Note
al Cap.IV
1) Her., op.cit., Cap.IV, §III, p.423.
2) Op.cit.
3) Cit.
4) Tal Segno deriva dalla combinazione
della Capra, vecchio emblema d’uno Zodiaco ottonario dimenticato (di cui è
traccia in numerose tradizioni, ad. es. quella dravidica, ma anche quella
greca), e dei Pesci. Da parte nostra
riteniamo che tale Zodiaco Solare pre-duodenario (a volte iconograficamente
raddoppiato in 16), della durata di 45° per ciascun Segno, sia stato coniato
sulla base del culto del Settenario planetario con l’aggiunta dei 2 Nodi e che
fosse in auge in una terra oltreatlantica durante il Tardo Paleolitico. Sebbene, di sicuro, gli animali simbolici
siano mutati nel passaggio da un ciclo all’altro. Un culto del genere – attestato
iconograficamente dal Sūryamaṇḍala ovvero dal Rāsamaṇḍala – esiste ancora in India e, guardacaso, proprio in
relazione al ciclo che crediamo l’abbia inventato; cioè l’VIII Ciclo Avatarico
(presieduto da Kṛṣṇa Gopāla), cominciato
nel 17.440 a.C. e finito nel 10.960.
Cfr. Ac., op.cit., p.587,
figg. 144-5 e p.612, figg. 336-7. In
effetti, se analizziamo in dettaglio il nostro Zodiaco a 12 Segni di
derivazione greco-romana, ci accorgiamo che soltanto 8 di essi utilizzano
emblemi teriomorfici; gli altri 4 (Gemelli, Vergine, Bilancia, Aquario) sono
contrassegnati da simboli di natura antropomorfica oppure da un utensile che
rimanda a tale natura. L’antropomorfsmo
è sempre un fattore secondario rispetto al teriomorfismo. In quanto alla Bilancia, però vi è da
aggiungere che molto probabilmente questo Segno era indicato una volta dal
Cavallo, come avviene ancor oggi nell’oroscopo cinese, dove il Cavallo precede
la Capra; mentre il Sagittario (l’Uomo-cavallo) non esisteva, esattamente come
l’Aquario, i Gemelli e la Vergine. In
altre parole, si aveva una sequenza di questo tipo: 1) Topo (che ritroviamo in
Grecia, oltreché nello Zodiaco Gioviano cinese, quale veicolo di Apollo
Sminteo), dall’^ a metà del _; 2) Toro
(sostituito in Cina dal Bufalo), dall’altra metà del _ ai ` e cosí via; ossia
3) Granchio o Polpo (la Lepre od il Gatto dei Cinesi), dal a a metà b; 4) Leone
(il Drago cinese, forse in origine il Giaguaro amerindo pensando ad una
provenienza oltreatlantica della tematica zodiacale) da metà b alla c; 5) Cavallo,
dalla d a metà e; 6)
Capra, da metà e al f; 7) Gallo
(in Grecia veicolo di Marte), dal g a metà h; 8) Maiale o
Cinghiale (anticamente forse veniva sacrificato col Tridente del dio oceanico,
al modo dell’Estremo Oriente, quindi richiamava alla fine del ciclo), da metà h ai i. Da ciò si deduce che nello Zodiaco Solare
duodenario mesolitico siano stati aggiunti 4 Segni, appunto: Gemelli, Vergine,
Sagittario e Aquario. Oltretutto
cambiando l’emblema del Cavallo in quello della Bilancia e ponendo doppio
domicilio planetario, diurno e notturno, per ogni Segno. Le esaltazioni e le cadute, da sempre il
grande problema interpretativo degli astrologi, si spiegano invece col fatto
che il vetusto Zodiaco Solare ottonario dotato di Segni pan-zoomorfici poggiava
su di esse. Ad es., il Topo
corrispondeva evidentemente all’esaltazione del Sole, mentre il Toro era il
luogo d’esaltazione della Luna. Pure
negli altri Segni si rintraccia lo stesso meccanismo astrale: il Granchio o
Polpo (quale espressione della forza centrifuga per via delle loro gambe, chele
o tentacoli) era l’esaltazione di Giove; il Leone di Mercurio (in seguito
passato alla c, ma gli astrologi hanno sempre messo in dubbio se
non addirittura contestato questo fatto, dato che la c possiede già
il domicilio notturno del pianeta); il Cavallo di Saturno (espressione della
forza centripeta); la Capra dei Nodi Lunari (uno affine a Giove, l’altro a
Saturno); il Gallo di Marte ed il Maiale o il Cinghiale di Venere. Cfr. pure
Cap.III, n.57.
5) Padre Heras in un suo vecchio lavoro
(H.Heras, Indological Studies-
Promilla & C., Bombay 1990, Cap.III, pp. 24-43; ed.or. Mohenjo Daro. The people and the Land- I.C. (Vol.III, apr., N°4),
Calcutta 1937, pp.707-20) sosteneva sulla base delle iscrizioni pittografiche
reperibili a Mohenjo Daro che il Sid (di poi il Sindhu), cioè l’India pre-aria, era suddivisa in 4 principali
regioni; coincidenti piú o meno con altrettante zone culturali, abitate da
4 distinte popolazioni. Queste sarebbero
state denominate, secondo il gesuita spagnolo: Mīna (aventi per
emblema l’Unicorno), Parava (in
realtà una sezione dei primi esercitante la pesca e ripartita in 2 grandi tribú, una
caratterizzata da culti di tipo lunare e l’altra da rituali di tipo
solare), Velāḷa (cultori del Liṅga e del Triśūla), od altrimenti (una quarta categoria non ben definita
nelle iscrizioni).
6) G.Oppert, The Original Inhabitants of Bharatavarsha or India- Unity B.S.,
N.Delhi 1986, P.I, CC. IV-VI sgg.
7) L’Oppert (Opp., op.cit., Cap.IV, §3 n.num, pp. 34-5) ha creduto di riconoscere nel
termine Brahui, d’origine sicuramente
recente, una variante filologica della designazione con cui venivano chiamati
anticamente i Drāviḍa (vide ibid., p.50). Cfr. i termini Pārata e Pārada, mediante i
quali sono individuati ancor oggi gli abitanti della Paradénē d’ellenica memoria (Ptol., Tetr.- vi. 21, 4), vale a dire la popolazione autoctona del
Belucistan Nordorientale. E l’assonanza
pure della voce indicata (Brahui >
*Barahui) col nome dei Beluci, gli
abitanti dell’intera regione, potrebbe indicare – suggerisce con acume l’Oppert
(Opp., p.35, n.30) – una denominazione parallela ed alternativa, oltreché
conessa nell’etimo, rispetto a quella precedente.
