. Ma,
essendo apparso un cavaliere nero armato, la sottrasse alle mani malevole della
folla e la portò via. Questo cavaliere
era il conte Udo, il quale essendosi disperso una volta per la foresta col suo
cavallo era sta aiutato dalla ragazza a
trovare la strada; naturalmente era rimasto affascinato da lei e la considerava
quasi una fata per il suo vestito bianco.
Avvvicinanandosi la festa del paese e sapendo delle dicerie che ne
facevano una strega, s’era tenuto pronto a intervenire in caso di
necessità. Cosí l’aveva salvata dalle grinfie dei fanatici. Dopo essere rimasti per alcuni giorni in una
capanna dentro la foresta, il conte tornò al suo castello, benché ogni tanto venisse indietro a vederla; ma allorché
il nobile cominciò a diradare le sue visite, la giovane si disperò. E fece ritorno alla sua rocca nei pressi del
Reno. Stava a riflettere seduta a
guardare l’acqua scorrere fino a che il Dio del Reno, attratto dal pianto
disperato della fanciulla, si levò dal suo palazzo cristallino in fondo al
fiume coll’aurea corona, i bianchi capelli e il mantello blu
dagli argentei ricami. Reggendo lo
scettro incastonato di diamanti le domandò di aiutarlo a vendicare l’abbandono
del proprio culto da parte cristiana: il dio l’avrebbe resa ancor piú bella e avrebbe donato un fascino
irresistibile alla sua voce. In questo
modo lei avvrebbe attirato gl’ingrati fedeli sulla rocca e sarebbero
precipitati nel gorgo. Ella giurò allora
fedeltà al nume, essendo rimasta di fede per metà pagana. Decise di farli morire tutti e Udo per
primo. La Lorelei da quel giorno divenne
un essere malefico, che attraeva i sedotti colla barca fino alla rocca, dove
annegavano. Una volta che il canto della
fanciulla raggiungeva le orecchie degli uomini, nessuna forza umana era capace
di sottrarli al desiderio di dissolvimento che li prendeva. Colla loro barca si precipitavano
inesorabilmente verso la morte per annegamento, ma nel mentre mai il loro
sguardo abbandonava l’incantevole fanciulla.
Ad ogni vittima precipitata nei flutti gli occhi di Lore divenivano piú seducenti, sebbene lei ovviamente attendesse
solo il conte, che nel frattempo s’era sposato e viveva felice. Il rimorso del tradimento lo prese e volle
rivedere la fanciulla che l’aveva amato, onde farsi perdonare, pur essendo
venuto a sapere dello sciagurato patto di Lore col Dio del Reno. Non appena la rivide, costei avendolo
riconosciuto cantava colla voce piú
melodiosa che poteva e lui cadde nella trappola che gli stava tendendo. Diede una borsa d’oro ai pescatori, affinché
lo portassero dov’era la rupe. Un
giovane pescatore gli propose il proprio battello. Arrivato sul punto pericoloso, successe che
Lorelei provò pietà per chi l’aveva salvata in passato e avrebbe dato la sua
vita per salvarlo a sua volta, ma era troppo tardi. I due uomini perirono nel gorgo. A quel punto spuntò fuori di nuovo il Dio del
Reno accusandola d’aver rotto il patto.
Ora era finita per entrambi. Il
nume sarebbe sparito e lei pure. Infatti
Lore gettò nell’acqua l’arpa che il Reno le aveva donato e si buttò a capofitto
nel gorgo (498).
Diversamente dalle consuete
narrazioni sulle Sirene e le Mermaid, la
storia della Lorelei racconta la vittoria dell’Amore sulla Morte, o se
preferiamo la prevalenza in ambito kaliyughico della Divina Misericordia sul
Divino Rigore. Il contrasto fra
cristianesimo (nello specifico la Vergine) e paganesimo (il Dio del Reno)
insito nel racconto è soltanto un pretesto in relazione alla sopravvenuta e
misericordiosa Età dei Pesci. Ma che
dire della Nissa (ted. Nixie)? Insegna il Bulteau (499) che, tramite “molteplici travestimenti, le Dame delle acque
nordiche hanno raccolto l’eredità tragica delle Sirene.” La Nissa è riconoscibile per l’orlo della
veste sempre bagnato o attraverso l’onda insanguinata. Come la Lorelei non ha tratti pescini quali
la coda, ma usa spesso “un bustino di squame color verde” assieme ad “un
grembiule scarlatto”; indossa una collana nera ed ha in mano un bouquet di
perle (500). Non meno delle loro omologhe le Nisse sono
perfette danzatrici. All’equinozio di
primavera si dimostrano maggiormente favorevoli, perché “piangono il loro
passato splendore” e “le loro lacrime, mescolate con l’acqua, hanno il potere
di far ringiovanire…” Al solstizio
d’estate codeste creature risultano maggiormente pericolose e non bisogna
bagnarsi nei corsi d’acqua. L’origano ha
funzione apotropaica nei loro confronti.
Dato che, travestite da fanciulle innocenti, tendono a far impazzire i
loro compagni inducendoli a buttarsi nei fiumi (501). Vi è anche un Nisso,
dispositore delle acque (502). Per finire, le Rusalka (o Rusalki) slave
– in Russia son chiamate pure Beregine, da
intendere quali figure delle sponde (bereg)
– sono per metà pesci e le loro braccia terminano una con una mano e l’altra
con una pinna. Per il resto hanno
caratteri analoghi, piú o meno, a quelli
dei soggetti sopra analizzati (503). Ossia costituiscono una categoria di spiriti
femminei (cfr. colle Samovile dei
Bulgari o le Vile dei Serbi) della
mitologia slava, legati ai fiumi e ai laghi, i quali danzano alla luce lunare
nelle loro candide vesti; hanno fiori intrecciati nei capelli, gli occhi verdi
e lunga capigliatura, eppure ciononostante mostrano aspetto cadaverico. L’albero ad esse sacro è il platano, sui cui
rami esse amano sedersi per adescare gli uomini. Essendo associate alla
primavera (tanto che in Ucraina e in Polonia durante tale stagione si gettano
ghirlande di fiori nei corsi d’acqua), influiscono sulla fecondità femminile, i
raccolti, la pesca ecc.; ma, in veste malefica di demonesse fluviali e
lacustri, possono anche causare la morte per annegamento ai giovani attratti
dal loro canto. Si tramanda che siano
state giovani donne suicide nei fiumi o nei laghi od uccise dai loro amanti o
dalle loro madri presso di essi. Perciò
erano rimaste ad infestare quei luoghi, ma se venivano vendicate pian piano
scomparivano. Era possibile pure che
alcune donne divenissero Rusalki
incontrando un corteo delle stesse, in questo caso al mattino si trovava una ghirlanda
di fiori davanti alla loro porta (504).
In altre parti del mondo (Arabia,
India, Cina, Giappone, Thailandia, Africa e America) vi sono analoghe creature (505), ma ivi non le tratteremo, quelle
indiane a parte. Per esse rimandiamo il
discorso ad un altro saggio in precedenza menzionato (506).
u) Le Apsaras,
versione indiana delle Sirene,
e la loro controparte maschile, i Gandharva
Il quadro indiano delle ninfe
delle acque è in apparenza piú semplice
di quello greco, sebbene a ben guardare si constatino nell’induismo parecchie
equivalenze mitiche delle forme elleniche.
Cosí, se da una parte troviamo le Apsaras quali omologhe delle nostre
Sirene, dall’altra ci accorgiamo che le Nāginī sono equiparabili
a loro volta alle Nereidi. Vi è persino
una certa Miliushi, che è stata
accostata a Melusina per il suo potere di governare la pioggia e le tempese (507).
Anche in India, inoltre, vi è la doppia fisionomia delle Sirene quali
pesci od uccelli semiantropomorfici e pure là non è facile distinguere la
maggior vetustà dell’una o dell’altra forma.
