Premessa
Questo saggio esamina in prima istanza le enigmatiche
differenze ma nel contempo anche le convergenti analogie tra la figura primeva
del Dāśa Rāja (‘Re Pescatore’) e
quella avatarica del Mahā Matsya
(‘Grande Pesce’), alternativamente definito in India Hiraṇya
Matsya (‘Pesce d’Oro‘) o Matsya Ekaśṛṅga (‘Pesce
Unicorne’), nell’ambito della letteratura epico-puranica hindu e della
corrispettiva iconografia medievale; indi traccia uno schema interpretativo di
siffatte due essenziali figure cultuali, che formano seppur celatamente la base
mitica dell’intero induismo, distinguendo al riguardo fra i punti di vista
diversificati delle varie scuole spirituali.
Le distinte interpretazioni
riguardo la maniera in cui si rapportano tra di loro il Pesce ed il Re
Pescatore costituiscono il fattore ontologico differenziante un’epoca ciclica
dall’altra all’interno della cronologia tradizionale hindu, ovviamente a
partire dal Satya Yuga (‘Epoca’ della
Verità’), l’aureo tempo in cui si intuiva l’Unicità dell’Essere (Sat) senza intimo atteggiamento duale
fra il Sé e la Divinità. Sicuramente uno
studio accurato del celtismo ci porterebbe alle stesse conclusioni, ma la forma
corrotta nella quale questa tradizione ci è pervenuta – attraverso la
letteratura epica graaliana nella sua doppia facies pagana e cristiana, erede a sua volta d’una antica
letteratura gallo-romana d’ispirazione pagana e d’una medievale franco-latina
d’ispirazione cristiana – non ci può permettere d’affermarlo
categoricamente. Si può azzardare, in
proposito, soltanto un’ipotesi di lavoro.
Viene poi indicato un parallelo di carattere
mitologico ed iconologico tra il culto antico del Delfino e del Polpo
nell’Oceano Indiano e quello analogo nel Mar Mediterraneo, mettendo in rilievo
fra l’altro il doppio valore solstiziale e quindi assiale di tale
simbologia.
Nel far ciò l’A. non manca di sottolineare a lato, a
seguito degli scritti importanti di alcuni colleghi di studio sul Monocero ed
il Monopode indiano e non – ma non necessariamente in accordo con loro – il
senso sostanzialmente ittiomorfico-assiale, seppure in modo traslato, anche di
simboliche artistico-letterarie apparentemente diverse ma in realtà correlate
quali l’Unicornía, l’Itifallismo e l’Unipedía.
Da ciò l’A. prende spunto per trattare ulteriormente
del Pescesega e del significato sacrale del rostro che lo contraddistingue
nella cultura indica ed in quella egizia, evidentemente apparentate per via
oceanica in tempi mesolitici (dvaparayughici, nel computo ciclico indiano del
tempo); allorché secondo il Mahābhārata emergeva
ancora in mezzo all’Oceano Indiano un arcipelago di isole denominate Dvārakā
(sicuramente connesse al cd. Dilmūn dei Sumeri),
sommerse da una grande inondazione piú o meno all’inizio del Kaliyuga (del Neolitico, nel linguaggio
paletnologico). Per fortuna le ricerche
archeologiche subacquee di fine secolo hanno dimostrato vero l’assunto
letterario dell’epica hindu, come logico che fosse d’altronde, sebbene gli
orientalisti locali di stampo modernista ed occidentaleggiante abbiano cercato
in qualche modo di ribaltare i dati in favore d’altre tesi. Il sottoscritto estende indi il discorso
ancora all’ambito egeo e alle divinità ittio-ofidiche delle vie marine e
fluviali, passando in rassegna ulteriori simboli equivalenti come il Cetaceo
Monocero cretese; probabilmente una prefigurazione o forse un omologo
dell’Apollo Delfinio delfico, munito simultaneamente di Quadridente. Il che obbliga a rammentare la tematica
equivalente, al di là degli aspetti peculiari d’ogni tradizione, del Magnus Piscis Unicornis indiano.