8) La supremazia passata dei Bhār, una volta
dominatori d’un ampia area dell’India, e
conosciuti dai Greci come Bārrhai, avrebbe lasciato traccia secondo l’Oppert (op.cit., §4, n.num., pp. 39-40) in
un’ampia fascia di territorio. Tanto che
regioni quali il Bihar, o città come Bārānasī (Benares)
paiono aver tratto la denominazione da essi (ibid., p.41).
9) Cit.,
Cap.VI, §5 n.num., p.101.
10) §3 n.num., pp. 97-8.
11) Sarebbe un errore, secondo Oppert, far
derivare il termine Pariah da parai/ para (‘tamburo’); parimenti il nome dei Caṇḍāla non
proverrebbe assolutamente dal liuto (kaṇḍola-vīnā), bensí da altra
fonte. Vide infra. È opinione del N. che i Pariah siano, insieme a tutte le tribú e alle dinastie nominate, i discendenti
degradati degli antichi possessori del suolo indiano. Tra gl’indigeni però l’autore individua una
componente ch’egli definisce – Intr., Cap.I, §4 (n.num.) sgg – “gaudiana”, di cui i Kuru
(gli strenui avversari bellici dei Pāṇḍu) ed i Caṇḍāla testé citati sarebbero la piú tipica esemplificazione; di contro ad
un’altra ad essa sostanzialmente affine ma comunque distinta, chiamata
“dravidiana”, in cui rientrerebbeo oltre ai Pariah
sopraddetti i Parava ecc. La distinzione considerata si baserebbe
infatti sul presupposto che entrambe le categorie da lui sommariamente
delineate sarebbero state denominate dagli stranieri invasori (Ārya)
‘Uomini-delle colline’ o ‘Uomini dei
monti’, essendosi gli autoctoni di fonte all’invasione delle loro terre
rifugiati nelle selve e soprattutto sulle alture. L’Oppert suppone cioè che i nomi delle tribú del primo gruppo – di tipo gaudiano (Kaurava, Caṇḍāla)
– siano da ricollegare nell’etimo a voci provenienti da lingue anarie, quali ko/ kuṛu (‘monte,
collina’); mentre quelli del secondo gruppo – di tipo dravidiano – (Pariah,
Malla) proverrebbero da sinonimi,
come par/ paRai (id.) e mala/ malai (id.).
Da codeste due serie parallele di vocaboli sarebbe, insomma, disceso
tutto un intero lessico costituito da appellativi tribali e dinastici
corrispondenti. È superfluo rilevare
come tale congettura, espressa dall’Oppert alla fine dell’Ottocento, essendo
vecchia d’un secolo o poco oltre risulti oltremodo datata. Sappiamo oggidí
distinguere piú acconciamente la componente etnolinguistica dravidica da
quella cosiddetta turanica o austrica (in tal caso parrebbe di essere di fonte
alla prima), anche se non sempre i due fattori – l’ethnos e la lingua –
coincidono nell’analisi antropologica effettiva. Eppure, qualcosa di giusto ci deve pur essere nella tesi su
esposta. Se è vero –come ci pare – che
essa spiega in modo mirabile determinate commistioni tra le due etnie
altrimenti inesplicabili. Potremmo
suggerire tuttavia da parte nostra che la √kṛ/ -ḷ-, della serie gaudiana, debba essere intesa nell’accezione
di ‘nero, scuro; celeste, blu’ (derivata a propria volta da voci designanti in
principio il Cielo notturno e l’oscura Terra); piuttosto che non in quella di
‘monte, collina’, senza dubbio un’applicazione secondaria del medesimo
significato. Segnaliamo inoltre come
nelle lingue indoeuropee siano presenti alcuni termini rimasti etimologicamente
inspiegati o spiegati con difficoltà attraverso degli artficiosi dibattiti
filologici di sapore un po’ troppo accademico – vedi il scr. kāl-a (‘nero, scuro; blu’), il gr. kel-ai-nós (‘nero, scuro’) od il lat. cael-ēst-is
(‘celeste, blu’) – che sono, di certo, il deposito linguistico anario d’un
antecedente sostrato indomediterraneo; potremmo forse ritenere questo sostrato
pre-indoeuropeo d’origine pelasgo-dravidica, vale a dire camitica. Ricordiamo ancora che la √mṛ/
-ḷ-
della serie dravidiana, con nasale iniziale e liquida nel tema (Mal-la, Mal-lar), è probabilmente una variante della radice precedente, dato
che il scr. nīl-a (‘nero, scuro; blu, azzurro’)
cosiccome il gr. mel-as (‘nero’) ed
il lat. nig-er (id.), hanno un senso
affine rispettivamente a quello degli equivalenti attributi del sostrato
indoeuropeo ritenuto alla base della serie gaudiana. Da notare in ultimo che in una lingua
dravidica, il telugu, il vocabolo pal-la/
pul-la (ibid., §2 n.num., p.6, n.4) – connesso ai termini della serie
dravidiana con labiale iniziale (Parava, Pārata, Pāṇḍava) –
possiede invece il significato di ‘rosso, rossastro’, in ciò richiamando forse
il gr. phoin-ós (id.). Ma si deve considerare pure, per capire sino
in fondo il senso vero e primario della √pṛ/ -ḷ-, anche un supposto a.m. *pel-as; variante pre-ellenica del gr. mel-as, poi scomparsa nel
greco classico. Crediamo che tale
aggettivo, se mai sia esistito, abbia avuto l’accezione delle sue varianti
posteriori (mel-as e kelain-ós); quale troviamo, difatti,
nella denominazione del popolo che ha abitato l’Egeo e Creta in tempi
pre-achei. Ossia i Pelasgi (Pelasgoí),
che Pausania (Perieg.- iv. 3. 6)
identifica ai Mini (Minýai), per i
quali vide supra.
12) Cap.IV, §2 (n.num.) sgg.
13) Pp. 32-3.
14) Pp. 33-5, n.29.
15) Le tribú indigene si sarebbero schierate in tal modo, a
fianco dei contendenti: i Sindhu
(abitanti della regione dell’Indo), i Sauvīra, parte dei Matsya
(o Mīna) e dei Kekaya, gli Ambaṣṭha, i Traigartta, i Katava et al. con i Kuruidi o Dhritarashtridi; mentre i Karūṣa, i Kāśī, i Kośala, l’altra
parte dei Matsya e dei Kekaya, i Cedi et c. con i
Panduidi.
