martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo I






Cap. I

Manu Satyavrata, l’Arca del Diluvio
e il Mahāmatsya Ekaśga




a)  La leggenda dei primordi nell’epica mahabharatiana
e la fatale partenogenesi di Adrikāmatsya,
costretta a rimanere in forma di pesce da un incantesimo

Si racconta nel I Libro del Mahābhārata (1) la vicenda di un ṛṣi, certo Parāśara, enigmatico personaggio che la Tradizione (Smṛti) pare ricollegare a Viṣṇu (2); egli è infatti un suo alter ego, secondo quanto vedremo piú innanzi.  Si deve pertanto sapere che tale ṛṣi era il padre di Kṛṣṇa Dvaipāyana, detto Vyāsa e ritenuto l’arcano compilatore dei Veda nelle quattro sezioni pervenuteci, oltreché l’autore del Mahābhārata stesso; testo che da parte sua si autoproclama «Quinto Veda» (3), non meno dunque dei Purāṇa (4) – dei quali pure il figlio di Parāśara viene considerato redattore  mitico (5) o dei Tantra (6), aventi invece altre attribuzioni (7).
Il concepimento di Vyāsa era avvenuto un giorno allorché Satyavatī, l’avvenente figlia adottiva del Dāśarāja (il Re Pescatore, ovvero, traducendo in maniera meno altisonante, il Capo dei Pescatori/ Traghettatori), aveva offerto un passaggio su una ‘barca’ attraverso la Yamunā al ṛṣi suddetto; che, subitamente affascinato dalle grazie della fanciulla, con i suoi poteri magici aveva fatto levare una fitta nebbia attorno all’imbarcazione.  Dopodiché egli era riuscito a far sua la giovane ‘vergine’, promettendole tuttavia in cambio che costei non avrebbe perduto per tale rapporto d’amore la propria verginità.  La storia è rivissuta retrospettivamente in un passo poco piú avanti (8), mediante il racconto che la matrigna Satyavatī farà al figliastro Bhīṣma dopo la morte del secondo figlio avuto da Re Śāntanu, il grande sovrano dei Bharatidi.  Dato che il trono era rimasto vacante, ella aspirava a ereditarlo nuovamente tramite la progenie che avrebbe potuto procurare alle vedove del secondo di due figli prematuramente scomparsi un terzo figlio lontano, appunto l’illegittimo Vyāsa.
L’identità effettiva di Parāśara e di Vyāsa non ci risulta ben chiara, comunque, se non comprendiamo chi fosse mai realmente codesta Satyavatī.  In proposito, la prima parte del passo dell’Ādiparva succitato (9) rivela che un dí Re Uparicara, soprannominato Vasu (ennesimo alter ego di Viṣṇu in veste venatoria) (10), se ne stava andando a caccia di cervi da sacrificare agli antenati; il pensiero del sovrano andava però continuamente alla bella moglie Girikā, sorta di Lakṣmī (o, vedremo piú innanzi, di Indrāṇī) terrena.  Eccitato dal paesaggio primaverile, il re raccolse in una foglia il suo ‘seme’ e lo inviò per mezzo d’un garua (uccello mitico sagomato, forse, sul grifone himalayano) a Girikā.  Ma di poi caduto nelle ‘acque’ della Yamunā, per via del fatto che un secondo volatile aveva tentato di rubarlo al primo mentre questo era in volo sopra il fiume, il seme era finito in bocca ad un pesce; invero Adrikā, un’apsaras (specie di sirena) maledetta a quella metamorfosi da un incantesimo.  Costei era rimasta perciò gravida.



b)  La nascita prodigiosa dei gemelli dal ventre dell’apsaras

Pescato dopo dieci mesi da un ‘pescatore’, il ‘pesce’ era stato tuttavia squartato e dal ventre del prodigioso animale erano usciti inauditamente alla luce due gemelli umani.  Il maschio, conosciuto in seguito come Matsyarāja (vale a dire Re Pesce o Re dei Pesci), era stato quindi affidato a Uparicaravasu medesimo; mentre la femmina, Satyavatī, denominata pure Matsyagandh-ī/-ā per il suo nauseabondo odore di pesce, era stata allevata dal ‘Re Pescatore’.
Dopo l’incontro d’amore già descritto con Parāśara (11), Satyavatī ossia la Vergine Kālī (12) detta  alternativamente Gandhakālī (13), Satyā, Vāsavī, Matsyā, Matsyodarī (14), Matsyakālī (15) ecc. – ricevette gli epiteti di Gandhavatī e Yojanagandhā (16); nonché di Kastūrīgandhī, per sottolineare l’assunzione da parte della giovane d’un dolce profumo di muschio (kastūrī).  In seguito ella era andata sposa legittimamente a Śāntanu, il “gran re” della dinastia kuruide, sotto il quale tutte le genti (lett. caste) e l’intero mondo animale erano vissuti armonicamente in illo tempore.  Da lui la donna aveva avuto due figli, che dopo la morte di Śāntanu erano scomparsi prematuramente.  Allora Bhīṣma, pur essendo l’unico frutto generato da Śāntanu nell’unione con Ga prima di quella con Satyavatī e avendo per giunta egli già fatto voto in passato di rinunciare in veste di fratellastro al trono dei Kuru nonché di vivere in castità (al fine di favorire i figli della sua futura matrigna e onorare cosí il padre, assecondando il desiderio che il suo genitore provava per lei), aveva ancora piamente lasciato libera Satyā di richiamare al proprio cospetto Vyāsa (terzo figlio, illegittimo); in modo che questi potesse generare nuova progenie alle amate vedove, Ambikā e Ambalikā, dei suoi due fratellastri defunti.
Ora si noterà come codesta Satyā, non essendo altri che Kālī cioè la Śakti, sia in effetti la stessa cosa della madre di Parāśaramuni ossia Adṛśyantī; la quale è necessariamente un’ipostasi di Śaktidevī, giacché il nome del padre demonico di tale muni risulta esser appunto Śaktideva.  Costui incarna difatti Śiva, siccome figlio del  Ṛṣi Vaśiṣa (17), un’ipostasi di Brahmā.  Ciò in altre parole è come affermare indirettamente che il Muni Parāśara abbia commesso incesto con la propria madre nel suo amplesso magico sulla Yamunā, parimenti a quanto è d’altronde esplicitamente dichiarato dall’Ānandabhairava di Premadāsa; dove peraltro il muni in questione va a sostituire Viṣṇu nell’insolita trimūrti formata da Brahmā, Parāśara e Mahārudra (18).  L’incesto, d’altra parte, è alla base del mito vedico di Prajāpati, quindi non è una novità nel mondo numinoso ed eroico indiano.  Specifica insomma che per una stessa linea dinastica s’è sviluppata una data discendenza, la quale conferma sostanzialmente l’elemento piú antico; ma in una forma rinnovata, capace di produrre nuove ramificazioni.



c)  Parāśaramuni e Uparicaravasu

La figura di Parāśaramuni – come abbiamo rilevato antecedentemente in nota – compare già nella Ṛgveda Samhitā, ove in un inno dedicato ad Indra quegli è considerato un devoto del dio ed annientatore di rākśasa.  Ciò, tuttavia, non ci aiuta granché nella caratterizzazione del personaggio.  Piú evidente appare invece il ruolo giocato da parte di Parāśara (muni o ṛṣi che dir si voglia) nel V.P. – i. 1, 4-5 e 3, 9-20, testo in cui costui compare in posizione di redattore del medesimo; non meno di quant’avvenga altrimenti (19) per il figlio Vyāsa, omologabile – secondo quel che vedremo piú oltre – nientemeno che all’omonimo Kṛṣṇa di stirpe yādava, nono avatāra visnuita.  Anche su Parāśara al pari di Vasu si narra sia disceso in linea dinastica dal dio Viṣṇu, al quale l’abbiamo addirittura identificato in prima istanza; ne è, dunque, una terrena e parziale figurazione (20).  Le circostanze appena riferite, e il fatto, soprattutto che Parāśara risulti il padre di Vyāsa, testimoniano a favore della nostra ipotesi.
Vediamo adesso di comprendere bene il senso spirituale della leggenda raccontata poco fa.   Chi altri è mai quel Vasu che si colloca all’origine di essa?  Devoto di Viṣṇu – da cui egli proviene dinasticamente – e amico di Indra, che gli permette di condividere il  proprio  trono e il  proprio letto (ekaśayyāsanaṁ) (21), parrebbe in realtà identificarsi piú al secondo che al primo, essendo il ruolo di costui già indubitabilmente svolto nella nostra storia da Parāśara.  Nella Ṛ.S.- iii. 49, 4 i Vasu fungono da traino per il cocchio del ‘Re degli Dei’, alternativamente ai Marut (iii. 51, 7).  Vasu è in ogni caso un epiteto di Indra, oltreché di Agni – decantato nel i. 94, 13 come «Vasu dei Vasu» (Vasurvasūnāmasi) – e di altri dèi.  L’appellativo testé nominato si addice benissimo quindi, per il ruolo regale, anche ad Indra.
Varrà cosí la pena di tracciare un breve quadro della figura epica di Vasu, al di là di quel che concerne la nascita miracolosa e provvidenziale di Matsya e Satyā da lui prodotta; onde dimostrare la perfetta identità del personaggio con Indra, di cui è probabilmente un’ipostasi nei panni di terreno cakravarti.