Noi rimaniamo dell’idea che entrambe risalgano a tempi ancestrali,
benché probabilmente la prima sia antecedente, stando alla tradizione cinese e
a quella russa: entrambe parlano d’una trasformazione del Pesce in
Uccello. Comunque nella simbologia
paradisiaca hindu troviamo forme aviarie accanto a quelle pescine. Queste ultime sono rappresentate
essenzialmente dal Matsyāvatāra, oppure
dalle Apsaras del tipo di Adrikāmatsya (508), donde nascono Matsyagandhī e Matsyarāja, nonché dal Dāśarāja.
Vero che proprio la leggenda di Adrikā sembrerebbe
far derivare il <Seme> dal Garuḍa, per poi
trasmetterlo al Matsya. Ma si sa che il Garuḍa
è da riportare a Indra (equivalente al lat. Pico Marzio), o tutt’al piú a Vishnu; e nessuno dei due deva possiede caratteri primordiali,
nonostante gli adattamenti posteriori a questo ruolo per trasposizione
superiore. Onde si può dedurre che si
tratti d’una formula cosmogonica rovesciata, a tutto favore delle genti arie,
intese in senso lato. Gli Uccelli
compaiono altrimenti sempre in relazione ad un simbolismo annuale, planetario o
zodiacale che sia, insomma in un situazione cosmologica comunque
post-paradisiaca; mai prima, giacché le acque celesti venivano in principio
intese in continuità con quelle terrene e non c’era posto per il volo degli
uccelli nei brumosi cieli artici. La
descrizione biblica del Paradiso Terrestre è stata molto influenzata dai tempi
posteriori, diremmo atlantidei, ma la Serpe è una trasformazione del Pesce e
non dell’Uccello (509). Del resto è plausibile che i volatili, anche
laddove siano stati scelti per designare esseri o divinità paradisiache (vedi
in particolare la simbologia degli Haṁsa, veicoli di
Brahma o meno spesso di Varuna, cosí come
della dea del desiderio erotico)(510),
alludano non ad una trasmissione tradizionale effettiva di quei simboli dai
tempi ai quali sono riferiti; bensí ad una
modifica culturale attuata ad un certo momento del percorso umano e
considerata, naturalmente, dal punto di vista di chi l’ha perpetrata. Tanto Brahma quanto Varuna, infatti, avevano
quale primitivo emblema il Pesce; se è vero che l’uno veniva interamente
raffigurato quale vero e proprio Matsya
nella piú antica rappresentazione
dell’interlocutore pescino di Manu oggi disponibile nei testi indiani (511) e l’altro possedeva per veicolo
il Matsya antecedentemente al Makara (512). Segno che
l’incarnazione ittica primeva della Divinità (I Ciclo Avatarico) sotto forma
probabile di ‘Mostro del Mare’ – cioè di qualcosa di simile al’Ys paleosiberiano, che è una sorta di
narvalo con denti di orca – si era trasformata dapprincipio (II Ciclo
Avatarico) in un veicolo indiretto della Divinità medesima.
Nel Ṛgveda (x. 85,
21-2) abbiamo un unico Gandharva (cfr.
coll’av. Gandarewa in aspetto di
drago nel Vourukaša), di nome Viśvāvasu,
che assumerà nella T.S.- i. 2, 9, 1
forma d’aquila. Accanto gli sta una sola
Apsaras (513). In coppia costoro
presiedono al matrimonio, in particolare quello di tipo celestiale, in cui si
giura assoluta fedeltà reciproca da parte dei coniugi e il rito – guardando una
stella del timone dell’Orsa Minore di notte vicino ad un fuoco da parte della sposa
– viene celebrato solo intimamente. Pena
lo scioglimento del matrimonio medesimo, che non ha in ogni caso alcun risvolto
sociale. In un altorilievo in terracotta
del X sec. d.C. di stile Tra Kieu (arte Cham, Mus. H. Parmentier, Vietnam),
osserviamo appunto un Gandharva sotto
aspetto di musico e un’Apsaras
attorno nell’atto di danzare. Una strana
Testa Equina, difficile da interpretare, spunta fra di loro (514).
Crediamo che ciò alluda a Gandharvī, l’Antenata
dei Cavalli (515). In seguito i Gandharva e le Apsaras si
sono moltiplicati e sono stati posti alla corte di Re Varuṇa,
in qualità di esseri addetti alla preparazione del Soma; probabilmente gli uni costituiscono una personificazione dei
raggi solari, le altre di quelli lunari (516). Potendo assumere ogni forma, assumono
talvolta quella di Haṁsa e Haṁsī. Quando il dominio delle Acque Superiori è
passato da Varuṇa ad Indra, le Apsaras sono
state associate al dio degli dèi. Lo Ś.B.- xi. 5, 1, 4 descrive la loro
metamorfosi in uccelli aquatici (āti = ‘anatre’, benché venga tradotto
‘cigni’) e la letteratura post-vedica allude alle loro frequentazioni di laghi
e fiumi (specie il Gange), non meno di altre categorie consimili in altre
tradizioni (517). In alternativa, esse dimorano nel Palazzo di Varuṇa in fondo all’oceano, similmente alle
Sirene nella tradizione italiota. In
questo caso, naturalmente, il dio del mare è Poseidone o Nettuno. La loro sfera d’influenza nelle tarde Samhitā si è estesa alla terra e quindi ai
sacri alberi, in veste di vṛkṣaka (‘driadi’) che fanno risuonare i loro cembali o i
loro flauti, o persino ai monti.
Specialmente nel Nord. Forse è in
tale estensione che sono passate nella forma aviaria anziché ittica, perché
l’uccello passa a nidificare dalla terra all’acqua, dagli alberi ai monti. Le attività delle Apsaras sono oltre
alla danza e alla musica il canto e il gioco, in particolare il gioco a dadi,
nel quale recano fortuna ai giocatori.
Nei matrimoni le Apsaras danzano e i Gandharva
cantano. La loro bellezza è proverbiale
e, talora, sono anche gli uomini a goderne oltre ai Gandharva. Le piú celebri sono Urvaśī (518) e Menakā (519), nominate nella V.S.- xv. 16 (la seconda) e
19 (la prima). Da Urvaśī, che nella storia di Purūravas è scorta in sembiante d’uccello
acquatico, nasce il ṛṣi Vasiṣṭha (520); Menakā invece per
il tramite del ṛṣi Viśvamitra genererà la madre di Re Bharata, antenato dei Kaurava
e dei Pāṇḍava. Le Apsaras secondo una tradizione,
menzionata in Hariv.- 12476, nascono
dalla fantasia del Brahman (521).
La loro madre è Prahdā, cosí come Muni
è la madre dei Gandharva. Secondo altre fonti lo è anche delle Apsaras.
Cfr. V.P.- i. 21, 24. Esse sorgono parimenti a Varuna e consorte
durante il ‘Rimestamento dell’Oceano-di-Latte’, essendo non meno dei Gandharva prole di Kaśyapa
(‘Tartaruga’), allonimo brahmanico del Kūrmāvatāra. Il termine che le designa si spiega con il saṁdhi (‘congiunzione’) dei due sostantivi apsu (‘oceano’) e rasa (‘essenza’), mediante variante eufonica della voc.fin. -u- del primo sostantivo in -a-.