16) È dichiarato
nel Mhbh., Adip.- ii. 13 che la mitica guerra fra gli eroi del poema avrebbe
preso corpo, nell’ambito della cronologia ciclica, alla fine del Dvāparayuga.
17) In base ai principi indú il prospetto
generale delle Razze (Vaṁśa) si
rivela immancabilmente correlato alla distribuzione ciclica (vedi Caturyuga e Mahāyuga)
delle Generazioni umane (Manuṣya-jana) e divine (Deva-jana), delle Ecumeni (Dvīpa), dei Colori (Varṇa) e dei
Temperamenti (Prakṛti); oltreché delle Direzioni (Diś)
e dei 10 Cicli Avatarici (Daśāvatāra-yuga, cioè
le 10 suddivisioni interne d’ogni singolo
Manvantara). Estrapolando i dati da
fonti eterogenee, non esclusivamente induiste, in base allo schema quinario dei
Grandi Elementi (Mahābhūta) – ivi
raddoppiato e trasformato in denario – inerente a tutte le categorie succitate
è possibile determinare il seguente schema: 1)
Elem.: Etere (Ākāśa) >
Raz.: Bianca (Śukla) >
Col.: Oche Selvatiche alias
Sovracasta primordiale (Haṁsa) > Car.:
Equilibrato > Gen.um.: Veggenti uranici (Ṛṣi) > Gen.div.: Geni Stellari (Gandharva) > Ecu.: Terra Nascosta (Ilāvṛta)
> Dir.: Polo N (Sumeru) >
C.Av.: Pesce (Matsya); 2) Elem.:
Etere-Aria (Ākāśa-Vāyu)
> Raz.: Bianco-gialla (Śukla-Pīta) > Col.: Sovracasta semi-sacerdotale (Haṁsa-Brāhmaṇa), Car.:
Equilibrato-nervoso > Gen.um.: Veggenti demonici (Ṛṣi-Asura) >
Gen.div.: Geni Stellari demonici (Gandharva-Asura)
> Ecu.: Ramyaka o Ramaṇyaka > Dir.:
NE (Uttarā-Pūrvavā)
> C.Av.: Tartaruga (Kūrma); 3) Elem.: Aria (Vāyu) > Raz.:
Gialla (Pīta) > Col.: Sacerdoti (Brāhmaṇa) > Car.: Nervoso > Gen.um.: Antenati
Cieli-solari o Superiori (Asura) >
Gen.div.: Demoni Atmosferici (Asura)
> Ecu.: Pūrva Videha > Dir.: E (Pūrvavā)
> C.Av.: Cinghiale (Varāha); 4) Elem.: Aria-Fuoco (Vāyu-Agni)
> Raz.: Giallo-nera (Pīta-kṛṣṇa)
> Col.: Re-sacerdoti (Brāhmaṇa-Rājanya) >
Car.: Nervoso-focoso > Gen.um.: Antenati asurici (Asura-Pitṛ) >
Gen.div.: Demoni atmosferico-terreni (Asura-Rākṣasa) > Ecu.: Hiraṇmaya o Hiraṇyaka > Dir.: SE (Pūrvavā-Dakṣinā) > C.Av.: Uomo-leone (Narasiṁha); 5)
Elem.: Fuoco (Agni) > Raz.: Nera (Kṛṣṇa) > Col.: Re (Rājanya) > Car.: Focoso > Gen.um.: Antenati Cieli-lunari
o Inferiori (Pitṛ) > Gen.div.: Demoni Terreni (Rākṣasa) >
Ecu.: Australe (Bhārata)
> Dir.: S (Dakṣinā)
> C.Av.: Nano (Vāmana); 6) Elem.: Fuoco-Acqua (Agni-Āp)
> Raz.: Nero-Rossa (Kṛṣṇa-Rakta) > Car.: Focoso-bilioso > Col.: > Re-pastori (Rājanya-gopāla) > Gen.um.:
Guerrieri-fabbri > Gen.div.: Rākṣasa-deva > Ecu.: Orecchio
della Vacca (Gokarṇa) > Dir.: Polo S (Kumeru) > C.Av.: Rama-dell’Ascia (Paraśurāma); 7) Elem.: Acqua (Āp) > Raz.: Rossa > Col.: Produttori
(Vaiśya) > Car.: Bilioso > Gen.um.: Eroi-titanici (Daitya-ārya)
> Gen.div.: Semidei (Deva) > Ecu.:
Sudoccidentale (Hari) > Dir.: SO (Dakṣinā-Paścimā) > C.Av.: Rama-della-Luna (Rāmacandra); 8) Elem.:
Acqua-Terra (Āp-Bhūmi)
> Raz.: Rosso-bruna (Rakta-Babhru)
> Col.: Produttori-servi (Vaiśya-Śūdra) > Car.:
Bilioso-Flemmatico> Gen.um.: Eroi divini (Deva-ārya-)
> Gen.div.: Dei paleo-zodiacali (Deva) > Ecu.: Ketumāla
o Apara-godanīyā > Dir.: O (Paścimā) C.Av.: Balarāma o Kṛṣṇa
Gopāla; 9) Elem.: Terra (Bhūmi) > Raz.:
Bruna (Babhru) > Col.: Servi (Śūdra)
> Car.: Flemmatico > Gen.um.: Eroi umani (Ārya-manuṣa) > Gen.div.: Dei (Deva) > Ecu.: Nordoccidentale (Kiṁpuruṣa >
C.Av.: Kṛṣṇa-Jagannāth o Budha; 10) Elem.: Terra-Etere (Bhūmi-Ākāśa) > Raz.: Bruno-bianca (Babhru-Śukla)> Col.: Fuoricasta (Śūdra-Haṁsa) > Car.: Flemmatico-Equilibrato
> Gen.um.: Uomini (Manuṣa) > Gen.div.: Signori dei Nakṣatra
(Nāga-d eva) > Ecu.: Terra Boreale (Uttarākuru) > C.Av.: Uomo su Cavallo
Bianco (Kalki).
18) Vide
n.prec., punto 2.
19) Cfr. G. Acerbi, Varuna, nume aureo dominatore del Quartiere Orientale- Alle pendici
del Monte Meru (blog, 2-12-17), passim.
20) L’epoca della lotta di Śiva contro gli Asura non è facile da individuare, a
meno d’intendere per essa l’Epoca del Toro (paletnologicamente il Neolitico),
in relazione a cui Śiva viene dipinto con lo Mṛga (Mṛgaśiras = Orione) in
mano capeggiando una schiera fronteggiante Yama,
il quale guida un esercito contrapposto reggendo lo Scorpione per
vessillo. Cfr. in proposito G.Jouveau-Dubreuil (trad. da A.C. Martin), Iconography of Southern India-
Bharat-Bharati, Vanarasi 1958, tav.5.
