Cap.
V
Il
signore e la Signora delle Acque
indomediterranei:
loro manifestazioni
(marine,
titaniche ed eroiche)
a) Altre immagini accoppiate del Delfino e del
Polpo
Un’ulteriore immagine, raddoppiata, del Polpo
e del Delfino è rintracciabile in una scena dipinta su un vaso attico in
terracotta (del 480 a.C. c.) appartenente al Mus.Gregor. Etrusco (in Vaticano)
ed illustrante il viaggio marittimo-notturno di Eracle all’interno di una
‘Magica Coppa’, che altro non è se non l’Aurea Coppa di Elio-Iperione. I due emblemi solstiziali appaiono ivi
ritratti insieme ad un motivo di onde, alla base del sacro recipiente, con un
fregio di croci e di greche che racchiude il tutto. Il Neumann (1) ha intuito con acume il valore del Vaso in generale,
omologabile al Calderone shamanico, quale emblema di trasformazione; nonché la
diretta relazione di esso colla Terra Madre, concepita allegoricamente nei
panni d’una donna partoriente. In
effetti, il viaggio notturno del Sole era percepito dagli antichi come una
sorta di descensus ad Inferos,
giacché codesto movimento invisibile del luminare era messo in corrispondenza
dal punto di vista annuale colla permanenza celeste dell’astro al di sotto
dell’Equatore. Ragion per cui si
constaterà come l’Arca Solare – tale è infatti la Coppa di Eracle – in una
prospettiva astronomica geocentrica venga a risultare un doppione, dopo il suo
viaggio al di sotto dell’orizzonte, della Terra Madre medesima (schematizzabile
in quest’ottica anch’essa in forma di semicerchio, non meno dell’Arca-coppa);
quasi che fosse lei a generare ogni volta, ciclicamente, un Nuovo Sole.
Siccome però il riferimento simbolico ai
solstizi conferisce alla Coppa Solare ora descritto un aspetto piú annuale che giornaliero, si deve arguire che
abbiamo a che fare per l’occasione segnatamente con un’Arca Zodiacale. Non si tratta comunque di due interpretazioni
distinte, dato che l’Arca è ciò che per definizione contiene (dal lat. arceo = ‘contenere, trattenere’)(2) principialmente (gr. Ἀρχή = ‘principio’) ossia in modo
immanifesto la Creazione; il che può esser inteso sotto un profilo tanto
giornaliero, quanto annuale. Volendo
tuttavia cavillare si dovrebbe allora discernere tra un ruolo solare-attivo
dell’Arca, o Coppa che dir si voglia, ed uno lunare-passivo perfettamente
equivalente; od ancora, tra una metà formata dall’arcata discendente del fianco
sinistro del recipiente ed una metà opposta costituita dall’arcata ascendente del
fianco destro. Le due metà della Coppa
coincidono in altre parole colle due sezioni inferiori del quadrante di cerchio
del ciclo giornaliero ed annuale, allorché si abbia a che fare coll’Arca
Solare; ma, se invece ci troviamo di fronte all’Arca Lunare, le due metà di
questa vengono a coincidere colle due sezioni inferiori del quadrante di
cerchio del ciclo mensile. Quindi, in
definitiva, i significati cosmologici dell’Arca-coppa sono 3:
solar-giornaliero, lunar-mensile e solar-annuale.
Il motivo del Polpo e del Delfino, in analoga
associazione simbolica coll’Arca, torna in evidenza sorprendentemente
osservando certe composizioni pittoriche cicladiche od egizie. In un interessantissimo dossier sulla Civiltà delle Cicladi comparso qualche anno fa su una
rivista divulgativa di archeologia, un noto studioso (3) riportava nel servizio fotografico incorporato dei dettagli
d’un affresco di Tera-Santorini (del Cicladico Tardo I, c.1500 a.C.), ora al
Museo di Atene ed illustrante una scena marinara dipinta con vivaci colori; la
prua delle navicelle cosí ritratte è caratterizzata stranamente da una punta
foggiata a corpo di delfino (con dorso bluastro e ventre giallo, analogamente
ai cetacei che scorgiamo guizzare tutt’attorno fra i flutti), avente un rostro
arcuato, il quale sembra lievemente piú
prominente di quello dell’animale al naturale (4). A. Evans, c’informa
l’autore nel dossier, avrebbe
paragonato le ‘Navicelle’ della decorazione cicladica alle ‘Imbarcazioni’
egizie raffigurate in alcuni dipinti del Periodo Pre-dinastico; esse avrebbero
per insegna, per l’appunto, il Delfino ed il Polpo (erroneamente come da altri
definito ‘Polipo’)(5).
