martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo V






Cap. V

Il signore e la Signora delle Acque
indomediterranei: loro manifestazioni
(marine, titaniche ed eroiche)



a)  Altre immagini accoppiate del Delfino e del Polpo

Un’ulteriore immagine, raddoppiata, del Polpo e del Delfino è rintracciabile in una scena dipinta su un vaso attico in terracotta (del 480 a.C. c.) appartenente al Mus.Gregor. Etrusco (in Vaticano) ed illustrante il viaggio marittimo-notturno di Eracle all’interno di una ‘Magica Coppa’, che altro non è se non l’Aurea Coppa di Elio-Iperione.  I due emblemi solstiziali appaiono ivi ritratti insieme ad un motivo di onde, alla base del sacro recipiente, con un fregio di croci e di greche che racchiude il tutto.  Il Neumann (1) ha intuito con acume il valore del Vaso in generale, omologabile al Calderone shamanico, quale emblema di trasformazione; nonché la diretta relazione di esso colla Terra Madre, concepita allegoricamente nei panni d’una donna partoriente.  In effetti, il viaggio notturno del Sole era percepito dagli antichi come una sorta di descensus ad Inferos, giacché codesto movimento invisibile del luminare era messo in corrispondenza dal punto di vista annuale colla permanenza celeste dell’astro al di sotto dell’Equatore.    Ragion per cui si constaterà come l’Arca Solare – tale è infatti la Coppa di Eracle – in una prospettiva astronomica geocentrica venga a risultare un doppione, dopo il suo viaggio al di sotto dell’orizzonte, della Terra Madre medesima (schematizzabile in quest’ottica anch’essa in forma di semicerchio, non meno dell’Arca-coppa); quasi che fosse lei a generare ogni volta, ciclicamente, un Nuovo Sole.
Siccome però il riferimento simbolico ai solstizi conferisce alla Coppa Solare ora descritto un aspetto piú annuale che giornaliero, si deve arguire che abbiamo a che fare per l’occasione segnatamente con un’Arca Zodiacale.  Non si tratta comunque di due interpretazioni distinte, dato che l’Arca è ciò che per definizione contiene (dal lat. arceo = ‘contenere, trattenere’)(2) principialmente (gr. Ἀρχή = ‘principio’) ossia in modo immanifesto la Creazione; il che può esser inteso sotto un profilo tanto giornaliero, quanto annuale.  Volendo tuttavia cavillare si dovrebbe allora discernere tra un ruolo solare-attivo dell’Arca, o Coppa che dir si voglia, ed uno lunare-passivo perfettamente equivalente; od ancora, tra una metà formata dall’arcata discendente del fianco sinistro del recipiente ed una metà opposta costituita dall’arcata ascendente del fianco destro.  Le due metà della Coppa coincidono in altre parole colle due sezioni inferiori del quadrante di cerchio del ciclo giornaliero ed annuale, allorché si abbia a che fare coll’Arca Solare; ma, se invece ci troviamo di fronte all’Arca Lunare, le due metà di questa vengono a coincidere colle due sezioni inferiori del quadrante di cerchio del ciclo mensile.  Quindi, in definitiva, i significati cosmologici dell’Arca-coppa sono 3: solar-giornaliero, lunar-mensile e solar-annuale.
Il motivo del Polpo e del Delfino, in analoga associazione simbolica coll’Arca, torna in evidenza sorprendentemente osservando certe composizioni pittoriche cicladiche od egizie.  In un interessantissimo dossier sulla Civiltà delle Cicladi comparso qualche anno fa su una rivista divulgativa di archeologia, un noto studioso (3) riportava nel servizio fotografico incorporato dei dettagli d’un affresco di Tera-Santorini (del Cicladico Tardo I, c.1500 a.C.), ora al Museo di Atene ed illustrante una scena marinara dipinta con vivaci colori; la prua delle navicelle cosí ritratte è caratterizzata stranamente da una punta foggiata a corpo di delfino (con dorso bluastro e ventre giallo, analogamente ai cetacei che scorgiamo guizzare tutt’attorno fra i flutti), avente un rostro arcuato, il quale sembra lievemente piú prominente di quello dell’animale al naturale (4).  A. Evans, c’informa l’autore nel dossier, avrebbe paragonato le ‘Navicelle’ della decorazione cicladica alle ‘Imbarcazioni’ egizie raffigurate in alcuni dipinti del Periodo Pre-dinastico; esse avrebbero per insegna, per l’appunto, il Delfino ed il Polpo (erroneamente come da altri definito ‘Polipo’)(5).
Un’ennesima applicazione del tema del Cetaceo e dell’Ottopode è riscontrabile in alcune rappresentazioni comparse nella numismatica italica (Poseidônia) del V sec. a.C., dedicata al culto sincretico di Zeus-Poseidone; costí, i due emblemi vengono effigiati assieme al Toro Solare (Solare, non Celeste!).  Il quale in un caso (6) sottostà al Cetaceo, simboleggiando – crediamo – il Trionfo invernale delle Tenebre; mentre in un altro (7) sovrasta il Mollusco, alludendo in modo evidente al Trionfo estivo della Luce.  La dracma avente su una facciata il Cetaceo mostra sul retro un dio con addosso una clamide, la mano sinistra sollevata in alto nell’atto di brandire un tridente; la seconda moneta, invece, presenta nella facciata rtetrostante lo stesso dio che maneggia prodigiosamente il fulmine. 