21) Ciò conferma che fosse l’Epoca del Toro
o dell’Ariete, quando le Pleiadi trovavansi al P.V. Quindi ne dedurremo che i Parava si sono formati tribalmente in
Epoca Orionica e Pleiadica. Insomma,
all’inizio del X Ciclo Avatarico, sebbene il nucleo maggiormente antico
(turanico) provenisse da epoca preistorica assai lontana. Questo ceppo deve essersi fuso all’inizio
del Neolitico con quello dravidico, mossosi per cause diluviali.
22) Letteralmente essi dichiarano alla fine
dello scorso Kalpa, ma riteniamo
ovviamente si debba intendere questo termine in tale contesto nel semplice
senso di Yuga.
23) S. Chitty, Remarks on the Origin and History of the Paravas- J.R.A.S. (G.B.
& I.), Vol.IV, Londra 1837, pp. 130-1.
24) Chi., art.cit., p.131.
25) Cfr. in proposto Vet., op.cit., s.v.DVĀRAKĀ, §§ 1, 2 e
4, p.266/ coll.a-b. 26) Tale Kṛṣṇa non è però
quello identficabile al fratello Balarāma (rispettivamente il settimo e l’ottavo figlio di Devakī), insomma l’VIII Avatāra; ossia il
pargoletto adottato dai genitori adottivi Nanda
e Yaśodā, presso la Yamuna, e sfuggito miracolosamente alla
‘Strage degl’Innocenti’ operata da Kaṁsa, il tirannico zio di Mathurā (simbolo del Kālacakra, che tutto travolge inesoraboilmente). Colui il quale, divenuto adolescente e
stabilitosi nel Vṛndāvana (distr. di Mathurā), verrà celebrato dalla pittura rājput
nella sua veste zafferano come il celeste amante delle giovani
<Pastorelle> (Gopī); che
salverà di poi i <Pastori> a lui devoti e le loro <Vacche> dal
Diluvio provocato da Indra,
sollevando prodigiosamente con un braccio il Monte Govardhana per ripararli dalle piogge incessanti. Di codesto Buon Gopāla (‘Pastore di
Vacche’), di stirpe yādava e figlio di Ugrasena,
vengono celebrate le gesta giovanili nello Harivaṁśa e nel Viṣṇu Purāna. Nel caso del guru dei Pāṇḍava abbiamo invece a che fare con un piú recente
allotipo del deva, rapportabile da
una parte a Jagannātha o a Budha
in fnzione di IX Avatāra; e dall’altra a Kṛṣṇa Dvaipāyana, il figlio illegittimo di Satyavatī del quale il Kṛṣṇa auriga e maestro di Arjuna è a nostro avviso un
alter-ego. O meglio, viceversa. Giacché in verità è Vyāsa, l’autore
del Mahābhārata, a
costituire un doppione letterario nei panni di trasmettitore epico della
Tradizione del personaggio avatarico omonimo.
Il collegamento fra le vicende dell’VIII e del IX Avatāra ci è fornito
ad ogni modo dal mito di Jarāsandha, cognato di Kaṁsa – lo ‘Zio Malefico’ di Kṛṣṇa – sovrano
del Magadha; il quale per via della sua ostilità nei confronti del figlio di Vasudeva aveva costretto questi e gli Yadava a ritirarsi in un luogo lontano,
fuori dalla sua giurisdizione, cioè a Dvārakā.
27) Art.cit.,
pp. 131-2.
28) Ibid.
come alla 24. I Parava, dichiara il Chitty (ib.,
p.130), sarebbero stati i primi navigatori dell’Oceano Indiano, nell’ambito del
quale avrebbero esercitato il mestiere di pescatori; abitanti della costa
oceanica, essi sarebbero stati noti piú tardi nella letteratura sanscrita come Paraśava o Niṣāda (su costoro vide
n.29). Il loro ruolo viene paragonato
dall’autore a quello dei Fenici nel Mediterraneo, ma questi ultimi erano dei
semplici commercianti di ceppo semitico (secondo alcuni, con buone
argomentazoni, camitico); piuttosto, sarebbe forse maggiormente calzante
tracciare un parallelo, anche etimologico, tra i Parava ed i Pelasgi – essendo entrambi secondo noi di stirpe
camitica – ovvero gli abitatori del Mar Egeo prima dell’arrivo degli Elleni.
29) Il scr. dāsa o dāśa si ricollega
al ved. Dasyu, designante nel Ṛgveda i nemici degli Ārya, ossia gli Anārya, dalla pelle
scura e dal naso camuso. Osservano gli
Stutley (St., op.cit., s.v. DĀSA o DASYU,
pp. 10-2) che tal etnia indigena, la quale mostravasi recalcitrante ad
accettare il culto vedico dei Deva,
fu dapprima schiavizzata, donde è derivato l’uso tardomedievale in hindi del das nel senso di ‘servo’; ma che poi in
un modo o nell’altro le stesse popolazioni finirono per essere integrate, che
piú chi meno,
nel grande alveo dell’Induismo.
Interessante è, peraltro, l’impiego fra gli Zingari (ibid., p.101/ col.b, n.1) dell’autodefinizione di Das;
dal momento che, è risaputo, gli Zingari non sono che gli eredi – dispersi in
Occidente – di quegli antichi abitanti del Sind (una delle regioni
adiacenti alla Valle dell’Indo) i quali combatterono contro gl’invasori ari.
