venerdì 16 marzo 2018

IL CRISTIANESIMO E LA CONCEZIONE LINEARE DEL TEMPO






       La concezione moderna e lineare del tempo prende le mosse da un atteggiamento soggettivista insito nel ensoero cstiano dei primi secoli, particolarmente quello agostiniano; ma già nell’Apologetica del II sec. (vedi Apologia di Aristide) si avevano tutte le premesse di un tale sviluppo negativo.  Nel tentativo di difendere il Cristianesimo dagli scismi e dalle eresie, nonché per differenziare polemicamente la nuova religione dal paganesimo antico, essi finirono per immetttere nel loro pensiero nuovo tematiche estranee alla dottrina cristiana originaria.


       Il Cristianesimo dei primi due secoli dell’E.V.. d’altra parte, essendosi sviluppato in seno all’Ebraismo non poteva che riflettere le proprie radici.  Queste radici erano costituite essenzialmente dall Tōrāh e dalle scuole di pensiero ebraiche: gnostica, essena, cabbalistica.  La scuola farisaica e quella saddocita altro non erano che il riflesso exoterico della Cabala (‘Tradizione’) e dell’Essenismo.  Per sua natura la Gnosi ebraica non aveva un punto di vista religioso equivalente se non a grandi linee.  Tuttavia, dopo l’avvento del Cristianesimo s’era creata una Gnosi cristiana e questa va sotto il nome di Gnosticismo.  Sennonché, mentre lo Gnosticismo e l’Essenismo si sono pian piano eclissati storicamente, la Cabala – a causa della propria rimascita in Spagna nel Tardo Medioevo – ha avuto influenza sul pensiero cristiano sino ad epoca moderna, seppur non ufficialmente.  D’altronde Cabalismo, Essenismo e Gnosticismo sono corpi dottrinali sottilmente connessi in quell’epoca culturalmente feconda di idee che precede il travaglio dall’Evo Antico all’Evo Medievale.



       Ora, una certa forma di particolarismo legata ad analoghe tendenze soggettivistiche, era propria invero dello stessso mondo giudaico; ma si ttrattva , in questo caso, appunto di semplici tendenze.  Lo dimostra l’importanza sempre avuta nell’esoterismo ebraismo dalla Merkābāh (il passo biblico, spesso commentato dai Cabalisti, concernente la visione di Ezechiele), ove la speculazione sugli Eoni e la concezione ciclica del tempo sono chiaramente adombrate.  Le Quattro Età sono inoltre presentate in maniera forse meno evidente nella Tōrāh, rispetto ai testi di lingua indoeuropea; ma ciononostante crediamo, di contro all’opinione di Eliade, che esse siano ivi contemlate incontestabilmente – pur se abilmente dissimulate –nella forma vaga di: a)una ‘Prima Età’ paradisiaca, con un regime di vita al diretto contatto colla Natura (Ciclo di Adamo ed Eva); b) un ‘Seconda Età’ post-paradisiaca, con una rudimentale economia a carattere orticolo-pastorale (Ciclo di Caino, Abele e Seth); c) una ‘Terza Età’ pre-civile, con un regime di vita maggiormente complesso (Ciclo di Noè e del Diluvio); d) una ‘Quarta Età’ storica, disorganica e malvagia (Ciclo di Nimrod e della <confusione delle lingue>).



       Al quadro da noi prima delineato delle influenze sul Cristianesimo nascente da parte della Gnosi giudaico-cristiana il Faivre (1) suggerisce giustamente l’ipotesi di possibili interferenze culturali anche ad opera della Gnosi ermetico-alchemica e di 



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quella neoplatonica, entrambe di provenienza ellenica.  A parte questa quadruplice influenza dottrinale, che si può reputare abbia determinato la base concettuale effettiva della religione cristiana, è da ritenere tuttavia che il pensiero neo-testamentario al contatto col mondo greco-romano debba senz’altro essersi appesantito ed immiserito.  Fin dall’età classica infatti ha cominciato a far capolino in codesto mondo quella stessa vena soggettivistica di cui s’è parlato sopra, a proposito del pensiero cristiano; tale aspetto no costituiva – si badi bene – una prerogatova negativa ben localizzabile, bensí – secondo quanto si è già riferito – una tendenza generalizzta diffusa un po’ dovunque all’inizio dell’E.V.  A riprova di qunato da noi sostenuto, si consideri l’esistenza nella cultura greca e latina di due linee di pensiero nettamente divergenti, rappresentate in Grecia da Platone ed Aristotele; a Roma, da Virgilio e Cicerone.  L’una schiettamente intellettuale ed arcaicizzante, vale a dire tradizionale; l’altra razionalista e pre-moderna (o pre-umanista, se vogliamo), insomma antitradizionale.  Il mondo greco-romano, nonostante tale soggettivismo, di cui è sintomo la parziale deformazione epico-storicistica della mitologia indoeuropea, rimaneva pure nelle sue concezioni cosmologiche essenzialmente conforme alle norme postulate dall’antica sapienza mesopotamica; un riepilogo delle quali era stato fornito in greco dalle Babiloniche (Βαβιλονιακά ) del sacerdote ellenistico Beroso (III sec. a.C.), d’origine appunto babilonese.