Tutti questi contrassegni pescini ed i loro
complementi femminei si richiamano direttamente all’esistenza nell’Antichità
d’un piú o meno vetusto Signore (con analoga Signora) delle Acque, oceaniche o
marine che fossero; costoro di necessità costituivano al di là delle loro
molteplici teofanie, raggruppabili principalmente in tre o quattro
sottocategorie cicliche a seconda delle suddivisioni quinarie o quaternarie del
Grande Eone, uno sdoppiamento mutevole di età in età ed iconograficamente
variegato della figura ad essi antecedente del Re Pescatore.
Una distinzione essenziale fra i tre motivi plastici
del Pesce Cornuto, del Granchio (o della Vēsīca Piscis) e
del Tridente – in quanto rispettivi rimandi al simbolismo congiunto della
Profezia, del Sacerdozio e della Regalità – porta a maturazione la
ricerca. L’esito finale della nostra
indagine è appunto legato a questa emblematica triplicità, che infatti
caratterizza tutti i numi marino-oceanici indiani o greci, la quale non può
esser spiegata solamente su base sociale.
In conclusione l’A. ha modo, con l’ausilio d’una fiaba
del folclore kashmiro di chiarire esaurientemente la reale natura del Re
Pescatore mahabharatiano e quella d’alcuni simboli a costui collegati, in un
primo tempo volutamente lasciati in ombra.
A seguire, in appendice, un resoconto sullo sviluppo del motivo pescino
nella letteratura popolare europea; onde testimoniare l’universalità della
tematica ittiomorfica, inscindibilmente legata alle radici della spiritualità
umana, come del resto la tradizione cristiana medesima comprova.
Prima di chiudere la nostra Premessa vorremmo far
qualche cenno ai principali problemi affrontati durante la stesura di codesto
libro, la cui gestazione è durata ben 26 anni, a partire dai primi mesi
dell’inizio del 1992. Già la cifra (una
cifra fatidica, numericamente equivalente alle stazioni del calendario lunare,
se si aggiunge l’anno intercorrente per la pubblicazione…), da sola, basterebbe
a render conto in sintesi delle difficoltà incontrate nel nostro cammino. Non intendiamo parlare, però, dell’iter vero
e proprio percorso a livello editoriale dalla prima forma del libro – in due
tomi, dei quali il secondo ancora incompleto – a quella odierna sostanzialmente
dimezzata. Una sufficiente informazione
al riguardo è contenuta nella Presentazione del libro parallelo di prossima
uscita per altra casa editrice, intitolato ‘Il Magnus Piscis e la triplice via verso il Paradiso’; che tratta però
l’argomento ittico solamente all’inizio, come sintesi, per inoltrarsi poi nei
meandri del Triyuga (le ‘Tre Eta’
successive all’Età dell’Oro).
Una volta sostenuta una tesi di laurea in ‘Storia
dell’Arte dell’India e dell’Asia C.’, avente per argomento il Kālacakra hindu quale fonte di quello
buddhista, ci siamo trovati nella seconda metà degli Anni ’80 – grazie ad un
professore veneziano il cui nome preferiamo lasciare in incognito – ad
affrontare un’indagine iconologica sul Sacro Monte assegnataci grazie a lui dal
Dip. di Sc.Archeol. ed Orient. dell’Univ. “Ca’ Foscari“ di Venezia. Trattavasi d’una ricerca collegiale, di cui
dovevamo approntare la parte introduttiva sull’induismo. Dopo una ricognizione fatta direttamente sul
campo, precisamente nell’India Settentrionale (Kaśmīr, Nepāl), ci siamo
dedicati alla compilazione del saggio commettendo purtroppo l’errore di
allargarci troppo nei contenuti, soprattutto nel settore architettonico. Un difetto personale che è tornato spesso,
disgraziatamente, nei nostri scritti.
Nel frattempo, d’altronde, ci premeva di portar a termine un ampliamento
della prima tesi di laurea, in attesa di sostenerne una seconda in ‘Storia
delle Religioni’ presso l’Univ. di Torino sul Cervo come emblema del Cor Fidele nel Cristianesimo antico e
medievale. Lo scopo di questa seconda
laurea era quello di poterci iscrivere ad un corso di perfezionamento in
Archeologia. Cause familiari prima e
motivi di salute poi ci hanno costretto a lasciar perdere tutto. A quel punto è terminata ogni possibilità di
carriera universitaria, sebbene per la verità l’età avanzata già prima
c’impedisse di trastullarci in rosee prospettive. Siamo finiti a scrivere in riviste secondarie
di tipo tradizionalista, dove peraltro ci hanno accolto molto bene (il torto è
nostro, non loro), con qualche malcelata eccezione. Naturalmente la cosa ci ha spinto lontano dal
mondo universitario e sappiamo tutti che ciò, oggidí, per un autore significa
non contare piú nulla sul piano pratico.
