martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Premessa








Premessa


Questo saggio esamina in prima istanza le enigmatiche differenze ma nel contempo anche le convergenti analogie tra la figura primeva del Dāśa Rāja (‘Re Pescatore’) e quella avatarica del Mahā Matsya (‘Grande Pesce’), alternativamente definito in India Hiraya Matsya (‘Pesce d’Oro‘) o Matsya Ekaśṛṅga (‘Pesce Unicorne’), nell’ambito della letteratura epico-puranica hindu e della corrispettiva iconografia medievale; indi traccia uno schema interpretativo di siffatte due essenziali figure cultuali, che formano seppur celatamente la base mitica dell’intero induismo, distinguendo al riguardo fra i punti di vista diversificati delle varie scuole spirituali.  Le distinte interpretazioni  riguardo la maniera in cui si rapportano tra di loro il Pesce ed il Re Pescatore costituiscono il fattore ontologico differenziante un’epoca ciclica dall’altra all’interno della cronologia tradizionale hindu, ovviamente a partire dal Satya Yuga (‘Epoca’ della Verità’), l’aureo tempo in cui si intuiva l’Unicità dell’Essere (Sat) senza intimo atteggiamento duale fra il Sé e la Divinità.  Sicuramente uno studio accurato del celtismo ci porterebbe alle stesse conclusioni, ma la forma corrotta nella quale questa tradizione ci è pervenuta – attraverso la letteratura epica graaliana nella sua doppia facies pagana e cristiana, erede a sua volta d’una antica letteratura gallo-romana d’ispirazione pagana e d’una medievale franco-latina d’ispirazione cristiana – non ci può permettere d’affermarlo categoricamente.  Si può azzardare, in proposito, soltanto un’ipotesi di lavoro.
Viene poi indicato un parallelo di carattere mitologico ed iconologico tra il culto antico del Delfino e del Polpo nell’Oceano Indiano e quello analogo nel Mar Mediterraneo, mettendo in rilievo fra l’altro il doppio valore solstiziale e quindi assiale di tale simbologia. 
Nel far ciò l’A. non manca di sottolineare a lato, a seguito degli scritti importanti di alcuni colleghi di studio sul Monocero ed il Monopode indiano e non – ma non necessariamente in accordo con loro – il senso sostanzialmente ittiomorfico-assiale, seppure in modo traslato, anche di simboliche artistico-letterarie apparentemente diverse ma in realtà correlate quali l’Unicornía, l’Itifallismo e l’Unipedía.
Da ciò l’A. prende spunto per trattare ulteriormente del Pescesega e del significato sacrale del rostro che lo contraddistingue nella cultura indica ed in quella egizia, evidentemente apparentate per via oceanica in tempi mesolitici (dvaparayughici, nel computo ciclico indiano del tempo); allorché secondo il Mahābhārata emergeva ancora in mezzo all’Oceano Indiano un arcipelago di isole denominate Dvārakā (sicuramente connesse al cd. Dilmūn dei Sumeri), sommerse da una grande inondazione piú o meno all’inizio del Kaliyuga (del Neolitico, nel linguaggio paletnologico).  Per fortuna le ricerche archeologiche subacquee di fine secolo hanno dimostrato vero l’assunto letterario dell’epica hindu, come logico che fosse d’altronde, sebbene gli orientalisti locali di stampo modernista ed occidentaleggiante abbiano cercato in qualche modo di ribaltare i dati in favore d’altre tesi.  Il sottoscritto estende indi il discorso ancora all’ambito egeo e alle divinità ittio-ofidiche delle vie marine e fluviali, passando in rassegna ulteriori simboli equivalenti come il Cetaceo Monocero cretese; probabilmente una prefigurazione o forse un omologo dell’Apollo Delfinio delfico, munito simultaneamente di Quadridente.  Il che obbliga a rammentare la tematica equivalente, al di là degli aspetti peculiari d’ogni tradizione, del Magnus Piscis Unicornis indiano.