b)  La Dea del Mare mediterranea in veste di Polpo

Il Graves (8) afferma che Scilla (‘Colei che-dilania’) e Cariddi (‘Colei che-risucchia’) erano in origine appellativi della dea del mare greca nella sua funzione demonica.  Benché attribuiti di poi da un punto di vista eziologico alle rocce delmitanti lo Stretto di Messina, essi sarebbero stati primieramente da concepire in senso assai piú ampio, come denominazioni complementari della forma marina di Ecate Triforme (9).  La relazione tra la Luna, in quanto Ianua Inferi, ed il Mare quale luogo delle acque perenni è un’intuizione primordiale; che ritroviamo non solo nella cultura mediterranea, ma un po’ dovunque, persino fra i popoli artici.  A Creta la Dea del Mare, ci segnala ancora una volta l’autore (10), veniva raffigurata in foggia di Polpo; a riprova di ciò, aggiungiamo da parte nostra, si osservano delle immagini di tale ottopode nella produzione fittile dell’isola.  Cfr. ad es. il magnifico polpo bluastro dipinto su sfondo rosato con colori vetrificati ed affiancato da emblemi lunari e solari, a negazione delle pretese interpretazioni estetizzanti e naturalistiche dei piú (qualora non bastassero allo scopo i due umanizzanti occhi dell’animale!), che compare nella decorazione d’una brocca ritrovata a Palecastro, nella zona orientale di Creta; l’anfora risale, secondo il Matz, alla fine del XVI sec. a.C. (11). 
Il Graves (12) ritiene pure che Scilla, descritta da Omero (Od.- xii. 336-73) come un mostro il quale ghermisce i marinai dalla coperta della nave di Ulisse, disponga d’una natura tentacolare e vada comunque classificata nel modo sopra indicato per la dea cretese.  La demonessa-polpo minoica possiede d’altronde un suo corrispondente maschile, se cosí possiamo asserire, nel Medio Oriente.  Colà incontriamo infatti in demone-polpo, certo Kabandha, ritratto dal Rām.- iii. 74 sgg (13) in qualità d’orripilante gigante; capo dei Dānava, acefalo e dotato d’un solo ‘Occhio’ fiammggiante (14).  La descrizione epica di queste mostruose sembianze da parte dei compilatori o dei redattori del poema non può che risultare uno spunto letterario proveniente da esperienze di pesca – siano queste desunte da fonte diretta od indiretta – vissute ed ambientate, necessariamente, nelle acque calde dell’Oceano Indiano.  È opinione dell’autore tedesco-irlandese già menzionato (15) che gli abitanti medesimi dell’Egeo – in particolare i Cretesi, i quali spingevano le loro rotte marittime fino all’India a scopi mercantili – abbiano potuto disporre in passato di esperienze analoghe in qualche mare tropicale, al fine dell’elaborazione tradizionale di una mitologia del Polpo in chiave di mostro malefico.  La stessa cosa dicasi, ovviamente, anche per la Seppia (16).  In codesti mari ci si poteva imbattere difatti, com’è risaputo oggidí, in alcuni esemplari di molluschi di spaventose proporzioni, che costituivano sicuramente un pericolo per le fragili imbarcazioni d’un tempo.