Saras significa, comunque,
‘flusso’. La loro relazione con Varuna e
Varunani equivale a quella delle Sirene con Urano e Venere. Del resto Rati,
la consorte di Kāma, è un apsaras incarnante il piacere sessuale (522). Nella vicenda di Ṛṣyaśṛṅga
(Orione) l’avvenente Urvaśī (la Luna) si mostra con
impudicizia al ṛṣi Vibhāṇḍaka (il Sole), discendente di Kaśyapa,
eccitandolo a tal punto da costringerlo ad emettere il proprio seme presso uno
specchio d’acqua (il Cielo); proprio in quel mentre passa da quelle parti una
<Daina> (Aldebaran), che essendo molto assetata beve e lo ingurgita,
rimanendo gravida. Donde poi nascerà
l’asceta col corno di daino, nell’iconografia artistica trasformato in un corno
di antilope o di gazzella sulla fronte (523). La natura solare di Vibhāṇḍaka
risulta palese non solo dal fatto di venir inteso quale “figlio di Kaśyapa”, ma anche dall’essere descritto con
occhi fulgenti come quelli d’un leone e coperto di peli fino ai piedi, lett.
alle unghie (Mhbh.- iii. cxi). La
bellezza di un’altra loro simile, Tilottamā, costringe Śiva a dotarsi di ‘Quattro Teste’ e Indra a generare i suoi ‘Mille
Occhi’. Indra medesimo comunque, le
utilizza per attaccare i santi troppo pii, che minacciano di scalzarlo dal suo
trono col loro calore ascetico (tapas). Nella seduzione esse non si risparmiano mai,
utilizzando hāva e bhāva,
ossia indumenti decenti o indecenti a seconda delle necessità. Per di piú
aggrottano le ciglia, tengono alti i loro petti e vivacizzano i loro pensieri
inebriandoli con sensuali immaginazioni.
Inoltre sono dotate di sguardi
civettuoli, sorrisetti smaglianti e atteggiamenti inverecondi. Spesso proprio per questo debbono rinascere
nel mondo corporale in basse forme, essendo state castigate al modo di Adrikā (524):
si tramanda a tal proposito che 5 di esse abbiano sedotto un santo e siano
state maledette a divenire coccodrilli, fino a che furono liberate da Arjuna.
L’epica sacerdotale tarda riconosce alla loro bellezza e a quella
gandharvica dei meriti ascetici antecedenti, tanto che vengono promessi quei
doni a chi vi si dedica. Un’ulteriore apsaras è Puñjikasthalā, madre di Hanumat attraverso Māruta. Per non parlare di Rambha, la cui vicenda ricorre nel Rāmay.-
vii, 26. In codesto episodio del poema
ella recandosi ad una festa religiosa incontra Rāvaṇa su una
collina e costui, attratto dall’incantevole aspetto della femmina, non avendola
riconosciuta quale moglie del nipote Nalakūbara la fa sua
nonostante le proteste di lei. Pur
essendosi Rambhā palesata per quella che è
veramente, il sovrano di Laṅkā obietta che il
rispetto coniugale vale solo per una moglie normale, con un unico marito; non
per un apsaras, la quale non appartiene ad alcuno. L’Hariv.-
11787 descrive le Apsaras come gli
occhi del Brahman (525), cioè le stelle (Ś.B.- ix. 4, 1, 9), dal che ritorniamo al
concetto delle Sirene quali stelle…
Diversamente le Apsaras hanno la funzione di onorare i morti in
battaglia, in maniera simile a quella delle Valkirie germaniche, caricandoli su
carri divini. L’eco di queste onoranze
funebri nei campi di combattimento si sussurrava spronasse gli altri
combattenti alla battaglia.
I Gandharva posseggono una voce piacevole e appaiono raggianti come
soli (526). Essi cantano sul Meru o negli alti picchi montani.
Molti di loro sono di forme incerte, solo i re vengono nominati dai
testi. Si dividono in 2 categorie:
musici divini (gandharva-deva) e
umani (semplici gandharva). I Gandharva
guerreggiavano cogli Dei (527). Il numero dei Gandharva ai tempi vedici era di 27 (528), perciò è evidente che avevano a che fare cogli asterismi
lunari, probabilmente per Apsaras
intendendosi invece le singole stelle. Vide supra l’attestazione dello Śatapatha Brāhmaṇa.
Per questo si dice siano passate dalla corte di Varuṇa
a quella di Indra. Egualmente è avvenuto per i loro omologhi
maschili, che di solito in tale funzione suonano il liuto (529). Le Apsaras, comunque, non sono da ritenere necessariamente il loro
complemento: sono esistite prima di costoro le Gandharvī,
anche queste precedute da un’unica creatura omonima. Tardivamente i Gandharva sono stati considerati pericolosi per gli uomini, non
meno dei Rākṣasa
e degli Yakṣa, allo spuntar della sera; e ancor piú di notte, allorché dominano le ombre e vien
meno la coscienza di veglia come nei sogni (530). Il pericolo per gli uomini era dovuto al
fatto che essi erano maggiormente ferrati nel campo della magia e potevano
ucciderli. In qualità di guerrieri
dotati d’arco i Gandharva nella
persona di Citraratha (Mhbh.- i. 170, 43; in 172 nell’ediz. di
Calcutta, in 199 nell’ediz. di Kumbhakonam) insegnano ad Arjuna la ‘scienza del vedere’ in senso spirituale (cakṣuṣī
vidyā),
ottenuta da Viśvāvasu
ovvero dal suo alter-ego, il dio lunare Soma
alias Candramas (Ś.B.- ix. 4, 1, 9); nella persona di Tumburu (Mhbh.- iv. 56, 12), inoltre,
consegnano ad Arjuna l’arma
gandharvica (531). Il dono consiste nei destrieri ad usum belli di Śikhaṇḍin (Mhbh., vii. 23, 20)(532). Insieme a Citrasena
ed altri sta alla corte di Yudhiṣṭhira
(533), poi viene maledetto a
diventar un rākṣasa. Benché presenti nelle grotte e nelle foreste,
la dimora naturale dei Gandharva sono
l’aria, la nebbia e la pioggia (534). Insomma, tutti i fenomeni evanescenti. Una tendenza dei Gandharva è quella di divenire veggenti terreni o muni: il saggio Nārada,
col suo carattere di musico itinerante e cantastorie, ne è un tipico
esempio. Al pari di Danava e Rākṣasa i Gandharva venivano raggruppati fra i nemici degli Dei. Gli studiosi hanno interpretato codesti nomi,
storicamente, in riferimento alle tribú
anarie e da parte nostra siamo d’accordo con loro.
Assieme i due gruppi di esseri
descritti, Gandharva ed Apsaras, hanno assunto il ruolo di
fautori di fertilità e fecondità.
v) Cola Pesce e il Corno di
Pescespada
Della leggenda di Cola Pesce
abbiamo già accennato sommarimente ai §§ f-g,
paragonandolo a Glauco; ma qui vorremmo approfondirne il motivo, il quale
risulta estremamente interessante per il nostro studio (535). Innanzitutto va
precisato che Glauco per la sua conformazione fisica, adesso possiamo palesarlo
apertamente avendo trattato nei due paragrafi antecedenti il tema delle Sirene,
altro non che è un sireno. Ciò dimostra
che anche prima dell’Era Volgare pure in Grecia, siprattutto nella Grecia
pre-ellenica, dovette esistere in qualche modo il concetto delle Sirene come
donne-pesci. Vero che Omero non
specifica la loro conformazione fisica e che in Epoca Classica od Ellenistica
esse assumono la veste di donne-uccelli – come vuole Kerényi – per influenza
propriamente ellenica, ma com’erano in Epoca Arcaica? La storia, che andremo ora a narrare in
sintesi, illustra un passato ben diverso: un passato in cui dominavano figure
titaniche, o addirittura pre-titaniche, stando agli elementi presenti nel
racconto qui a seguire del leggendario Colapisci
(536).