Tutti questi contrassegni pescini ed i loro complementi femminei si richiamano direttamente all’esistenza nell’Antichità d’un piú o meno vetusto Signore (con analoga Signora) delle Acque, oceaniche o marine che fossero; costoro di necessità costituivano al di là delle loro molteplici teofanie, raggruppabili principalmente in tre o quattro sottocategorie cicliche a seconda delle suddivisioni quinarie o quaternarie del Grande Eone, uno sdoppiamento mutevole di età in età ed iconograficamente variegato della figura ad essi antecedente del Re Pescatore.
Una distinzione essenziale fra i tre motivi plastici del Pesce Cornuto, del Granchio (o della Vēsīca Piscis) e del Tridente – in quanto rispettivi rimandi al simbolismo congiunto della Profezia, del Sacerdozio e della Regalità – porta a maturazione la ricerca.  L’esito finale della nostra indagine è appunto legato a questa emblematica triplicità, che infatti caratterizza tutti i numi marino-oceanici indiani o greci, la quale non può esser spiegata solamente su base sociale.
In conclusione l’A. ha modo, con l’ausilio d’una fiaba del folclore kashmiro di chiarire esaurientemente la reale natura del Re Pescatore mahabharatiano e quella d’alcuni simboli a costui collegati, in un primo tempo volutamente lasciati in ombra.  A seguire, in appendice, un resoconto sullo sviluppo del motivo pescino nella letteratura popolare europea; onde testimoniare l’universalità della tematica ittiomorfica, inscindibilmente legata alle radici della spiritualità umana, come del resto la tradizione cristiana medesima comprova.
Prima di chiudere la nostra Premessa vorremmo far qualche cenno ai principali problemi affrontati durante la stesura di codesto libro, la cui gestazione è durata ben 26 anni, a partire dai primi mesi dell’inizio del 1992.  Già la cifra (una cifra fatidica, numericamente equivalente alle stazioni del calendario lunare, se si aggiunge l’anno intercorrente per la pubblicazione…), da sola, basterebbe a render conto in sintesi delle difficoltà incontrate nel nostro cammino.  Non intendiamo parlare, però, dell’iter vero e proprio percorso a livello editoriale dalla prima forma del libro – in due tomi, dei quali il secondo ancora incompleto – a quella odierna sostanzialmente dimezzata.  Una sufficiente informazione al riguardo è contenuta nella Presentazione del libro parallelo di prossima uscita per altra casa editrice, intitolato ‘Il Magnus Piscis e la triplice via verso il Paradiso’; che tratta però l’argomento ittico solamente all’inizio, come sintesi, per inoltrarsi poi nei meandri del Triyuga (le ‘Tre Eta’ successive all’Età dell’Oro).
Una volta sostenuta una tesi di laurea in ‘Storia dell’Arte dell’India e dell’Asia C.’, avente per argomento il Kālacakra hindu quale fonte di quello buddhista, ci siamo trovati nella seconda metà degli Anni ’80 – grazie ad un professore veneziano il cui nome preferiamo lasciare in incognito – ad affrontare un’indagine iconologica sul Sacro Monte assegnataci grazie a lui dal Dip. di Sc.Archeol. ed Orient. dell’Univ. “Ca’ Foscari“ di Venezia.  Trattavasi d’una ricerca collegiale, di cui dovevamo approntare la parte introduttiva sull’induismo.  Dopo una ricognizione fatta direttamente sul campo, precisamente nell’India Settentrionale (Kaśmīr, Nepāl), ci siamo dedicati alla compilazione del saggio commettendo purtroppo l’errore di allargarci troppo nei contenuti, soprattutto nel settore architettonico.  Un difetto personale che è tornato spesso, disgraziatamente, nei nostri scritti.  Nel frattempo, d’altronde, ci premeva di portar a termine un ampliamento della prima tesi di laurea, in attesa di sostenerne una seconda in ‘Storia delle Religioni’ presso l’Univ. di Torino sul Cervo come emblema del Cor Fidele nel Cristianesimo antico e medievale.  Lo scopo di questa seconda laurea era quello di poterci iscrivere ad un corso di perfezionamento in Archeologia.  Cause familiari prima e motivi di salute poi ci hanno costretto a lasciar perdere tutto.  A quel punto è terminata ogni possibilità di carriera universitaria, sebbene per la verità l’età avanzata già prima c’impedisse di trastullarci in rosee prospettive.  Siamo finiti a scrivere in riviste secondarie di tipo tradizionalista, dove peraltro ci hanno accolto molto bene (il torto è nostro, non loro), con qualche malcelata eccezione.  Naturalmente la cosa ci ha spinto lontano dal mondo universitario e sappiamo tutti che ciò, oggidí, per un autore significa non contare piú nulla sul piano pratico.  L’avvertimento a non cadere in una situazione del genere ci era stato dato invero dal coordinatore della ricerca sul Sacro Monte, tuttavia in seguito sfortunatamente le circostanze della vita ci hanno portato a lidi assai distanti da quanto in un primo tempo prospettato. 