       È a tale opera del resto che si richiamano apertamente le Naturales Quaestiones (iii. 28, 9) di un Seneca, sorta di summa stoica ad uso della tradizione romana, in cui trattasi tra l’altro del tema dei Diluvi e delle Conflagrazioni.  Ma ciò che riecheggia soprattutto in codesto scritto è il tema del Magnus Annus Platonis (vide Tīm.- xi. 38/b-39/a), già noto a Varrone e a Virgilio (Ver.- Buc.- iv. 5 e 12), nonché a Cicerone medesimo (De nat. deor.- i. 8, 18); se però per i primi due autori è lecito parlare d’una continuità tradizionale regolare, nel caso del terzo trattasi solo della persistenza a livello formale di un motivo letterario già accreditato, di cui sfuggivano ormai i contorni e le vere implicazioni, avendo l’erudizione preso il posto della Conoscenza.  Nel De natura deorum Ciceone mostra infatti un’incomprensione decisiva nei confronti di Eraclito, che giudica troppo oscuro (xvi. 74) e del simbolismo teriomorfico, laddove si fa beffe della forma taurina di Zeus nella leggenda del ratto di Europa, e di altri aspetti in apparenza animaleschi o troppo umanizzati nella rappresentazione della Divinità.  In ciò e nell’idea della religio quale instrumentum regni – sia pure nel senso meno peggiore dell’espressione – si può persino dire ch’egli prefiguri certi atteggiamenti cristiani nei confronti del paganesimo morente; una comprensione della simbologia astrale pare del tutto al di fuori della sua portata e questo lo



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accomuna paradossalmente ad Agostino d’Ippona, in una funzione inconsapevolmente antitradizionale, seppur ammantata della veste formale della tradizione (vedi i suoi attacchi, assolutamente sacrosanti, alle teorie eppicuree).  Tornando a Seneca, è opportuno precisare che l’ispirazione berosiana dell’autore è da concepirsi quale ‘ritorno alla fonte’, non già come passiva eredità delle tradizioni vicino orientali.  Si deve in tal senso rammentare che la dottrina ciclica era presente nel mondo celtico-italico da tempo immemorabile, permeandolo fin dalle sue oscure origini (in tempi protostorici), come prova la perfetta analogia tra il simbolismo cosmologico appartenente a codesta area culturale e quello di altre aree indoeuropee, particolarmente l’egea e l’indo-iranica.  Anche la sapienza ebraica attraverso Abramo si era abbeverata a fonte mesopotamica, che costituiva cosí il punto fondamentale di convergenza tra la cultura aria e quella anaria.  Siffatta concezione ciclica della storia era insomma largamente diffusa presso una vasta ecumene.


       Il gr. ἱ-στο-ρί-α d’altronde deriva dalla √st-, indicante ‘essenza, stabilità’, preceduta da una i- protetica e da un suff. –r, denotante ‘flusso, scorrimento’; sicché il suo preciso significato potrebbe tradursi con il ‘flusso delle cose’ (lett. dell’essere o degli enti), sottintendendo in tal modo un εἴδω (√wd = ‘vedere, conoscere, sapere’).  Donde si spiegano il vocabolo στορ con l’uso attributivo di ‘che sa, esperto’ (del flusso delle cose) e l’accezione di στορία (lat. historia) come ‘conoscenza, indagine storica’.  Ma, indipendentente dalle sue origini (evidentemente assai remote) e dall’appartenenza simultanea al mondo indoeuropeo o semito-camitico (si rammenti al riguardo la convergenza di tematiche astrali nella glittica paleondiana ed in quella sumerica, precipuamente rilevata da Asko Parpola in The Sky-Garment), codesta concezione ciclica è senza dubbio patrimonio tradizionale comune di altri popoli e di altre culture, tanto che è possibile rintracciarla sorprendentemente pure tra i Cinesi e gli Amerindi.  E se è vero che essa era condivisa unanimemente nell’antichità da Eleatici, Pitagorici, Orfici, Neoplatonici, Stoici, Alchimisti, Cabalisti, Gnostici – senza nominare gli iniziati di moltre altre scuole misteriche, che costituivano insieme agli altri tutto il meglio dell’intellettualità pre-cristiana – vi sarà pur stata una seria ragione, a meno di voler considerare tutti costoro soltanto degl’ingenui…