L’avvertimento a non cadere in una situazione del genere ci era stato
dato invero dal coordinatore della ricerca sul Sacro Monte, tuttavia in seguito
sfortunatamente le circostanze della vita ci hanno portato a lidi assai
distanti da quanto in un primo tempo prospettato.
Tal coordinatore avrebbe dovuto scrivere anche la
Prefazione di questo testo, ma essendosi rifiutato ed accusandoci senza mezzi
termini di aver approntato un polpettone senza senso sia a livello accademico
che tradizionalista (ed in effetti avevamo ricevuto rifiuti alla pubblicazione
da entrambe le parti), abbiamo cercato di farlo uscire presso editori meno
rinomati. Cosa che non è potuta avvenire
principalmente per fattori tecnici, il manoscritto in origine non essendo stato
redatto al computer. Lo scoraggiamento e, saremo sinceri, anche un
po’ di pigrizia tipica del nostro carattere saturnino ci hanno portati a
rivolgerci ad altro, lasciando il manoscritto per molti anni
nell’indeterminato. Quante volte abbiamo
rimodellato il Primo ed il Secondo Capitolo non lo sappiamo neppure noi! Questi 2 capitoli erano fondamentali nella
comprensione del libro e, d’altro canto, costituivano la parte originaria di
esso inviata sotto forma d’articolo inedito ad un concorso universitario nazionale. Quali erano i problemi che rendevano il
saggio inadatto ad esser accettato da parte accademica? Crediamo, il fatto di non aver utilizzato il
solito metodo di ricerca insegnato a livello universitario e sperimentato nella
tesi di laurea, dove avevamo fornito dei lineamenti storici di sviluppo del
concetto di Kālacakra, analizzando
gli aspetti generali del tema ad uno ad uno (Navagraha, Rāśicakra e Nakṣatra Maṇḍala, Yajñacakra e Manvantara compresi). Inoltre, andando oltre quanto postulato nel
1938 da J.Przyluski, avevamo stilato introduttivamente un’analisi dettagliata
dell’iconologia letteraria ed artistica della coppia Kāla-Kālī; che ingenuamente per molti anni gli indologi avevano
tenuta separata, quando invece non erano che paredro e paredra. Ed in tal modo avevamo suscitato l’entusiasmo
totale del suddetto coordinatore, nonché relatore della nostra prima tesi;
quantunque poi, all’atto di sostenerla,
le cose fossero andate non troppo bene per via d’una nottata passata insonne
sul Canal Grande a causa d’una zanzara malevola. La ricerca post-universitaria sul Meru, per sua iniziativa, ci aveva messo
di nuovo fianco a fianco. Siccome però
le simpatie e le amicizie purtroppo non durano in eterno, ci siamo trovati dopo
il giudizio severo da parte del medesimo nei confronti del nostro scritto sul
Pesce in maniche di camicia; perciò, rimboccandoci le maniche, abbiamo cercato
di rispondere colpo su colpo alle critiche.
In che maniera? Una volta fatte
alcune doverose correzioni indicateci di minor portata, abbiamo voluto
trasformare il contenuto dei paragrafi in modo da non dar nulla per scontato,
proponendo per la risoluzione di determinati problemi cosmografici o storici
ipotesi alternative, serbandoci il diritto di poter tornare sugli argomenti
altrove. Ovviamente, avendone
maggiormente problematicizzato il contenuto, abbiamo dovuto di conseguenza
arricchire di citazioni bibliografiche necessarie il tessuto della nostra
opera. Senza pensare mai, comunque, a
quelle fastidiose bibliografie finali che non hanno nulla, ma proprio nulla, di
tradizionalista e che palesano in genere i veri intenti dell’autore: essere
accettati dal mondo accademico, per far carriera. Non si poteva fare, tuttavia, come col Kālacakra. Non avrebbe avuto senso menzionare, per ogni
periodo storico, il ricorrere del simbolismo ittico; né analizzare i personaggi
ad esso connessi, ad uno ad uno, con egual metodo. Sarebbe stato un assurdo! Aveva molto piú senso capirne i significati
reconditi, ma qui veniamo alla questione della validità della nostra opera da
un punto di vista per cosí dire “tradizionalista”.