Tal coordinatore avrebbe dovuto scrivere anche la Prefazione di questo testo, ma essendosi rifiutato ed accusandoci senza mezzi termini di aver approntato un polpettone senza senso sia a livello accademico che tradizionalista (ed in effetti avevamo ricevuto rifiuti alla pubblicazione da entrambe le parti), abbiamo cercato di farlo uscire presso editori meno rinomati.  Cosa che non è potuta avvenire principalmente per fattori tecnici, il manoscritto in origine non essendo stato redatto al computer.  Lo scoraggiamento e, saremo sinceri, anche un po’ di pigrizia tipica del nostro carattere saturnino ci hanno portati a rivolgerci ad altro, lasciando il manoscritto per molti anni nell’indeterminato.  Quante volte abbiamo rimodellato il Primo ed il Secondo Capitolo non lo sappiamo neppure noi!  Questi 2 capitoli erano fondamentali nella comprensione del libro e, d’altro canto, costituivano la parte originaria di esso inviata sotto forma d’articolo inedito ad un concorso universitario nazionale.  Quali erano i problemi che rendevano il saggio inadatto ad esser accettato da parte accademica?  Crediamo, il fatto di non aver utilizzato il solito metodo di ricerca insegnato a livello universitario e sperimentato nella tesi di laurea, dove avevamo fornito dei lineamenti storici di sviluppo del concetto di Kālacakra, analizzando gli aspetti generali del tema ad uno ad uno (Navagraha,śicakra e Nakatra Maṇala, Yajñacakra e Manvantara compresi).  Inoltre, andando oltre quanto postulato nel 1938 da J.Przyluski, avevamo stilato introduttivamente un’analisi dettagliata dell’iconologia letteraria ed artistica della coppia Kāla-Kālī; che ingenuamente per molti anni gli indologi avevano tenuta separata, quando invece non erano che paredro e paredra.  Ed in tal modo avevamo suscitato l’entusiasmo totale del suddetto coordinatore, nonché relatore della nostra prima tesi; quantunque poi, all’atto  di sostenerla, le cose fossero andate non troppo bene per via d’una nottata passata insonne sul Canal Grande a causa d’una zanzara malevola.  La ricerca post-universitaria sul Meru, per sua iniziativa, ci aveva messo di nuovo fianco a fianco.  Siccome però le simpatie e le amicizie purtroppo non durano in eterno, ci siamo trovati dopo il giudizio severo da parte del medesimo nei confronti del nostro scritto sul Pesce in maniche di camicia; perciò, rimboccandoci le maniche, abbiamo cercato di rispondere colpo su colpo alle critiche.  In che maniera?  Una volta fatte alcune doverose correzioni indicateci di minor portata, abbiamo voluto trasformare il contenuto dei paragrafi in modo da non dar nulla per scontato, proponendo per la risoluzione di determinati problemi cosmografici o storici ipotesi alternative, serbandoci il diritto di poter tornare sugli argomenti altrove.  Ovviamente, avendone maggiormente problematicizzato il contenuto, abbiamo dovuto di conseguenza arricchire di citazioni bibliografiche necessarie il tessuto della nostra opera.  Senza pensare mai, comunque, a quelle fastidiose bibliografie finali che non hanno nulla, ma proprio nulla, di tradizionalista e che palesano in genere i veri intenti dell’autore: essere accettati dal mondo accademico, per far carriera.  Non si poteva fare, tuttavia, come col Kālacakra.  Non avrebbe avuto senso menzionare, per ogni periodo storico, il ricorrere del simbolismo ittico; né analizzare i personaggi ad esso connessi, ad uno ad uno, con egual metodo.  Sarebbe stato un assurdo!  Aveva molto piú senso capirne i significati reconditi, ma qui veniamo alla questione della validità della nostra opera da un punto di vista per cosí dire “tradizionalista”.
