martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Note al Capitolo IV






Note al Cap.IV


1)          Her., op.cit., Cap.IV, §III, p.423. 
2)          Op.cit.
3)          Cit.
4)          Tal Segno deriva dalla combinazione della Capra, vecchio emblema d’uno Zodiaco ottonario dimenticato (di cui è traccia in numerose tradizioni, ad. es. quella dravidica, ma anche quella greca), e dei Pesci.  Da parte nostra riteniamo che tale Zodiaco Solare pre-duodenario (a volte iconograficamente raddoppiato in 16), della durata di 45° per ciascun Segno, sia stato coniato sulla base del culto del Settenario planetario con l’aggiunta dei 2 Nodi e che fosse in auge in una terra oltreatlantica durante il Tardo Paleolitico.  Sebbene, di sicuro, gli animali simbolici siano mutati nel passaggio da un ciclo all’altro.  Un culto del genere – attestato iconograficamente dal Sūryamaṇḍala ovvero dal Rāsamaṇḍala – esiste ancora in India e, guardacaso, proprio in relazione al ciclo che crediamo l’abbia inventato; cioè l’VIII Ciclo Avatarico (presieduto da Ka Gopāla), cominciato nel 17.440 a.C. e finito nel 10.960.  Cfr. Ac., op.cit., p.587, figg. 144-5 e p.612, figg. 336-7.  In effetti, se analizziamo in dettaglio il nostro Zodiaco a 12 Segni di derivazione greco-romana, ci accorgiamo che soltanto 8 di essi utilizzano emblemi teriomorfici; gli altri 4 (Gemelli, Vergine, Bilancia, Aquario) sono contrassegnati da simboli di natura antropomorfica oppure da un utensile che rimanda a tale natura.  L’antropomorfsmo è sempre un fattore secondario rispetto al teriomorfismo.  In quanto alla Bilancia, però vi è da aggiungere che molto probabilmente questo Segno era indicato una volta dal Cavallo, come avviene ancor oggi nell’oroscopo cinese, dove il Cavallo precede la Capra; mentre il Sagittario (l’Uomo-cavallo) non esisteva, esattamente come l’Aquario, i Gemelli e la Vergine.  In altre parole, si aveva una sequenza di questo tipo: 1) Topo (che ritroviamo in Grecia, oltreché nello Zodiaco Gioviano cinese, quale veicolo di Apollo Sminteo), dall’^ a metà del _; 2) Toro (sostituito in Cina dal Bufalo), dall’altra metà del _ ai ` e cosí via; ossia 3) Granchio o Polpo (la Lepre od il Gatto dei Cinesi), dal a a metà b; 4) Leone (il Drago cinese, forse in origine il Giaguaro amerindo pensando ad una provenienza oltreatlantica della tematica zodiacale) da metà b alla c; 5) Cavallo, dalla d a metà e; 6) Capra,  da metà e al f; 7) Gallo (in Grecia veicolo di Marte), dal g a metà h; 8) Maiale o Cinghiale (anticamente forse veniva sacrificato col Tridente del dio oceanico, al modo dell’Estremo Oriente, quindi richiamava alla fine del ciclo), da metà h ai i.  Da ciò si deduce che nello Zodiaco Solare duodenario mesolitico siano stati aggiunti 4 Segni, appunto: Gemelli, Vergine, Sagittario e Aquario.  Oltretutto cambiando l’emblema del Cavallo in quello della Bilancia e ponendo doppio domicilio planetario, diurno e notturno, per ogni Segno.  Le esaltazioni e le cadute, da sempre il grande problema interpretativo degli astrologi, si spiegano invece col fatto che il vetusto Zodiaco Solare ottonario dotato di Segni pan-zoomorfici poggiava su di esse.  Ad es., il Topo corrispondeva evidentemente all’esaltazione del Sole, mentre il Toro era il luogo d’esaltazione della Luna.  Pure negli altri Segni si rintraccia lo stesso meccanismo astrale: il Granchio o Polpo (quale espressione della forza centrifuga per via delle loro gambe, chele o tentacoli) era l’esaltazione di Giove; il Leone di Mercurio (in seguito passato alla c, ma gli astrologi hanno sempre messo in dubbio se non addirittura contestato questo fatto, dato che la c possiede già il domicilio notturno del pianeta); il Cavallo di Saturno (espressione della forza centripeta); la Capra dei Nodi Lunari (uno affine a Giove, l’altro a Saturno); il Gallo di Marte ed il Maiale o il Cinghiale di Venere.  Cfr. pure Cap.III, n.57.  
5)          Padre Heras in un suo vecchio lavoro (H.Heras, Indological Studies- Promilla & C., Bombay 1990, Cap.III, pp. 24-43; ed.or. Mohenjo Daro. The people and the Land- I.C. (Vol.III, apr., N°4), Calcutta 1937, pp.707-20) sosteneva sulla base delle iscrizioni pittografiche reperibili a Mohenjo Daro che il Sid (di poi il Sindhu), cioè l’India pre-aria, era suddivisa in 4 principali regioni; coincidenti piú o meno con altrettante zone culturali, abitate da 4 distinte popolazioni.  Queste sarebbero state denominate, secondo il gesuita spagnolo: Mīna (aventi per emblema l’Unicorno), Parava (in realtà una sezione dei primi esercitante la pesca e ripartita in 2 grandi tribú, una  caratterizzata da culti di tipo lunare e l’altra da rituali di tipo solare), Velāḷa (cultori del Liga e del Triśūla), od altrimenti (una quarta categoria non ben definita nelle iscrizioni).
6)         G.Oppert, The Original Inhabitants of Bharatavarsha or India- Unity B.S., N.Delhi 1986, P.I, CC. IV-VI sgg.  
7)          L’Oppert (Opp., op.cit., Cap.IV, §3 n.num, pp. 34-5) ha creduto di riconoscere nel termine Brahui, d’origine sicuramente recente, una variante filologica della designazione con cui venivano chiamati anticamente i Drāvia (vide ibid., p.50).  Cfr. i termini Pārata e Pārada, mediante i quali sono individuati ancor oggi gli abitanti della Paradénē d’ellenica memoria (Ptol., Tetr.- vi. 21, 4), vale a dire la popolazione autoctona del Belucistan Nordorientale.  E l’assonanza pure della voce indicata (Brahui > *Barahui) col nome dei Beluci, gli abitanti dell’intera regione, potrebbe indicare – suggerisce con acume l’Oppert (Opp., p.35, n.30) – una denominazione parallela ed alternativa, oltreché conessa nell’etimo, rispetto a quella precedente.