Un’ennesima applicazione del tema del Cetaceo
e dell’Ottopode è riscontrabile in alcune rappresentazioni comparse nella
numismatica italica (Poseidônia) del V sec. a.C., dedicata al culto sincretico
di Zeus-Poseidone; costí, i due emblemi vengono effigiati assieme al Toro
Solare (Solare, non Celeste!). Il quale
in un caso (6) sottostà al Cetaceo,
simboleggiando – crediamo – il Trionfo invernale delle Tenebre; mentre in un
altro (7) sovrasta il Mollusco,
alludendo in modo evidente al Trionfo estivo della Luce. La dracma avente su una facciata il Cetaceo
mostra sul retro un dio con addosso una clamide, la mano sinistra sollevata in
alto nell’atto di brandire un tridente; la seconda moneta, invece, presenta
nella facciata rtetrostante lo stesso dio che maneggia prodigiosamente il
fulmine.
b) La Dea del Mare mediterranea in veste di
Polpo
Il Graves (8)
afferma che Scilla (‘Colei che-dilania’) e Cariddi (‘Colei che-risucchia’)
erano in origine appellativi della dea del mare greca nella sua funzione
demonica. Benché attribuiti di poi da un
punto di vista eziologico alle rocce delmitanti lo Stretto di Messina, essi
sarebbero stati primieramente da concepire in senso assai piú ampio, come
denominazioni complementari della forma marina di Ecate Triforme (9).
La relazione tra la Luna, in quanto Ianua
Inferi, ed il Mare quale luogo delle acque perenni è un’intuizione
primordiale; che ritroviamo non solo nella cultura mediterranea, ma un po’
dovunque, persino fra i popoli artici. A
Creta la Dea del Mare, ci segnala ancora una volta l’autore (10), veniva raffigurata in foggia di
Polpo; a riprova di ciò, aggiungiamo da parte nostra, si osservano delle
immagini di tale ottopode nella produzione fittile dell’isola. Cfr. ad es. il magnifico polpo bluastro
dipinto su sfondo rosato con colori vetrificati ed affiancato da emblemi lunari
e solari, a negazione delle pretese interpretazioni estetizzanti e
naturalistiche dei piú (qualora non
bastassero allo scopo i due umanizzanti occhi dell’animale!), che compare nella
decorazione d’una brocca ritrovata a Palecastro, nella zona orientale di Creta;
l’anfora risale, secondo il Matz, alla fine del XVI sec. a.C. (11).
Il Graves (12)
ritiene pure che Scilla, descritta da Omero (Od.- xii. 336-73) come un mostro il
quale ghermisce i marinai dalla coperta della nave di Ulisse, disponga d’una
natura tentacolare e vada comunque classificata nel modo sopra indicato per la
dea cretese. La demonessa-polpo minoica
possiede d’altronde un suo corrispondente maschile, se cosí possiamo asserire,
nel Medio Oriente. Colà incontriamo
infatti in demone-polpo, certo Kabandha,
ritratto dal Rām.- iii. 74 sgg (13) in qualità
d’orripilante gigante; capo dei Dānava, acefalo e
dotato d’un solo ‘Occhio’ fiammggiante (14). La descrizione epica di queste mostruose
sembianze da parte dei compilatori o dei redattori del poema non può che
risultare uno spunto letterario proveniente da esperienze di pesca – siano
queste desunte da fonte diretta od indiretta – vissute ed ambientate,
necessariamente, nelle acque calde dell’Oceano Indiano. È opinione dell’autore tedesco-irlandese già
menzionato (15) che gli abitanti
medesimi dell’Egeo – in particolare i Cretesi, i quali spingevano le loro rotte
marittime fino all’India a scopi mercantili – abbiano potuto disporre in
passato di esperienze analoghe in qualche mare tropicale, al fine
dell’elaborazione tradizionale di una mitologia del Polpo in chiave di mostro
malefico. La stessa cosa dicasi,
ovviamente, anche per la Seppia (16). In codesti mari ci si poteva imbattere
difatti, com’è risaputo oggidí, in alcuni
esemplari di molluschi di spaventose proporzioni, che costituivano sicuramente
un pericolo per le fragili imbarcazioni d’un tempo.