Al tempo di Federico II in un
villaggio del Messinese presso Capo Peloro, bagnato dallo Stretto, viveva la
moglie d’un pescatore. La donna, di nome
Agata, era triste non avendo figli. E
pensava che al sopraggiungere della vecchiaia sarebbe rimasta sola col marito,
senz’aiuto per la famiglia. Sicché
decise di farla finita, legandosi una pietra al collo per annegare. Giunta alla spiaggia, nell’atto di compiere
l’insano gesto, udí una voce che la
chiamava: –Fermati Agatina, stai facendo un grosso errore!– La donna si bloccò di colpo, ma non vedendo
anima viva attorno a sé, stava per riprendere il folle gesto; quand’a un tratto
vide un pescespada nell’acqua antistante, il quale per farsi notare scrollava
la coda. Sbigottita di fronte al Pesce
Parlante, la donna rimase in ascolto, anche se sull’istante non avrebbe voluto
credere ai suoi occhi. Il Pesce le
consigliò di prendere la Conchiglia attaccata ad uno scoglio nei pressi ed
inghiottirla per intero. Pur incerta e
tremante, Agata fece ciò che le era stato ingiunto dal Pescespada e poi tornò a
casa. Tornato il marito all’imbrunire,
la moglie lo informò dell’accaduto. Non
appena ingoiato il guscio della conchiglia aveva sentito un gonfiore al ventre
e simultaneamente, come per miracolo, aveva udito il flebile vagito d’un
bimbo. Era dapprima rimasta incredula,
ma poi l’aveva colta un senso di gioia.
Il Pescatore pur assai scettico su quanto narrato dalla moglie,
vedendola felice una volta tanto, fece finta di crederle onde non contraddirla. Passarono nove mesi e, di fronte all’evidenza,
il marito si era reso conto che la sua Agatina aveva detto la verità. A gravidanza ultimata, nacque un bel bambino
con occhi verdi smeraldo come le acque dello Stretto, e capelli corvini. I genitori lo chiamarono Nicola per rinnovare
il nome dell’avo paterno, ma in seguito il suo nomignolo divenne per tutti
confidenzialmente Cola. Il bimbo crebbe
felice e robusto. Pur frequentando di
quando in quando i coetanei, egli era attratto misteriosamente dalle acque dei
fondali, nelle quali ogni tanto s’immergeva a causa d’un senso d’appartenenza
al mare. La madre, che aveva intuito
benissimo il segreto del figlio, lo mise in guardia dai pericoli che quel mare
gli riservava e sperava che non seguisse il mestiere del padre. Il figlio sembrava ascoltare la madre, ma
dentro di sé sapeva che non avrebbe potuto venir meno al suo interiore
desiderio. Infatti veniva di continuo
richiamato sulla spiaggia da una forza irresistibile, che lo spingeva a
comtemplare la distesa di quell’acqua di cui conosceva ormai il fondale e le
cavità marine. Il mare era lo scopo
della sua esistenza. Allorché
s’immergeva nelle profondità, gareggiava a nuoto coi delfini e i pescispada. Persino le murene giocavano con lui
accoglienti e si dilettavano a farsi carezzare dalle sue mani delicate. Cola intrecciava rapporti di sincera amicizia
cogli animali marini, che lo ricambiavano spontaneamente, ne aveva imparato a
poco a poco il linguaggio silenzioso e detestava la crudele bramosia degli
uomini nei loro confronti. Perciò ogni
volta che il proprio padre tornava a casa col pescato, senza profferir parola,
pigliava il pesce e lo ributtava a mare.
Il che provocava la disperazione del pover’uomo, essendo quella l’unica
risorsa economica della famiglia. La
mamma, egualmente disperata, non sapeva cosa dire di fronte a quel
comportamento che stava provocando la rovina familiare. Un giorno, presa dallo sconforto, gli lanciò
una maledizione: –Visto che ami piú i
pesci degli uomini e della tua famiglia, che tu possa diventare un pesce, dato
che tutti ormai ti chiamano a questo modo!– Benché la donna avesse detto ciò solo per
rabbia, la maledizione s’avverò all’istante.
Cola cominciò a mutare divenendo un mostro marino: al collo spuntarono
le branchie, il corpo si riempí di
squame, i piedi si fecero palmati, i capelli s’ingrossarono come fossero alghe,
la voce divenne rauca, le dita si trasformarono in artigli come quelli dei
rapaci. Vedendo quel che avevano causato
le sue parole, la donna inveí tristemente
contro di sé e si mise a pregare il buon Dio di farlo ritornare uomo. Mentre pregava s’accorse però che il figlio
era molto contento della sua metamorfosi.
Inoltre, non appena s’allontanava dal mare, riprendeva le sue sembianze
umane. Questo leniva parecchio il dolore
di Agata, che cominciò a non interessarsi piú
delle assenze del figlio, gli lasciò fare quello che voleva. E difatti Cola rimaneva sempre maggior tempo
in acqua, tanto da star lontano per mesi od anni. Un giorno annunciò alla famiglia che avrebbe
fatto un lungo viaggio, poiché gl’interessava esplorare l’oceano con i suoi
misteri. Dopo che di lui si erano perse
le tracce da tre anni, nessuno l’attendeva piú. Anzi, qualcuno azzardava che forse era stato
ingoiato da qualche grande squalo oppure era finito nella pancia d’una
balena. Finché un giorno dei pescatori
messinesi lo issarono a bordo dentro una loro rete. Dapprincipio ebbero la sensazione d’aver
pescato un mostro marino, ma vedendo che riprendeva sembianze umane, capirono
che era Cola e gli domandarono da dove provenisse e cosa avesse visto. Sollecitato dalle domande dei pescatori, Cola
rispose che le ricchezze dei mari erano talmente grandi da non poterle
descrivere. Narrò d’un drago alato che
poteva uscire dall’acqua e volare: con una ventosa risucchiava i pesci dal
mare. Un giorno tale mostro l’aveva
paurosamente inseguito, tanto da dover riparare in una grotta marina delle
isole eoliche. Data la sua mole aveva
alfine abbandonato la preda e aveva preso il largo, sicché Cola era riuscito a
cavarsela. Dopodiché aveva viaggiato in
lungo e in largo, incontrando città sommerse piene d’oro, d’argento e di
perle. I palazzi erano abitati da
giganti. Oltre le Colonne di Eracle
aveva osservato alghe d’oro, che non era possibie ammirare, poiché emettevano
riflessi luminosi accecanti. Tornato a
casa, si diffuse la voce del ritorno di quest’uomo leggendario e delle
narrazioni ch’egli faceva a pescatori e marinai, tanto da esser prodigo di
consigli sulle rotte da seguire, sui pericoli dei fondali, sulle correnti
marine o le burrasche in arrivo. Il
tutto senza richiedere compenso alcuno.
Insomma, era l’orgoglio dell’intera Sicilia. Quindi, di voce in voce, d’orecchio in
orecchio, giunse notizia al Re di Sicilia delle sue incredibili capacità. Cosí
che lo nominò messo del mare per tutto il Mediterraneo, col compito di recare
dispacci urgenti a Napoli o in Spagna.
Se riportava monete d’oro dal mare, trovandole dentro i galeoni
sommersi, le donava alla Città di Messina.
Successivamente il sovrano volle sincerarsi che quanto andavano dicendo
in giro del giovane fosse vero e lo fece venire al proprio cospetto. Essendone rimasto affascinato, dopo averlo
conosciuto di persona gli propose un’impresa e, se l’avesse portata a termine,
gli avrebbe concesso volentieri la mano della figlia Costanza. I due, avendo incrociato i loro sguardi, si
erano subitamente innamorati l’uno dell’altro.