       Ma, possiamo domandarci, che credito avrebbero potuto acquistare i Cristiani se non avessero anche loro condiviso assieme ai tanti tale universale concezione?  Come avrebbero potuto altrimenti riuscire a far proseliti tra le menti piú elevate dell’epoca?  È perciò assolutamente inaccettabile l’interpretazione critica del Cullmann (2), studioso contempraneo di marca protestante, nella pretesa di distinguere il senso della terminologia greca neotestametaria rispetto a quello di 



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uso corrente al tempo della composizione di tali Scritture.  Quest’impiego convenzionale del vocabolario è di stampo del tutto moderno.  Ma se pur è vero che certi termini possano modificare parzialmente il loro significato originario, ciò accade sempre solo entro determinati limiti rigorosamente imposti dalla natura stessa delle parole, mai arbitrariamente; e il cambiamento in atto avviene immancabilmente per sovrapposizione al significato ordinario d’una nuova accezione, tendente a corrompere la vecchia per incomprensione della medesima, non a causa di una sensibilità rinnovata.  Ché altrimenti si conierebbero nuovi verbi e vocaboli, come avviene tutt’oggi in modo spudorato allorquando sono impiegati termini provenienti da altre lingue in luogo di piú imprecisi, o semplicemente meno esotici, termini quotidiani.  A nostro giudizio, diversamente da quanto ritiene il Cullmann, neppure i Cristiani discordarono in principio dall’universale Tradizione.

       Cfr. in Mt.- xxiv. 3 l’impiego della voce αἰών, spesso alterata nelle traduzioni popolari; inoltre l’applicazione del simbolismo settenario nell’Apocalisse, ove per ‘Sigilli’ debbono esssere intese allegoricamente le Potenze planetarie (gli Arconti della Gnosi).  Anche i Padri della Chiesa, da Clemente ad Origene, accettavano pur con riserve la dottrina degli Eoni.  Essa doveva essere davvero radicata nel Cristianesimo pimiivo, giacché il Cristo è chiamato nel N.T. (I Tim.- i. 17) Βασιλεύς τῶν αἰώνων, similmente allo Śiva hindu, il quale riceve nel Mhhb. (Anuśāsana P.- xvii. 77/b) l’appellativo di ‘Reggitore degli Yuga’ (Yugavaha).  La suddetta simbologia è strutturale per Mahādeva, non elogiativa, poiché nello stesso verso è definito ‘Signore dello Yoga’ (Yoga yogeśvara) ed  ‘Origine dl Passato, del Presente e del Futuro’ (Bhutabhavyabhodbhavam).  L’analogia fonetica fra Yoga e Yuga si spiega col fatto che i due termini sono in sanscrito strettamente apparentati, dal momento che uno yuga non è che un ciclo di congiunzioni (yoga) astrali; le quali vengono, in tal modo, a simboleggiare l’Unità Divina e la pratica di meditazione atta la raggiungimento dell’Unione (Yoga) coll’Assoluto.  Anche il Cristo, d’altronde, è presentato nei Vangeli come ‘Alpha’ ed ‘Omega’, ovvero come la Via e la Vita, cioè Metodo e Meta.  Codesto simbolismo non è in fondo diverso da quello dell’Egitto ellenistico che divinizzava l’Αἰών, o da quello orfico del Χρόνος Αἰών; ed il fatto che non fosse compreso da Agostino, vissuto in quei momenti di travaglio che furono la fine del IV e l’inizio del V sec. d.C. – colla retorica messa fuori legge e condanna dei pagani – ebbe notevoli ripercussioni negative su tutto lo sviluppo seguente del Cristianesimo.

       Eppure, per citare lo Heiler (3), la speculazione sugli Eoni oltre ad aver avuto uno spazio notevole nello Gnosticismo era sopravvisssuta nella liturgia della Chiesa tramite l’espressione νῦν καί εί εἰς τούς αἰῶνας τῶν αἰώνων, vale a dire