d)  Le pratiche sātvata e lo Śvetadvīpa

Si racconta (Mhbh., Śāntip.- cccxxxv. 17-24) che Re Uparicara, antico seguace della sātvatam vidhi (le pratiche sātvata) insegnata da Sūrya medesimo nei giorni del buon tempo antico, fosse diventato per concessione di Nārāyaṇa (Viṣṇu) sovrano dell’intero mondo.  Devoto nei confronti della verità, si asteneva dall’offendere qualsivoglia creatura. È interessante a questo punto sottolineare che le pratiche sātvata in un altro passo dello stesso parva (cccxlviii, 29-34) son dette essersi diffuse per tutta la terra all’inizio del Krtayuga, scomparendo al principio del Tretā.
Nel capitolo prima citato (cccxxxv. 7-12) si parla inoltre del cd. Śvetadvīpa (‘Continente Bianco’), un dvīpa (continente) avente il proprio centro di diffusione all’Estremo Nord nell’Oceano di Latte (Oceano Artico) presso il Meru (Polo Nord) e abitato da una magnifica popolazione con la pelle del candore dei raggi lunari.  Queste genti di pelle bianca, collocate per finzione letteraria in un immoto presente, sono descritte come prive di ogni male.  Solari nell’aspetto e potenti nel corpo come il fulmine, son dotate d’ogni buona disposizione della mente e hanno voce profonda come quella delle nuvole.  Praticano la conoscenza e la realizzazione spirituale, tanto da parere di origini celesti.  Possiedono in aggiunta altri attributi magici quali la policefalia, che potrebbero farle apparire mostruose, non umane; ma che vanno di certo interpretati sul piano simbolico quali eccezionali potenzialità individuali atrofizzatesi nel corso dello svolgimento temporale al livello dell’umanità ordinaria.  O, se si vuole diversamente intenderli, come emblemi di universalità.  I medesimi concetti vengono ribaditi piú oltre (cccxxxvi sgg), sottolineando che presso tali popolazioni iperboree non vigeva alcuna gerarchia di tipo castale, dato che fra di esse non vi erano né superiori né inferiori sul piano semplicemente umano.
Si tramanda però che al sopraggiungere del Tretāyuga una grande calamità sia sopravvenuta sulla terra.  È chiaro perciò che, quantunque nel testo non ci pare compaia una testimonianza diretta in proposito, il mito dello Śvetadvīpa – vale a dire dell’Isola Bianca – costituisce la versione in chiave cosmografica di quel che il mito del Kṛtayuga – ossia dell’Età della Giustizia – rappresenta in campo cronologico (22). 
Ed è altrettanto evidente che Uparicara presenti i tratti tipici, con le sue qualità sovraumane, delle genti auree nel loro complesso.  Nonostante certi altri fattori, quali il sacrificio agli antenati, parrebbero suggerire diversamente.  C’informa infatti un ulteriore loka (cccxxxviii sgg) che nel Kṛtayuga, epoca da identificare mitologicamente a quella dei Ṛṣi, non si praticava ancora il sacrificio (yajña) nei confronti degli animali.
Si offrono poi (cccxliii. 59) connotazioni geografiche piú precise riguardo lo Śvetadvīpa, descritto quale reame dove «il sole non è caldo e la luna non risplende»; con Mādhava, consueto epiteto di Kṛṣṇa, praticante austerità su un «sol piede» (ekapādasthito).  Probabilmente per allusione alla costante fissità dell’asse polare nella volta celeste e, nel contempo, all’unicità della via primordialmente seguita.  Ciò implica allora che la veste venatoria di Vasu vada pigliata cum grano salis, come a dire... per retro-trasposizione d’una tematica non kritayughica.  Del resto, non si deve credere che la caccia ed il relativo sacrificio animale siano cominciati di colpo all’inizio della fase tretayughica, ma assai prima; cioè, crediamo, nell’ambito del secondo ciclo avatarico.  Però nel Tretā essi debbono esser divenuti una consuetudine per la specie umana, secondo quanto ci tramandano le scritture di varie tradizioni.  Il Kṛtayuga ha visto trascorrere 4 periodi avatarici della durata di 6.480 anni ciascuno ed è quindi logico supporre, cosa peraltro confermata dalla dottrina stessa degli Avatāra (23), che sia avvenuto dall’una all’altra epoca una graduale trasformazione del comportamento umano; oseremmo dire una lenta involuzione spirituale, parallelamente ad una progressiva evoluzione culturale, i due fattori andando di pari passo ma in senso tuttavia inverso.



e)  La discendenza di Vasu e quella di Śāntanu

Rammenteremo in ultimo i ‘Cinque Figli’ di Re Vasu, fondatori di regni e paesi nonché creatori di dinastie separate, le quali regneranno a lungo sulla terra (Ādip.- lxiii. 29 ss.).  Identificando i Cinque Figli di tal personaggio leggendario colle ‘Cinque Genti’ (Pañcajana) di vedica memoria oppure alle ‘Quattro Caste’ (Caturvarṇya) piú la Sovracasta (Ādivarṇa) degli Haṁsa, le origini delle quali sono connesse colla distribuzione cosmografica dei mitici ‘Cinque Continenti’ (Pañcadvīpa)(24), il nostro quadro risulta alfine completo.
Appare cosí chiaro che l’affidamento a Uparicara di Matsya richiede una spiegazione in linea con quanto abbiamo appena rilevato.  Insomma, essendo Matsyarāja nientemeno che il Matsyāvatāra ovvero il Rivelatore dell’inizio del VII Ciclo Manvantarico – cioè, per usare una diversa espressione, il Trasmettitore dell’Ādiśruti (Rivelazione Primeva) – ed, avendo compiuto il proprio mandato nel Kṛtayuga già trascorso, ecco motivate in forma palese le ragioni latenti del suo affidamento al sovrano universale.  In quanto a Re Vasu, trattandosi invero di un’ipostasi aurea di Indra, il regno di costui rappresenta in realtà il dominio celeste del Devarāja (‘Re degli Dei’); dominio che potremmo in una differente accezione attribuire a Vasudeva, cioè a Viṣṇu, dato che nel contesto i due deva ricoprono mansioni convergenti.  È in tale ‘Regno’ insomma che il ‘Seme Divino’ caduto nelle ‘Acque Inferiori’ viene alfine riassorbito.  Satyā d’altro canto, raffigurando la Rivelazione Primordiale – cfr. il nome della fanciulla-sirena con la voce satya (‘verità, sapienza’) – discesa a noi dal Satyayuga (25), ha parte attiva nella vicenda divenendo sia la consorte di Śāntanu (figura in certo modo appaiabile a quella dello Śiva aureo, ma non supremo, di cui preciseremo fra breve l’esatta fisionomia)(26); sia l’amante di Parāśara (vale a dire di Viṣṇu, ivi in un ruolo assimilabile a quello di Gaṇeśa), padre naturale di Vyāsa (27).
Nell’epico confronto del Kurukṣetra, il fatidico agone che narra il Mahābhārata sia stato combattuto tra la piana della Gae quella della Yamunā (in altre parole, tra le due correnti simboleggianti la bipolarità del Divenire Cosmico), i potenti ed aristocratici kuruidi – capeggiati da Bhīṣma Gageya, ‘figlio’ di Śāntanu – fanno le veci dinanzi agli eroici ma deboli cugini panduidi rispettivamente dei Daitya (i Demoni) nei confronti dei Deva (gli Dei).  Il che giustifica pienamente la nostra precedente supposizione, dato che Mahādeva – quivi sostituito nella propria normale funzione dissolutrice da un alter-ego di Skanda – allorché è inteso in senso argenteo, ossia non supremo, incarna il daitya per antonomasia (28).          
Il sovrano dei Bharatidi costituisce dunque l’antenato lontano non soltanto dei Kuru, ma sia pur indirettamente anche dei Pāṇava.  La parentela diretta di questi due gruppi familiari è relazionata però a Vyāsa ed Ambikā, i genitori di Dhṛtarāṣra e Pāṇu; dei due fratelli il primo nasce cieco, il secondo pallido.  Dhṛtarāṣra attraverso la velata Gāndhārī, che vuol in tal modo condividere la sorte di cecità dello sfortunato marito, dà alla luce 100 figli, fra i quali spicca Duryodhana; Pāṇu genera invece 5 figli, 3 da Pṛthā (Yudhiṣhira, Bhīma ed Arjuna  e 2 da Mādrī (i gemelli Nakula e Sahadeva).  Sebbene altri passi del poema epico facciano discendere i due fratelli da un antenato intermedio fra Śāntanu e Vyāsa, chiamato dapprima Puru (ibid., lxxxxiiv-v), figlio di Yayāti e Śarmiṣ (29); poi Kuru (clxxiii), figlio di Saṁvarana e Tapatī (30).  L’attrito per il potere fra le due fazioni in armi deve essere interpretato come una questione di eredità spirituale, prima ancora che materiale.  Non era solo il trono dei Kuru ad esser in gioco, ma l’intero dominio sulle regioni settentrionali dell’India. 
In sostanza, potremmo arguire, la discendenza di Uparicara (praticante la Sātvatam vidhi) ha a che fare coll’espressione della superiore ed aurea natura profetica; donde proviene la linea avatarica in quanto manifestazione plenaria di Viṣṇu, ovverosia la trasmissione diretta della Rivelazione.  La trasmissione indiretta, iniziatica oseremmo dire, è invece lasciata al Dāśarāja (31).  Mentre la discendenza di Śāntanu ha a che fare colla polarizazione spirituale susseguente all’epoca paradisiaca, sia d’ordine ciclico che gerarchico (le due cose stando in stretta connessione), fra la corrente śaiva e quella vaiṣṇava.  Pur d’intenderle qui per estrapolazione dei dati quali dottrine ed espressioni rituali d’epoche e stirpi umane diverse, non come semplici sette dell’induismo storico.  Si tratta insomma del solito dualismo fra culture aristocratiche e culture eroiche riscontrabile in tutte le grandi civiltà del mondo.  Ecco perché Satyā diventa la matrigna di Bhīṣma, come a dire della forma umana argentea di Skanda; ma solamente una vaga amante nei confronti di Parāśara, incarnazione parziale di Viṣṇu.  I due figli deceduti di Satyā potrebbero alludere, forse, ai due precedenti yuga già passati al momento dello scoppio del bellum fatidicum; che, come il testo precisa in un passo inequivocabile, sarebbe scoppiato al termine del Dvāpara.  In termini archeologici, se vogliamo, alla fine pressappoco del Mesolitico (5.000-4.500 a.C. c.)(32).