Cola infatti, nel suo sembiante umano, appariva bello e prestante. Accordatosi dunque con Cola, il Re fece
allestire una nave esattamente nel posto maggiormente pericoloso nel mezzo
dello Stretto. Una volta tutti a bordo,
gettò in mare un’aurea coppa incastonata di diamanti e ordinò a Cola di
riprenderla. Questi si buttò nei vortici
dello Stretto e vide che la coppa era finita fra le spire d’una serpe marina,
con cui egli ingaggiò una furente lotta, tanto che le onde da loro provocate
avevano fatto oscilare la nave. I
pescatori della costa peloritana intanto l’avevano circondata e attendevano col
cuore in gola la riemersione del giovane avventuriero, cosa che avvenne di lí a
poco. Cola teneva la coppa in mano e
subito un gridò di gioia si alzò alto a celebrazione dell’evento. Congratulatosi con lui, il Re non gli diede
tempo di respirare e la gettò di nuovo in acqua, mentre la Principessa lo
guardava ammirata. Cola si rituffò
ancora una volta. La coppa ora era
andata a finire, a causa delle correnti, nelle viscere magmatiche
dell’Etna. Riuscí a recuperarla, ma
tornando indietro fu inseguito da un polpo gigante. Alla fine emerse fra il tripudio
generale. Il Re allora, scorgendo il
turbamento che attraversava la figlia Costanza, la rassicurò con un tocco della
mano. Rivolto all’uomo-anfibio, il Re
gli chiese autorevolmente cosa avesse visto nelle profondità. E questi rispose che nell’abisso marino vi
erano animali mostruosi. Inoltre un vena
di fuoco sotterraneo si dipartiva dall’Etna ed arrivava sino a Messina, facendo
ribollire ed intorbidire le acque soprastanti.
Gli fece anche sapere che la Sicilia era retta da tre colonne: quella
sotto Messina, però, era lesionata. Il
Re si complimentò col giovane popolano.
Tuttavia, accorgendosi che la figlia ne era pazzamente innamorata ed
intuendo le difficoltà che sarebbero sorte in tale rapporto, decise di metterlo
alla prova una terza volta, promettendogli in cambio che alla sua terza
riemersione sarebbe stato nominato principe delle acque marine siciliane. Il compito da svolgere era quello
d’ispezionare le fondamenta sottomarine del Regno di Sicilia, ma Cola domandò
di esserne esentato, forse perché innamorato di Costanza. Disse che preferiva rima
v) Cola Pesce e il Corno di
Pescespada
Della leggenda di Cola Pesce
abbiamo già accennato sommarimente ai §§ f-g,
paragonandolo a Glauco; ma qui vorremmo approfondirne il motivo, il quale
risulta estremamente interessante per il nostro studio (535). Innanzitutto va
precisato che Glauco per la sua conformazione fisica, adesso possiamo palesarlo
apertamente avendo trattato nei due paragrafi antecedenti il tema delle Sirene,
altro non che è un sireno. Ciò dimostra
che anche prima dell’Era Volgare pure in Grecia, siprattutto nella Grecia
pre-ellenica, dovette esistere in qualche modo il concetto delle Sirene come
donne-pesci. Vero che Omero non
specifica la loro conformazione fisica e che in Epoca Classica od Ellenistica
esse assumono la veste di donne-uccelli – come vuole Kerényi – per influenza
propriamente ellenica, ma com’erano in Epoca Arcaica? La storia, che andremo ora a narrare in
sintesi, illustra un passato ben diverso: un passato in cui dominavano figure
titaniche, o addirittura pre-titaniche, stando agli elementi presenti nel
racconto qui a seguire del leggendario Colapisci
(536).
Al tempo di Federico II in un
villaggio del Messinese presso Capo Peloro, bagnato dallo Stretto, viveva la
moglie d’un pescatore. La donna, di nome
Agata, era triste non avendo figli. E
pensava che al sopraggiungere della vecchiaia sarebbe rimasta sola col marito,
senz’aiuto per la famiglia. Sicché
decise di farla finita, legandosi una pietra al collo per annegare. Giunta alla spiaggia, nell’atto di compiere
l’insano gesto, udí una voce che la
chiamava: –Fermati Agatina, stai facendo un grosso errore!– La donna si bloccò di colpo, ma non vedendo
anima viva attorno a sé, stava per riprendere il folle gesto; quand’a un tratto
vide un pescespada nell’acqua antistante, il quale per farsi notare scrollava
la coda. Sbigottita di fronte al Pesce
Parlante, la donna rimase in ascolto, anche se sull’istante non avrebbe voluto
credere ai suoi occhi. Il Pesce le
consigliò di prendere la Conchiglia attaccata ad uno scoglio nei pressi ed
inghiottirla per intero. Pur incerta e
tremante, Agata fece ciò che le era stato ingiunto dal Pescespada e poi tornò a
casa. Tornato il marito all’imbrunire,
la moglie lo informò dell’accaduto. Non
appena ingoiato il guscio della conchiglia aveva sentito un gonfiore al ventre
e simultaneamente, come per miracolo, aveva udito il flebile vagito d’un
bimbo. Era dapprima rimasta incredula,
ma poi l’aveva colta un senso di gioia.
Il Pescatore pur assai scettico su quanto narrato dalla moglie,
vedendola felice una volta tanto, fece finta di crederle onde non contraddirla. Passarono nove mesi e, di fronte all’evidenza,
il marito si era reso conto che la sua Agatina aveva detto la verità. A gravidanza ultimata, nacque un bel bambino
con occhi verdi smeraldo come le acque dello Stretto, e capelli corvini. I genitori lo chiamarono Nicola per rinnovare
il nome dell’avo paterno, ma in seguito il suo nomignolo divenne per tutti
confidenzialmente Cola. Il bimbo crebbe
felice e robusto. Pur frequentando di
quando in quando i coetanei, egli era attratto misteriosamente dalle acque dei
fondali, nelle quali ogni tanto s’immergeva a causa d’un senso d’appartenenza
al mare. La madre, che aveva intuito
benissimo il segreto del figlio, lo mise in guardia dai pericoli che quel mare
gli riservava e sperava che non seguisse il mestiere del padre. Il figlio sembrava ascoltare la madre, ma
dentro di sé sapeva che non avrebbe potuto venir meno al suo interiore
desiderio. Infatti veniva di continuo
richiamato sulla spiaggia da una forza irresistibile, che lo spingeva a
comtemplare la distesa di quell’acqua di cui conosceva ormai il fondale e le
cavità marine. Il mare era lo scopo
della sua esistenza. Allorché
s’immergeva nelle profondità, gareggiava a nuoto coi delfini e i pescispada. Persino le murene giocavano con lui
accoglienti e si dilettavano a farsi carezzare dalle sue mani delicate. Cola intrecciava rapporti di sincera amicizia
cogli animali marini, che lo ricambiavano spontaneamente, ne aveva imparato a
poco a poco il linguaggio silenzioso e detestava la crudele bramosia degli
uomini nei loro confronti. Perciò ogni
volta che il proprio padre tornava a casa col pescato, senza profferir parola,
pigliava il pesce e lo ributtava a mare.
Il che provocava la disperazione del pover’uomo, essendo quella l’unica
risorsa economica della famiglia. La
mamma, egualmente disperata, non sapeva cosa dire di fronte a quel
comportamento che stava provocando la rovina familiare. Un giorno, presa dallo sconforto, gli lanciò
una maledizione: –Visto che ami piú i
pesci degli uomini e della tua famiglia, che tu possa diventare un pesce, dato
che tutti ormai ti chiamano a questo modo!– Benché la donna avesse detto ciò solo per
rabbia, la maledizione s’avverò all’istante.
Cola cominciò a mutare divenendo un mostro marino: al collo spuntarono
le branchie, il corpo si riempí di
squame, i piedi si fecero palmati, i capelli s’ingrossarono come fossero alghe,
la voce divenne rauca, le dita si trasformarono in artigli come quelli dei
rapaci. Vedendo quel che avevano causato
le sue parole, la donna inveí tristemente
contro di sé e si mise a pregare il buon Dio di farlo ritornare uomo. Mentre pregava s’accorse però che il figlio
era molto contento della sua metamorfosi.