c)  Oceano e Tèti, il signore e la signora dell’abisso

Un cefalopode enorme, il polpo gigante, è diffuso ad ogni modo anche nelle acque della Siberia Orientale.  Ques’ultimo dato è importante, come vedremo in seguito; perché potrebbe permetterci di ricollegare il ciclo mitologico del Signore e della Signora degli Abissi – cfr. in Grecia Oceano e Teti od i loro allotitpi Peleo e Tetide – colle tematiche sacre dele culture artiche e subartiche.
Il Fontenrose ha costruito in un suo saggio (17) una magnifica opera di esegesi mitologica attorno al motivo leggendario del Drago e della Serpe (apparentato indiscutibilmente al tema del Pesce, che egli tuttavia a torto considera subordinato al precedente, mentr’è invece vero il contrario), cercando tra l’altro di provare l’esistenza di molte varianti nella figura della Dragonessa di Delfi (18), denominata principalmente Delphýnē; un epiteto ch’è, già di per sé, tutto un programma per la qui presente ricerca (19).  In tale indagine – pubblicata nel 1959 – lo scrittore californiano ha raccolto e selezionato i nomi di Echidna, Keto e numerose altre demonesse; tra le quale ricordiamo Scilla, Lamia, Ker, Psamate, Empusa ed Eurinome.  Alcune di esse, ad es. Échidna, hanno tratti nettamente draco-serpentini; certe altre, ad es. Kētṓ, Skýlla e Psamáthē, sembrano viceversa dotate d’una maggiore flessibilità morfologica assumendo aspetti piú propriamente cetaceo-pescini (20).  Tra costoro, la suddetta Kētṓ è la paredra di Kḗtos (dalla voce omonima greca, che significa ‘cetaceo, grosso pesce, mostro marino’), insomma una sorta di personificazione dell’equivalente ellenico del Mahāmatsya hindu.  La coppia divina or ora menzionata è reputata dal Fontenrose (21) analoga alla diade semitica formata da Yam (cioè il Leviathan) e Astarte alias Atargatis, nella veste specifica di dea del mare.  È lecito credere che pure Delphýnē avesse in origine un aspetto similare, se è vero che prima di Apollo Delfinio (vide infra) vigeva a Delfi il culto d’un nume ittiomorfico pre-olimpico.  Apollo medesimo, nella sua originara natura, è tale.  Sempre il Fontenrose (22) valuta la Keto testé citata identica piú o meno a Teti, la consorte del titano Oceano, il quale a seconda dei punti di vista può anche esser ritenuto un pre-titano.  Occorre specificare che l’autore americano (23) dimostra come in parallelo alla Dragonessa (serpentiforme oppure pescina), anche il Dragone (parimenti anguiforme od ittiomorfico) possegga parecchi doppioni; per quanto in certuni di  questi prevalga visibilmente l’elemento marino (= celeste) o pescino, ed in cert’altri quello ipoctonio (=infero) o serpentino (24).  Ma vi sono forme miste, a metà tra le due tipologie indicate, che svolgono per cosí dire un ruolo intermedio o meglio duplice (25).  Bisogna aggiungere, però, che a nostro parere – si chiami Oceano, Ofione, Pitone, Tifone, Tifeo, Briareo, Ponto, Forco, Foco, Proteo, Nereo, Peleo, Poseidone, Tritone od altrimenti (e si assommino a tale lista di nomi pure quelli di Apollo Delfinio, Glauco ed Eros Protogeno) – codesto nume rimane in ogni caso il ‘Signore dell’<Abisso Infernale>.  Sulla base del Timeo platonico (26), si debbono allora distinguere due figure numinose pre-titaniche, intermedie tra il Ciclo di Urano e il Ciclo di Crono.  Intendiamo parlare, è chiaro, di Oceano e Teti.  Codesti due personaggi mitici corrispondono sul piano cronologico, nell’ambito del Grande Eone, alle deità presiedenti al II Grande Anno; alla coppia numinosa pre-titanica subentra un’altra dal carattere prettamente titanico che, secondo la tradizione greca, risponde ai nomi di Crono e di Rhea.  È significativo d’altro canto che le due figure divine appena nominate si distinguano da tutti i Titani, o presunti tali (in quanto numi paradisiaci titanizzati)(27), per il fatto di non aver partecipato alla famosa Titanomachia.