30) Secondo i testi pali (B.Ch. Law, Tribes in Ancient India- Bh. O.R.I.,
Poona 1973, Cap.XXV, pp. 98-9) i Niṣāda
sarebbero stati una tribú selvaggia di cacciatori e pescatori, dislocati in
zone montane o costiere. Altri (St., op.cit., s.v.NIṢĀDA, pp. 308-9) affermano, da parte loro, che i Niṣāda sarebbero australoidi
appartenenti al gruppo protoaustraloide; sospinti verso le montagne e le
foreste dall’occupazione del suolo indiano da parte dei Dravidi, una
popolazione ritenuta in genere paleomediterranea (camitica ed affine a quella
protolibica secondo Padre Heras). Tale
diaspora verso le zone piú remote del
paese sarebbe stata inoltre intensificata, ci è suggerito dagli autori, dalla
successiva venuta delle genti arie. Da
notare che dei Niṣāda, dei Caṇḍāla e di altre tribú, oggi
scese all’infimo gradino della scala sociale, è fatta menzione nel Mhbh., Śāntip.-
xxxcvii. 8-9 come di tribú miste di kṣatriya. Ciò
confermerebbe a nostro giudizio sia la parziale origine protoaustraloide dei Niṣāda, il Sud
essendo la sede elettiva del varna
degli Kṣatriya (o, per meglio dire, dei Rājanya); sia la
mescolanza razziale dei medesimi con un altro ordine castale, non meglio
definito nel testo citato. La stretta
affinità etnica tra i soggetti negroidi del gruppo veddoide ed i soggetti
altrettanto melanoidi di carnagione (ma razziamente commisti a dei ceppi di
proveneienza paleomediterranea) del gruppo dravidico – che abbiamo sopra
genericamente ritenuto camitico, sulla scorta de Padre gesuita – ha prodotto,
invero, nella terminologia indologica una certa confusione; che è tuttavia
possibile evitare richiamandoci ancora una volta alle due componenti, l’una
gaudiana e l’altra dravidiana, rievate dall’Oppert in riferimento alle popolazioni
autoctone prearie.
31) Ibid.
come alla 28.
32) Cfr.
G.Acerbi, La saga universale del
Pesce e del Pescatore. Esame iconologico e cosmografico degli sviluppi ciclici
della Rivelazione Primordiale– Quaderni di Simmetria, Roma, passim.
33) Tal espressione potrebbe benissimo
designare l’Oceano Artico, ma il contesto parrebbe forse escluderlo,
accreditando maggiormente la zona settentrionale dell’Oceano Pacifico. È
però da ritenere che anticamente i due oceani fossero uniti, per una diversa
distribuzione geografica delle terrre emerse, e che fossero considerati uno solo
per un fatto di affinità climatica; è persino possibile, anzi probabie,
che il passaggio dall’Artico al Pacifico
ed infine all’Oceano Indiano abbiano finito per sovrapporsi e confondersi nelle
memorie tradizionali. D’altra parte, che
tali passaggi siano avvenuti realmente è testimoniato dalla cosmologia puranica. Vide
n.17.
34) Quanto riferito alla n.prec. vale pure
qui, volendo distinguere l’Oceano Indiano dal Pacifico. Ma è chiaro che il testo upapuranico allude
semplicemente ad una questione climatica (cfr. il gr. klíma = ‘inclinazione’, in
senso astronomico-solare), da reinterpretare – non c’è dubbio – in senso
ciclico-continentale. Se interpretassimo
la contrapposizione fra i due mari come il trasferimento culturale d’una
simbologia ittica dal Nord al Sud dell’India, magari in rapporto alla discesa
dei Parava nelle regioni meridionali
del Deccan e dell’Isola di Ceylon, dopo che costoro erano stati costretti ad
abbandonare il territorio nei pressi della Yamunā (dove erano
insediati), codesta interpretazione storicistica sarebbe egualmente valida; ma
risulterebbe un po’ riduttiva e non potremmo, ciononostante, escluderne una piú ampia e profonda di tipo cosmologico.
35) La crescita di grandezza è un carattere
proprio anche del Matsyāvatāra. Nel contesto, tuttavia, si può ipotizzare il
trasferimento di simbolismo da un pesce o mammifero marino di minori
proporzioni ad uno di proporzioni
maggiori.
36)
A.K. Coomaraswamy & S.Nivedita, Myths
of the Hindus and the Buddhists- Dover, N.York 1967 (I erd. G.B. Harrap, & Co.,
Londra 1913), Cap.VI, §8 n.num., pp. 300-1.
37) L’autore dice, assai genericamente ci
sembra, “the headman of the fishermen”.
38) L.A. Basham, The Wonder that was India- Rupa & Co., Calcutta-Allahabad-Bombay-Delhi 1981 (I ed. 1954), Cap.VII, §4, p.316.
38) L.A. Basham, The Wonder that was India- Rupa & Co., Calcutta-Allahabad-Bombay-Delhi 1981 (I ed. 1954), Cap.VII, §4, p.316.
39) Bash., op.cit.
40) Da notare che l’associazione di questi
due appellativi (VaruṇaN-Vālāḷ) ricorda da
presso, nella lingua tamil, il nome della mitica ‘Regina dei Parava’ (VaruṇaN
Valli); onde potremmo riferire la prima coppia di nomi al paredro della
medesima, cioè a Śiva.
41) Stut, op.cit., s.v.:VALA, o BALA p.467/ col.a.
42) L’Enciclopedia
Puranica del Vettam riporta 9 Bala
distinti: questo corrisponde al BALA II. La nostra impressione è che alcuni di essi
siano delle sovrapposizioni. Personalmente
ne distinguiamo soltanto 4. Vanno tutti
distinti ad ogni modo dal re delle scimmie ramayanico, ossia Bāli(n)-Vāli(n)
43) Ibid.
come alla 41, s.v. VARUṆA, p.471/ col.a.
44) Il problema degli Asura come demoni non è mai stato del tutto risolto. Vedi in proposito W.E. Hale, Asura in Early Vedic Religion- Motilal
B., Delhi 1986. Anche perché non paiono
affatto tali nella religione iranica, come si sa. E, aggiungiamo noi, neanche gli Aesir germanici
(che lo Hale non menziona) sono sottoponibili a questo giudizio. Ma, al di là delle conclusioni dell’autore,
in ambito indiano fungono talora da demoni, seppur possano talora essere intesi
in maniera maggiormente elevata. Vide n.17.
45) Sul nemico di Indra, fratello di Vṛtra et al.,
cfr. A. Hillebrandt, Vedic Mythology-
Motilal B., Delhi 1981 (ed.or. Vedische
mythologie, 3 Voll., Breslau 1891-1902), Cap. Sette, §F, pp. 150-3.
46) Si rammenti a tal proposito il valore
assiale del Kāladaṇḍa, la fatale
‘Verga del Tempo’; arma in dotazione a VaruṇaN – non meno
del Kālapāśa – e che si collega manifestamente al ‘Corno di
Pesce’ dello stesso VaruṇaN, nonché al <Fallo> dell’Urano ellenico.
47) Re Śāntanu, consorte poi deceduto di Satyavatī, osserva taluno (E.W. Hopkins, Epic
Mythology- Motilal B., Delhi 1974 [ed.or.