Inoltre, non appena s’allontanava dal mare, riprendeva le sue sembianze
umane. Questo leniva parecchio il dolore
di Agata, che cominciò a non interessarsi piú
delle assenze del figlio, gli lasciò fare quello che voleva. E difatti Cola rimaneva sempre maggior tempo
in acqua, tanto da star lontano per mesi od anni. Un giorno annunciò alla famiglia che avrebbe
fatto un lungo viaggio, poiché gl’interessava esplorare l’oceano con i suoi
misteri. Dopo che di lui si erano perse
le tracce da tre anni, nessuno l’attendeva piú. Anzi, qualcuno azzardava che forse era stato
ingoiato da qualche grande squalo oppure era finito nella pancia d’una
balena. Finché un giorno dei pescatori
messinesi lo issarono a bordo dentro una loro rete. Dapprincipio ebbero la sensazione d’aver
pescato un mostro marino, ma vedendo che riprendeva sembianze umane, capirono
che era Cola e gli domandarono da dove provenisse e cosa avesse visto. Sollecitato dalle domande dei pescatori, Cola
rispose che le ricchezze dei mari erano talmente grandi da non poterle
descrivere. Narrò d’un drago alato che
poteva uscire dall’acqua e volare: con una ventosa risucchiava i pesci dal
mare. Un giorno tale mostro l’aveva
paurosamente inseguito, tanto da dover riparare in una grotta marina delle
isole eoliche. Data la sua mole aveva
alfine abbandonato la preda e aveva preso il largo, sicché Cola era riuscito a
cavarsela. Dopodiché aveva viaggiato in
lungo e in largo, incontrando città sommerse piene d’oro, d’argento e di
perle. I palazzi erano abitati da
giganti. Oltre le Colonne di Eracle
aveva osservato alghe d’oro, che non era possibie ammirare, poiché emettevano
riflessi luminosi accecanti. Tornato a
casa, si diffuse la voce del ritorno di quest’uomo leggendario e delle
narrazioni ch’egli faceva a pescatori e marinai, tanto da esser prodigo di
consigli sulle rotte da seguire, sui pericoli dei fondali, sulle correnti
marine o le burrasche in arrivo. Il
tutto senza richiedere compenso alcuno.
Insomma, era l’orgoglio dell’intera Sicilia. Quindi, di voce in voce, d’orecchio in
orecchio, giunse notizia al Re di Sicilia delle sue incredibili capacità. Cosí
che lo nominò messo del mare per tutto il Mediterraneo, col compito di recare
dispacci urgenti a Napoli o in Spagna.
Se riportava monete d’oro dal mare, trovandole dentro i galeoni
sommersi, le donava alla Città di Messina.
Successivamente il sovrano volle sincerarsi che quanto andavano dicendo
in giro del giovane fosse vero e lo fece venire al proprio cospetto. Essendone rimasto affascinato, dopo averlo
conosciuto di persona gli propose un’impresa e, se l’avesse portata a termine,
gli avrebbe concesso volentieri la mano della figlia Costanza. I due, avendo incrociato i loro sguardi, si
erano subitamente innamorati l’uno dell’altro.
Cola infatti, nel suo sembiante umano, appariva bello e prestante. Accordatosi dunque con Cola, il Re fece
allestire una nave esattamente nel posto maggiormente pericoloso nel mezzo
dello Stretto. Una volta tutti a bordo,
gettò in mare un’aurea coppa incastonata di diamanti e ordinò a Cola di
riprenderla. Questi si buttò nei vortici
dello Stretto e vide che la coppa era finita fra le spire d’una serpe marina,
con cui egli ingaggiò una furente lotta, tanto che le onde da loro provocate
avevano fatto oscilare la nave. I
pescatori della costa peloritana intanto l’avevano circondata e attendevano col
cuore in gola la riemersione del giovane avventuriero, cosa che avvenne di lí a
poco. Cola teneva la coppa in mano e
subito un gridò di gioia si alzò alto a celebrazione dell’evento. Congratulatosi con lui, il Re non gli diede
tempo di respirare e la gettò di nuovo in acqua, mentre la Principessa lo
guardava ammirata. Cola si rituffò
ancora una volta. La coppa ora era
andata a finire, a causa delle correnti, nelle viscere magmatiche
dell’Etna. Riuscí a recuperarla, ma
tornando indietro fu inseguito da un polpo gigante. Alla fine emerse fra il tripudio
generale. Il Re allora, scorgendo il
turbamento che attraversava la figlia Costanza, la rassicurò con un tocco della
mano. Rivolto all’uomo-anfibio, il Re
gli chiese autorevolmente cosa avesse visto nelle profondità. E questi rispose che nell’abisso marino vi
erano animali mostruosi. Inoltre un vena
di fuoco sotterraneo si dipartiva dall’Etna ed arrivava sino a Messina, facendo
ribollire ed intorbidire le acque soprastanti.
Gli fece anche sapere che la Sicilia era retta da tre colonne: quella
sotto Messina, però, era lesionata. Il
Re si complimentò col giovane popolano.
Tuttavia, accorgendosi che la figlia ne era pazzamente innamorata ed
intuendo le difficoltà che sarebbero sorte in tale rapporto, decise di metterlo
alla prova una terza volta, promettendogli in cambio che alla sua terza
riemersione sarebbe stato nominato principe delle acque marine siciliane. Il compito da svolgere era quello
d’ispezionare le fondamenta sottomarine del Regno di Sicilia, ma Cola domandò
di esserne esentato, forse perché innamorato di Costanza. Disse che preferiva rimanere un umile popolano, ma era stanco di nuotare e l’impresa
risultava rischiosa. Nonostante le
suppliche della figlia, il Re gli chiese perentorio di tuffarsi una terza
volta, onde poter ispezionare i fondali marini della Trinacria. Al giovane non restava che obbedire al suo
Sire, ma prima d’entrare in acqua si fece consegnare un pugno di
lenticchie. Se fossero venute a galla da
sole significava che era morto. Baciò
con pudore la fanciulla sulle rosee guance.
Il Re rimase sbigottito, essendo Cola un popolano; comunque non se la
sentí di rimproverarlo, avendo promesso dinanzi agli astanti che l’avrebbe reso
principe al suo ritorno. Presto Cola si
tuffò e s’inabissò nello Stretto. La
Principessa, ripresasi dalla momentanea sorpresa, non volendo star piú in
trepida attesa si tuffò pure lei per la disperazione, lasciando incredulo il
padre. Non appena in acqua l’avvinse un
vortice, trascinandola sul fondale.
Avvisato del fatto dai suoi amici marini, Cola non si perse d’animo e
ricordandosi dell’effetto avuto su di lui dalla maledizione della madre la
tramutò in pesce. All’istante Costanza
divenne come lui, riuscendo cosí a dincolarsi dal vortice. Cola la raggiunse e la baciò. Insieme andarono a cercare la loro eterna
alcova marina. Sulla nave intanto
aspettavano il Re e i cortigiani, fino a che videro salire a galla le
lenticchie ed allora immaginarono che i due erano morti. Il popolo era convinto viceversa che i due
per amore verso la loro terra stessero reggendo la colonna corrosa. Altri giuravano di averli visti vivere
assieme sotto il Capo Peloro. Altri
ancora credevano fossero realmente periti, Costanza nel gorgo e Cola Pesce
acciuffato da un famelico mostro per la stanchezza delle precedenti immersioni.
Lo Scolareci c’informa (537) che esistono 18 versioni scritte
della leggenda, ma cita soltanto 17 autori non meno di Calvino (538): Fra Salimbene de Adam, G.
Pontano, F. Pipino, G. degli Omodei, G. Pitré, B. Croce, F. Schiller, G.
Scarcella, F. Lanza, F. Maurolico, G. La Farina, E.G. Boner, F. Bisazza, S.
Greco, F. Riccobono, R. Guttuso e G. Cavarra.
Forse uno di costoro ne ha preparate 2.
L’ultimo autore citato ad ogni modo, oltre ad aver amalgato i dati dei
suoi colleghi, ha raccolto anche varie versioni orali nel Messinese (539).