f)  Riflessioni sul Mahābhārata,
l’Ilāvta e la mitica patria degli rya

Storicamente la redazione ultima del Mahābhārata, giunta sino a noi in 2 principali versioni (la Settentrionale e la Meridionale)(33) è stata attribuita al periodo fra l’inizio del III sec. a.C. e la fine del I d.C (34).  Accettando codesta attribuzione ciò non implica che si sia costretti per forza ad avallare l’idea da parte della ricerca storica accademica dell’arrivo sul suolo indiano in varie ondate attorno al 1.500-1.400 a.C. delle stirpi arie, mossesi circa mezzo secolo prima da un nucleo di popolazioni dimoranti nell’Asia Minore (35) che l’antropologia fisica ha definito caucasoidi (36), colla conseguente lotta nei secoli successivi fra tribú arie e anarie o fra le stesse tribú arie (37).  In questo scritto non si vuole né negare aprioristicamente tale teoria, poiché di teoria si tratta e non di un dato di fatto (non essendovi dati archeologici probanti l’avvenuto arrivo nella data testé indicata, probabilmente per via dell’abitudine aria di ardere i morti sulla pira funebre)(38), né proporre un’alternativa per partito preso.  Crediamo viceversa che vadano tenuti in maggior conto gli studi di scrittori non accademicamente allineati, come Tilak (39) ed altri, quantunque ad uno sguardo superficiale essi appaiano datati e non rispondenti a canoni di scientificità.  Ma nel contempo siamo convinti che tali studi andrebbero rivisti a fondo, onde non pigliar per oro colato tutto quanto asseriscono, alla luce delle nuove acquisizioni ottenute in vari campi del sapere.  Proprio quanto aveva fatto Tilak a suo tempo, seppur siano passati troppi anni da allora per poterlo accogliere integralmente.  Quel che si può accettare in generale ancor oggi delle ricerche del N. è la provenienza, fra l’8.000 ed il 5.000 a.C. (40), delle genti arie (41) da una terra nordica (forse persino circumpolare)(42) devastata qualche millennio prima da fattori climatici e diluviali; com’è confermato del resto dalla cosmografia indiana, indirettamente attestante l’esistenza d’un continente chiamato Uttarākuru, che lo scrittore marathi però menziona maldestramente (43) – come d’altronde tutti gli scrittori dell’Ottocento e del Novecento – confondendolo colla Terra Iperborea (44) e non citando invece il dvīpa ad essa realmente affine dell’Ilāvṛta (45).  Tali truppe si sarebbero stanziate nei millenni successivi nelle regioni centrali dell’Europa e dell’Asia, in cerca di nuove terre ove stabilire la loro meta ultima. 
Sui tempi della loro discesa verso l’Asia Meridionale Tilak non s’è mai pronunciato, limitandosi a teorizzare 3 periodi astronomici (46) delimitanti invero piú la letteratura vedica che non l’invasione aria.  Secondo la ricerca storica gli Ari ovvero gl’Indoeuropei – com’essa ha preferito definirli su base linguistica, in ragione della cattiva propaganda sul termine da parte della demagogia nazista – nel III millennio av. l’E.V. si sarebbero invece stanziati pressappoco in Asia Minore (47), per spingersi poi in parte verso le regioni settentrionali dell’Europa (il ramo celto-germanico e quello balto-slavo)(48) ed in parte verso le regioni meridionali (i rami italo-latino, illiro-ellenico e daco-tracio); altri sarebbero rimasti piú o meno in loco (il ramo ittito-mitannico e quello frigio-armeno), altri ancora si sarebbero diretti verso l’Asia Centrale (il ramo tocario-scitico) o l’Asia Meridionale (il ramo indo-iranico)(49).  Viceversa per noi, piú vicini alla posizione tilakiana anche se non la condividiamo appieno, la sede aria privilegiata di stanziamento dopo l’abbandono della patria originaria assai settentrionale deve esser stata l’area baltica (50); non intesa però quale punto di partenza per scorrerie verso il meridione eurasiatico, ma piuttosto d’arrivo provenendo da sudest.  Per ridiscendere alfine verso il Mediterraneo, dopo i nuovi mutamenti climatici dovuti ad un minore diluvio, forse quello di Ogigia (51) o forse un’altra inondazione, attraverso le commerciali Vie dell’Ambra (52).     
La prima terra di provenienza non deve però necessariamente esser reputata eurasiatica (da parte nostra preferiamo pensare ad una regione nordatlantica stando alla leggenda biblica sugli Eroi), né lo spostamento di quelle popolazioni può esser messo sic et simpliciter in relazione alla fine della glaciazione, come faceva Tilak; ma semmai al dislocamento della litosfera rispetto ai poli geografici o piú probabilmente ad un fenomeno equivalente quale lo spostamento dell’inclinazione dell’asse terrestre, sia pur di pochi gradi (53).  Quando le genti arie abbiano abbandonato esattamente le due sedi, l’una oltreatlantica e l’altra mediterraneo-orientale, non è dato con certezza di sapere.  L’unica cosa che sappiamo senza tema di smentite è che da allora in poi esse si sono suddivise in vari tronconi, quelli che oggi chiamiamo a ragione o a torto – parafrasando i loro idiomi – ‘indoeuropei’.   Può darsi che la datazione attualmente accettata del raggiungimento delle zone meridionali dell’Eurasia sia veridica, ma ulteriori ricerche andrebbero affrontate per confermarlo (54) .  Giustamente infatti si sono chiesti di recente gli archeologi indiani, come A.K. Biswas (55), dove si trovino i paralleli in ceramica grigia dipinta – associata solitamente al primo utilizzo del ferro (56) ed alla venuta degli Ari nel Deccan – sull’altipiano iranico o sulla strada che si suppone essi abbiano percorso.  Non sono stati trovati da nessuna parte, ci risulta, sinora.  In caso di mancato reperimento, anche dopo ulteriori ricerche, occorrerebbe allora eventualmente cambiare rotta.   
Lasciamo per ora il campo aperto ad ogni teoria, ripromettendoci comunque di riprendere il discorso ed approfondirlo in una futura indagine, che già abbiamo in mente (57).  Ivi c’interessa solamente illustrare la situazione storico-culturale nella quale ha potuto innestarsi la mitologia ittica, che è il reale oggetto del nostro studio.  Questa sí d’origine veramente paradisiaca secondo i miti, a differenza della saga eroica testé menzionata, che ne è come l’immagine riflessa in uno specchio deformato di tempi posteriori.  Dove realmente dimorasse il Paradiso Terrestre (58), neanche questo è oggetto della nostra ricerca per ora; sebbene la cosmografia hindu sia chiara in proposito, visto che l’associa al Monte Meru (59).  La leggenda epica dello Śvetadvīpa (60), lo abbiamo già esaminato, descrive il Paradiso Terrestre come la presenza di un’umanità idillica in un indecifrato e per certi versi indecifrabile “Continente Bianco” (61); numerosi  sono del resto  i miti, anche al di fuori dell’ambito indiano, che trattano d’una perduta ‘Isola Bianca’ (62) abitata da gente di chiara carnagione.  Oppure, raffigurano il Centro del Paradiso Terrestre come una Bianca Montagna (63).  Ci basti qui sapere soltanto che esso ha a che fare coll’Ilāvṛta, distinto dall’Uttarākuru (64) non meno di quanto il Satyayuga si distingua dal Kaliyuga.    



g)  Ulteriori considerazioni
riguardo i due contendenti  del poema: il senso del conflitto