8)              La supremazia passata dei Bhār, una volta dominatori d’un ampia area dell’India,  e conosciuti dai Greci come Bārrhai, avrebbe lasciato traccia secondo l’Oppert (op.cit., §4, n.num., pp. 39-40) in un’ampia fascia di territorio.  Tanto che regioni quali il Bihar, o città come Bārānasī  (Benares) paiono aver tratto la denominazione da essi (ibid., p.41).
9)          Cit., Cap.VI, §5 n.num., p.101.
10)        §3 n.num., pp. 97-8.
11)        Sarebbe un errore, secondo Oppert, far derivare il termine Pariah da parai/ para (‘tamburo’); parimenti il nome dei Caṇḍāla non proverrebbe assolutamente dal liuto (kaṇḍola-vīnā), bensí da altra fonte.  Vide infra.  È opinione del N. che i Pariah siano, insieme a tutte le tribú e alle dinastie nominate, i discendenti degradati degli antichi possessori del suolo indiano.  Tra gl’indigeni però l’autore individua una componente ch’egli definisce – Intr., Cap.I, §4 (n.num.) sgg – “gaudiana”, di cui i Kuru (gli strenui avversari bellici dei Pāṇḍu) ed i Caṇḍāla testé citati sarebbero la piú tipica esemplificazione; di contro ad un’altra ad essa sostanzialmente affine ma comunque distinta, chiamata “dravidiana”, in cui rientrerebbeo oltre ai Pariah sopraddetti i Parava ecc.  La distinzione considerata si baserebbe infatti sul presupposto che entrambe le categorie da lui sommariamente delineate sarebbero state denominate dagli stranieri invasori (Ārya) ‘Uomini-delle colline’ o ‘Uomini dei  monti’, essendosi gli autoctoni di fonte all’invasione delle loro terre rifugiati nelle selve e soprattutto sulle alture.  L’Oppert suppone cioè che i nomi delle tribú del primo gruppo – di tipo gaudiano (Kaurava, Caṇḍāla) – siano da ricollegare nell’etimo a voci provenienti da lingue anarie, quali ko/ kuu (‘monte, collina’); mentre quelli del secondo gruppo – di tipo dravidiano –  (Pariah, Malla) proverrebbero da sinonimi, come par/ paRai (id.) e mala/ malai (id.).  Da codeste due serie parallele di vocaboli sarebbe, insomma, disceso tutto un intero lessico costituito da appellativi tribali e dinastici corrispondenti.  È superfluo rilevare come tale congettura, espressa dall’Oppert alla fine dell’Ottocento, essendo vecchia d’un secolo o poco oltre risulti oltremodo datata.  Sappiamo oggidí distinguere piú acconciamente la componente etnolinguistica dravidica da quella cosiddetta turanica o austrica (in tal caso parrebbe di essere di fonte alla prima), anche se non sempre i due fattori – l’ethnos e la lingua – coincidono nell’analisi antropologica effettiva.  Eppure, qualcosa di  giusto ci deve pur essere nella tesi su esposta.  Se è vero –come ci pare – che essa spiega in modo mirabile determinate commistioni tra le due etnie altrimenti inesplicabili.  Potremmo suggerire tuttavia da parte nostra che la √k/ --, della serie gaudiana, debba essere intesa nell’accezione di ‘nero, scuro; celeste, blu’ (derivata a propria volta da voci designanti in principio il Cielo notturno e l’oscura Terra); piuttosto che non in quella di ‘monte, collina’, senza dubbio un’applicazione secondaria del medesimo significato.  Segnaliamo inoltre come nelle lingue indoeuropee siano presenti alcuni termini rimasti etimologicamente inspiegati o spiegati con difficoltà attraverso degli artficiosi dibattiti filologici di sapore un po’ troppo accademico – vedi il scr. kāl-a (‘nero, scuro; blu’), il gr. kel-ai-nós (‘nero, scuro’) od il lat. cael-ēst-is (‘celeste, blu’) – che sono, di certo, il deposito linguistico anario d’un antecedente sostrato indomediterraneo; potremmo forse ritenere questo sostrato pre-indoeuropeo d’origine pelasgo-dravidica, vale a dire camitica.  Ricordiamo ancora che la √m/ -- della serie dravidiana, con nasale iniziale e liquida nel tema (Mal-la, Mal-lar), è probabilmente una variante della radice precedente, dato che il scr. nīl-a (‘nero, scuro; blu, azzurro’) cosiccome il gr. mel-as (‘nero’) ed il lat. nig-er (id.), hanno un senso affine rispettivamente a quello degli equivalenti attributi del sostrato indoeuropeo ritenuto alla base della serie gaudiana.  Da notare in ultimo che in una lingua dravidica, il telugu, il vocabolo pal-la/ pul-la (ibid., §2 n.num., p.6, n.4) – connesso ai termini della serie dravidiana con labiale iniziale (Parava, Pārata, Pāṇḍava) – possiede invece il significato di ‘rosso, rossastro’, in ciò richiamando forse il gr. phoin-ós (id.).  Ma si deve considerare pure, per capire sino in fondo il senso vero e primario della √p/ --, anche un supposto a.m. *pel-as; variante pre-ellenica del gr. mel-as, poi  scomparsa nel greco classico.  Crediamo che tale aggettivo, se mai sia esistito, abbia avuto l’accezione delle sue varianti posteriori (mel-as e kelain-ós); quale troviamo, difatti, nella denominazione del popolo che ha abitato l’Egeo e Creta in tempi pre-achei.  Ossia i Pelasgi (Pelasgoí), che Pausania (Perieg.- iv. 3. 6) identifica ai Mini (Minýai), per i quali vide supra.
12)        Cap.IV, §2 (n.num.) sgg.
13)        Pp. 32-3.
14)        Pp. 33-5, n.29.
15)        Le tribú indigene si sarebbero schierate in tal modo, a fianco dei contendenti: i Sindhu (abitanti della regione dell’Indo), i Sauvīra, parte dei Matsya (o Mīna) e dei Kekaya, gli Ambaha, i Traigartta, i Katava et al. con i Kuruidi o Dhritarashtridi; mentre i Karūa, i Kāśī,  i Kośala, l’altra parte dei Matsya e dei Kekaya, i Cedi et c. con i Panduidi. 