La versione scritta riportata dallo Scolareci, e sopra parafrasata, è
tratta dal testo di Renato Guttuso. On line il sito Colapesce riporta versioni di altri autori, oltre a quelli
menzionati. Ad es. una di N. Muccioli,
assegna il ruolo di re nella storia a Ruggero II e limita la storia alle
immersioni volute dal sovrano. Ancor
meno interessante sono quelle di C.D. Gallo (1758) e di G.F. Degli Omodei, che
assegna per contro lo stesso ruolo a Re Ferrando di Napoli ed al posto della
Coppa pone l’Anello (1876). Nella
versione del Greco – citato dallo Scolareci – si fa un breve cenno iniziale
alla maledizione della madre, ma non al Pescespada, che nella versione completa
della storia è invece fondamentale.
Inoltre a parte il Re colla Coppa vi è la Principessa che tira in acqua
prima la Cintura, poi la Collana, indi l’Anello. La versione catanese fa di Colapesce, anzi
Pescecola, un semplice palombaro: ciò deve aver ispirato la ballata omonima
dello Schiller, ma è totalmente priva d’interesse mitologico. Nella versione del Lanza non c’è la madre, ma
in compenso ci sono sirene con code serpentine a mo’ di nereidi. La versione del Croce introduce lo
stratagemma del viaggiare per mare facendosi ingoiare dai grossi pesci per poi
sventrarli col coltello, sennonché appare una delle piú insulse dal punto di vista esoterico; a meno di pensare a
Giona, inghiottito dalla Balena (540).
Che dietro la facciata d’una semplice storiella fantastica, in apparenza
strettamente connessa al folclore locale, vi sia del materiale piuttosto
arcaico (per non dire ancestrale) è provato dalla presenza ad inizio-storia del
Pesce Parlante; persino piú importante, volendo
essere espliciti, di Cola Pesce stesso.
Il fatto inoltre che sia un pescespada ad incarnarlo è ulteriormente
significativo, in quanto tale creatura marina costituisce un rimando da un lato
alla Carpa Unicorne teorizzata dall’Induismo storico quale prima incarnazione
del Brahman (poi di Viṣṇu) e dall’altra al supposto narvalo
che a parere di taluno (cfr. il §z)
dovrebbe esser stato il modello iconografico originario del Matsya Ekaśṛṅga. Benché, per maggior correttezza, dovremmo
parlare di Pesce Monodono (541). Se il Pesce Parlante funge da Puruṣottama
(la ‘Persona Suprema’), il figlio del Pescespada e della Conchiglia ossia Cola
Pesce funge da Akṣarapuruṣa (la
‘Persona Immortale), mentre il sovrano di turno – Federico II o Ruggero II –
funge da Kṣarapuruṣa (la
‘Persona Mortale’) stando al linguaggio maggiormente dotto dell’antichissima
Trinità hindu (542). La madre di Cola inghiottendo la Conchiglia
si assimila a questa, ecco perché all’istante rimane incinta …del Pescespada;
in tal modo infatti funge da Vergine-madre, ovvero da Adiśakti
(‘Primordiale Potenza’), e il Pescespada da Spirito Supremo. Questi due principi possono essere intesi non
solo come Prakṛti e Puruṣa, in senso
cosmogonico, ma addirittura quali immagini dello Zero Metafisico (la
Conchiglia) e del Grande Uno (l’Assoluto); mentre Cola Pesce, il …Figlio del
Pescespada e della Conchiglia…, va
assimilato all’Uno.
È opinione dello Scolareci
difatti – cosa da noi senz’altro condivisa – che sulla base dei dati raccolti
da Gaspare Scarcella vi sia stato un antenato greco di Cola, antecedente alla
Caduta di Troia ma poi perpetuatosi in Epoca Arcaica e Classica, certo Andríttios
(543). Costui portava un corno di pescespada sulla
testa ed era padre nonché marito delle Sirene cantate da Omero, sebbene
l’iconografia classica ed ellenistica le abbia ritratte in forma d’uccelli (544).
L’autore, rifacendosi al famoso scrittore palermitano Giuseppe Pitré,
sostiene che codesto mito è noto anche in Russia e in Giappone. Giovanni Meji è viceversa dell’idea che Cola
– qualcuno suggerisce che di cognome faceva Rizzo – sia stato una persona
reale, nata durante il Regno di Federico II; cosa peraltro possibile, nel caso
si sia innestato su di lui l’antico mito.
Questo sosteneva che, mentre le Sirene cantavano, Andríttios dirigeva le navi
contro gli scogli per farle schiantare, in modo che le Sirene si cibassero dei
marinai. Ma, siccome da parecchio tempo
tali fameliche creature non raggiungevano il loro scopo, poiché sia gli
Argonauti che l’equipaggio itacense erano sfuggiti al loro canto (Orfeo
sovrastandolo colla sua portentosa lira e Ulisse facendo tappare le orecchie
colla cera ai membri del suo equipaggio, dopo che si era fatto legare
all’albero maestro della nave), si sentivano oppresse. Oltretutto anche i reduci della Guerra di
Troia, grazie al favore dei venti governati da Eolo, avevano potuto ritornare
in patria sani e salvi approdando alle loro rispettive dimore. Sicché le Sirene, esasperate, avevano finito
per rivolgersi contro il loro padre. Ma
costui le aveva infilzate colla sua lunga spada frontale, che usava di solito
per procurare cibo alle figlie antropofaghe; perciò i mostri Scilla e Cariddi
avevano tentato di divorare i loro corpi, che tuttavia si tramutavano in scogli
ogni volta che essi le addentavano.
Intanto, preso dal rimorso per avere annientato le figlie, il cornuto
sireno si scagliò disperatmente contro la roccia e ne ebbe rotto il corno;
essendo svenuto, le Nereidi si recarono nello Stretto di Messina per
curarlo. Quando si riebbe, sconfortato
decise di allontanarsi da quei tristi luoghi ove era avvenuto lo scempio, onde
raggiungere nuovi lidi. Però, non avendo
trovato quel che faceva per sé, tornò nello Stretto; ove l’attendeva la ninfa
Orizia, la sola delle Nereidi che non aveva fatto ritorno alla propria dimora
marina essendosi invaghita di lui. A
partire dall’XI secolo il viaggiatore bolognese Francesco Pipino chiamò il
personaggio Cola Pesce e questo nome
rimase fra i posteri, sia vera o meno l’ipotesi sopra additata del Meji della
sovrapposizione fra un tipo leggendario ed una persona realmente vissuta. Di certo i poeti e i letterati, col tempo,
hanno arricchito fantasticamente la storia con aggiunte loro personali. Sta di fatto che, nell’insieme, è ancora
possibile unendo gli elementi della storia in un dato modo ricostruire un
significato esoterico alla vicenda (545). Basta rifarsi al mito indiano dello Śvetadvipa, che nella fiaba in questione
diviene la Sicilia; ed appaiare il Pescespada-padre al Brahma, cosiccome il figlio-sireno Andríttios-Colapisci al Matsyāvatāra Ekaśṛṅga. Quantunque il mostro siciliano (soprattutto
nella veste antica) possegga rispetto al mostro indiano un accentuato carattere
titanico, che lo fa sembrare un omologo di un’altra tipologia marina, quella
d’un essere malefico del quale ora offriremo notizia. Se è vero che le Sirene sono figlie di
Acheloo, lo stesso dicasi per i sireni quali Cola o Glauco, donde si spiega il
Corno Unico: in quel caso taurino, in questo pescino, ma la sostanza di certo
non cambia.
Altri di cui abbiamo perso
purtroppo traccia ci ha segnalato difatti un parallelo oceaniano, precisamente
melanesiano (Is.le Solomon), di Andríttios.
Tal nume chiamasi Adaro ed è
una divinità oceanica semiantropomorfica, uno spirito malevolente con coda
pinnata e branchie dietro le orecchie non meno di Colapesce; possiede un corno
che pare la pinna dorsale dello squalo e ha sulla testa una lancia, simile alla
spada d’un pescespada o alla sega d’un pescesega. È in grado di scagliare contro gli uomini pesci
volanti velenosi oppure di viaggiare lungo l’arcobaleno od i tornadi marini.