Lo scontro bellico verificatosi nel Kurukṣetra (65) fra le due tribú rivali dei Kaurava e dei Pāṇava precede il Kaliyuga (66), dunque per forza di cose non può aver a che fare colle invasioni arie della seconda metà del II millennio a.C., o presunte tali.  A differenza di quanto in genere si ritiene.  Alleanze a parte (67), i due principali contendenti della Guerra di Bhārata (68) come abbiamo su delineato rispecchiano tendenze generali arcaiche della società indiana, indipendentemente dalle precise origini etniche di ciascuno di essi (69).  Alle due fazioni in discordia per motivi culturali ed etici, essendo gli uni ancestralmente ancorati alle nobili tradizioni dell’onore e gli altri maggiormente attratti dai successivi modelli morali di tipo eroico, si allearono via via le varie tribú estendendo il conflitto ad una guerra devastante e pericolosa mai osservata prima d’allora (70).  L’agone mahabharatiano – toni romanzeschi e personaggi letterari a parte – rimanda comunque ad un tempo in cui l’India ancora non esisteva in quanto tale, seppur il Paese di Bhārata ne costituisse di certo una prefigurazione; ma per Bhāratavarṣa o ‘Terra dei Bhārata’ doveva intendersi in passato cosmograficamente l’intera ecumene a quel tempo nota dell’Asia Centromeridionale, quando non addirittura la situazione geografica globale dell’epoca (71). 
Non si può perciò far dell’etnografia né della sociologia sul poema, ma tutt’al piú della mitografia o della storia culturale, perché i tempi di riferimento degli episodi epici (72) – almeno nella loro forma supposta originale (73) – sono relativamente lontani e vi è il rischio trattando di ari ed anari d’immettervi i propri pregiudizi.  È il caso ad es. degli studi del Dumézil, seppur mutuati da quelli dell’amico Wikander (74), i quali hanno rinvenuto nello schieramento panduide la tipica ideologia tripartita indoeuropea; cosa che anche noi in certo senso accettiamo, ma il nostro punto di vista differisce da quello dello scrittore francese.  Potremmo definirlo storico-mitografico, piuttosto che storico-giuridico.  Insomma, chi ci conferma che i Pāṇava fossero degli ari?  Nell’accezione etnologica duméziliana ed accademica in genere, s’intende, non nella nostra.  Se Kṛṣṇa per definizione appartiene avataricamente al precedente yuga (eone), quando gli ari in base ai dati attuali della ricerca storica non erano ancora giunti sul territorio indiano, essendo stato l’auriga secondo il Mahābhārata compagno di lotta dei Pāṇava nell’agone contro i Kaurava, come si può affermare che Kṛṣṇa e gli altri combattenti fossero ari?  Evidentemente i calcoli non tornerebbero, a meno d’intendere gli ārya come li intendiamo noi, cioè non in senso etnico ma generazionale.  In tal caso essi sarebbero da considerare semplicemente degli eroi, quali in effetti paiono essere letterariamente, e tutto andrebbe a posto per incanto.  A quel punto non importerebbe sapere quando il ceppo caucasico, che da parte nostra preferiamo chiamare iaphetico alla  maniera biblica, sia giunto in India.
Altrimenti occorrerebbe immaginare che gl’Indoeuropei, o Iapheti che dir si voglia, siano arrivati colà assai prima.  Assieme ai Camiti (75), cosa ovviamente difficile da dimostrare.  In questo caso bisognerebbe arguire che l’attraversamento dell’Atlantico da parte di tutto il ceppo noaico non sia stato troppo diverso da come ci narra la leggenda biblica, simbolismo a parte.  Ossia che  tutte e tre le stirpi d’origine noaica abbiano affrontato un periglioso viaggio via mare verso un’unica direzione (casuale od intenzionale che fosse), il Mediterraneo Orientale, per poi essersi spostate chi qua chi là nelle loro sedi storiche d’appartenenza.  Allora la tappa baltica (76) sarebbe da intendere in altro modo rispetto a quanto in precedenza supposto. Le tradizioni norreniche parrebbero avvalorare questa tesi (77).  Mentre la Grecia, dove ai camitici Pelasgi (78) sono subentrati gli Elleni –  iaphetici per definizione (79) – parrebbe avvalorare la tesi della provenienza nordica, a meno che anche gli Elleni come tutte le altre genti di lingua indoeuropea venissero anch’essi realmente dall’Asia Minore.   I dati archeologici non provano e non negano nessuna delle due ipotesi contrapposte, per la comune abitudine di utilizzarli da parte di ognuno come meglio piace.   



h)  Personaggi simbolici e classi sociali a confronto
nel quadro epico mahabharatiano

È impossibile comunque non osservare nell’insieme della leggenda epica un personaggio simbolico che non partecipa al conflitto, anzi ne pare oltremodo estraneo; la figura del Dāśarāja (da dāśa, var. dāsa = ‘pescatore, traghettatore, marinaio’), col suo immaginabile seguito iniziatico tenuto in disparte ed anzi occultato nella trama del poema.  Quest’oscura figura incarna l’autorità sovracastale al di là d’ogni potere (haṁsitā), cioè la maestria originaria insita nell’uomo che è spontaneamente congiunto a Dio.  Ed è l’incarnazione di Brahmā, che non per niente ha per veicolo lo Haṁsa (‘Oca Reale’), indipendentemente dal nome reale e dalla conseguente mitologia che possa mai aver avuto il nume primevo in India in tempi proto- o pre-vedici (80).  Per questo i seguaci d’un dio hanno conservato nell’India storica il suff.-dāsa (lett.‘servo’), applicato al loro nome, onde formalizzare il loro servaggio devozionale ad un dato aspetto della Divinità.  
Un secondo personaggio anch’egli precedente al conflitto è rappresentato da Śāntanu, la cui figura singola d’altra parte è sicuramente una metafora di tutta la casta sacerdotale, una casta di tipo druidico-dravidico evidentemente; in apparenza non brahmanico quindi, dato che il varṇa brahmanico ha scarso rilievo nel poema, almeno nella trama principale.  Segno che si aveva a che fare con tempi pre-brahmanici, ovvero pre-kaliyughici, e che soltanto in tempi storici la narrazione è stata induisticizzata creando un pantheon in cui è estremamente difficile districare gli elementi ari da quelli anari.  Vi è comunque chi sostiene la sicura non-arianicità di Brahmā, Śiva, Viṣṇu (Kṛṣṇa compreso) e Kālī; (81).  Riguardo Brahmā si potrebbe dubitare, per il fatto che risulta poco importante nell’estremo meridione dell’India (82); ma la cosa si potrebbe spiegare non tanto coll’assenza del nume nel paleo-dravidismo, quanto semmai col prevalere  in quei paraggi dell’austronesianismo.  Che il Ṛgveda sia stato composto, nel suo nucleo primario trasmesso oralmente, al di fuori del mondo indiano sarebbe provato secondo alcuni dal fatto che in esso siano scarsamente menzionati i grandi fiumi solcanti le fertili piane del nord (83); secondo altri, viceversa, la citazione della Sarasvatī attesterebbe il contrario.  I sacerdoti indici paleo-dravidici sono le figure con manto trifogliato (84) ritratte nell’arte tribale dei pescatori e dei commercianti dell’antica Valle dell’Indo, dei quali Coomaraswamy (85) antecedentemente a Parpola (86) aveva indicato l’affinità coi sacerdoti sumeri, nell’Antichità noti come ‘Caldei’ (87).  Benché  in tempi posteriori si sia cercato di tracciare un quadro di affinità linguistiche originarie fra lingue dravidiche ed ugro-finniche, ma gli Ugro-finni sono maggiormente prossimi agli Uralo-altaici, appartengono anzi alla linea di demarcazione fra questi ultimi ed i Paleo-asiatici.  I Paleo-asiatici sono, in sostanza, dei nord-siberiani e gli altri due gruppi dei sud-siberiani.  Piuttosto, l’affinità fra Paleo-dravidi e Paleo-sumeri parrebbe indicare qualcos’altro, ossia che il dio primevo paleo-dravidico fosse il corrispettivo indico del dio paleo-sumero An.  Dunque Brahmā, se non è paleo-dravidico e neppure indoario, da dove proviene?  Vide infra.
Una terza parte di personaggi, viceversa, scatena belluinamente il disordine colla scusa di voler difendere gli antichi valori tribali ormai in decadenza dell’aristocrazia guerriera; tuttavia, malgrado la propria rozzezza, mantiene intatta una sua palese genuinità.  Ad essa si contrappone una quarta parte sociale piú smaliziata e borghese, che non bada individualmente ad ignobili vigliaccherie, nonostante i propri decantati valori morali pur d’annientare gli avversari e vincere il conflitto.  Vedi a questo proposito il duello decisivo fra il prode Duryodhana ed il vigoroso Bhīma, anche se il fatto aveva avuto incredibilmente per anteprima (dip., cxxviii) una storia d’avvelenamento del cugino da parte del kuruide, che l’aveva alfine gettato nel Gange.  Dal letto del fiume il panduide era sprofondato agl’Inferi, dove i Nāga avevano tentato d’ucciderlo; sennonché quegli, disponendo nel  proprio sangue d’un veleno vegetale funzionante da contravveleno, era riuscito a scamparsela ottenendo per di piú dalle serpi un prezioso liquore, che gli aveva conferito una forza spropositata.   