Strasburgo 1915], Cap.V, §65, p.121) citando lo Harivaṁśa, è una personificazione epica
dell’Oceano (Samudra, Sāgara, il primo dei quali iconograficamente appaiato al Dugongo),
di per sé considerato altrimenti un attendente di Varuṇa. Pertanto, possiamo intendere quest’ultimo
come il vero volto di Śāntanu; figura che in precedenza avevamo
difatti ipotizzato incarnare un alter-ego di Mahādeva,
risultando in ciò peraltro non molto lontano dal vero. In tal modo Varuṇa
costituisce un doppione, nel contempo, e del Dāśarāja, vale a dire di Manu; e del padre defunto di Bhīṣma, ovvero di Śiva.
Sicché potremmo assserire che il Signore dell’Oceano e delle Acque
Celesti, poi divenute infere, si trovi in rapporto sia paterno che maritale
colla Fanciulla Divina. In altre parole,
lo Spirito dell’Uomo è la causa e il fine della Rivelazione Paradisiaca; mentre
la Mente umana, purificata, (o la Tradizione, se preferiamo dire cosí) ne è il mezzo, in virtú di grande
<Traghettatrice> da Questo all’Altro Mondo.
48) Ac., Le arc., §b. 1-2. Da parte nostra abbiamo cercato (ibid., §b.2) di dimostrare come siffatta ritrattistica, comparsa
nell’antica Civiltà della Valle dell’Indo e nelle culture apparentate delle
zone adiacenti, sia da ritenere nient’altro che l’epigono urbano di una
tematica ancor piú arcaica – per quanto espressa antecedentemente in forme solo
rudimentali – risalente all’arte rupestre mesolitica e neolitica del
subcontinente indiano; ciò senza, peraltro, voler negare apporti provenienti da
diversa direzione.
49) La Tripodia di Apollo Delfinio, che si
affianca alla Trioftalmia di cui gode la medesima divinità (Her., Hist.- i. 144, 1-2), appare
verosimilmente il contraltare annuale della Monopodia appartenente all’Erma di
Dioniso. Codesta quadruplicità,
assommando simbolicamente gli arti divini dei due correlati numi ed
asssimilando le ‘Tre Gambe’ del Treppiede apollineo ad una supposta Tripodia di
Apollo (che farebbe il paio con l’analoga Tripodia di Siva, esatto
corrispondente indiano del nume ellenico) è da porre chiaramente in connessione
da un lato con i nove mesi solari del calendario greco; dall’altro con i tre mesi
invernali dedicati a Dioniso, equivalenti al ‘Viaggio del Sole’ nel Paese degli
Iperborei. È ridicola, riteniamo, la contestazione
di alcuni studiosi su tale punto col pretesto che si tratti d’una
interpretazione troppo datata. Non ha
senso contrapporre delle interpretazioni ontologiche o addirittura
antropologiche ad altre di carattere cosmologico, essendo le une e le altre del
tutto complementari. Come abbiamo già
rievato in precedenza parlando del Vāmanāvatāra (vide Cap.III, n.26), nella Seconda Età ciclica
l’<Orma Suprema> del Sole – che il Veda,
avendo un punto di vista spiccatamente vaiṣṇava
(in altre parole dvaparayughico, attribuisce a Viṣṇu, ma che potrebbe esere benissimo atribuita invece a
Śiva od alla Śakti
– era rappresentata spaziamente dal Nadir, in senso giornaliero; oppure
dal Nord, in senso annuale. Nell’habitat
circumpolare, dove il giorno e l’anno coincidevano, tale ‘Orma’ era
evidentemente costituita dal punto ove si trovava la costellazione che segnava
in quell’Epoca il Polo Artico notturno; la sola a risultare rispettivamente
immobile rispetto ai punti raggiunti, nel loro visibile moto, dai due
luminari. Al di fuori della zona
circumpolare, sotto l’aspetto cronologico, quanto surriferito corrispondeva al
‘Passo’ medio-notturno del Sole sul piano giornaliero ed al Solstizio Invernale
sul piano annuale. Ora è chiaro che col
mutamento ciclico dalla Seconda alla Quarta Epoca, l’attuale secondo i testi,
al punto di vista primordialmente in auge ne è stato sostituito uno piú recente, praticamente capovolto. Sulla base di codesto capovolgimento, ne
deduciamo che il ‘Passo Invernale’ (o Boreale) del Sole viene a coincidere
nella Quarta Età coll’Estremo Vertice del Mondo Infernale. Viceversa, il ‘Passo Estivo’ (od Australe) viene
oltremodo esaltato, divenendo cosí
immagine del Vertice del Mondo Celeste.
Insomma, dell’Essere Supremo. In
altre parole, l’esatto contrario di prima.
Come dimostra il simulacro colonniforme dell’Apollo Amicleo (ipostasi
dell’Apóllōn Karneíos), fungente da unipede con valore
solstiziale-meridiano; e festeggiato dapprima nel Peloponneso, indi nell’intera
Grecia, a mezzo dell’estate ovvero nel Segno del Leone, che all’inizio della
mitica Età del Ferro delimitava con i propri ultimi gradi il Solstizio Estivo. Cfr. A. di Nola, RELIGIONI DELLA GRECIA, §4. f,
p.535, fig. n.num. (secondo la ricostruzione del Furtwängler); apud AA.VV., Enciclopedia delle Religioni- Vallecchi,
Firenze 1971, Vol.III. Nel caso del nume
solare di Amicle, presso Sparta, il ‘Passo Invernale’ è raffigurato da
Giacinto, ucciso da Apollo per errore e poi seppellito sotto la statua del
dio. Del pari Delphýne, la dragonessa di Delfi annientata altresí da Apollo, tradisce nel nome medesimo un
aspetto pre-titanico sotto forma di antichisssima demonessa del mare in
sembianze ictomorfiche. Successivamente
ella è divenuta la nutrice del Drago Pitone, o di Tifone; ma, prima di divenire
tale, era forse la paredra d’una prefigurazione indigena di Apollo Delfinio in
forma di Delfino (vide infra). Ossia di demone marino, che in origine doveva
però essere inteso in senso celeste, non già infero. Al culto del demone marino in sembiante di delfino
è susseguita, perciò, la venerazione della Pizia quale incarnazione della Thémis; nonché quella del Tripode
apollineo, immagine del dio solare, con demonizzzazione invernal-infernale
dell’antico signore del mare dall’apparenza di cetaceo in quella
orticolo-ofidica di Pitone.