c)
Oceano e Tèti, il signore e la signora dell’abisso
Un cefalopode enorme, il polpo gigante, è
diffuso ad ogni modo anche nelle acque della Siberia Orientale. Ques’ultimo dato è importante, come vedremo
in seguito; perché potrebbe permetterci di ricollegare il ciclo mitologico del
Signore e della Signora degli Abissi – cfr. in Grecia Oceano e Teti od i loro
allotitpi Peleo e Tetide – colle tematiche sacre dele culture artiche e
subartiche.
Il Fontenrose ha costruito in un suo saggio (17) una magnifica opera di esegesi
mitologica attorno al motivo leggendario del Drago e della Serpe (apparentato
indiscutibilmente al tema del Pesce, che egli tuttavia a torto considera
subordinato al precedente, mentr’è invece vero il contrario), cercando tra
l’altro di provare l’esistenza di molte varianti nella figura della Dragonessa
di Delfi (18), denominata
principalmente Delphýnē; un epiteto
ch’è, già di per sé, tutto un programma per la qui presente ricerca (19).
In tale indagine – pubblicata nel 1959 – lo scrittore californiano ha
raccolto e selezionato i nomi di Echidna, Keto e numerose altre demonesse; tra
le quale ricordiamo Scilla, Lamia, Ker, Psamate, Empusa ed Eurinome. Alcune di esse, ad es. Échidna, hanno tratti nettamente
draco-serpentini; certe altre, ad es. Kētṓ, Skýlla e Psamáthē,
sembrano viceversa dotate d’una maggiore flessibilità morfologica assumendo
aspetti piú propriamente cetaceo-pescini (20).
Tra costoro, la suddetta Kētṓ è la paredra
di Kḗtos (dalla voce omonima greca,
che significa ‘cetaceo, grosso pesce, mostro marino’), insomma una sorta di
personificazione dell’equivalente ellenico del Mahāmatsya
hindu. La coppia divina or ora menzionata
è reputata dal Fontenrose (21)
analoga alla diade semitica formata da Yam (cioè il Leviathan) e Astarte alias Atargatis,
nella veste specifica di dea del mare. È
lecito credere che pure Delphýnē avesse in
origine un aspetto similare, se è vero che prima di Apollo Delfinio (vide infra) vigeva a Delfi il culto d’un
nume ittiomorfico pre-olimpico. Apollo
medesimo, nella sua originara natura, è tale.
Sempre il Fontenrose (22)
valuta la Keto testé citata identica piú
o meno a Teti, la consorte del titano Oceano, il quale a seconda dei punti di
vista può anche esser ritenuto un pre-titano.