La linea avatarica nella persona di Kṛṣṇa – ecco il punto decisivo del racconto a garanzia che i fatti si siano svolti durante il IX Ciclo Avatarico e non nel X – pur essendo di per sé al di sopra delle parti, ancor piú di quella del Re Pescatore, si schiera però immancabilmente a favore dei principi panduidi a causa della propria propensione vishnuita.  Ciò per il fatto che, a ben vedere, è l’avatāra medesimo a guidare il declino del mondo verso rinnovati valori spirituali.  Si rammentino in tale ottica le parole di Kṛṣṇa ad Arjuna onde spronarlo ad uccidere senza pietà il fratellastro Karṇa (88), piú valente di lui per via della propria nascita solare.  Arjuna è invece un’incarnazione di Indra, un dio meno arcaico e dunque inferiore in potenza a Sūrya, benché funga fra tutti gli Dei da Devarāja (al modo di Zeus rispetto ad Elio); ma a differenza di Karṇa sa utilizzare al meglio la formula concernente l’arma pāśupata, che viceversa il fratellastro dimentica nel momento fatidico.  Che è quest’arma, se non quel che i Greci definivano καιρός (‘il tempo opportuno, il momento propizio’)?  Insomma, se è il dāśarāja a mantenere passivamente intatto nell’ombra il contatto rivelativo dei primordi (89), concedendo la possibilità agli uomini decaduti di trasformarsi in Haṁsa o Paramāṁsa (utlizziamo qui la terminologia induista, come fa del resto il poema, ma è chiaro che i concetti debbano esser trasposti in un mondo non vedico); è l’avatāra a favorire visibilmente ed attivamente il mutamento per adattamento ai tempi, pur senza dispersione dell’essenziale.  Notiamo per inciso che il simbolismo avatarico era noto ai Sumeri, quindi non vi è ragione per negarlo ai Paleo-dravidi; se le tradizioni letterarie dei Dravidi di epoca storica l’hanno sempre celebrato, non è lecito attribuirne l’origine ad un’influenza del ceppo ario.  Il fatto che compaia pure nel Veda non significa che sia di matrice vedica, il Veda come lo conosciamo oggi essendo un insieme di testi già induizzati; è arduo d’altronde distinguere, all’interno dell’induismo, gli elementi ari da quelli anari.  È  molto piú facile anzi che sia successo il contrario, ossia che gl’Indodravidi abbiano trasmesso questa denaria simbologia e molte altre cose agli Indoari.  I rapporti fra Paleo-dravidi (90) ed Indoari (91) non debbono esser stati troppo dissimili rispetto a quelli fra Iranari e Proto-elamiti, viste le affinità di lingua e di cultura da un lato fra Iranari ed Indoari e dall’altro fra Proto-elamiti e Paleo-dravidi.  In Grecia si è verificata una situazione consimile, in cui gli Elleni sono subentrati ai Pelasgi.  Per questo troviamo la simbologia avatarica anche in Grecia, oltreché in India e in Iran.  Per motivi analoghi la ritroviamo fra gl’Italici, presso i Cumani ed i Latini, nonché fra i Celti; mentre non è presente fra i Germani, che sono stati da molti considerati il ceppo piú rappresentativo degl’Indoeuropei.  Secondo noi a torto, a causa della solita confusione fra la Razza Bianca originaria e gl’Indoeuropei babelicamente decaduti (Iapheti), il culto orionico di tilakiana memoria loro attribuito equivalendo in tutto e per tutto a quello del mitico cacciatore biblico Nimrod; figlio di Kašu, voce cassita equivalete all’ittita Kešši/Kessi.  Non a caso il nome di  Kṛṣṇa nella Gītā è Keśava, un appellativo conferito all’omonimo avatara precedente per aver annientato il demone equino Keśin (92).







i)  Ari e Anari

Intendendo i Kuru – come qualcuno ha realmente fatto – quali genti non-vediche ed anarie e viceversa i Pāṇava quali genti vediche ed arie, saremmo ben presto smentiti.  Poiché si rinvengono dati al riguardo che conducono chiaramente verso altre soluzioni del problema.  Ad es. Kuruśravana, nome che dovrebbe logicamente collegarsi alla stirpe dei Kuru, è rintracciabile invero nel Ṛ.V.- iv. 42, 8-9 coll’appellativo di Trādasyava (‘discendente di Trādasyu’), epiteto del sovrano puruide (93).  Questo perché i Kuru, come abbiamo visto sopra (94), erano precedentemente chiamati Puru (95), cosí come i Pāṇava eran detti Pāñcāla (96).  Da tutto ciò sembrerebbe potersi dedurre in apparenza che i Kuru fossero ari, visto che Trādasyu significa ‘flagello dei Dasyu’.  Ed i Dasyu, sappiamo, sono ritenuti nemici degli Ari nel Ṛgveda.  Non stiamo per ora ad identificare siffatti nemici, lo faremo piú avanti (97).  Per il momento ci basti almeno capire una cosa, che tanto i Kuru quanto i Pāṇava parrebbero esser degli ārya (98).  Ciò non è in contraddizione con quel che è attestato nell’epica, giacché le due famiglie discendono entrambe da Vyāsa (99) alias Kṛṣṇa Dvaipāyana, alter-ego di Kṛṣṇa (100), l’eroe epico per eccellenza nella saga mahabharatiana (101).  Usando il termine ārya non occorre necessariamente riferirsi all’interpretazione secondo noi falsata che di esso è stata data nell’Ottocento e nel Novecento nella linguistica indoeuropea.  Gli ari infatti, lo abbiamo piú volte rilevato, corrispondono anche sul piano filologico agli eroi greci (102).  Quindi né KuruPaṇava sono di vera origine aristocratica, ciclicamente parlando, pur essendo di fatto dei principi; per quanto si debba fare fra l’un e l’altro gruppo tribale la distinzione surriferita, relativamente al culto.  Appartengono per maggior precisione alla stirpe umana antecedente a quella dei semplici uomini, della quale parlano i testi indiani ed anche Esiodo e Platone, facendone la scaturigine dei deva o semidei (103).  È allo scopo che i testi iranici tramandano la loro provenienza originaria da regioni nordiche non ben identificate – diverse ad ogni modo da quelle iperboree, confusione fra i due territori a parte – ma definite airyanəm vaēǰah, cioè letteralmente la “regione degli ari” (104).  Coincidevano, in tutta evidenza, cogli abitanti di quella terra che i tradizionalisti europei della prima metà del Novecento definivano ‘Atlantide Iperborea’ (105).
Mutatis mutandis, gli Ari intesi in accezione ampia equivalgono ai Gibborīm biblici, riportati in Gen.- vi. 4; vale a dire l’assieme dei discendenti noaici ossia Camiti, Semiti e Iapheti.  Si rammenti in proposito che Cam, Sem e Iaphet nella ‘Bibbia’ nascono prima del Diluvio (ibid., 9-12) da un uomo retto in tempi di violenza e di corruzione.  E siccome era tradizione ecclesiastica medievale che il diluvio noaico andasse identificato a quello atlantideo tramandato da Platone, non ci si può esser dato torto se ipotizziamo l’esistenza in tempi tardo-paleolitici di 3 Atlantidi (106), piú o meno assimilabili alle 3 Americhe odierne.  Colla correzione geografica dovuta, ovviamente, alla diversa presenza di terre emerse fra le due epoche.  Ciò implica necessariamente che le Americhe siano state popolate, seppur in diversa percentuale, da 3 Razze: la Bianca, la Nera e la Rossa (quest’ultima mista), probabilmente nell’ordine elencato (107).  In senso ristretto invece, l’accezione crediamo adottata nel Ṛgveda e nell’Avesta, gli Ari vanno considerati uno dei tre ceppi noaici, verosimilmente quello iaphetico.  Infatti nell’apocrifo Libro dei Giubilei- viii. 30 si afferma che la terra donata in sorte da Noè al figlio Iaphet “…era fredda, mentre quella di Cam era torrida.  La terra di Sem, invece, non era né torrida né fredda, perché era temperata col freddo ed il caldo.”  Le speculazioni indoeuropeistiche però – è bene rammentarlo – non hanno alcun valore tradizionalmente parlando, poiché gl’Indoeuropei non sono mai esistiti se non nei secoli recenziori nei quali per unanime convenzione gli orientalisti europei li hanno inventati.  Sono in realtà una popolazione mista, in gran parte di tipo iaphetico (108), e iaphetica è di pari passo la loro lingua.  In tal caso la corrispondenza è stretta, sebbene vada da sé che la loro origine sia atlantica, non eurasiatica.