Le opere davvero tradizionali, sappiamo tutti, non erano scritte al computer; non si può pretendere di scrivere delle opere tradizionali con mezzi informatici, il mezzo non è secondario.  Del resto, il punto di vista degli attuali tradizionalisti (compreso il nostro) è tradizionalistico, non tradizionale.  La maggior parte di chi opera in tal campo non sa neanche cosa sia l’operatività, colla scusa che oggi è difficile ricevere un’iniziazione adeguata; e se lo sa se ne tiene in qualche modo distante, la carriera e la famiglia apparendo piú importanti.  Com’è giusto che sia, per non finire in società a rimanere degli sbandati.  Li capiamo, se non ci fossimo ammalati avremmo fatto probabilmente anche noi alla stessa maniera.  Quindi, criticare su questo punto, sarebbe agire come la volpe coll’uva.  Le contingenze del mondo attuali ci costringono ad un dato comportamento, non se ne esce.  Veniamo al punto.  Il nostro insegnante lasciato volutamente in incognito (è per la grande stima verso di lui nonostante il suo diniego che lo menzioniamo egualmente), nel criticare la nostra opera come non-tradizionalista oltreché non-accademica, addusse la motivazione della nostra mancata citazione di autori tradizionali.  A questa critica va riconosciuto un merito, d’averci spronato al riesame di tutte le nostre affermazioni, che effettivamente partendo dall’entusiasmo delle nostre iniziali intuizioni si limitarono in un primo tempo a schematizzazioni descriventi esclusivamente i risultati dell’indagine, senza motivarli opportunamente.  In realtà eravamo partiti da due noti scritti di Guénon e Coomaraswamy sul Pesce, specie il secondo, l’unico infatti a rivelare che il tema del Re Pescatore era diffuso anche in India.  Bastava rifarsi alla mitologia di Varuṇa.  Nel seguire in funzione di libero battitore (chi scrive non è però profano in materia, avendo ricevuto una doppia iniziazione in Europa e in India) codeste orme guénoniane e coomaraswamiane, alle quali pur non avevamo dato il necessario risalto nell’opera ancora in fieri, leggendo la O’ Flaherty ci siamo primieramente imbattuti in una strana variante del mito dell’incesto cosmogonico; con cui avevamo principiato la nostra avventura pubblicistica in Vie della Tradizione, la rivista palermitana diretta dal compianto dott. Cannizzo, che per prima avrebbe dovuto affrontare la pubblicazione a puntate del nostro scritto.  Sennonché non se ne fece niente e fu quello, nel ’96, il primo grande bisticcio coll’ambiente tradizionalista evoliano.  Lo stato di salute estremamente negativo nel quale ci siamo venuti a trovare a partire dal 1995-6, senza per questo cercar scuse, non ci ha di certo aiutato a calmare le acque.  Ne era seguito nel ’97 un analogo litigio col relatore della prima tesi (questa volta guénoniano), nonché coordinatore della ricerca sul Monte Sacro, ed avendo nel frattempo abbandonato il corso di laurea in Lettere Moderne e la seconda tesi in Storia delle Religioni, per motivi che non stiamo a dire, ci trovammo fuori da ogni possibilità di continuare a scrivere.  Persino col Presentatore della nostra traduzione commentata di The Orion, opera prima di L.B.G. Tilak, intervenne il silenzio di lí a poco per un malinteso.  Non ci rimase che affidarci all’amico dott. Albrile, ottimo Prefatore alfine di codesto testo, per qualche pubblicazione secondaria in attesa del meglio.