Occorre specificare che l’autore americano (23) dimostra come in parallelo alla Dragonessa (serpentiforme
oppure pescina), anche il Dragone (parimenti anguiforme od ittiomorfico)
possegga parecchi doppioni; per quanto in certuni di questi prevalga visibilmente l’elemento
marino (= celeste) o pescino, ed in cert’altri quello ipoctonio (=infero) o
serpentino (24). Ma vi sono forme miste, a metà tra le due
tipologie indicate, che svolgono per cosí
dire un ruolo intermedio o meglio duplice (25). Bisogna aggiungere, però, che a nostro parere
– si chiami Oceano, Ofione, Pitone, Tifone, Tifeo, Briareo, Ponto, Forco, Foco,
Proteo, Nereo, Peleo, Poseidone, Tritone od altrimenti (e si assommino a tale
lista di nomi pure quelli di Apollo Delfinio, Glauco ed Eros Protogeno) –
codesto nume rimane in ogni caso il ‘Signore dell’<Abisso
Infernale>. Sulla base del Timeo
platonico (26), si debbono allora
distinguere due figure numinose pre-titaniche, intermedie tra il Ciclo di Urano
e il Ciclo di Crono. Intendiamo parlare,
è chiaro, di Oceano e Teti. Codesti due
personaggi mitici corrispondono sul piano cronologico, nell’ambito del Grande
Eone, alle deità presiedenti al II Grande Anno; alla coppia numinosa
pre-titanica subentra un’altra dal carattere prettamente titanico che, secondo
la tradizione greca, risponde ai nomi di Crono e di Rhea. È significativo d’altro canto che le due
figure divine appena nominate si distinguano da tutti i Titani, o presunti tali
(in quanto numi paradisiaci titanizzati)(27),
per il fatto di non aver partecipato alla famosa Titanomachia.
d) Peléo
e Tétide, nientemeno che loro varianti
Mentre dunque Oceano e Tèti nelle loro varie
ipostasi detengono in prevalenza forme pescine, Crono e Rhea per contro
assumono in genere forme serpentine.
Spesso tuttavia, essendo avvenuta – come si è già spiegato – una
demonizzazione della coppia oceanica primordiale, s’incontrano anche per questa
emblemi ofidiomorfici; oppure a volte una mescolanza, od un’alternanza
paritaria, di entrambe le categorie simboliche delineate. È il caso, ad esempio, fra le divinità
maschili, di Achelôos e di Kḗtos; e,
tra quelle femminili, di Skýlla e di Kētṓ. Talora
c’imbattiamo invece in casi assolutamente straordinari, quali quello di Tetide,
la dea “dai pié d’argento” ovvero la famosa figlia di Nereo e di Doride, che
altro non è se non un alter-ego di Tèti, la sposa di Oceano. Ebbene, costei annovera fra le facies della propria complessa
fisionomia proteiforme, non solo la distinzione morfologica tra il Pesce e il
Serpente; bensí addirittura,
l’opposizione complementare fra il Cetaceo (Delfino) e il Cefalopode
(Seppia). Ella assume infatti sia
l’aspetto di mollusco, per via della sua metamorfosi in seppia; sia l’aspetto
di serpe, onde sfuggire a Peleo, che la vuole possedere a tutti i costi. Ma le è peraltro associato il Delfino (28), in groppa del quale è solita
cavalcare sul mare allorché si reca nella ‘Grotta’ (29) situata presso la scogliera denominata Sepiàde (30), dove poi Peleo cercherà di farla
sua.
e) La trasposizione del Pesce in Serpe e lo
sviluppo
delle idee di
abbondanza – sprituale, psichica e materiale –
insiti nel concetto di fecondità
E tale preciso accostamento fra la Seppia e il
Delfino, che abbiamo già incontrato al Cap.II (§l) discutendo attorno ad Eros, è assai importante. In quanto, oltre a comprovare l’analogia
funzionale fra Eros stesso ed Oceano quali controparti maschili di Tetide,
dimostra che l’uno e l’altro nume, nonostante la prevalenza della connotazione
malefico-tenebrosa (in altre parole d’un senso ciclicamente discendente) nella
figura di Teti-Tetide e di quella benefico-luminosa (ossia d’un significato
ciclicamente ascendente) in quella di Oceano-Peleo, sono portate
tipologicamente ad esprimere una tendenziale androginia. Codesta androginia non ci pare sia presente,
per contro, nella coppia titanica vera e propria dai caratteri anguiformi. Ciò perché il III Grande Anno, rispetto al
II, è già situato ciclicamente al di fuori dell’Età Aurea; e, quindi,
testimonia coll’insieme dei simboli ad esso pertinenti (si veda a titolo
esemplificativo, la trasformazione del Pesce in Serpe), un occultamento della
Rivelazione Primeva di già intervenuto.