l)  Guerra di Bhārata e Guerra di Troia

Crediamo, pertanto, che il conflitto indiano fra Kuruidi e Panduidi faccia il paio con quello egeo fra Troiani ed Achei.  Gli Achei vincitori svolgono il ruolo nell’Iliade dei Panduidi, i Troiani dei Kuruidi.  Vi è stata una tendenza da parte della critica letteraria, perciò, ad assimilare doppiamente gli uni agli altri.  Questo non significa però che si tratti della stessa guerra, delle stesse stirpi o degli stessi tempi.  Benché vi siano delle analogie effettive fra alcuni personaggi dei due poemi (109), che noi medesimi abbiamo sottolineato nella stesura del libro e che per forza di cose rimandano ad un sostrato letterario comune piú arcaico, difficile da delineare con precisione (110).  Grosso modo, potremmo aggiungere, la Guerra di Troia si è svolta nella seconda metà del II millennio a.C.  La Guerra di Bhārata è stata allestita, per contro, oltre 3 millenni prima.  Nel Kurukṣetra gli eroi krishnaiti sbaragliano gli avversari a loro apparentati.  Nell’agone troiano, al contrario, sono i nuovi arrivati ellenici a prevalere sugli abitanti ionici dell’Asia Minore.
L’errore commesso a livello accademico e non nei secoli scorsi è stato quello su base coloniale ed eurocentrica di pensare che la presunta “razza ariana”, invero mai esistita nonostante s’intraveda un’indubbia confusione fra l’Uttarā Kuru (la Plaga Settentrionale) e lo Śvetadvīpa (il Continente Bianco originario secondo il mito) persino in certi sacri testi (111), abbia invaso per ragioni climatiche il sud dell’Eurasia ovunque imponendo la sua cultura tramite una superiorità strategico-militare dovuta all’impiego massiccio del cavallo ed all’utilizzo del ferro nelle armi.
Nel Kurukṣetra il cavallo non ha un’importanza decisiva come animale da guerra e nonostante i duelli epici dei guerrieri sui cocchi ne ha quasi di piú l’elefante, anche perché nessuno in quell’ambito poteva violare le regole del nobile combattimento e doveva pugnare in regolar tenzone, cioè da pari a pari.  Le regole, è vero, vengono infine vigliaccamente violate onde determinare la sorte ultima della guerra; ma ciò non comporta una superiorità culturale dei vincitori sui vinti, anzi il contrario.  Non succede la stessa cosa pure ai Troiani?  O forse il pio Enea è inferiore ad Agamennone, che non bada di sacrificare ai numi la giovane figlia Ifigenia pur d’ottenere la vittoria finale in favore del fratello Menelao?  Benché vindici del ratto di Elena da parte di Paride, non si può certo affermare che i due fratelli facciano una gran bella figura nell’Iliade!  Quale sia la ragione vera per cui i Panduidi prevalgono sui Kuruidi o gli Achei sui Troiani è presto detta: in entrambi i casi la maggior scaltrezza, accompagnata oltretutto da un minor attaccamento alle leggi dell’onore.  Sul litorale anatolico ove sorgeva Troia il cavallo fece vincere la guerra ma, particolare non del tutto insignificante, era di legno...  D’altra parte l’espressione “Teucri domatori-di-cavalli’ – riferito ai Troiani – è un leit-motif dell’Iliade, cosa che spiega l’ingenuo ritiro entro le mura della loro città dello speciale dono fatto agli Dei da parte degli Argivi, il cavallo votivo apparentemente abbandonato ma invero costruito collo scopo segreto di distruggere Troia; e si sa che i Troiani appartenevano ad una stirpe anellenica, quella ionica, non meno degli Ateniesi.  Di codesta stirpe, in origine ricollegabile ai Pelasgi (Her., Hist.- i. 56, 2), lo storico greco asserisce che non s’era mai allontanata dalle sue sedi naturali; a differenza di quella dorica, la quale “aveva molto vagato” prima di giungere a destinazione. Era a tale seconda stirpe che appartenevano gli Elleni veri e propri e fra costoro eccedevano i Lacedemoni.  Ciò significa che furono i Pelasgi (affini ai Cretesi ed ai Sumeri), cioè il ceppo camitico, ad addomesticare gli equini prima degli Elleni.  Dato che come vedremo piú innanzi fra Pelasgi e Paleo-dravidi c’è una possibile diretta discendenza, ecco dunque che la storia della “superiorità indoeuropea” su base equina non regge.  Rispetto alla Piana di Troia parallelamente nel Kurukṣetra detiene un ruolo decisivo nel volgere finale degli eventi lo stratagemma dell’elefante, mediante cui si fa credere ai Kaurava sopravvissuti con voci subdole che l’Aśvatthāmam da poco annientato è il figlio del loro nuovo comandante-in capo Droa, dopo la morte al decimo giorno di battaglia dell’invincibile Bhīṣma; anziché, come accade in realtà, l’innocente pachiderma omonimo massacrato da Bhīma e preso a pretesto al fine di demoralizzare il grande maestro d’armi onde poi poterlo piú facilmente decapitare.
Se gli equini eran già presenti nella Guerra di Bhārata (112), tanto che già era stato allestito alla fine della guerra da parte panduide l’śvamedhika (il ‘Sacrificio-del-cavallo’), vuol dire evidentemente che essi non hanno avuto un ruolo decisivo nell’avanzata aria in India contro gli anari durante il II millennio a.C; oppure, ed è questa la nostra convinzione segreta, la suddetta invasione ha rivestito minor importanza di quanto oggi si teorizzi (113).



m)  Necessità d’una rivalutazione
della vecchia partizione biblica in Camiti, Semiti e Iapheti