d)  Peléo e Tétide, nientemeno che loro varianti

Mentre dunque Oceano e Tèti nelle loro varie ipostasi detengono in prevalenza forme pescine, Crono e Rhea per contro assumono in genere forme serpentine.  Spesso tuttavia, essendo avvenuta – come si è già spiegato – una demonizzazione della coppia oceanica primordiale, s’incontrano anche per questa emblemi ofidiomorfici; oppure a volte una mescolanza, od un’alternanza paritaria, di entrambe le categorie simboliche delineate.  È il caso, ad esempio, fra le divinità maschili, di Achelôos e di Kḗtos; e, tra quelle femminili, di Skýlla e di Kētṓ.  Talora c’imbattiamo invece in casi assolutamente straordinari, quali quello di Tetide, la dea “dai pié d’argento” ovvero la famosa figlia di Nereo e di Doride, che altro non è se non un alter-ego di Tèti, la sposa di Oceano.  Ebbene, costei annovera fra le facies della propria complessa fisionomia proteiforme, non solo la distinzione morfologica tra il Pesce e il Serpente; bensí addirittura, l’opposizione complementare fra il Cetaceo (Delfino) e il Cefalopode (Seppia).  Ella assume infatti sia l’aspetto di mollusco, per via della sua metamorfosi in seppia; sia l’aspetto di serpe, onde sfuggire a Peleo, che la vuole possedere a tutti i costi.   Ma le è peraltro associato il Delfino (28), in groppa del quale è solita cavalcare sul mare allorché si reca nella ‘Grotta’ (29) situata presso la scogliera denominata Sepiàde (30), dove poi Peleo cercherà di farla sua.



e)  La trasposizione del Pesce in Serpe e lo sviluppo
delle idee di abbondanza – sprituale, psichica e materiale –  insiti nel concetto di fecondità