Insomma, ad esser franchi una dispersione delle potenzialità sovrumane
originarie ed una perdita conseguente d’efficacia spirituale nella vita
inferiore. Quel che il testo biblico
definisce per l‘appunto ‘Caduta’, intendendosi con ciò un venir meno della
sovrannaturalità, in favore di un atteggiamento piú
umano e naturale nei confronti del macrocosmo e del microcosmo. Ma la Natura non è solo provvida madre e
maestra, come accadeva in particolare per gli esseri primordiali; dopo la
‘Caduta’, ovvero nel ciclo titanico di Crono e di Rhea, essa diventa altresí una perfida ingannatrice, in quanto creatrice
di miraggi, a causa del “mellifluo Serpente” (il perpetuo Flusso delle
cose). Tanto che il Pesce stesso, vale a
dire la Rivelazione Primeva, diventa maleodorante (vedi il mito induista di Matsyagandhī), ovvero demonico.
f) Il mito delle
nozze di Peleo:
dal Pomo della Discordia alla Guerra di Troia
Se a questo punto ci mettiamo ad esaminare il
mito delle nozze di Peleo con Tetide e della conseguente disputa divina – su
chi fosse la piú bella tra le dee –
causata indirettamente dalla Contesa, irritata per non essere stata invitata al
banchetto nuziale, ci accorgiamo che il senso recondito della leggenda non è
mai stato veramente compreso dalla cultura accademica. Ma ciò vale anche per altri miti famosi, come
quello di Edipo, figlio di uno <Zoppo> (31); espressione con cui la tradizione greca designava l’iniziato
per antonomasia, siccome erede di Crono, ossia di quel nume che soffriva del
medesimo male e che proprio per questo è stato inneggiato dagli antichi Elleni
quale signore dell’Età Argentea. Di
seguito ad Urano, il classico dio dell’Età Aurea.
Infatti è nella Seconda Epoca ciclica che,
logicamente, è cominciata la pratica iniziatica, visto che questa ha lo scopo,
come c’insegna Plutarco (32), di
ricreare negli uomini quell’armonia interiore caratterizzante tutti gli esseri
nei primordi (33). Se abbiamo fatto tale premessa, è perché
crediamo che le figure di Peleo e di Tetide in quanto doppioni di Oceano e Teti
vadano riportate culturalmente all’Età dell’Oro, sia pure alla seconda metà di
essa (II Grande Anno) (34).
Ragion per cui, l’<Aureo Pomo della
Discordia> (celeste e terrena), il quale determina e il “Giudizio di Paride”
e la “Guerra di Troia”, altro non può essere che un’allegoria del Mondo; cosí com’esso era venuto a trovarsi al termine di
quella veneranda Età nella quale non vi erano contese di qualsivoglia natura,
né in cielo è in terra. Cfr. colla
<Mela del Peccato Originale> (Gen.-
iii- 1-7). Vedi la “bella” Elena,
inoltre, avente nell’Iliade lo stesso
ruolo assunto da Sita nel Ramayana o
da Ginevra nella saga graaliana; in tutti e tre i casi ci troviamo dinanzi alla
disputa tra due contendenti, uno in apparenza legittimo (cioè attuale) e
l’altro illegittimo (cioè inattuale), per il possesso d’una Donna. Inutile agggiungere che costei raffigura,
ancora una volta, la Tradizione Primordiale.
Qual è, dunque, la funzione di Elena?