Un terzo punto da chiarire è il seguente.  Fra i rimproveri del primo relatore ci fu quello d’aver completamente sbagliato l’approccio alla situazione cosmologica del Kaliyuga.  Sinceramente da parte nostra eravamo allora ancora in cerca d’un punto di vista obiettivo al riguardo, la consueta descrizione degli eventi non apparendoci del tutto chiara ed accettabile né da parte tradizionalista né da parte accademica.  Il Parpola, molto stimato dal nostro ex-coordinatore, ha apportato delle importanti novità sul tema; seppur a nostro modesto parere non del tutto convincenti, come cercheremo di dimostrare nel testo.  Siamo convinti d’aver ora finalmente risolto egregiamente la questione, in relazione alla provenienza degli Ari, sebbene dei punti oscuri permangano tuttora nella nostra ricostruzione cosmografica; ma quella comunemente accettata ci pareva, e ci pare tutt’oggi, assolutamente inadeguata.  Temiamo però che il riadattamento della vecchia terminologia biblica, in rapporto al problema indoeuropeo e non, ci creerà ostilità.  Se l’abbiamo rispolverata è perché non ci sembrava ve ne fosse una migliore.  Oltretutto, ad un certo punto ci è parso che la questione indoeuropea sia venuta a confondersi colla questione dei 2 Rāma (nonostante la segnalazione del problema lo scorso secolo da parte di Guénon), personaggi erroneamente identificati fra di loro dall’occultismo massonico durante il Settecento e l’Ottocento per via del medesimo nome. Intuivamo d’altronde che vi era alcunché d’incongruo nella sostituzione storico-religiosa del preteso ceppo indoeuropeo ai discendenti di Iaphet, ma per molto tempo non siamo riusciti a trovare la risoluzione del problema.  Soltanto di recente crediamo d’essere giunti ad un punto fermo, finalmente, partendo dalla ‘Bibbia’; cioè identificando i 3 <Figli> di Adamo ai 3 Avatāra tretayughici venerati nel Vishnuismo (Vāmana, Paraśu-rāma e Rāma-candra) ed affidandoci poi, per ulteriori particolari su tali cicli (ogni personaggio paradigmatico crediamo ne caratterizzi uno), a vecchi scritti del D’Olivet e del Saunier.  Costoro, pur confondendo il VI ed il VII Avatāra, affermavano giustamente che Rāma era giunto dall’Asia; e facevano del Ciclo dell’Ariete – Ram in inglese significa appunto ‘Ariete’ – una fase posteriore in tempi argentei del Ciclo Aureo, identificato a quello Paradisiaco.  Evidentemente si riferivano al primo Rāma, omologo hindu del primo Lamech biblico; il secondo Rāma, equivalendo a Šeth, ha svolto invece al pari di Nōaḥ il suo ruolo in una terra oltreatlantica che lasciamo per ora volutamente imprecisata.  Ecco perché è discesa a noi (via Warren-Tilak) l’idea degl’Indoeuropei provenienti dall’Asia Centrale.  Erano invece i titani ramaiti, secondo Guénon d’origine iperborea (nel linguaggio odierno sarebbe meglio definirla sub-artica); poi scontratisi coi pigmei negritos dei Mari del Sud, la prima ramificazione indiretta degli adamiti, che la ‘Bibbia’ conosce come prole cainita.  Ne dà conferma oltre alla tradizione indiana quella iranica, attraverso il personaggio di Thraētaona (var. Farīdūn) segnalatoci dal dott. Albrile, che altri non è se non il Perseo dei Greci.  La Genesi peraltro commette un errore nel raccontare la storia della progenie di Adamo, poiché fa del primo Lamech (Rāma) un discendente di Qayin (Vāmana); ma è un dato inaccettabile, dovuto di sicuro ad un fraintendimento.  O, se preferiamo, al trasferimento itinerariamente problematico e numericamente deficitario delle tradizioni del V e del VI Ciclo Avatarico al VII per via sudafricano-antartica.  Il secondo Lamech (Rāma) è antenato di Nōaḥ, in alternativa a Šeth, segno che le due figure di Lamech e Šeth biblicamente coincidono in quella che viene oggi reputata dagli specialisti una doppia redazione sovrapposta del testo.  In altre parole, il secondo Lamech (Rāma) una volta probabilmente fungeva da alter-ego di Šeth  D’altra parte Hevel, rimasto biblicamente senza eredi, ha nei suoi corrispettivi indiano e greco ben altra sorte dopo la morte.  