E tale preciso accostamento fra la Seppia e il Delfino, che abbiamo già incontrato al Cap.II (§l) discutendo attorno ad Eros, è assai importante.  In quanto, oltre a comprovare l’analogia funzionale fra Eros stesso ed Oceano quali controparti maschili di Tetide, dimostra che l’uno e l’altro nume, nonostante la prevalenza della connotazione malefico-tenebrosa (in altre parole d’un senso ciclicamente discendente) nella figura di Teti-Tetide e di quella benefico-luminosa (ossia d’un significato ciclicamente ascendente) in quella di Oceano-Peleo, sono portate tipologicamente ad esprimere una tendenziale androginia.  Codesta androginia non ci pare sia presente, per contro, nella coppia titanica vera e propria dai caratteri anguiformi.  Ciò perché il III Grande Anno, rispetto al II, è già situato ciclicamente al di fuori dell’Età Aurea; e, quindi, testimonia coll’insieme dei simboli ad esso pertinenti (si veda a titolo esemplificativo, la trasformazione del Pesce in Serpe), un occultamento della Rivelazione Primeva di già intervenuto.  Insomma, ad esser franchi una dispersione delle potenzialità sovrumane originarie ed una perdita conseguente d’efficacia spirituale nella vita inferiore.  Quel che il testo biblico definisce per l‘appunto ‘Caduta’, intendendosi con ciò un venir meno della sovrannaturalità, in favore di un atteggiamento piú umano e naturale nei confronti del macrocosmo e del microcosmo.  Ma la Natura non è solo provvida madre e maestra, come accadeva in particolare per gli esseri primordiali; dopo la ‘Caduta’, ovvero nel ciclo titanico di Crono e di Rhea, essa diventa altresí una perfida ingannatrice, in quanto creatrice di miraggi, a causa del “mellifluo Serpente” (il perpetuo Flusso delle cose).  Tanto che il Pesce stesso, vale a dire la Rivelazione Primeva, diventa maleodorante (vedi il mito induista di Matsyagandhī), ovvero demonico.



f)  Il mito delle nozze di Peleo:
dal Pomo della Discordia alla Guerra di Troia

Se a questo punto ci mettiamo ad esaminare il mito delle nozze di Peleo con Tetide e della conseguente disputa divina – su chi fosse la piú bella tra le dee – causata indirettamente dalla Contesa, irritata per non essere stata invitata al banchetto nuziale, ci accorgiamo che il senso recondito della leggenda non è mai stato veramente compreso dalla cultura accademica.  Ma ciò vale anche per altri miti famosi, come quello di Edipo, figlio di uno <Zoppo> (31); espressione con cui la tradizione greca designava l’iniziato per antonomasia, siccome erede di Crono, ossia di quel nume che soffriva del medesimo male e che proprio per questo è stato inneggiato dagli antichi Elleni quale signore dell’Età Argentea.  Di seguito ad Urano, il classico dio dell’Età Aurea.
Infatti è nella Seconda Epoca ciclica che, logicamente, è cominciata la pratica iniziatica, visto che questa ha lo scopo, come c’insegna Plutarco (32), di ricreare negli uomini quell’armonia interiore caratterizzante tutti gli esseri nei primordi (33).  Se abbiamo fatto tale premessa, è perché crediamo che le figure di Peleo e di Tetide in quanto doppioni di Oceano e Teti vadano riportate culturalmente all’Età dell’Oro, sia pure alla seconda metà di essa (II Grande Anno) (34).
Ragion per cui, l’<Aureo Pomo della Discordia> (celeste e terrena), il quale determina e il “Giudizio di Paride” e la “Guerra di Troia”, altro non può essere che un’allegoria del Mondo; cosí com’esso era venuto a trovarsi al termine di quella veneranda Età nella quale non vi erano contese di qualsivoglia natura, né in cielo è in terra.  Cfr. colla <Mela del Peccato Originale> (Gen.- iii- 1-7).  Vedi la “bella” Elena, inoltre, avente nell’Iliade lo stesso ruolo assunto da Sita nel Ramayana o da Ginevra nella saga graaliana; in tutti e tre i casi ci troviamo dinanzi alla disputa tra due contendenti, uno in apparenza legittimo (cioè attuale) e l’altro illegittimo (cioè inattuale), per il possesso d’una Donna.  Inutile agggiungere che costei raffigura, ancora una volta, la Tradizione Primordiale.  Qual è, dunque, la funzione di Elena?  Ella è, a nostro parere, un’incarnazione di Venere Urania, la Perfezione Celeste.  La funzione di questa femmina è giustappunto quella di avviare alla Perfezione, nel senso cui facevamo poco fa cenno menzionando di Plutarco.  Ci si potrebbe chiedere, allora, perché mai intervenga una guerra?  La risposta è di nuovo semplice.  Perché gli uni e gli altri contendenti (Achei e Troiani), cosí come i Vānara di Hanumat – luogotenente di Rāmacandra – ed i Rākasa di Rāvaa oppure i Cavalieri di Re Artú  e quelli del suo nemico e figliastro Mordred (il tenebroso e luciferino principe, generato dall’incesto con Morgana), raffigurano rispettivamente l’Ordine Cosmico ed il Caos.  Ogni Vecchio Ordine ritorna nel Caos e dal Caos nasce un Nuovo Ordine.  Sicché si tratta in fin dei conti nell’Iliade come nel Rāmāyana di una lotta fra Deva ed Asura (35); lotta che ha in verità un esito provvidenziale, anche se in senso ciclico-discendente.  E che pertanto conduce il Mondo all’affermazione d’un rinnovato Ordine Cosmico, il quale è a sua volta una parziale immagine del Mondo delle Origini.
Nella leggenda graalica la Donna non viene rapita dal nemico per eccellenza, ma si allontana dalla reggia di propria volontà con Lancillotto, uno dei Dodici Cavalieri della Tavola Rotonda; ed anzi quest’ultimo, dopo aver scatenato il Disordine Cosmico rompendo l’equilibrio venutosi a creare nella Reggia di Camelot, riparerà sia generando il figlio purissimo Galahad (avuto guardacaso da una dama di nome Elena, ivi in veste chiaramente benefica) sia tramite la riassunzione del proprio ruolo di cavaliere nella battaglia finale contro Mordred.    