Ella è, a nostro parere, un’incarnazione di Venere Urania, la Perfezione
Celeste. La funzione di questa femmina è
giustappunto quella di avviare alla Perfezione, nel senso cui facevamo poco fa
cenno menzionando di Plutarco. Ci si potrebbe
chiedere, allora, perché mai intervenga una guerra? La risposta è di nuovo semplice. Perché gli uni e gli altri contendenti (Achei
e Troiani), cosí come i Vānara di Hanumat –
luogotenente di Rāmacandra – ed i Rākṣasa di Rāvaṇa
oppure i Cavalieri di Re Artú e quelli del suo nemico e figliastro Mordred
(il tenebroso e luciferino principe, generato dall’incesto con Morgana),
raffigurano rispettivamente l’Ordine Cosmico ed il Caos. Ogni Vecchio Ordine ritorna nel Caos e dal
Caos nasce un Nuovo Ordine. Sicché si
tratta in fin dei conti nell’Iliade
come nel Rāmāyana di una lotta fra Deva
ed Asura (35); lotta che ha in verità un esito provvidenziale, anche se in
senso ciclico-discendente. E che pertanto
conduce il Mondo all’affermazione d’un rinnovato Ordine Cosmico, il quale è a
sua volta una parziale immagine del Mondo delle Origini.
Nella leggenda graalica la Donna non viene
rapita dal nemico per eccellenza, ma si allontana dalla reggia di propria
volontà con Lancillotto, uno dei Dodici Cavalieri della Tavola Rotonda; ed anzi
quest’ultimo, dopo aver scatenato il Disordine Cosmico rompendo l’equilibrio
venutosi a creare nella Reggia di Camelot, riparerà sia generando il figlio
purissimo Galahad (avuto guardacaso
da una dama di nome Elena, ivi in veste chiaramente benefica) sia tramite la
riassunzione del proprio ruolo di cavaliere nella battaglia finale contro
Mordred.
g) Tratti essenziali
di Achille, il <figlio invincibile> del demone e della demonessa del mare
Ma vediamo ora di analizzare, piú specificamente, i tratti tipologici del
figlio di Peleo; quell’Achille di cui già il solo nome ci riporta ad Acheloo,
signore dei fiumi e delle acque (36),
configurando quindi il figlio come alter-ego del padre. Il valore cosmico-assiale della figura del
grande acheo è dimostrato, innanzitutto, dal disco centrale che compare nello
scudo dell’Eroe, illustrante l’Orsa e le Pleiadi (37). Un tratto aggiuntivo,
la Lancia, donatagli dalla madre e foggiata nelle famose fucine di Efesto, fa sí che lo si possa considerare un dio-lancia;
non meno di Lancelot (cfr. l’etimo),
modellato pure lui in base ad una tipologia titano-ofidica risalente al celt. Lug
(38). Un altro tratto saliente della
figura del Pelíde è il tallone, unica
parte vulnerabile del corpo del guerriero argivo; per il fatto di non essere
stata bagnata, a differenza di tutte le altre sembra, dalle <Acque
Infere> dello Stige. Cfr., in India,
colle <Acque Oscure> della Yamunā; sebbene
l’episodio parallelo riguardi Gangā, la dea del
Gange, che uccide i propri figli tranne uno (Bhīṣma). Vide
§h.
h) Bhiṣma,
Karṇa e Kṛṣṇa,
paralleli indiani di Achille, Fetonte ed
Eracle
I caratteri sin qua delineati per Achille,
volendo azzardare un confronto fra l’Iliade
ed il Mahābhā rata, ci spingono a formulare un paragone da una parte fra
Achilleús
e Bhīṣma;
dall’altra, tra Achilleús e Kṛṣṇa. Sebbene cosí
espresso il paragone risulti un po’ incompleto, giacché un terzo raffronto è
possibile: fra Achilleús e Karṇa. Con ciò intendiamo affermare che il parallelo
tracciato fra il guerriero ellenico e ciascuno dei tre personaggi indiani
citati non è assolutamente accettabile su un piano di parità dei ruoli. Insomma, nelle sue doti di combattente
invincibile, Achilleús rassomiglia nettamente a Bhīṣma, il
figlio dell’Oceano (39), cioè a Skanda; dio della guerra hindu
identificato ad Agni, piú arcaico ed
asurico di Indra, il cd. “amico di Viṣṇu”.