16)        È dichiarato nel Mhbh., Adip.- ii. 13 che la mitica guerra fra gli eroi del poema avrebbe preso corpo, nell’ambito della cronologia ciclica, alla fine del Dvāparayuga.
17)       In base ai principi indú il prospetto generale delle Razze (Vaśa) si rivela immancabilmente correlato alla distribuzione ciclica (vedi Caturyuga e Mahāyuga) delle Generazioni umane (Manuya-jana) e divine (Deva-jana), delle Ecumeni (Dvīpa), dei Colori (Vara) e dei Temperamenti (Prakti); oltreché delle Direzioni (Diś) e dei 10 Cicli Avatarici (Daśāvatāra-yuga, cioè le 10 suddivisioni interne d’ogni singolo Manvantara).  Estrapolando i dati da fonti eterogenee, non esclusivamente induiste, in base allo schema quinario dei Grandi Elementi (Mahābhūta) – ivi raddoppiato e trasformato in denario – inerente a tutte le categorie succitate è possibile determinare il seguente schema: 1) Elem.: Etere (Ākāśa) > Raz.: Bianca (Śukla) > Col.: Oche Selvatiche alias Sovracasta primordiale (Hasa) > Car.: Equilibrato > Gen.um.: Veggenti uranici (i) > Gen.div.: Geni Stellari (Gandharva) > Ecu.: Terra Nascosta (Ilāvta) > Dir.: Polo N (Sumeru) > C.Av.: Pesce (Matsya);  2) Elem.: Etere-Aria (Ākāśa-Vāyu) > Raz.: Bianco-gialla (Śukla-Pīta) > Col.: Sovracasta semi-sacerdotale (Hasa-Brāhmaa), Car.: Equilibrato-nervoso > Gen.um.: Veggenti demonici (i-Asura) > Gen.div.: Geni Stellari demonici (Gandharva-Asura) > Ecu.: Ramyaka o Ramayaka > Dir.: NE (Uttarā-Pūrvavā) > C.Av.: Tartaruga (Kūrma); 3) Elem.: Aria (Vāyu) > Raz.: Gialla (Pīta) > Col.: Sacerdoti (Brāhmaa) > Car.: Nervoso > Gen.um.: Antenati Cieli-solari o Superiori (Asura) > Gen.div.: Demoni Atmosferici (Asura) > Ecu.: Pūrva Videha > Dir.: E (Pūrvavā) > C.Av.: Cinghiale (Varāha); 4) Elem.: Aria-Fuoco (Vāyu-Agni) > Raz.: Giallo-nera (Pīta-ka) > Col.: Re-sacerdoti (Brāhmaa-Rājanya) > Car.: Nervoso-focoso > Gen.um.: Antenati asurici (Asura-Pit) > Gen.div.: Demoni atmosferico-terreni (Asura-Rākasa) > Ecu.: Hiramaya o Hirayaka > Dir.: SE (Pūrvavā-Dakinā) > C.Av.: Uomo-leone (Narasiha); 5) Elem.: Fuoco (Agni) > Raz.: Nera (Ka) > Col.: Re (Rājanya) > Car.: Focoso > Gen.um.: Antenati Cieli-lunari o Inferiori (Pit) > Gen.div.: Demoni Terreni (Rākasa) > Ecu.: Australe (Bhārata) > Dir.: S (Dakinā) > C.Av.: Nano (Vāmana); 6) Elem.: Fuoco-Acqua (Agni-Āp) > Raz.: Nero-Rossa  (Ka-Rakta) > Car.: Focoso-bilioso > Col.: > Re-pastori (Rājanya-gopāla) > Gen.um.: Guerrieri-fabbri > Gen.div.: Rākasa-deva > Ecu.: Orecchio della Vacca (Gokara) > Dir.: Polo S (Kumeru) > C.Av.: Rama-dell’Ascia (Paraśurāma); 7) Elem.: Acqua (Āp) > Raz.: Rossa > Col.: Produttori (Vaiśya) > Car.: Bilioso > Gen.um.:  Eroi-titanici (Daitya-ārya) > Gen.div.: Semidei (Deva) > Ecu.: Sudoccidentale (Hari) > Dir.: SO (Dakinā-Paścimā) > C.Av.: Rama-della-Luna (Rāmacandra); 8) Elem.: Acqua-Terra (Āp-Bhūmi) > Raz.: Rosso-bruna (Rakta-Babhru) > Col.: Produttori-servi (Vaiśya-Śūdra) > Car.: Bilioso-Flemmatico> Gen.um.: Eroi divini (Deva-ārya-) > Gen.div.: Dei paleo-zodiacali (Deva) > Ecu.: Ketumāla o Apara-godanīyā > Dir.: O (Paścimā) C.Av.:  Balarāma o Ka Gopāla; 9) Elem.: Terra (Bhūmi) > Raz.: Bruna (Babhru) > Col.: Servi (Śūdra) > Car.: Flemmatico > Gen.um.: Eroi umani (Ārya-manua) > Gen.div.: Dei (Deva) > Ecu.: Nordoccidentale (Kipurua > C.Av.: Ka-Jagannāth o Budha; 10) Elem.: Terra-Etere (Bhūmi-Ākāśa) > Raz.: Bruno-bianca (Babhru-Śukla)> Col.: Fuoricasta (Śūdra-Hasa) > Car.: Flemmatico-Equilibrato > Gen.um.: Uomini (Manua) > Gen.div.: Signori dei Nakatra (Nāga-d eva) > Ecu.: Terra Boreale (Uttarākuru) > C.Av.: Uomo su Cavallo Bianco (Kalki).
18)        Vide n.prec., punto 2.
19)        Cfr. G. Acerbi, Varuna, nume aureo dominatore del Quartiere Orientale- Alle pendici del Monte Meru (blog, 2-12-17), passim.  