g)  Tratti essenziali di Achille, il <figlio invincibile> del demone e della demonessa del mare

Ma vediamo ora di analizzare, piú specificamente, i tratti tipologici del figlio di Peleo; quell’Achille di cui già il solo nome ci riporta ad Acheloo, signore dei fiumi e delle acque (36), configurando quindi il figlio come alter-ego del padre.  Il valore cosmico-assiale della figura del grande acheo è dimostrato, innanzitutto, dal disco centrale che compare nello scudo dell’Eroe, illustrante l’Orsa e le Pleiadi (37).  Un tratto aggiuntivo, la Lancia, donatagli dalla madre e foggiata nelle famose fucine di Efesto, fa sí che lo si possa considerare un dio-lancia; non meno di Lancelot (cfr. l’etimo), modellato pure lui in base ad una tipologia titano-ofidica risalente al celt. Lug (38).  Un altro tratto saliente della figura del Pelíde è il tallone, unica parte vulnerabile del corpo del guerriero argivo; per il fatto di non essere stata bagnata, a differenza di tutte le altre sembra, dalle <Acque Infere> dello Stige.  Cfr., in India, colle <Acque Oscure> della Yamunā; sebbene l’episodio parallelo riguardi Gangā, la dea del Gange, che uccide i propri figli tranne uno (Bhīma).  Vide §h.