Vi è un’apparente contraddizione, ad ogni modo, nel nostro assunto; dato che in India attribuiamo la vittoria per scaltrezza a genti camitiche (i Pāṇava krishnaiti), affini a quelle sumeriche, in Grecia a genti iaphetiche (gli Achei).  E proprio cosí, probabilmente, deve essere andata.  Perché non si tratta della medesima ondata migratoria, né degli stessi ceppi etnici; sebbene in entrambi i casi a scatenare il conflitto sia stato un elemento imponderabile, le grazie d’una donna: l’avvenente Draupadī da un lato e la bella ʿΕλένη dall’altro.  Non si può perciò escludere che vi sia stata in qualche modo una trasmissione di dati preistorici dall’India alla Grecia, riadattati in tempi protostorici all’uso. 
La prima ondata migratoria di cui si abbia traccia culturalmente parlando dal Mesolitico in poi (114) riguarda il passaggio in Asia dal Mediterraneo di genti pelasgiche, nelle quali si potrebbero riconoscere i Paleo-dravidi, piú avanzati civilmente degli autoctoni.  Essi elessero quale sede privilegiata, secondo quel che si deduce dal Mahābhārata, un arcipelago d’isole attorniate ad una principale (115).  Probabilmente perché, essendo pescatori e commercianti marittimi, la cosa comportava maggiori vantaggi.  Codesti proto-indici erano in sostanza tribú camitiche (116) le quali finirono per dominare sui gruppi austronesiani piú primitivi (117), di tipo mundarico o veddoide, in un  Deccan sicuramente diverso da quello storico; fra costoro e i proto-indici vi era probabilmente incuneato un terzo ceppo d’imprecisata origine, che la mitologia hindu descrive come guerrieri ramaiti di tendenze brahmaniche primitive.  Pur nella fusione etnica che deve esser avvenuta in parte durante il Mesolitico fra i 3 gruppi, certamente i 2 gruppi autoctoni (austronesiani di bassa o media statura e ramaiti longilinei, questi particolarmente affini ai Kuruidi) ed i loro discendenti già camiticizzati sono stati dapprima sopravanzati tecnologicamente – si considerino in quest’ottica i miraggi del meraviglioso palazzo costruito in Hastināpura per i principi panduidi da Māyāsura, ai quali sono sottoposti onde deriderli ed umiliarli il povero Duryodhana e i vanagloriosi fratelli alla vigilia dello scatenamento del conflitto – ed alfine sconfitti in guerra.
Nella Guerra di Troia gli ultimi arrivati, Agamennone e soci ovvero la coalizione di guerrieri ellenici arrivati colle navi  dall’Egeo, erano invece iapheti provenienti da lontano; dotati, oltreché di maggior destrezza bellica, d’un numero superiore di belligeranti.  Non dimentichiamo però che la Troia morente è rinata di poi nella potente macchina da guerra romana, essendosi l’etnia ionio-troiana dispersa coniugata a poco a poco con quella latina, d’altra provenienza.  A dimostrazione se non altro della superiorità camitica nei combattimenti, una superiorità a livello di coraggio e di forza bruta appartenuta in passato alla Razza Nera nei 2 cicli avatarici da essa dominati (il V ed il VI, cioè il Ciclo dei Nani e quello dei Titani), donde sono stati forgiati i veri Rājanya (118); e che è stata ereditata in seguito dall’Atlantide Meridionale (creata sul piano culturale secondo la leggenda ebraica dai Cainiti e dai Sethiti, congiuntamente, in una area geografica corrispondente a quella che è oggi pressappoco l’America del Sud), per poi esser trasmessa nella fase finale del Dvāparayuga e nella prima fase del Kaliyuga tramite i Camiti – loro eredi diretti – alle proprie spurie filiazioni indomediteranee (Protoiberi, Protocelti, Pelasgi, Cretesi, Mini, Protosumeri, Protoegizi, Protolibici, Paleo-nilotici, Paleo-etiopici, Proto-elamiti e Paleo-dravidi) siccome piú dinamiche e vigorose di altri ibridi.  L’Egitto docet in proposito.  In seguito nel Vicino Oriente e nel Nordafrica ha prevalso l’etnia semitica (Accadi, Assiri e Babilonesi, Hyksos, Ebrei ed Arabi, Fenici e Cartaginesi)(119), pastoralmente nomadica ed avvezza ai commerci carovanieri; indi nelle lande europee ed asiatiche quella iaphetica (Italici, Illiri, Elleni, Daci, Traci, Frigi, Ittiti, Germani, Celti, Teutoni, Cimbri, Ambroni, Baltici, Proto-slavi, Sciti, Cimmeri, Tocari ed Indo-iranici)(120), piú portata ad espandersi demograficamente (Gen.- ix. 27), dotata di maggior senso pratico e meglio capace di sfruttare le risorse naturali del territorio.
Nel XIX sec e XX sec. i popoli iaphetici sono diventati agli occhi dell’orientalistica ufficiale gl’Indoeuropei, quantunque taluno avesse ammonito già nell’Ottocento a non trasformare le lingue indoeuropee in altrettanti popoli (121).  I semiti, fortuna loro, sono rimasti tali; mentre i camiti, poveretti, sono stati declassati dapprima ad asianici e poi riciclati quali indomediterranei.  Forse il ricordo delle invasioni barbariche durante l’Antichità ed il Medioevo, un prolungamento storico ovviamente delle altre dei millenni precedenti, ha giocato un brutto scherzo agli studiosi europei contemporanei e ne ha falsato il giudizio.
L’inizio del Kaliyuga, ce l’insegna la storia della civiltà secondo quanto abbiamo appena visto, è stato dominato dagli ardenti regni camitici sorti presso i grandi fiumi (Nilo, Tigri-Eufrate, Indo) e non dalle terrifiche e barbare popolazioni iaphetiche; o dalle fluidiche genti degl’imperi semitici, che hanno invece fatto da tramite cronologicamente e non fra i due opposti ceppi noaici.  Come avrebbero potuto dominare all’inizio del Kaliyuga i Paleo-dravidi se fossero stati sopraffatti nel Kurukṣetra, dal momento che il Mahābhārata – lo abbiamo precedentemente segnalato a chiare lettere – attribuisce inequivocabilmente lo scontro fra Kuruidi e Panduidi nonché fra i loro alleati alla fine del Dvāpara?  Dobbiamo spostare la data dell’avvenimento di 4.000 anni, come fanno generalmente gli storici indiani odierni che pure hanno il coraggio oggi di parlare di guerra civile e non di guerra etnica (come si è sempre fatto in passato), per far quadrare le cose?  Risulta inoltre patetico, seppur giustificatissimo in quanto frutto del loro rispetto devozionale, il tentativo di trasformare i soggetti dei miti avatarici in semplici personaggi storici dell’India post-vedica.  Non ve n’è uno in realtà, probabilmente neppure Kṛṣṇa, che possa essere ascritto assennatamente all’India protostorica.  Tant’è che si tratta d’una mitologia diffusa, per certi versi, in tutto il globo e che potremmo quindi definire ‘universale’.  Gli orientalisti in precedenza in tempi di colonialismo britannico avevano finito pressoché per identificare la vicenda mahabharatiana all’agone rigvedico fra Ari e Anari, elementi fantastico-letterari a parte, quasi volessero inconsapevolmente giustificare l’azione coloniale come un atto dovuto alla manifesta superiorità culturale degli uni sugli altri; fatto che, in tal modo, rievocava inevitabilmente ciò che era già avvenuto nell’Antichità.   Dal nostro particolare punto di vista, poggiante sull’etimo parzialmente riconosciuto in sede accademica della voce ‘Ari’ (vide supra, sebbene da parte nostra crediamo di poterla estendere a piú significati quantunque convergenti, che vanno da ‘aratori’ ad ‘artigiani’ ad ‘eroi’),  riteniamo che sarebbe meglio interpretare il termine ed il suo opposto in senso eroico ed antieroico (annettendo gli ulteriori significati indicati, i quali si riferiscono nell’insieme agli attributi fondamentali d’una determinata generazione umana, che per Esiodo era la quarta in ordine temporale rispetto a quella aurea), anziché in senso etnico.  A meno di sconvolgere l’intera nostra rappresentazione attuale del mondo indiano, intendendo gli Ari in senso limitativo ossia iaphetico (il che è accettabile) e ponendo costoro stanziati sul suolo indiano fin dai tempi della Sarasvatī, parallelamente all’avanzata dravido-camitica nel Deccan dai lidi nord- o sud-occidentali.  Tornando al Kuruketra, perché un poema antico fungente da testo sacro dovrebbe mentire?  I recenti reperti archeologici rinvenuti a livello oceanico nell’India Nordoccidentale testimoniano, non a caso, un’affinità notevole fra di essi e quelli dell’antica Civiltà dell’Indo.  Avendo quella zona costiera tradizionalmente a che fare coi luoghi mitici del krishnaismo, ed essendo per giunta stato dimostrato dal Parpola (122) ormai quasi definitivamente che gli antichi vallindi erano dei paleo-dravidi misti ad un altro ceppo dominante da lui definito “ario-primitivo” (cosa sulla quale non siamo peraltro d’accordo), è chiaro che si debba credere in una continuità di cultura nel mondo indiano fra la civiltà mesolitica e quella neolitica od eneolitica.  Evidentemente erano stati proprio loro, i Paleo-dravidi, a vincere nella grande sfida bellica dvaparayughica; e a riassorbire cosí la controparte tribale nel proprio alveo culturale, pur nei limiti imposti dall’ordine castale indiano.  Non gli avversari a loro direttamente legati, chiunque fossero: altri gruppi camitici, oppure iaphetici, alleati ai gruppi autoctoni.  Coll’avvicinarsi dei tempi storici, tuttavia, qualcosa deve esser cambiato; i figli dei vincitori d’un tempo debbono aver ceduto il passo ai discendenti collaterali degli sconfitti, grazie all’apporto magari di nuovi venuti sul territorio e a nuove alleanze militari.  Come sempre è successo in tutte le invasioni, gl’invasori hanno alfine mutato la fisionomia dell’India intera, donde i Dravidi sono stati spinti a sud lasciando le postazioni nordiche agl’Indoari; meno civilizzati, ma piú potenti dal punto di vista bellico.  Non per via del cavallo in sé, ma semmai dell’utilizzo che di questo animale è stato fatto da allora in poi, sellandolo opportunamente e trasformando i combattenti dai cocchi in veri e propri cavalieri senza le precedenti regole militari e quindi piú efficaci in battaglia.  I popoli barbarici, colle loro pugne selvagge, insegnano al riguardo.  Volendo, si può anche concedere all’indoeuropeistica ufficiale che ai nuovi invasori un ulteriore vantaggio in combattimento sia stato offerto dall’impiego del ferro negli armamenti; dato che gl’indo-iranici paiono provenire dall’area ittito-mitannica, i cui abitanti avevano parallelamente surclassato la potenza egizia con tali mezzi.  Questo metallo deve sicuramente aver rivoluzionato pure l’economia in seguito.  Sarebbe interessante fare ulteriori indagini in codesto settore (123).  Non si può esser certi, comunque, che i mutamenti che hanno condotto alla formazione dell’induismo storico siano dovuti a fattori esclusivamente etnici o militari.  Piú spesso è il fattore religioso a risultare determinante nella storia, anziché l’etnia o la forza militare, com’è avvenuto d’altronde durante l’epoca medievale e moderna (124).



n)  Carattere e natura dell’inidentificato Dāśarāja,
il cd. ‘Re Pescatore’ del Mahābhārata
 