20)        L’epoca della lotta di Śiva contro gli Asura non è facile da individuare, a meno d’intendere per essa l’Epoca del Toro (paletnologicamente il Neolitico), in relazione a cui Śiva viene dipinto con lo Mga (Mgaśiras = Orione) in mano capeggiando una schiera fronteggiante Yama, il quale guida un esercito contrapposto reggendo lo Scorpione per vessillo.   Cfr. in proposito G.Jouveau-Dubreuil (trad. da A.C. Martin), Iconography of Southern India- Bharat-Bharati, Vanarasi 1958, tav.5.
21)        Ciò conferma che fosse l’Epoca del Toro o dell’Ariete, quando le Pleiadi trovavansi al P.V.   Quindi ne dedurremo che i Parava si sono formati tribalmente in Epoca Orionica e Pleiadica.  Insomma, all’inizio del X Ciclo Avatarico, sebbene il nucleo maggiormente antico (turanico) provenisse da epoca preistorica assai lontana.   Questo ceppo deve essersi fuso all’inizio del Neolitico con quello dravidico, mossosi per cause diluviali.
22)        Letteralmente essi dichiarano alla fine dello scorso Kalpa, ma riteniamo ovviamente si debba intendere questo termine in tale contesto nel semplice senso di Yuga.
23)        S. Chitty, Remarks on the Origin and History of the Paravas- J.R.A.S. (G.B. & I.), Vol.IV, Londra 1837, pp. 130-1.
24)        Chi., art.cit., p.131.
25)        Cfr. in proposto Vet., op.cit., s.v.DVĀRAKĀ, §§ 1, 2 e 4, p.266/ coll.a-b.  26)        Tale Ka non è però quello identficabile al fratello Balarāma (rispettivamente il settimo e l’ottavo figlio di Devakī), insomma l’VIII Avatāra; ossia il pargoletto adottato dai genitori adottivi Nanda e Yaśodā, presso la Yamuna, e sfuggito miracolosamente alla ‘Strage degl’Innocenti’ operata da Kasa, il tirannico zio di Mathurā (simbolo del Kālacakra, che tutto travolge inesoraboilmente).  Colui il quale, divenuto adolescente e stabilitosi nel Vndāvana (distr. di Mathurā), verrà celebrato dalla pittura rājput nella sua veste zafferano come il celeste amante delle giovani <Pastorelle> (Gopī); che salverà di poi i <Pastori> a lui devoti e le loro <Vacche> dal Diluvio provocato da Indra, sollevando prodigiosamente con un braccio il Monte Govardhana per ripararli dalle piogge incessanti.  Di codesto Buon Gopāla (‘Pastore di Vacche’), di stirpe yādava e figlio di Ugrasena, vengono celebrate le gesta giovanili nello Harivaśa e nel Viu Purāna.  Nel caso del guru dei Pāṇḍava abbiamo invece a che fare con un piú recente allotipo del deva, rapportabile da una parte a Jagannātha o a Budha in fnzione di IX Avatāra; e dall’altra a Ka Dvaipāyana, il figlio illegittimo di Satyavatī del quale il Ka auriga e maestro di Arjuna è a nostro avviso un alter-ego.  O meglio, viceversa.  Giacché in verità è Vyāsa, l’autore del Mahābhārata, a costituire un doppione letterario nei panni di trasmettitore epico della Tradizione del personaggio avatarico omonimo.  Il collegamento fra le vicende dell’VIII e del IX Avatāra ci è fornito ad ogni modo dal mito di Jarāsandha, cognato di Kasa – lo ‘Zio Malefico’ di Ka – sovrano del Magadha; il quale per via della sua ostilità nei confronti del figlio di Vasudeva aveva costretto questi e gli Yadava a ritirarsi in un luogo lontano, fuori dalla sua giurisdizione, cioè a Dvārakā.
27)        Art.cit., pp. 131-2.
28)        Ibid. come alla 24.  I Parava, dichiara il Chitty (ib., p.130), sarebbero stati i primi navigatori dell’Oceano Indiano, nell’ambito del quale avrebbero esercitato il mestiere di pescatori; abitanti della costa oceanica, essi sarebbero stati noti piú tardi nella letteratura sanscrita come Paraśava o Niāda (su costoro vide n.29).  Il loro ruolo viene paragonato dall’autore a quello dei Fenici nel Mediterraneo, ma questi ultimi erano dei semplici commercianti di ceppo semitico (secondo alcuni, con buone argomentazoni, camitico); piuttosto, sarebbe forse maggiormente calzante tracciare un parallelo, anche etimologico, tra i Parava ed i Pelasgi – essendo entrambi secondo noi di stirpe camitica – ovvero gli abitatori del Mar Egeo prima dell’arrivo degli Elleni.
29)        Il scr. dāsa o dāśa si ricollega al ved. Dasyu, designante nel gveda i nemici degli Ārya, ossia gli Anārya, dalla pelle scura e dal naso camuso.  Osservano gli Stutley (St., op.cit., s.v. DĀSA o DASYU, pp. 10-2) che tal etnia indigena, la quale mostravasi recalcitrante ad accettare il culto vedico dei Deva, fu dapprima schiavizzata, donde è derivato l’uso tardomedievale in hindi del das nel senso di ‘servo’; ma che poi in un modo o nell’altro le stesse popolazioni finirono per essere integrate, che piú chi meno, nel grande alveo dell’Induismo.  Interessante è, peraltro, l’impiego fra gli Zingari (ibid., p.101/ col.b, n.1) dell’autodefinizione di Das; dal momento che, è risaputo, gli Zingari non sono che gli eredi – dispersi in Occidente – di quegli antichi abitanti del Sind (una delle regioni adiacenti alla Valle dell’Indo) i quali combatterono contro gl’invasori ari.