Skanda è direttamente
identificato ad Agni, che è Śiva; pertanto non meno di Achille, egli
funge simultaneamente da doppione del padre e da figlio del medesimo. Non è una contraddizione, in quanto la cosa
si richiama necessariamente alla distinzione fra l’Età Aurea e l’Età Argentea,
ovverosia tra il II ed III Grande Anno.
Per la
sua sorte funesta e l’elusione della sua invincibilità, Achille riecheggia
invece Kṛṣṇa, essendo alfine vinti l’uno
dall’efebico Paride e l’altro dal saturnio cacciatore Jara (‘Età, Vecchiaia, Tempo opportuno’). Cfr. col gr. Kairós o Gérōn. Tale Jara,
che scambia Kṛṣṇa per uno Mṛga
(=Mṛgaśiras,
cioè Ōríōn),
è una personificzione del solito Rudra (corrispettivo indiano di Apollo),
presiedente all’asterismo di Mṛgavyādha (Seírios)
in qualità di signore del Kaliyuga (40); con il cui avvento il IX Ciclo
Avatarico si conclude ed ha inizio il X, che si è compiuto alla fine del XX
sec. tramite la Discesa di Kalki (41).
In terzo luogo, a causa del possesso d’una ‘Lancia Miracolosa’ (che può
uccidere e guarire ad un tempo)(42),
la figura del Pelide ci ricorda inevitabilmente quella di Karṇa,
il figlio di Sūrya (cfr. con Fetonte, il
titanico figlio di Elio); anche Karṇa ha in dotazione una ‘Lancia’, altrettanto potente, la cui
natura solare – in rapporto al ‘Settimo Raggio’ – è però oltremodo piú pronunciata che nel caso dell’arma di
Achille. Tra le due simboliche guerre
narrate nel Mahābhārata e nell’Iliade è lecito un ulteriore confronto, onde dimostrare la
veridicità delle nostre precedenti asserzioni.
Benché Omero rimanga silenzioso circa l’eventuale altra prole avuta da
Tetide, oltre ad Achille, alcune fonti (43)
insinuano che la madre del Pelide gli abbia generato <Sei Fratelli>. Proprio come succede nel poema indiano, in
cui la dea Gaṅgā soffoca nell’acqua i primi <Sette
Figli> (Vasu); ma non
l’<Ottavo> (Bhīṣma, che è un doppione del
<Primo>, il quale viene colà salvato dal padre. Parimenti Tetide sopprime i sei figli nel
fuoco, colla scusa di renderli immortali, e solo l’ultimo viene messo in salvo
da parte di Peleo. Le due narrazioni hanno
troppi punti in comune, perché le loro affinità debbano apparire semplice
frutto del caso. Certo esse non
combaciano perfettamente, forse perché le interpolazioni avvenute in Occidente
e in Oriente sono state troppo numerose ed il nucleo fondamentale delle due
storie è risultato in tal modo alterato.
Infatti nei due poemi epici in questione non vi è coincidenza neppure
tra i vincitori e gli sconfitti, dal momento che Argivi e Troiani sono da
assimilare per certi versi ai Kuruidi e per certi altri ai Panduidi. Quel che si evidenzia chiaramente, tuttavia,
è che tanto gli Achei quanto i Pāṇḍava hanno
ricevuto un’arianizzzione postuma la quale non si confà per nulla alla
cronologia tradizionale dell’evento bellico, probabilmente unico, tra due forze
avverse, entrambe pre-arie; che potremmo definire in parte di ceppo
indomediterraneo (derivato dalla Razza Rossa o Bruna) ed in parte di ceppo
turanico (derivato dalla Razza Bianca o Nera)(44).
i) Rapporti culturali fra il Dio del Mare
ellenico
e il Signore
indiano dell’Oceano
Resta da chiarire adesso quali siano i precisi
rapporti tra i signori marino-oceanici ellenici e le corrispettive deità
induiste. È d’uopo allora rilevare prima
d’ogni altra cosa che nella cultura indiana, rispetto alla cultura ellenica, la
consistenza numerica delle divinità marino-fluviali è molto piú scarsa in genere, specialmente nelle loro
forme interamente o parziamente ittiomorfiche.