h)  Bhima, Kara e Ka,
paralleli indiani di Achille, Fetonte ed Eracle

I caratteri sin qua delineati per Achille, volendo azzardare un confronto fra l’Iliade ed il Mahābhā rata, ci spingono a formulare un paragone da una parte fra Achilleús e Bhīma; dall’altra, tra Achilleús e Ka.  Sebbene cosí espresso il paragone risulti un po’ incompleto, giacché un terzo raffronto è possibile: fra Achilleús e Kara.  Con ciò intendiamo affermare che il parallelo tracciato fra il guerriero ellenico e ciascuno dei tre personaggi indiani citati non è assolutamente accettabile su un piano di parità dei ruoli.  Insomma, nelle sue doti di combattente invincibile, Achilleús rassomiglia nettamente a Bhīma, il figlio dell’Oceano (39), cioè a Skanda; dio della guerra hindu identificato ad Agni, piú arcaico ed asurico di Indra, il cd. “amico di Viu”.  Skanda è direttamente identificato ad Agni, che è Śiva; pertanto non meno di Achille, egli funge simultaneamente da doppione del padre e da figlio del medesimo.  Non è una contraddizione, in quanto la cosa si richiama necessariamente alla distinzione fra l’Età Aurea e l’Età Argentea, ovverosia tra il II ed III Grande Anno.
Per  la sua sorte funesta e l’elusione della sua invincibilità, Achille riecheggia invece Ka, essendo alfine vinti l’uno dall’efebico Paride e l’altro dal saturnio cacciatore Jara (‘Età, Vecchiaia, Tempo opportuno’).  Cfr. col gr. Kairós o Gérōn.  Tale Jara, che scambia Ka per uno Mga (=Mgaśiras, cioè Ōríōn), è una personificzione del solito Rudra (corrispettivo indiano di Apollo), presiedente all’asterismo di Mgavyādha (Seírios) in qualità di signore del Kaliyuga (40); con il cui avvento il IX Ciclo Avatarico si conclude ed ha inizio il X, che si è compiuto alla fine del XX sec. tramite la Discesa di Kalki (41).  In terzo luogo, a causa del possesso d’una ‘Lancia Miracolosa’ (che può uccidere e guarire ad un tempo)(42), la figura del Pelide ci ricorda inevitabilmente quella di Kara, il figlio di Sūrya (cfr. con Fetonte, il titanico figlio di Elio);  anche Kara ha in dotazione una ‘Lancia’, altrettanto potente, la cui natura solare – in rapporto al ‘Settimo Raggio’ – è però oltremodo piú pronunciata che nel caso dell’arma di Achille.  Tra le due simboliche guerre narrate nel Mahābhārata e nell’Iliade è lecito un ulteriore confronto, onde dimostrare la veridicità delle nostre precedenti asserzioni.  Benché Omero rimanga silenzioso circa l’eventuale altra prole avuta da Tetide, oltre ad Achille, alcune fonti (43) insinuano che la madre del Pelide gli abbia generato <Sei Fratelli>.  Proprio come succede nel poema indiano, in cui la dea Gagā soffoca nell’acqua i primi <Sette Figli> (Vasu); ma non l’<Ottavo> (Bhīma, che è un doppione del <Primo>, il quale viene colà salvato dal padre.  Parimenti Tetide sopprime i sei figli nel fuoco, colla scusa di renderli immortali, e solo l’ultimo viene messo in salvo da parte di Peleo.  Le due narrazioni hanno troppi punti in comune, perché le loro affinità debbano apparire semplice frutto del caso.  Certo esse non combaciano perfettamente, forse perché le interpolazioni avvenute in Occidente e in Oriente sono state troppo numerose ed il nucleo fondamentale delle due storie è risultato in tal modo alterato.  Infatti nei due poemi epici in questione non vi è coincidenza neppure tra i vincitori e gli sconfitti, dal momento che Argivi e Troiani sono da assimilare per certi versi ai Kuruidi e per certi altri ai Panduidi.  Quel che si evidenzia chiaramente, tuttavia, è che tanto gli Achei quanto i Pāṇḍava hanno ricevuto un’arianizzzione postuma la quale non si confà per nulla alla cronologia tradizionale dell’evento bellico, probabilmente unico, tra due forze avverse, entrambe pre-arie; che potremmo definire in parte di ceppo indomediterraneo (derivato dalla Razza Rossa o Bruna) ed in parte di ceppo turanico (derivato dalla Razza Bianca o Nera)(44).  





i)  Rapporti culturali fra il Dio del Mare ellenico
e il Signore indiano dell’Oceano