30)        Secondo i testi pali (B.Ch. Law, Tribes in Ancient India- Bh. O.R.I., Poona 1973, Cap.XXV, pp. 98-9) i Niāda sarebbero stati una tribú selvaggia di cacciatori e pescatori, dislocati in zone montane o costiere.  Altri (St., op.cit., s.v.NIĀDA, pp. 308-9) affermano, da parte loro, che i Niāda sarebbero australoidi appartenenti al gruppo protoaustraloide; sospinti verso le montagne e le foreste dall’occupazione del suolo indiano da parte dei Dravidi, una popolazione ritenuta in genere paleomediterranea (camitica ed affine a quella protolibica secondo Padre Heras).  Tale diaspora verso le zone piú remote del paese sarebbe stata inoltre intensificata, ci è suggerito dagli autori, dalla successiva venuta delle genti arie.  Da notare che dei Niāda, dei Caṇḍāla e di altre tribú, oggi scese all’infimo gradino della scala sociale, è fatta menzione nel Mhbh., Śāntip.- xxxcvii. 8-9 come di tribú miste di katriya.  Ciò confermerebbe a nostro giudizio sia la parziale origine protoaustraloide dei Niāda, il Sud essendo la sede elettiva del varna degli Katriya (o, per meglio dire, dei Rājanya); sia la mescolanza razziale dei medesimi con un altro ordine castale, non meglio definito nel testo citato.  La stretta affinità etnica tra i soggetti negroidi del gruppo veddoide ed i soggetti altrettanto melanoidi di carnagione (ma razziamente commisti a dei ceppi di proveneienza paleomediterranea) del gruppo dravidico – che abbiamo sopra genericamente ritenuto camitico, sulla scorta de Padre gesuita – ha prodotto, invero, nella terminologia indologica una certa confusione; che è tuttavia possibile evitare richiamandoci ancora una volta alle due componenti, l’una gaudiana e l’altra dravidiana, rievate dall’Oppert in riferimento alle popolazioni autoctone prearie.
31)        Ibid. come alla 28.
32)        Cfr.  G.Acerbi, La saga universale del Pesce e del Pescatore. Esame iconologico e cosmografico degli sviluppi ciclici della Rivelazione Primordiale– Quaderni di Simmetria, Roma, passim.


33)        Tal espressione potrebbe benissimo designare l’Oceano Artico, ma il contesto parrebbe forse escluderlo, accreditando maggiormente la zona settentrionale dell’Oceano Pacifico.  È però da ritenere che anticamente i due oceani fossero uniti, per una diversa distribuzione geografica delle terrre emerse, e che fossero considerati uno solo per un fatto di affinità climatica; è persino possibile, anzi probabie, che  il passaggio dall’Artico al Pacifico ed infine all’Oceano Indiano abbiano finito per sovrapporsi e confondersi nelle memorie tradizionali.  D’altra parte, che tali passaggi siano avvenuti realmente è testimoniato dalla cosmologia puranica.  Vide n.17.
34)        Quanto riferito alla n.prec. vale pure qui, volendo distinguere l’Oceano Indiano dal Pacifico.  Ma è chiaro che il testo upapuranico allude semplicemente ad una questione climatica (cfr. il gr. klíma = ‘inclinazione’, in senso astronomico-solare), da reinterpretare – non c’è dubbio – in senso ciclico-continentale.  Se interpretassimo la contrapposizione fra i due mari come il trasferimento culturale d’una simbologia ittica dal Nord al Sud dell’India, magari in rapporto alla discesa dei Parava nelle regioni meridionali del Deccan e dell’Isola di Ceylon, dopo che costoro erano stati costretti ad abbandonare il territorio nei pressi della Yamunā (dove erano insediati), codesta interpretazione storicistica sarebbe egualmente valida; ma risulterebbe un po’ riduttiva e non potremmo, ciononostante, escluderne una piú ampia e profonda di tipo cosmologico.
35)        La crescita di grandezza è un carattere proprio anche del Matsyāvatāra.  Nel contesto, tuttavia, si può ipotizzare il trasferimento di simbolismo da un pesce o mammifero marino di minori proporzioni ad uno di  proporzioni maggiori.
36)        A.K. Coomaraswamy & S.Nivedita, Myths of the Hindus and the Buddhists- Dover, N.York 1967 (I erd. G.B. Harrap,  & Co.,  Londra 1913), Cap.VI, §8 n.num., pp. 300-1.
37)        L’autore dice, assai genericamente ci sembra, “the headman of the fishermen”.
38)        L.A. Basham, The Wonder that was India- Rupa & Co., Calcutta-Allahabad-Bombay-Delhi 1981 (I ed. 1954), Cap.VII, §4, p.316.
39)        Bash., op.cit.
40)        Da notare che l’associazione di questi due appellativi (VaruaN-Vālāḷ) ricorda da presso, nella lingua tamil, il nome della mitica ‘Regina dei Parava’ (VaruaN Valli); onde potremmo riferire la prima coppia di nomi al paredro della medesima, cioè a Śiva.
41)        Stut, op.cit., s.v.:VALA, o BALA p.467/ col.a.
42)        L’Enciclopedia Puranica del Vettam riporta 9 Bala distinti: questo corrisponde al BALA II.  La nostra impressione è che alcuni di essi siano delle sovrapposizioni.  Personalmente ne distinguiamo soltanto 4.  Vanno tutti distinti ad ogni modo dal re delle scimmie ramayanico, ossia Bāli(n)-Vāli(n)
43)        Ibid. come alla 41, s.v. VARUA, p.471/ col.a.
44)        Il problema degli Asura come demoni non è mai stato del tutto risolto.  Vedi in proposito W.E. Hale, Asura in Early Vedic Religion- Motilal B., Delhi 1986.  Anche perché non paiono affatto tali nella religione iranica, come si sa.  E, aggiungiamo noi, neanche gli Aesir germanici (che lo Hale non menziona) sono sottoponibili a questo giudizio.  Ma, al di là delle conclusioni dell’autore, in ambito indiano fungono talora da demoni, seppur possano talora essere intesi in maniera maggiormente elevata.  Vide n.17.
45)        Sul nemico di Indra, fratello di Vtra et al., cfr. A. Hillebrandt, Vedic Mythology- Motilal B., Delhi 1981 (ed.or. Vedische mythologie, 3 Voll., Breslau 1891-1902), Cap. Sette, §F, pp. 150-3.
46)        Si rammenti a tal proposito il valore assiale del Kāladaṇḍa, la fatale ‘Verga del Tempo’; arma in dotazione a  VaruaN – non meno del Kālapāśa – e che si collega manifestamente al ‘Corno di Pesce’ dello stesso VaruaN, nonché al <Fallo> dell’Urano ellenico.