In Africa, dove è
tradizionalmente nota da tempo immemorabile la dottrina degli Elementi
(D.Zahan, La religione dell’Africa Nera, Cap.III, p.43; apud Pu., op.cit. ), le 4 dita del Gallo sono
assurte ad emblema costante del moto solare (ibid., p.48); nellla convinzione che questo animale anisssodattilo,
annunciatore dell’alba, sia da sempre in possesso della scienza del tempo (ib.,
p.54).
50) C’informa Erodoto (Hist.- i. 212, 3 e 216, 4) che i Massageti adoravano esclusivamente
il dio del sole.
51) K.Jettmar, I popoli delle steppe- Il Saggiatore, Milano 1964 (ed.or. Die frühen Steppenvölker- Holle, Baden-Baden 1964), Cap.XII (n.num.),
p.188, fig.119 (con comm. a p.190).
52) Cfr. ad es. il Vr.P.- ccxv. 25, seppur non si possa escluder che
l’unicorno-unipede cosí descritto quale signore d’una mandria di cervi
(probabilmente le stelle…) sia nel caso
specifico un aureo cervide anziché un antilocapride; ma, plasticamente (nella
scultura e nella pittura), sotto il nome di Mṛgeśvara l’animale è raffigurato in Nepal in forma di
antilope. Mṛgeśvara è
comparabile, parzialmente, all’ellenico Hýllos; anch’egli unicorne, ma non unipede (De Sant.
& H. Von Dech., op.cit., App.35,
p.475), esattamente come l’epico Ṛṣyaśṛṅga. Benché a volte codesta tipologia iconologica
possa richiamarsi cosmologicamente al Polo Artico, la sede mitica della Terra
Iperborea, talvolta essa si rifà apertamente al Polo Antartico; com’è il caso di
Illo, il figlio di Ercole, che è difatti associato alla Stige (ibid.) cioè all’Abisso degl’Inferi. Non sempre, comunque, l’Antartide è stata
concepita quale sede infernale; vi sono delle tradizioni indiane che, al
contrario, si rifanno misteriosamente ad
un dvipa scomparso in parte nell’Oceano Indiano molti millenni or sono. In particolare, sembra che a ciò alluda la definizione di Gokarṇa, donde
abbiamo l’appellativo di Gokarṇeśvara quale forma alternativa (dotta) rispetto a quella
(popolare) di Mṛgeśvara; l’icona antilocaprina, o cervina che dir si
voglia, di Mahādeva. Parrebbe
del resto che il nome Gokarṇa, di norma inteso nell’accezione di ‘Orecchio
della Vacca’, sia la riproposizione in
chiave nepalese ed himalayana di una
denominazione un tempo applicata ad un centro scomparso nell’oceano suddetto.;
cresciuto enormemente di dimensione, in direzione sud-ovest (Nd.P., Utt. 74, 2-21). Tale centro
con il tempio annesso sembra sia stato ricostruito nel Kerala, sulla costa
sudoccidentale dell’India Meridionale (ibid.,
vv. 3 e 30). Ma è nostra opinione
personale che il centro sprofondato non fossse un semplice isolotto, come
qualcuno potrebbe ingenuamente immaginare; bensí una vera e propria ecumene o quasi, scomparsa in
gran parte per cause cicliche. Il Nārada
Purāṇa (ib.,
vv. 13-30) lega questo fatto, inequivocabilmente, al periodo avatarico di Paraśurāma (‘Rama dell’Ascia’ = Rama del Polo) ossia al VI
Ciclo Avatarico; sulla qual cosa si confronti lo schema simbolico delle
Direzioni proposto, deduttivamente, alla n.17.
Insomma siamo dell’avviso, a voler essere chiari, che il termine Gokarṇa vada
spiegato diversamente da quanto si fa solitamente; vale a dire, intendendo il
secondo sostantivo del composto nominale karṇa quale corruzione di caraṇa – nel senso
quindi di ‘piede’, non già di ‘orecchio’ – ed il primo (go) al maschile anziché al femminile. Per cui, se non andiamo errati, il vocabolo
dovrebbe significare nell’insieme ‘Piede del Toro’, nel senso – crediamo – di
‘Colonna del Dharma’. Tale definizione,
secondo noi connessa con l’Asse Polare (artico od antartico, non importa), non
può non richiamarci alla mente che presso altre contrade sono state impiegate
espressioni equivalenti onde designare l’Orsa Maggiore; che è stata di volta in
volta denominata <Piede del Cervo>, <Coscia del Toro> (De Sant.
& Von Dech., cit., Cap.XVIII, p.297), quando non anche identificata ad un
animale tutto intero (Cervo, Orsa) o ad un numero di animali pari a quello
delle stelle che la componevano astralmente (Septemtriōnes = ‘Sette
Buoi da tiro’, scr. Saptaṛkṣa = ‘Sette Orsi’).
Ora, siccome Paraśurāma è associato alla prima brahmanizzazione del
Deccan, non è troppo azzardato supporre che il ’Paese di Bharata’ di cui
parlano le scritture induiste si spingesse molto avanti nell’Oceano
Indiano. È possibile a nostr’avviso ricostruire a grandi linee l’ecumene
scomparsa mediante un’elementare analisi orografica dei rilievi ceanici a sud
del Deccan. Da quest’analisi osserviamo
che una dorsale sottomarina s’innalza proprio in direzione sudovest,
confermando il dato puranico. Se quanto diciamo
ha qualche fondamento di verità allora è lecito ritenere che la dislocazione
della dorsale, la quale corre lungo la linea che partendo da Ceylon e
dall’Arcipelago delle Laccadive (passando per le Isole Maldive, le Ciagos, le
Mascarene, le Seicelle, le Amiranti, le Comoré) giunge al Madagascar (e poi piú oltre sino all’Antartide in direzione sudest,
attraverso la dorsale del Madagascar; le I.le Croizet, e le Kerguelen, formanti
un altopiano oceanico verso l’Australia), indichi approssimativamente il sito
ove possa essere sprofondata in parte la terra emblematicamente denominata Gokarṇa.
Dato che il Gokarṇa himalayano (Uttaragokarṇa) è messo in relazione dal Vr.P.- ccxvi. 13-24 con il Gokarṇa meridionale (Dakṣinagokarṇa) e con Rāvaṇa,
non parrà illogico immaginare che siffatto personaggio dalla <Testa
Asinina> s’identifichi a Canopo, la stella che al tempo di Paraśurāma segnava il Polo Sud.
Se il capo dei Rākṣasa compare nell’epica ramaita
posteriore (vedi Rāmāyaṇa), è probabilmente in ragione dell’eredità culturale
trasmessa dal VI al VII Ciclo Avatarico.