Si può al riguardo osservare in India una tendenza diffusa verso una
trasformazione asurica delle stesse, per cui troviamo molti numi anguiformi, piú ancora che nell’Ellade. Tra di essi ve n’è uno, in particolare, che
attrae la nostra attenzione. Alludiamo
ad Ahir Budhnya (45),
che qualcheduno identifica ad Ahi-Vṛtra, il capo dei Dānava. Ahi
è il figlio di Dānu, la madre dei Sette Dānava (46). Costoro sono da identificare sia ai Sette Daitya, la prole malefica di Diti (47); sia ai Sette Āditya, la prole benefica di Aditi.
Ed ancora ai Sette Asura, dei
quali Bali/ Vali alias Bala/ Vala (si.-pa. Baal, gr. Apóllōn) è il mitico sovrano (48). Il ‘Nano’
Bali è naturalmente il Sole, vale a dire il principale dei Sette Titani
planetari (49). Per le sue
valenze settenarie tale personaggio è stato, inoltre, identificato
cosmologicamante alla divinità preposta all’asterismo di Orione (50); ed
è in cotal guisa ch’egli appare, cripticamente, quale avversario tenebroso
degli Avatāra vishnuiti. Avendo
abdicato al trono da lui prima retto in cielo, Re Bali ha assunto veste asinina
(51). L’iconografia ce lo mostra con
corna caprine, nell’atto di fuoriuscire da una conchiglia, che gli fa in certo
modo da <coda pescina> (52). La
Conchiglia, piú propriamente, è un equivalente lunare del Granchio, il
crostaceo che rappresenta insieme al Gambero in area indo-mediterranea il Segno
del Cancro (scr. Karka, gr. Karkínos); visto che essa giace
abitualmente sul fondo del mare, non meno dei crostacei (Granchio, Gambero) o
dei molluschi (Polpo, Seppia).
Ontologicamente però la Conchiglia è l’emblema dell’Oṁkāra, per via del proprio
avvolgimento a spirale; avvolgimento che fa pendant,
naturalmente, con quello della <Coda del Serpente>. Dunque l’Asura Bali (53) appare iconologicamente assimilabile, per la metà
superiore del suo corpo, ad Ajaikapāt oppure a Dakṣa (54) a
motivo della propria testa caprina; e per la metà inferiore invece ad Ahir Budhnya (55) o ad Ahi Vṛtra, in base
alla correlazione dianzi rilevata fra la Coda del Serpente e la
Conchiglia. Beninteso, occorre precisare
che Ahir Budhnya coincide o quasi col
greco Tifone (56); cosí come Ajaikapāda corrisponde ad Aigipán, che è chiamato talora Aíx
(scr. Aja) nella tradizione greca ed
è posto in relazione filiale con Tifone.
Con ciò si chiude il cerchio, poiché ne risulta che una Capra Monopode (Aja Ekapāda) è un nume in forma alternativa ad un nume con aspetto
draco-serpentino. Serve rammentare che
pure il Diavolo (Satana) nel Cristianesimo presenta, in alternanza, la forma di
Serpente o di Caprone?
La relazione fra Capra e Serpente in senso
astrale ha un senso ben preciso. Ovvero
testimonia che, nella perpetua oscillazione dei Poli, il periodo di dominio
celeste della Testa del Dragone Boreale e della corrispondente Coda Australe (57), equivalente a Canopo, precede
quello delle Orse Polari (58),
spesso effigiate a mo’ di Cervi od Antilocapridi. Per questo Ahi Vṛtra possiede, alternativamente,
la forma di Mṛga. Da notare che anche i 2 Nodi Lunari hanno
Testa e Coda di Drago (Rāhu e Ketu), per quanto talvolta siano
effigiati a mo’ di pesci. In origine si
trattava d’un unico danava (‘demone’)
nato durante il Rimestamento dell’Oceano.
Si spacciava per deva, ma fu
riconosciuto e Viṣṇu gli tagliò il
capo.
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