47)           Re Śāntanu, consorte poi deceduto di Satyavatī, osserva taluno (E.W. Hopkins, Epic Mythology- Motilal B., Delhi 1974 [ed.or. Strasburgo 1915], Cap.V, §65, p.121) citando lo Harivaśa, è una personificazione epica dell’Oceano (Samudra, Sāgara, il primo dei quali iconograficamente appaiato al Dugongo), di per sé considerato altrimenti un attendente di Varua.  Pertanto, possiamo intendere quest’ultimo come il vero volto di Śāntanu; figura che in precedenza avevamo difatti ipotizzato incarnare un alter-ego di Mahādeva, risultando in ciò peraltro non molto lontano dal vero.  In tal modo Varua costituisce un doppione, nel contempo, e del Dāśarāja, vale a dire di Manu; e del padre defunto di Bhīma, ovvero di Śiva.  Sicché potremmo assserire che il Signore dell’Oceano e delle Acque Celesti, poi divenute infere, si trovi in rapporto sia paterno che maritale colla Fanciulla Divina.  In altre parole, lo Spirito dell’Uomo è la causa e il fine della Rivelazione Paradisiaca; mentre la Mente umana, purificata, (o la Tradizione, se preferiamo dire cosí) ne è il mezzo, in virtú di grande <Traghettatrice> da Questo all’Altro Mondo.
48)        Ac., Le arc., §b. 1-2.  Da parte nostra abbiamo cercato (ibid., §b.2) di dimostrare come siffatta ritrattistica, comparsa nell’antica Civiltà della Valle dell’Indo e nelle culture apparentate delle zone adiacenti, sia da ritenere nient’altro che l’epigono urbano di una tematica ancor piú arcaica – per quanto espressa antecedentemente in forme solo rudimentali – risalente all’arte rupestre mesolitica e neolitica del subcontinente indiano; ciò senza, peraltro, voler negare apporti provenienti da diversa direzione.
49)        La Tripodia di Apollo Delfinio, che si affianca alla Trioftalmia di cui gode la medesima divinità (Her., Hist.- i. 144, 1-2), appare verosimilmente il contraltare annuale della Monopodia appartenente all’Erma di Dioniso.  Codesta quadruplicità, assommando simbolicamente gli arti divini dei due correlati numi ed asssimilando le ‘Tre Gambe’ del Treppiede apollineo ad una supposta Tripodia di Apollo (che farebbe il paio con l’analoga Tripodia di Siva, esatto corrispondente indiano del nume ellenico) è da porre chiaramente in connessione da un lato con i nove mesi solari del calendario greco; dall’altro con i tre mesi invernali dedicati a Dioniso, equivalenti al ‘Viaggio del Sole’ nel Paese degli Iperborei.  È ridicola, riteniamo, la contestazione di alcuni studiosi su tale punto col pretesto che si tratti d’una interpretazione troppo datata.  Non ha senso contrapporre delle interpretazioni ontologiche o addirittura antropologiche ad altre di carattere cosmologico, essendo le une e le altre del tutto complementari.  Come abbiamo già rievato in precedenza parlando del Vāmanāvatāra (vide Cap.III, n.26), nella Seconda Età ciclica l’<Orma Suprema> del Sole – che il Veda, avendo un punto di vista spiccatamente vaiava (in altre parole dvaparayughico, attribuisce a Viu, ma che potrebbe esere benissimo atribuita invece a Śiva od alla Śakti  – era rappresentata spaziamente dal Nadir, in senso giornaliero; oppure dal Nord, in senso annuale.  Nell’habitat circumpolare, dove il giorno e l’anno coincidevano, tale ‘Orma’ era evidentemente costituita dal punto ove si trovava la costellazione che segnava in quell’Epoca il Polo Artico notturno; la sola a risultare rispettivamente immobile rispetto ai punti raggiunti, nel loro visibile moto, dai due luminari.  Al di fuori della zona circumpolare, sotto l’aspetto cronologico, quanto surriferito corrispondeva al ‘Passo’ medio-notturno del Sole sul piano giornaliero ed al Solstizio Invernale sul piano annuale.  Ora è chiaro che col mutamento ciclico dalla Seconda alla Quarta Epoca, l’attuale secondo i testi, al punto di vista primordialmente in auge ne è stato sostituito uno piú recente, praticamente capovolto.  Sulla base di codesto capovolgimento, ne deduciamo che il ‘Passo Invernale’ (o Boreale) del Sole viene a coincidere nella Quarta Età coll’Estremo Vertice del Mondo Infernale.  Viceversa, il ‘Passo Estivo’ (od Australe) viene oltremodo esaltato, divenendo cosí immagine del Vertice del Mondo Celeste.  Insomma, dell’Essere Supremo.   In altre parole, l’esatto contrario di prima.  Come dimostra il simulacro colonniforme dell’Apollo Amicleo (ipostasi dell’Apóllōn Karneíos), fungente da unipede con valore solstiziale-meridiano; e festeggiato dapprima nel Peloponneso, indi nell’intera Grecia, a mezzo dell’estate ovvero nel Segno del Leone, che all’inizio della mitica Età del Ferro delimitava con i propri ultimi gradi il Solstizio Estivo.  Cfr. A. di Nola, RELIGIONI DELLA GRECIA, §4. f, p.535, fig. n.num. (secondo la ricostruzione del Furtwängler); apud AA.VV., Enciclopedia delle Religioni- Vallecchi, Firenze 1971, Vol.III.  Nel caso del nume solare di Amicle, presso Sparta, il ‘Passo Invernale’ è raffigurato da Giacinto, ucciso da Apollo per errore e poi seppellito sotto la statua del dio.  Del pari Delphýne, la dragonessa di Delfi annientata altresí da Apollo, tradisce nel nome medesimo un aspetto pre-titanico sotto forma di antichisssima demonessa del mare in sembianze ictomorfiche.  Successivamente ella è divenuta la nutrice del Drago Pitone, o di Tifone; ma, prima di divenire tale, era forse la paredra d’una prefigurazione indigena di Apollo Delfinio in forma di Delfino (vide infra).  Ossia di demone marino, che in origine doveva però essere inteso in senso celeste, non già infero.  Al culto del demone marino in sembiante di delfino è susseguita, perciò, la venerazione della Pizia quale incarnazione della Thémis; nonché quella del Tripode apollineo, immagine del dio solare, con demonizzzazione invernal-infernale dell’antico signore del mare dall’apparenza di cetaceo in quella orticolo-ofidica di Pitone.
       In Africa, dove è tradizionalmente nota da tempo immemorabile la dottrina degli Elementi (D.Zahan,  La religione dell’Africa Nera, Cap.III, p.43; apud Pu., op.cit. ), le 4 dita del Gallo sono assurte ad emblema costante del moto solare (ibid., p.48); nellla convinzione che questo animale anisssodattilo, annunciatore dell’alba, sia da sempre in possesso della scienza del tempo (ib., p.54).