Conferma della nostra ipotesi deriva dalla figura di Agastya, il mitico zio di Rāvaṇa,
circa cui è dichiarato nello Skandapurāṇa (Vett.,
op.cit., s.v. AGASTYA, §17, p.8/ col.b) che egli raggiunse “il luogo piú meridionale della terra”. Cfr. pure la leggenda cosmologica della
‘Bevuta dell’Oceano’ da parte di tale ṛṣi (invero un pitṛ). Va aggiunto infine che Agastya viene identificato, soprattuttto nella cultura dravidica,
al ṛṣi presiedente alla stella Canopo; e che, pertanto, è sostenibile
(Opp., op.cit., Cap.V, §8 n.num., pp.
87-9) un’omologazione del personaggio a Rāvaṇa. L’azione di spiritualizzazione nei confronti
del Deccan da parte del nano Agastya
risulta, d’altronde, strettamente
parallela a quella attribuita al gigante Paraśurāma e che abbiamo poco sopra riferito. La storia della nascita dentro un ‘Vaso’ dei
2 ṛṣi <gemelli>, Vasiṣṭha
(ipostsi di Brahmā) e Agastya (ipostasi di Śiva),
prova del resto che la conoscenza dei 2 Poli Terrestri, checché se ne dica, si
perde nella notte dei tempi.
53) Sul tema vedi Font., op.cit., Cap.XII, §6 (n.num.), p.350 ss.
54) Op.cit.,
Cap.X, §1,(n.num.), p.233, fig.22.
55) Vide
Cap.III, nn. 21 e 26-7, tenendo conto che il Solstizio Invernale, il Nord ed il
Polo Artico coincidono nel simbolismo annuale.
56) A favore della tesi solare, di sovente
erroneamente contrapposta a quella polare o ad altre egualmente valide, come
non ha mancato di sottoineare il prof. Grossato in un suo splendido articolo
sul soggetto (A. Grossato, ‘Shining Legs’
The One-footed Type in Hind u Myth and Iconography- E. & W. [dic. 1987], IsMEO [Vol. XXXVII, NN. 1-4], Roma 1987, pp. 247-8, nn. 1 e 7), si sono
pronunciati tanto il Przyluski (J. Przyluski, Deux Noms indiens du Dieu Soleil: Aja Ekapād, Pajjunna- B.S.O.A.S. [Vol. VI, N°2], Parigi
1930-2, pp. 457-8) quanto il Dumont (P.E. Dumont, The
Indic God Aja Ekapad, the One-legged Goat- J.A.O.S., Vol.LIII, Yale Un.,
N.Haven 1933, pp. 326-34) e lo Horsch (P. Horsch, Aja Ekapād und die
Sonne- I.I.J. Vol.IX, Mouton & Co., The Hague 1965-6, pp, 1-31);
inoltre, prima di loro, lo Henry e il Bloomfield. Altri invece quali Roth (condiviso dal
Grassmann), Macdonell (approvato dal Keith), Bergaigne, Hardy od Oldenberg
hanno formulato al riguardo ipotesi in apparenza piú suggestive, qunatunque
in realtà meno circostanziate (se non addirittura fasulle), concernenti
rispettivamente il Genio della Tempesta; il Fulmine, il Non-nato, la Luna, una
figura solitaria di capra non ben delineata (forse un ‘Signore del Branco’, ma
la definizione è nostra). Tesi solare a
parte, che peraltro condividiamo, le altre potendo solo rientrare nella
medesima a titolo di casi particolari – alla maniera in cui in una divinità i
Nomi Divini accompagnano con funzione attributiva il Nome per eccellenza scelto
a rappresentare il Supremo, che è in verità “sine Nomine ac Forma”
(scr. Anāmamūrtica)
– e per nulla determinanti, vorremmo fare ora qualche ulteriore annotazione
sulla natura di ajaikapāda. Il personaggio in questione è stato indicato
da un commentatore del Nirukta ossia
da Durga come un aspetto di Agni, il quale è raffigurato a vote
nell’iconografia Tripāda; l’elencazione tra gli Undici
Rudra (Ekadāśarudra) del nome del suddetto
nume dalla ‘Testa Caprina’ corrobora d’altro canto l’indicazione precedente, giacché
Rudra (lett. il ‘Rosso’) non è che un
epiteto di Agni. Ajaikapāda è stato d’altronde accostato
(Dumo., art.cit., p.327), riteniamo
giustamente, a Pūṣan; una deità pastorale connessa al Regno dei Morti dei quali è
la ‘Guida’, conducendoli verso il Mondo degli Antenati (Pitṛ). Riguardo quest’ultimo, si narra che egli
abbia perso i propri <Denti> in seguito alla partecipazione – unitamente
a Bhaga, ridotto a propria volta alla
<Cecità> durante il Sacrificio di Dakṣa (fuor di metafora, in
un antico calendario sacrificale basato sullo Yajña-cakra); fatto
per cui aveva suscitato le ire di Śiva, che lo aveva pertanto punito severamente insieme al celeste
compagno. Nel Veda, occorre sottolineare, Pūṣan è l’auriga d’un carro
solare trainato da caproni (x. 26, 8), anziché da destrieri; inoltre gli è
sacro il Capro (i. 138, 4). Il Dumont (cit.), da parte sua, ha sostenuto la
tesi d’una originaria identità fra tale dio e Aja Ekapāda. Affermare che vi sia identità tra i due numi
è forse esagerato. Ma, in effetti, si
può constatare una notevole affinità fra costoro, non fosse che per il comune
aspetto titanico-solare. Va notato
alfine che la perdita dei <denti> da parte di Pūṣan allude, naturalmente,
alla scarsa mordenza dei raggi solari in occasione del Solstizio Invernale; e
che, viveversa, l’abbruciamento degli <occhi> causato a Bhaga è una palese descrizione delle
conseguenze accecanti del Solstizio Estivo.
Ovviamente i due fatti sono suscettibili, intendendoli meno banalmente,
d’una interpretazione esoterica.
57) V.S. Agrawala, The Religious Significance of the Gupta Terracottas from Rang Mahal-
L.K., Vol.VIII, N.Delhi 1960, tav.XXIV, fig.15 (comm. alle pp. 67-8).
58) Prz., art.cit., pp. 457-8 e Dum., art.cit.,
pp. 327-8.
59) K.V. Soundara Rajan, Tamil Nadu and Kerala- Sundeep P., Delhi
1978, fig.30.
60) Tale trimurti costituisce una variante
dell’Ekapādatrimūrti (su cui vide Cap.III, n.21).
61) S.Raj., op.cit., App. Z, p.159.
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