Le opere davvero tradizionali, sappiamo tutti, non
erano scritte al computer; non si può
pretendere di scrivere delle opere tradizionali con mezzi informatici, il mezzo
non è secondario. Del resto, il punto di
vista degli attuali tradizionalisti (compreso il nostro) è tradizionalistico,
non tradizionale. La maggior parte di
chi opera in tal campo non sa neanche cosa sia l’operatività, colla scusa che
oggi è difficile ricevere un’iniziazione adeguata; e se lo sa se ne tiene in
qualche modo distante, la carriera e la famiglia apparendo piú importanti.
Com’è giusto che sia, per non finire in società a rimanere degli
sbandati. Li capiamo, se non ci fossimo
ammalati avremmo fatto probabilmente anche noi alla stessa maniera. Quindi, criticare su questo punto, sarebbe
agire come la volpe coll’uva. Le
contingenze del mondo attuali ci costringono ad un dato comportamento, non se
ne esce. Veniamo al punto. Il nostro insegnante lasciato volutamente in
incognito (è per la grande stima verso di lui nonostante il suo diniego che lo
menzioniamo egualmente), nel criticare la nostra opera come non-tradizionalista
oltreché non-accademica, addusse la motivazione della nostra mancata citazione
di autori tradizionali. A questa critica
va riconosciuto un merito, d’averci spronato al riesame di tutte le nostre
affermazioni, che effettivamente partendo dall’entusiasmo delle nostre iniziali
intuizioni si limitarono in un primo tempo a schematizzazioni descriventi
esclusivamente i risultati dell’indagine, senza motivarli opportunamente. In realtà eravamo partiti da due noti scritti
di Guénon e Coomaraswamy sul Pesce, specie il secondo, l’unico infatti a
rivelare che il tema del Re Pescatore era diffuso anche in India. Bastava rifarsi alla mitologia di Varuṇa.
Nel seguire in funzione di libero battitore (chi scrive non è però
profano in materia, avendo ricevuto una doppia iniziazione in Europa e in India)
codeste orme guénoniane e coomaraswamiane, alle quali pur non avevamo dato il
necessario risalto nell’opera ancora in
fieri, leggendo la O’ Flaherty ci siamo primieramente imbattuti in una
strana variante del mito dell’incesto cosmogonico; con cui avevamo principiato
la nostra avventura pubblicistica in Vie
della Tradizione, la rivista palermitana diretta dal compianto dott.
Cannizzo, che per prima avrebbe dovuto affrontare la pubblicazione a puntate
del nostro scritto. Sennonché non se ne
fece niente e fu quello, nel ’96, il primo grande bisticcio coll’ambiente
tradizionalista evoliano. Lo stato di
salute estremamente negativo nel quale ci siamo venuti a trovare a partire dal
1995-6, senza per questo cercar scuse, non ci ha di certo aiutato a calmare le
acque. Ne era seguito nel ’97 un analogo
litigio col relatore della prima tesi (questa volta guénoniano), nonché
coordinatore della ricerca sul Monte Sacro, ed avendo nel frattempo abbandonato
il corso di laurea in Lettere Moderne e la seconda tesi in Storia delle
Religioni, per motivi che non stiamo a dire, ci trovammo fuori da ogni
possibilità di continuare a scrivere.
Persino col Presentatore della nostra traduzione commentata di The Orion, opera prima di L.B.G. Tilak,
intervenne il silenzio di lí a poco per un malinteso. Non ci rimase che affidarci all’amico dott.
Albrile, ottimo Prefatore alfine di codesto testo, per qualche pubblicazione
secondaria in attesa del meglio.
Un terzo punto da chiarire è il seguente. Fra i rimproveri del primo relatore ci fu
quello d’aver completamente sbagliato l’approccio alla situazione cosmologica
del Kaliyuga. Sinceramente da parte nostra eravamo allora
ancora in cerca d’un punto di vista obiettivo al riguardo, la consueta
descrizione degli eventi non apparendoci del tutto chiara ed accettabile né da
parte tradizionalista né da parte accademica.