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(sicut erat in principio et) nunc et semper et in saecula saeculorum.  Tant'è che ancora nel III sec. Ippolito in una sua cronaca fissava la durata del mondo a 6000 anni (4).  Ma Agostino non comprese il valore reale della dottrina sugli Eoni, gli riusciva difficile pensare a moteplici Incarnazioni del Verbo.  (In India, invece, la dottrina avatarica le postula.)  E nel suo De Civitate Dei contra paganos confuterà aspramente la dottrina del Grande Anno, dedicando a tale questione un intero capitolo.  La teoria agostiniana della storia, rimasta dominante nel mondo occidentale per tutti i secoli a venire sino alle soglie del mondo contemporaneo, giudicava gli avvenimenti del passato in funzione cristiana, concependo l’Incarnazione quale apogeo di tutta la vicenda umana ed unico avvenimento degno di nota dal ‘Peccato di Adamo’ in poi.  Respingendo il mito del perpetuo ritorno, suddivise arbitrariamente la storia in sei epoche, senza accorgersi che anche la Bibbia contemplava le suddivisioni cicliche, per quanto mascherate dalla leggenda.  Non fu difficile pertanto alla scuola antropologica della fine del XIX secolo, forte del suo metodo razionale di stampo neo-illuminista, demolire questa visione degli eventi protraentesi da secoli, per sostituire ad essa una visione della storia completamente secolarizzata, ossia banalmente linearizzata.  Col che il “magnus… saeclorum ordo” della IV Ecloga virgiliana  risultava seppellito per sempre, in attesa di finire in pasto agli storici della letteratura, completamente svitaliazzato; gli sarebbe subentrato piú modestamente, di lí a poco, il C-14…



                                                   Giuseppe Acerbi





Note

(1)       Per gli aspetti esclusivamente exoterici del problema cui abbiamo sopra accennato vedi M. Simonetti, Letteratura cristiana greca e latina- Sansoni-Accademia, Firenze 1969, P.I, Capp. II e III sgg, pp. 31-53 e V-IX sgg, pp. 57-175; inoltre P.II, Cap.XX sgg, pp. 360-78.  Circa gli aspetti esoterici connessi è invece opportuno rifarsi a G. Scholem, La Cabala- Mediterranee, Roma 1982, P.I, Cap.I sgg e II, pp. 16-30, inoltre P.II, Cap.XVI, pp. 375-8 (ed.or. Kabbalah- Keter, Gerusalemme 1974).  Egli mette chiaramente in luce come i Cabalisti negassero ogni sviluppo di tipo storicistico alla loro tradizione (ibid., p.13).  Un cenno oltremodo sintetico alla comunanza di idee fra testi esseni e neotestamentari in A, George & P. Grelot, Introduzione al nuovo testamento- Borla, Roma 1980, Vol.I, P.II, pp. 152-4, pur con qualche necessaria distinzione.  Il saggio disegna un panorama generale della situazione storico-religiosa all’inizio dell’era cristiana, confrontando la cultura ellenistica e romano-imperiale con quella giudaica.  Cfr. pure A. Rolla, Rapporti fra Q. e N.T., in AA.VV., Enciclopedia delle Religioni- Vallecchi, Firenze 1970, Vol.V, s.v. Qumrān, §6, pp. 169-76.  Altri 



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spunti assai interessanti riguardo la nostra questione ci provengono ancora, nonostante qualche sua sterile onterpretazione junghiana, da A. Faivre, L’esoterismo cristiano dal XVI al XX secolo; apud H.C. Puech, Storia delle religioni, Vol.12, Laterza, Bari 1977, pp. 82-5.  Questi sottolinea senza mezzi termini come le principali Chiese cristiane durante le loro storia abbiano sempre teso da sempre a negare l’esistenza di un esoterismo in seno al Cristianesimo primitivo, ciò che spiega la diffidenza con cui esse hanno in genere considerato gli scritti di alcuni Padri apostolici quali Clemente Alessandrino e Origene.  È tuttavia legittimo – continua di seguito l’autore – affermare che il ruolo dell’elemento esoterico fosse molto importante prima dell’avvento di Costantino, cioè fino al 312 (il corsivo è nostro).”  In tale periodo ad Alessandria (punto d’incontro geografico fra la cultura ebraica, greca ed egiziana) si sarebbe dunque sviluppato a suo dire un esoterismo cristiano.  Difatti – nota ulteriormente il Faivre – la tradizione cristiana d’Oriente, non vessata mai nella sua storia dalla Scolastica né dalla Riforma, avrebbe serbato nella propria struttura ufficiale una dottrina  in cui esoterismo ed exoterismo si sarebbero fusi costantemente, senza traumi per le rispettive parti.

(2)       O. Cullmann, Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo- Il Mulino, Bologna 1965, P.I, Capp I-V sgg, pp. 59-119; ed.or. Christus und die Zeit- Zurigo 1962, I ed. 1946.

(3)       F. Heiler, Le religioni dell’umanità- Jaca B., Milano 1985, P:I, Cap.IV, p.170 (ed.or. Ersheinungsformen und Wesen der Religion- W. Kohlhammer, Stoccarda 1961).

(4)       Sim., op.cit., p.90.





 

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