La differenza fra Glauco e Cola
Pesce è dunque soltanto il Corno di Pescespada, caratterizzante l’antenato
neo-greco di quest’ultimo e non l’altro.
La Seppilli (546), tuttavia, confrontando i due
miti ha ipotizzato una base di partenza ed un contesto culturale comuni (547), cosa sicuramente plausibile.
Non solo, ha anche supposto che le varie versioni del mito di Glauco non
siano che varianti multiformi relative ad un unico personaggio (548), ma in questo caso la cosa appare meno evidente. Per far nostra definitivamente tale tesi, che
anche noi abbiamo sostenuto in precedenza seppur un po’ titubanti, dovremmo
dapprima equiparare l’Erba Magica (d’Oro) del figlio di Antedone a quella
analoga del figlio di Pasife, intendendo quest’Erba quale emblema di
Rinascita. Ciò, per la verità, lo
avevamo già fatto spontaneamente. Ma le
altre 2 varianti di Glauco, il figlio di Merope e quello di Ino, appaiono
nettamente difformi rispetto alle 2 appena considerate. L’unica chiave di lettura, per poter
concordare pienamente colla Seppilli, è l’interpretazione da un lato dell’Erba
Ippomane quale semplice diversificazione della precedente in un contesto
incantatorio. Circa il tuffo nel mare di
Melicerte colla madre ed il ringiovanimento cosí
ottenuto, a ben ragionare, si tratta in modo palese d’una metafora esprimente
lo stesso concetto.
z) Analogie simboliche tra il Delfino, il Pescespada,
il Pescesega e il Narvàlo
Tradizionalmente i cetacei sono
sempre stati considerati dei grossi pesci, non dei mammiferi. Riguardo in particolare il Delfino, riteniamo
che la sacralità di tale animale fosse dapprincipio simultaneamente connessa
sia al fatto che esso nuotava a pelo d’acqua, divenendo cosí un emblema delle cd. ‘Acque Superori’’
(nonostante abbia finito poscia per assumere pure la valenza opposta, parimenti
al Polpo, mollusco dei fondali marini associato per contro alle ‘Acque
Inferiori’); sia alla protuberanza del muso, che poteva esser assimilata
iconologicamente ad un corno. Crediamo
inoltre, sulla scorta del Grossato (549),
che il Delfino abbia sostituito simbolicamente in ambiente mediterraneo il
Narvalo, di area artica; un cetaceo che, com’è possibile documentarsi
televisivamente, ha caratteristiche quasi analoghe a quelle del beluga (il
delfino bianco) e del mammifero poc’anzi menzionato. Salvo il fatto che il suddetto mammifero
boreale, nuotando poco sotto la superficie marina in ambiente glaciale, tenga
il suo lungo e robusto eburneo corno (in realtà un dente, sviluppo speciale –
solo nel maschio – d’un canino, lungo sino a 2 metri) puntato verso l’alto; in
maniera tale che è lecito presumere abbia in tempi immemorabili affascinato
fantasiosamente gli abitanti primordiali di quelle lontane plaghe artiche, sí da venir presto assunto – per via di detto
dente d’avorio, con scanalature spiraliche da destra verso sinistra, cioè in
senso polare – quale emblema visibile del Polo, o se si vuole dell’Asse Polare.
Il Grossato è difatti del parere,
se interpretiamo bene il pensiero di codesto eminente studioso (550), che il Narvalo abbia costituito
la base biologica del culto primordiale del Pesce Unicorne (da concepirsi sul
tipo del Matsya Ekaśṛṅga
hindu) o meglio Monodono; nonché dell’iconografia dello stesso in tempi
proto-storici, varianti locali a parte. Tali varianti sono costituite, secondo
noi, dal Delfino in ambito mediterraneo (cfr. Cap.VI, §§ a-b) e dal Pescesega nell’area dell’Oceano Indiano; in tempi
maggiormente lontani, vale a dire preistorici, soprattutto dal Pescespada. In particolare nella costa asiatico-oceaniana
e, di rimando, durante l’Antichità in Grecia; e nelle colonie greche sparse nel
Mediterraneo, specie in ambiente siciliota.
Non meno del Pescesega (pesce cartilagineo dotato di un rostro
seghettato con cui dilania le proprie vittime), in onore del quale si celebrano
danze rituali in Indonesia ed un culto assai importante in India (vide Cap.IV, §§ a-b), il Pescespada (pesce osseo di assai temibile natura,
caratterizzato da un rostro tagliente e durissimo, che talora viene conficcato
con furore nelle barche intercettate e talvolta persino nel ventre della
Balena) viene ossequiato nel folclore del Pacifico Nord-occidentale e Sud-occidentale,
nonché in Sicilia; dove si allestiscono speciali rituali mascherati (ad es. ad
Aci Trezza, il borgo del Catanese reso celebre dai Malavoglia verghiani) aventi per protagonista l’Homo Piscis e, nel contempo, si recitano
filastrocche che lo menzionano cerimonialmente.
Anche nel folclore ligure è rimasta la definizione di Pesce Emperator (551), ciò che ci fa rammentare il ruolo del Dente del Narvalo nel
trono svevo. Attraverso la figura di
Federico II, che copre un ruolo fondamentale nella saga di Cola Pesce, si può
quindi tracciare un parallelo fra il Narvalo ed il Pescespada sotto il Casato
degli Hohenstaufen (552). Del resto, a giudizio d’una discendente
attuale del rinomato casato (Mad. Jasmine Avril alias Gelsomina Aprile), la quale asserisce d’avere ancor oggi un
ruolo fondamentale nell’equilibrio dei sodalizi iniziatici del mondo
occidentale, il temine staufen
alluderebbe alla ‘Staffa’ in quanto emblema dell’Axis Mundi. In Estremo
Oriente gli Ainu, dal canto loro, allestiscono cerimonie stagionali di danza in
suo onore; alle quali fanno eco alcuni costumi melanesiani, oltre a quanto già
rilevato al precedente paragrafo a
proposito d’un antesignano greco di Cola Pesce, che a propria volta si basa
probabilmente sul culto d’un nume oceaniano preistorico munito di spada o sega
pescina (553). Persino il Cristo è stato effigiato, nei
primi secoli dell’era cristiana, in veste di pescesega (554) dei mari temperati (555)
in una lucerna d’epoca romana (556). Nel corpo della pittura su terracotta
s’intravvedono ai lati 2 Croci di tipo essenico, con legni d’egual misura.
In codesto libro non trattiamo
del Narvalo e del Pescespada, né di altri pesci ad essi connessi
mitologicamente (Balena, Capodoglio, Orca, Squalo, Dugongo, Lamantino), a parte
qualche riferimento sporadico qua e là, dal momento che per farlo in maniera
esauriente occorrerebbe uscire dall’argomento principale del nostro discorso;
ivi limitato ad una comparazione fra il mondo indo-persiano e quello
greco-romano, con qualche importante digressione su Creta e l’Egitto, che hanno
fatto da tramite fra quelle due grandi tradizioni. Nell’ambito di questo discorso abbiamo dato
maggior rilievo all’India piutosto che all’Iran e alla Grecia piuttosto che a
Roma, ma – a parte il fatto che cercheremo di ovviare a questa mancanza quanto
prima possibile, ovvero nel prossimo libro dedicato al soggetto (557) – ciò è dovuto alla maggiore
importanza storica da un punto di vista spirituale della cultura indiana o
greca rispetto alla cultura iranica o latina.
Invece, se consideriamo da un lato gli sviluppi d’un passato assai
remoto in tempi antecedenti all’Iran propriamente detto e relativi alla
<Grande Persia> o dall’altro quelli successivi al paganesimo greco-romano,
vale a dire inerenti al mondo latino-cristiano, allora le cose si ribaltano del
tutto. Come abbiamo cercato di
dimostrare, del resto, all’inizio di questo capitolo e nel penultimo.
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