50)        C’informa Erodoto (Hist.- i. 212, 3 e 216, 4) che i Massageti adoravano esclusivamente il dio del sole.
51)        K.Jettmar, I popoli delle steppe- Il Saggiatore, Milano 1964 (ed.or. Die frühen Steppenvölker- Holle, Baden-Baden 1964), Cap.XII (n.num.), p.188, fig.119 (con comm. a p.190).
52)        Cfr. ad es. il Vr.P.- ccxv. 25, seppur non si possa escluder che l’unicorno-unipede cosí descritto quale signore d’una mandria di cervi (probabilmente le  stelle…) sia nel caso specifico un aureo cervide anziché un antilocapride; ma, plasticamente (nella scultura e nella pittura), sotto il nome di Mgeśvara l’animale è raffigurato in Nepal in forma di antilope.  Mgeśvara è comparabile, parzialmente, all’ellenico Hýllos; anch’egli unicorne, ma non unipede (De Sant. & H. Von Dech., op.cit., App.35, p.475), esattamente come l’epico yaśṛṅga.  Benché a volte codesta tipologia iconologica possa richiamarsi cosmologicamente al Polo Artico, la sede mitica della Terra Iperborea, talvolta essa si rifà apertamente al Polo Antartico; com’è il caso di Illo, il figlio di Ercole, che è difatti associato alla Stige (ibid.) cioè all’Abisso degl’Inferi.  Non sempre, comunque, l’Antartide è stata concepita quale sede infernale; vi sono delle tradizioni indiane che, al contrario,  si rifanno misteriosamente ad un dvipa scomparso in parte nell’Oceano Indiano molti millenni or sono.  In particolare, sembra che  a ciò alluda la definizione di Gokara, donde abbiamo l’appellativo di Gokareśvara quale forma alternativa (dotta) rispetto a quella (popolare) di Mgeśvara; l’icona antilocaprina, o cervina che dir si voglia, di Mahādeva.  Parrebbe del resto che il nome Gokara, di norma inteso nell’accezione di ‘Orecchio della Vacca’, sia  la riproposizione in chiave nepalese ed himalayana  di una denominazione un tempo applicata ad un centro scomparso nell’oceano suddetto.; cresciuto enormemente di dimensione, in direzione sud-ovest (Nd.P., Utt. 74, 2-21).  Tale centro con il tempio annesso sembra sia stato ricostruito nel Kerala, sulla costa sudoccidentale dell’India Meridionale (ibid., vv. 3 e 30).  Ma è nostra opinione personale che il centro sprofondato non fossse un semplice isolotto, come qualcuno potrebbe ingenuamente immaginare; bensí una vera e propria ecumene o quasi, scomparsa in gran parte per cause cicliche.  Il Nārada Purāṇa (ib., vv. 13-30) lega questo fatto, inequivocabilmente, al periodo avatarico di Paraśurāma (‘Rama dell’Ascia’ = Rama del Polo) ossia al VI Ciclo Avatarico; sulla qual cosa si confronti lo schema simbolico delle Direzioni proposto, deduttivamente, alla n.17.  Insomma siamo dell’avviso, a voler essere chiari, che il termine Gokara vada spiegato diversamente da quanto si fa solitamente; vale a dire, intendendo il secondo sostantivo del composto nominale kara quale corruzione di caraa – nel senso quindi di ‘piede’, non già di ‘orecchio’ – ed il primo (go) al maschile anziché al femminile.  Per cui, se non andiamo errati, il vocabolo dovrebbe significare nell’insieme ‘Piede del Toro’, nel senso – crediamo – di ‘Colonna del Dharma’.  Tale definizione, secondo noi connessa con l’Asse Polare (artico od antartico, non importa), non può non richiamarci alla mente che presso altre contrade sono state impiegate espressioni equivalenti onde designare l’Orsa Maggiore; che è stata di volta in volta denominata <Piede del Cervo>, <Coscia del Toro> (De Sant. & Von Dech., cit., Cap.XVIII, p.297), quando non anche identificata ad un animale tutto intero (Cervo, Orsa) o ad un numero di animali pari a quello delle stelle che la componevano astralmente (Septemtriōnes = ‘Sette Buoi da tiro’, scr. Saptaka = ‘Sette Orsi’).  Ora, siccome Paraśurāma è associato alla prima brahmanizzazione del Deccan, non è troppo azzardato supporre che il ’Paese di Bharata’ di cui parlano le scritture induiste si spingesse molto avanti nell’Oceano Indiano.  È possibile a nostr’avviso ricostruire a grandi linee l’ecumene scomparsa mediante un’elementare analisi orografica dei rilievi ceanici a sud del Deccan.  Da quest’analisi osserviamo che una dorsale sottomarina s’innalza proprio in direzione sudovest, confermando il dato puranico.  Se quanto diciamo ha qualche fondamento di verità allora è lecito ritenere che la dislocazione della dorsale, la quale corre lungo la linea che partendo da Ceylon e dall’Arcipelago delle Laccadive (passando per le Isole Maldive, le Ciagos, le Mascarene, le Seicelle, le Amiranti, le Comoré) giunge al Madagascar (e poi piú oltre sino all’Antartide in direzione sudest, attraverso la dorsale del Madagascar; le I.le Croizet, e le Kerguelen, formanti un altopiano oceanico verso l’Australia), indichi approssimativamente il sito ove possa essere sprofondata in parte la terra emblematicamente denominata Gokara.  Dato che il Gokara himalayano (Uttaragokara) è messo in relazione dal Vr.P.- ccxvi. 13-24 con il Gokara meridionale (Dakinagokara) e con Rāvaa, non parrà illogico immaginare che siffatto personaggio dalla <Testa Asinina> s’identifichi a Canopo, la stella che al tempo di Paraśurāma segnava il Polo Sud.  Se il capo dei Rākasa compare nell’epica ramaita posteriore (vedi Rāmāyaa), è probabilmente in ragione dell’eredità culturale trasmessa dal VI al VII Ciclo Avatarico.  Conferma della nostra ipotesi deriva dalla figura di Agastya, il mitico zio di Rāvaa, circa cui è dichiarato nello Skandapurāṇa (Vett., op.cit., s.v. AGASTYA, §17, p.8/ col.b) che egli raggiunse “il luogo piú meridionale della terra”.  Cfr. pure la leggenda cosmologica della ‘Bevuta dell’Oceano’ da parte di tale i (invero un pit).  Va aggiunto infine che Agastya viene identificato, soprattuttto nella cultura dravidica, al i presiedente alla stella Canopo; e che, pertanto, è sostenibile (Opp., op.cit., Cap.V, §8 n.num., pp. 87-9) un’omologazione del personaggio a Rāvaa.  L’azione di spiritualizzazione nei confronti del Deccan da parte del nano Agastya risulta, d’altronde,  strettamente parallela a quella attribuita al gigante Paraśurāma e che abbiamo poco sopra riferito.  La storia della nascita dentro un ‘Vaso’ dei 2 i <gemelli>, Vasiha (ipostsi di Brahmā) e Agastya (ipostasi di Śiva), prova del resto che la conoscenza dei 2 Poli Terrestri, checché se ne dica, si perde nella notte dei tempi. 