Il Parpola, molto stimato dal nostro ex-coordinatore, ha apportato delle
importanti novità sul tema; seppur a nostro modesto parere non del tutto
convincenti, come cercheremo di dimostrare nel testo. Siamo convinti d’aver ora finalmente risolto
egregiamente la questione, in relazione alla provenienza degli Ari, sebbene dei
punti oscuri permangano tuttora nella nostra ricostruzione cosmografica; ma
quella comunemente accettata ci pareva, e ci pare tutt’oggi, assolutamente
inadeguata. Temiamo però che il
riadattamento della vecchia terminologia biblica, in rapporto al problema
indoeuropeo e non, ci creerà ostilità.
Se l’abbiamo rispolverata è perché non ci sembrava ve ne fosse una
migliore. Oltretutto, ad un certo punto
ci è parso che la questione indoeuropea sia venuta a confondersi colla
questione dei 2 Rāma (nonostante la
segnalazione del problema lo scorso secolo da parte di Guénon), personaggi
erroneamente identificati fra di loro dall’occultismo massonico durante il
Settecento e l’Ottocento per via del medesimo nome. Intuivamo d’altronde che vi
era alcunché d’incongruo nella sostituzione storico-religiosa del preteso ceppo
indoeuropeo ai discendenti di Iaphet,
ma per molto tempo non siamo riusciti a trovare la risoluzione del
problema. Soltanto di recente crediamo d’essere giunti ad un punto fermo,
finalmente, partendo dalla ‘Bibbia’;
cioè identificando i 3 <Figli> di Adamo ai 3 Avatāra
tretayughici venerati nel Vishnuismo (Vāmana, Paraśu-rāma e Rāma-candra)
ed affidandoci poi, per ulteriori particolari su tali cicli (ogni personaggio
paradigmatico crediamo ne caratterizzi uno), a vecchi scritti del D’Olivet e
del Saunier. Costoro, pur confondendo il VI ed il VII Avatāra,
affermavano giustamente che Rāma era giunto dall’Asia; e
facevano del Ciclo dell’Ariete – Ram
in inglese significa appunto ‘Ariete’ – una fase posteriore in tempi argentei
del Ciclo Aureo, identificato a quello Paradisiaco. Evidentemente si riferivano al primo Rāma,
omologo hindu del primo Lamech
biblico; il secondo Rāma, equivalendo a Šeth, ha svolto invece al pari di Nōaḥ il suo ruolo in una terra oltreatlantica che lasciamo
per ora volutamente imprecisata. Ecco perché è discesa a noi (via
Warren-Tilak) l’idea degl’Indoeuropei provenienti dall’Asia Centrale.
Erano invece i titani ramaiti, secondo Guénon d’origine iperborea (nel
linguaggio odierno sarebbe meglio definirla sub-artica); poi scontratisi coi
pigmei negritos dei Mari del Sud, la prima ramificazione indiretta degli
adamiti, che la ‘Bibbia’ conosce come prole cainita. Ne dà conferma oltre alla tradizione indiana
quella iranica, attraverso il personaggio di Thraētaona (var. Farīdūn)
segnalatoci dal dott. Albrile, che altri non è se non il Perseo dei
Greci. La Genesi peraltro commette un errore nel raccontare la
storia della progenie di Adamo, poiché fa del primo Lamech (Rāma) un
discendente di Qayin (Vāmana); ma è un dato inaccettabile, dovuto
di sicuro ad un fraintendimento. O, se
preferiamo, al trasferimento itinerariamente problematico e numericamente
deficitario delle tradizioni del V e del VI Ciclo Avatarico al VII per via
sudafricano-antartica. Il secondo Lamech
(Rāma) è antenato di Nōaḥ, in alternativa a Šeth, segno che le due figure di Lamech
e Šeth biblicamente coincidono
in quella che viene oggi reputata dagli specialisti una doppia redazione
sovrapposta del testo. In altre parole, il secondo Lamech (Rāma) una volta
probabilmente fungeva da alter-ego di Šeth. D’altra parte Hevel, rimasto biblicamente senza eredi,
ha nei suoi corrispettivi indiano e greco ben altra sorte dopo la morte. La storia completa dell’uccisione del pastore
Abele da parte dell’orticoltore Caino è paragonabile in India alla leggenda di Parśu
ed in Grecia a quella di Perseús.