Resta da chiarire adesso quali siano i precisi rapporti tra i signori marino-oceanici ellenici e le corrispettive deità induiste.  È d’uopo allora rilevare prima d’ogni altra cosa che nella cultura indiana, rispetto alla cultura ellenica, la consistenza numerica delle divinità marino-fluviali è molto piú scarsa in genere, specialmente nelle loro forme interamente o parziamente ittiomorfiche.  Si può al riguardo osservare in India una tendenza diffusa verso una trasformazione asurica delle stesse, per cui troviamo molti numi anguiformi, piú ancora che nell’Ellade.  Tra di essi ve n’è uno, in particolare, che attrae la nostra attenzione.    Alludiamo ad Ahir Budhnya (45), che qualcheduno identifica ad Ahi-Vtra, il capo dei Dānava.  Ahi è il figlio di Dānu, la madre dei Sette Dānava (46).  Costoro sono da identificare sia ai Sette Daitya, la prole malefica di Diti (47); sia ai Sette Āditya, la prole benefica di Aditi.  Ed ancora ai Sette Asura, dei quali Bali/ Vali alias Bala/ Vala (si.-pa. Baal, gr. Apóllōn) è il mitico sovrano (48).  Il ‘Nano’ Bali è naturalmente il Sole, vale a dire il principale dei Sette Titani planetari (49).  Per le sue valenze settenarie tale personaggio è stato, inoltre, identificato cosmologicamante alla divinità preposta all’asterismo di Orione (50); ed è in cotal guisa ch’egli appare, cripticamente, quale avversario tenebroso degli Avatāra vishnuiti.  Avendo abdicato al trono da lui prima retto in cielo, Re Bali ha assunto veste asinina (51).  L’iconografia ce lo mostra con corna caprine, nell’atto di fuoriuscire da una conchiglia, che gli fa in certo modo da <coda pescina> (52).  La Conchiglia, piú propriamente, è un equivalente lunare del Granchio, il crostaceo che rappresenta insieme al Gambero in area indo-mediterranea il Segno del Cancro (scr. Karka, gr. Karkínos); visto che essa giace abitualmente sul fondo del mare, non meno dei crostacei (Granchio, Gambero) o dei molluschi (Polpo, Seppia).  Ontologicamente però la Conchiglia è l’emblema dell’Okāra, per via del proprio avvolgimento a spirale; avvolgimento che fa pendant, naturalmente, con quello della <Coda del Serpente>.  Dunque l’Asura Bali (53) appare iconologicamente assimilabile, per la metà superiore del suo corpo, ad Ajaikapāt oppure a Daka (54) a motivo della propria testa caprina; e per la metà inferiore invece ad Ahir Budhnya (55) o ad Ahi Vtra, in base alla correlazione dianzi rilevata fra la Coda del Serpente e la Conchiglia.  Beninteso, occorre precisare che Ahir Budhnya coincide o quasi col greco Tifone (56); cosí come Ajaikapāda corrisponde ad Aigipán, che è chiamato talora Aíx (scr. Aja) nella tradizione greca ed è posto in relazione filiale con Tifone.  Con ciò si chiude il cerchio, poiché ne risulta che una Capra Monopode (Aja Ekapāda) è un nume in forma alternativa ad un nume con aspetto draco-serpentino.  Serve rammentare che pure il Diavolo (Satana) nel Cristianesimo presenta, in alternanza, la forma di Serpente o di Caprone?


La relazione fra Capra e Serpente in senso astrale ha un senso ben preciso.  Ovvero testimonia che, nella perpetua oscillazione dei Poli, il periodo di dominio celeste della Testa del Dragone Boreale e della corrispondente Coda Australe (57), equivalente a Canopo, precede quello delle Orse Polari (58), spesso effigiate a mo’ di Cervi od Antilocapridi.  Per questo Ahi Vtra possiede, alternativamente, la forma di Mga.  Da notare che anche i 2 Nodi Lunari hanno Testa e Coda di Drago (Rāhu e Ketu), per quanto talvolta siano effigiati a mo’ di pesci.  In origine si trattava d’un unico danava (‘demone’) nato durante il Rimestamento dell’Oceano.   Si spacciava per deva, ma fu riconosciuto e Viu gli tagliò il capo.

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