La storia completa dell’uccisione del pastore Abele da parte dell’orticoltore Caino è paragonabile in India alla leggenda di Parśu ed in Grecia a quella di Perseús.  Il padre di Parśu (Jamadagni) viene ucciso nell’analogo mito indiano dai figli del re Kārtavīrya; doppione negativo di Vāmana, ancorché tardivamente storicizzato da un punto di vista evemeristico quale padre di Arjuna.  Il figlio no, si vendicherà poi uccidendo Kārtavīrya.  Esattamente come fa in Genesi- iv, 23-4 (quantunque l’uccisione sia solamente sottintesa per evidente ritocco della scena) il primo Lamech con Qayin, ma in questo caso non volutamente.  Del pari il nonno di Perseo (Akrísios) viene ucciso, accidentalmente, dal nipote con un disco.  Ne deduciamo allora che il titanico Parśu-rāma (il cui nome pare fondere in un’unica figura il personaggio greco di Perseús e quello ebraico di Lamech), figlio di Jamadagni (cfr. con Akrísios, Hevel) dal capo tridentato, non può discendere in linea diretta dal piccolo Vāmana (Proîtos, Qayin); benché come questi appartenga alla stirpe di Manu, cioè alla discendenza di Adamo.  Altrimenti non avrebbe ucciso un lontano antenato...  Onde, se i Proto-ramaiti provengono dall’Asia Centrale dopo aver abbandonato la Siberia, i Proto-iapheti da dove discendono?  Dall’Atlantide, evidentemente.  O meglio, distinguendo gli Iapheti dai Semiti e dai Camiti, si può ipotizzare che  i primi discendano dalla parte settentrionale del continente americano, i secondi dalla parte centrale (sebbene in gran parte oggi immersa) e i terzi dalla parte meridionale.  Non afferma Evola che secondo i Goti, genti norreniche d’origine vichinga di poi ebraicizzate, la Groenlandia era ancor verdeggiante ai loro tempi?  La vera origine del ceppo etnolinguistico indoeuropeo, dunque, è nordoccidentale prima e poi nordeuropea, non centroasiatica né nordasiatica.  Nonostante gli studiosi dell’est-europeo abbiano confuso negli ultimi decenni la faccenda, ma basterebbe prendere la prima fase della pista di provenienza da loro delineata al contrario (ovvero dall’Asia Sudoccidentale a quella Centrale) e otterremmo una linea di spostamento piú verosimile, una linea a V che sale possibilmente dall’Armenia in una doppia direzione (nordoccidentale e nordorientale) onde proseguire verso il Centroeuropa o l’Asia Centrale; per poi ridiscendere verso sud, forse a causa di fattori climatici.  Per tale ragione probabilmente i discendenti dei 2 Rāma, gli uni d’origine atlantica e gli altri d’origine siberiana, hanno finito per sovrapporsi nella memoria generale; sí da generare molta confusione nel delineamento reale degli eventi, confusione che regna ancor oggi, tranne che nelle tradizioni gitane, le quali sanno bene delle due distinte origini.    Non a caso la componente rom degli Zingari asserisce di discendere da Hevel, sterile invece per i giudeo-cristiani, eppure equivalente biblico del genitore di Paraśu-rāma ovvero del baffuto Jamadagni.  Segno fra l’altro che ancora non molto tempo fa la comprensione dei miti e delle leggende era viva, se persino un’etnia dispersa e senza scritture quale quella citata era in grado di capire unicamente attraverso la tradizione orale il netto parallelismo fra le storie bibliche e quelle puraniche.
Un augurio di buona lettura, sperando di risuscitare nel lettore quel sacro fuoco e quella curiosità critica che ci hanno spinto a stilare codeste pagine.  Possano essere le nostre parole una rugiada di luce mattutina ed un sostegno indelebile per chiunque voglia prendersi la briga di affrontare il percorso conoscitivo, assai periglioso ed irto di trabocchetti, di codesto saggio.                          

Volpeglino, li 27 marzo 2017                                                                                                                                 
                                                          Giuseppe Acerbi           

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