Il padre di Parśu (Jamadagni) viene ucciso nell’analogo mito indiano dai figli del re Kārtavīrya; doppione negativo di Vāmana, ancorché tardivamente
storicizzato da un punto di vista evemeristico quale padre di Arjuna.
Il figlio no, si vendicherà poi uccidendo Kārtavīrya. Esattamente come fa in Genesi- iv, 23-4 (quantunque l’uccisione sia solamente sottintesa
per evidente ritocco della scena) il primo Lamech
con Qayin, ma in questo caso non
volutamente. Del pari il nonno di Perseo
(Akrísios) viene ucciso,
accidentalmente, dal nipote con un disco.
Ne deduciamo allora che il titanico Parśu-rāma (il cui nome pare fondere in
un’unica figura il personaggio greco di Perseús
e quello ebraico di Lamech),
figlio di Jamadagni (cfr. con Akrísios, Hevel) dal
capo tridentato, non può discendere in linea diretta dal piccolo Vāmana
(Proîtos, Qayin);
benché come questi appartenga alla stirpe di Manu, cioè alla discendenza di Adamo. Altrimenti non avrebbe
ucciso un lontano antenato... Onde, se i Proto-ramaiti provengono
dall’Asia Centrale dopo aver abbandonato la Siberia, i Proto-iapheti da dove
discendono? Dall’Atlantide, evidentemente. O meglio, distinguendo
gli Iapheti dai Semiti e dai Camiti, si può ipotizzare che i primi discendano dalla parte settentrionale
del continente americano, i secondi dalla parte centrale (sebbene in gran parte
oggi immersa) e i terzi dalla parte meridionale. Non afferma Evola che
secondo i Goti, genti norreniche d’origine vichinga di poi ebraicizzate, la
Groenlandia era ancor verdeggiante ai loro tempi? La vera origine del
ceppo etnolinguistico indoeuropeo, dunque, è nordoccidentale prima e poi
nordeuropea, non centroasiatica né nordasiatica. Nonostante gli studiosi
dell’est-europeo abbiano confuso negli ultimi decenni la faccenda, ma
basterebbe prendere la prima fase della pista di provenienza da loro delineata
al contrario (ovvero dall’Asia Sudoccidentale a quella Centrale) e otterremmo
una linea di spostamento piú verosimile, una linea a V che sale possibilmente
dall’Armenia in una doppia direzione (nordoccidentale e nordorientale) onde
proseguire verso il Centroeuropa o l’Asia Centrale; per poi ridiscendere verso
sud, forse a causa di fattori climatici. Per tale ragione probabilmente i
discendenti dei 2 Rāma, gli uni
d’origine atlantica e gli altri d’origine siberiana, hanno finito per
sovrapporsi nella memoria generale; sí da generare molta confusione nel
delineamento reale degli eventi, confusione che regna ancor oggi, tranne che
nelle tradizioni gitane, le quali sanno bene delle due distinte origini. Non
a caso la componente rom degli Zingari asserisce di discendere da Hevel, sterile invece per i
giudeo-cristiani, eppure equivalente biblico del genitore di Paraśu-rāma
ovvero del baffuto Jamadagni. Segno fra l’altro che ancora non molto tempo
fa la comprensione dei miti e delle leggende era viva, se persino un’etnia
dispersa e senza scritture quale quella citata era in grado di capire
unicamente attraverso la tradizione orale il netto parallelismo fra le storie
bibliche e quelle puraniche.
Un augurio di buona lettura, sperando di risuscitare
nel lettore quel sacro fuoco e quella curiosità critica che ci hanno spinto a
stilare codeste pagine. Possano essere
le nostre parole una rugiada di luce mattutina ed un sostegno indelebile per
chiunque voglia prendersi la briga di affrontare il percorso conoscitivo, assai
periglioso ed irto di trabocchetti, di codesto saggio.
Volpeglino, li 27 marzo 2017
Giuseppe Acerbi
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