53)        Sul tema vedi Font., op.cit., Cap.XII, §6 (n.num.), p.350 ss.
54)        Op.cit., Cap.X, §1,(n.num.), p.233, fig.22.
55)        Vide Cap.III, nn. 21 e 26-7, tenendo conto che il Solstizio Invernale, il Nord ed il Polo Artico coincidono nel simbolismo annuale.
56)        A favore della tesi solare, di sovente erroneamente contrapposta a quella polare o ad altre egualmente valide, come non ha mancato di sottoineare il prof. Grossato in un suo splendido articolo sul soggetto (A. Grossato, ‘Shining Legs’ The One-footed Type in Hind u Myth and Iconography- E. & W. [dic. 1987], IsMEO [Vol. XXXVII, NN. 1-4], Roma 1987, pp. 247-8, nn. 1 e 7), si sono pronunciati tanto il Przyluski (J. Przyluski, Deux Noms indiens du Dieu Soleil: Aja Ekapād, Pajjunna- B.S.O.A.S. [Vol. VI, N°2], Parigi 1930-2, pp. 457-8) quanto il Dumont (P.E. Dumont,  The Indic God Aja Ekapad, the One-legged Goat- J.A.O.S., Vol.LIII, Yale Un., N.Haven 1933, pp. 326-34) e lo Horsch (P. Horsch, Aja Ekapād und die Sonne- I.I.J. Vol.IX, Mouton & Co., The Hague 1965-6, pp, 1-31); inoltre, prima di loro, lo Henry e il Bloomfield.  Altri invece quali Roth (condiviso dal Grassmann), Macdonell (approvato dal Keith), Bergaigne, Hardy od Oldenberg hanno formulato al riguardo ipotesi in apparenza piú suggestive, qunatunque in realtà meno circostanziate (se non addirittura fasulle), concernenti rispettivamente il Genio della Tempesta; il Fulmine, il Non-nato, la Luna, una figura solitaria di capra non ben delineata (forse un ‘Signore del Branco’, ma la definizione è nostra).  Tesi solare a parte, che peraltro condividiamo, le altre potendo solo rientrare nella medesima a titolo di casi particolari – alla maniera in cui in una divinità i Nomi Divini accompagnano con funzione attributiva il Nome per eccellenza scelto a rappresentare il Supremo, che è in verità “sine Nomine ac Forma” (scr. Anāmamūrtica) – e per nulla determinanti, vorremmo fare ora qualche ulteriore annotazione sulla natura di ajaikapāda.  Il personaggio in questione è stato indicato da un commentatore del Nirukta ossia da Durga come un aspetto di Agni, il quale è raffigurato a vote nell’iconografia Tripāda; l’elencazione tra gli Undici Rudra (Ekadāśarudra) del nome del suddetto nume dalla ‘Testa Caprina’ corrobora d’altro canto l’indicazione precedente, giacché Rudra (lett. il ‘Rosso’) non è che un epiteto di Agni.  Ajaikapāda è stato d’altronde accostato (Dumo., art.cit., p.327), riteniamo giustamente, a Pūan; una deità pastorale connessa al Regno dei Morti dei quali è la ‘Guida’, conducendoli verso il Mondo degli Antenati (Pit).  Riguardo quest’ultimo, si narra che egli abbia perso i propri <Denti> in seguito alla partecipazione – unitamente a Bhaga, ridotto a propria volta alla <Cecità> durante il Sacrificio di Daka (fuor di metafora, in un antico calendario sacrificale basato sullo Yajña-cakra); fatto per cui aveva suscitato le ire di Śiva, che lo aveva pertanto punito severamente insieme al celeste compagno.  Nel Veda, occorre sottolineare,  Pūan è l’auriga d’un carro solare trainato da caproni (x. 26, 8), anziché da destrieri; inoltre gli è sacro il Capro (i. 138, 4).  Il Dumont (cit.), da parte sua, ha sostenuto la tesi d’una originaria identità fra tale dio e Aja Ekapāda.  Affermare che vi sia identità tra i due numi è forse esagerato.  Ma, in effetti, si può constatare una notevole affinità fra costoro, non fosse che per il comune aspetto titanico-solare.  Va notato alfine che la perdita dei <denti> da parte di Pūan allude, naturalmente, alla scarsa mordenza dei raggi solari in occasione del Solstizio Invernale; e che, viveversa, l’abbruciamento degli <occhi> causato a Bhaga è una palese descrizione delle conseguenze accecanti del Solstizio Estivo.  Ovviamente i due fatti sono suscettibili, intendendoli meno banalmente, d’una interpretazione esoterica.
57)        V.S. Agrawala, The Religious Significance of the Gupta Terracottas from Rang Mahal- L.K., Vol.VIII, N.Delhi 1960, tav.XXIV, fig.15 (comm. alle pp. 67-8).   
58)        Prz., art.cit., pp. 457-8 e Dum., art.cit., pp. 327-8.
59)        K.V. Soundara Rajan, Tamil Nadu and Kerala- Sundeep P., Delhi 1978, fig.30.
60)        Tale trimurti costituisce una variante dell’Ekapādatrimūrti (su cui vide Cap.III, n.21).
61)        S.Raj., op.cit., App. Z, p.159.

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