Dobbiamo ora cercar di chiarire la vera natura del ‘Re Pe- scatore’, sin qua tralasciata, la quale presenta altresí un aspetto di ‘Capo Traghettatore’.  Forse un traghettatore di anime al modo di Yama, funzionalmente analogo a Kāla e Mtyu, od al Caronte greco-etrusco.  Figure del tutto similari sono presenti, peraltro, nella tradizione mesopotamica ed in quella egizia (125).
Ebbene, mettendo a confronto tale oscura figura con l’omologo ‘Re Pescatore’ della saga celto-cristiana del Santo Graal, personaggio che Coomaraswamy (126) giustamente riteneva equiparabile a Varua (avente talora per veicolo il Matsya anziché il Makara)(127), ci pare di poter dedurre che il Dāśarāja della leggenda in esame non possa essere altri che un’incarnazione di Manu (128); inteso nella doppia funzione, ad un tempo divina ed umana, di Prajāpati – il Signore della Progenie – quale traghettatore di anime verso il mondo terreno mediante la generazione degli esseri (129) e di Yamarāja – il Primo Uomo – quale progenitore dell’intera umanità.  Il senso opposto, sopra considerato, di Yama nel ruolo di nume mortifero è senza dubbio complementare a questo.  E vale anch’esso in doppia valenza, mondana ed oltremondana.  Donde capiamo perché mai nella Guerra di Bhārata il Dāśarāja si tenga in disparte rispetto alle due fazioni, l’una titanica e l’altra eroica, discese entrambe dalla sua figliastra Satyā  – immagine della Rivelazione – e contendentisi il duplice dominio spirituale e temporale nel mondo alle soglie del Kaliyuga.
La supposta identità tra Manu e il Dāśarāja è ovvio che debba esser ulteriormente dimostrata (130), data l’importanza del soggetto.  Non può esser data per scontata attraverso una sem- plice deduzione.  Questo sarà anzi il punto focale del libro, benché tale dimostrazione sia stata posta volutamente nell’ultimo paragrafo del penultimo capitolo; donde si ricaverà conferma indiretta degli altri decisivi sviluppi, quivi trattati nell’assunzione che quella identificazione sia vera, illustrando in profondità la simbologia ittica.  Intanto, cominciamo a notare che tale simbologia non sembra limitata esclusivamente a Manu quale supposto Re Pescatore e doppione uranico di Varua (a sua volta alter-ego di Brahmā), il nume che in origine presiedeva alle ‘Acque Superiori’; sebbene siffatta prerogativa sia stata ereditata in seguito da Indra, come attesta il Mahābhārata.  Né tantomeno a Viu, nella forma del succitato Matsyāvatāra.  Anche il terzo termine della Trimūrti hindu (Śiva-Mahādeva), vedremo, ne risulta immancabilmente coinvolto.
D’altra parte Manu nel Veda non è distinguibile da Brahmā, detentore non meno di lui d’una mitica Coppa (131), poiché l’archetipo divino dell’uomo equivale alla divinità in senso personale.  Seppur sia assolutamente accettabile il paragone coomaraswamyano sopra menzionato (132) fra il Dāśarāja e Varua, in realtà abbiamo già stabilito per una miglior precisione che è Śāntanu la vera incarnazione del dio delle acque (133).  La distinzione ovviamente concerne il modo d’intendere la spiritualità in tempi diversi, vale a dire nelle due diverse metà del Satyayuga (I e II Mahāyuga).  



o)  Matsyendranātha e Matsyāvatāra,
corrispettivi vicendevolmente shivaita e vishnuita di  Manu
in veste di signori delle acque celesti

In certe regioni dell’India, e particolarmente in Nepāl, è rimasta traccia invece d’un certo Matsyendranātha (var. Mīnanātha); che i locali hanno assimilato a Pāśupatinātha, il cd. ‘Signore del Nepāl, insomma la forma meno arcaica di Śiva (134).  Il primo è stato omologato dai buddhisti anche ad Avalokiteśvara (il ‘Signore Misericordioso’, avente per vāhana il Leone), di color bianco o rosso ed altrimenti noto come ‘Signore della Montagna’.  Difatti secondo Liebert sono state assegnate a quest’ultimo delle mūrti di tipo shivaita, con 3 o 11  teste, anche se l’autore commette l’errore di attribuire tali corrispondenze a Viu.
Matsyendra (Mīna) viene considerato nell’ambito dello shivaismo l’Ādiguru, vale a dire il Primo Maestro umano, avendo ricevuto l’Ajña (‘Gnosi’) in veste ittiomorfica da Śiva medesimo nell’aspetto supremo di Ādinātha (‘Signore Primordiale’).  È perciò evidente che Mīnanātha (135) rappresenti l’equivalente shivaita del Matsyāvatāra.  Pure la forma ittica di Brahmā-Prajāpati tuttavia sostituisce, o meglio precede, da un punto di vista funzionale gli avatāra vishnuiti piú arcaici nei testi meno recenti; vedi Ś.B.- i. 8, 1, 1-6 e Mhbh., Vanap.- clxxxxvii. 1-55.  Di norma, però, il Matsyāvatāra viene presentato nei Purāa (136) come una manifestazione pescina di Viu-Nārāyaa.  Tali narrazioni, in genere di carattere vishnuita, illustrano – estrapolando dalle varie versioni succitate in nota – la discesa terrena della Divinità in sembiante di ‘Carpa Miracolosa’; sorta di ‘Pesce Parlante’, che appare nel contempo talora in veste di ‘Pesce Aureo’ o di ‘Pesce Unicorne’.
Essa capita un giorno improvvisamente di fronte a Manu, mentre costui attinge acqua dall’oceano per lavare od a scopo sacrificale secondo altre versioni, ma è evidente che a quel tempo il Sacrificio (Yajña) ancora non esisteva e che si possa quindi parlare di semplici abluzioni rituali  in onore della Divinità.  La scena si svolge di mattino ed è per forza di cose del tutto simbolica, pure nei particolari, siffatta figura di Re Sacro o di Re Pescatore essendo in realtà un travestimento allegorico dell’umanità primeva venerante Sé medesima (137).  Nella leggenda in questione Satyavrata tenta via via, dietro richiesta susseguente di protezione e conforto da parte del piccolo essere implorante, di procurargli un habitat sempre piú sicuro e spazioso (vaso, vasca, pozzo, lago); ma invano, poiché il ‘Pesce Miracoloso’ cresce rapidamente e a dismisura fino a non poter piú essere contenuto in altro luogo se non nell’«Oceano», donde era venuto...  In nota ad un diverso nostro scritto (La Lingua Celeste, P.I), peraltro rimasto incompiuto per motivi di difficoltà editoriali alla pubblicazione, avevamo motivato tale crescita come un’allusione al carattere espansivo dell’Amore, che non può esser contenuto da alcunché.  Dante docet  Dopo aver dunque rivelato a  Manu la sua vera natura, il Mahāmatsya gli annuncia prossimo un Diluvio; segno che si tratta della fine d’un ciclo, il quale non può essere che la fine del I Ciclo Avatarico del VII Manvantara, sebbene talvolta per sovrapposizione sia stato identificato alla inondazione concludente il VI Manvantara.  Cosa che ha portato taluno, ignaro della corretta suddivisione dei cicli avatarici, a parificare erroneamente anche per quanto concerne il passaggio ultimo dal VII all’VIII Manvantara, avvenuto di recente (nel Duemila), il Kalkyavatāra (X Avatāra) al Matsyāvatāra (I Avatāra).  Tornando al mito, il Pesce impartisce all’Uomo istruzioni riguardo la costruzione dell’Arca e la possibile salvezza futura dello stesso e dei Sette i.  A salvezza raggiunta Manu, considerato nel contesto ad un tempo il i per eccellenza – cioè l’uomo archetipico della sua epoca, con doti di veggenza – nonché il Signore della Creazione, essendo desideroso di progenie alla maniera dell’Adamo biblico – anche questi munito d’un doppio ruolo nella tradizione ebraica – presiede alla nascita dell’intera umanità (ibid., vs. 53/a).  Vale a dire in termini generazionali dei Daitya, dei Deva e dei Manuya; insomma, le Generazioni Umane (o Divine) post-adamiche.  Da intendere rispettivamente come Dèmoni, Dei e Uomini, in riferimento al Triyuga (la Triplice Età del Sacrificio); dato che la divinità e l’umanità del Satyayuga (Età dell’Oro), cioè i i (o meglio gli Hasa), è nella leggenda già personificata da Manu (138) medesimo in funzione di dio supremo e uomo archetipico ad un tempo.  Non a caso il termine ‘Adamo’, derivato dall’ebraico, significa anch’esso ‘Uomo’; ma, quando possiede cabalisticamente 4 Teste per guardare in ogni dove, svolge la funzione di Brahmā nel contesto hindu.  Insomma di Yahweh nell’ebraismo, o di Iānus Quadrigeminus in ambito latino.  Non importa che codeste raffigurazioni siano di origine protostorica, immaginando che una loro rappresentazione in legno od altro materiale deperibile abbia preceduto quelle in pietra,  e non preistorica; è il concetto di geminus (‘gemello, duplice’) in sé a contare, Re Giano equivalendo ai primordiali Yima/Yama (id.) della tradizione indo-iranica.  Altrimenti si fa dello storicismo a vanvera.  Nel suddetto testo indiano viene specificato d’altronde che il Primo Uomo, nonché Creatore (i due aspetti compaiono sempre congiunti nella tradizione hindu, non meno che in quella iranica o giudaico-cristiana), ha presieduto pure alla nascita degli altri esseri; ovviamente in senso gerarchico, non evolutivo, animali e piante apparendo nel passo indicato a coronamento della Manifestazione universale.
A differenza della ‘Bibbia’ nelle scritture induiste non si fa affatto mistero che l’Arca, contenente i ‘Sette Principi’ della Manifestazione (in altre parole i ‘Sette Semi’ della Creazione), abbia una sede celeste.  Quando il Diluvio scende sulla Terra Manu – che la tradizione zingara identifica espressamente ad Ādām, entrambi i nomi designando come abbiamo già visto l’uomo per antonomasia in senso primordiale – è costretto a legare quest’arca al <corno> salvifico del pesce, usufruendo del serpente Ananta quale <corda> ed assicurando quest’ultima ad un <albero> cresciuto sul <picco> dell’Uttarā Pārvata (la ‘Montagna Boreale’, ivi nel valore d’Iperborea, insomma il Monte Meru ).
Siffatto mitologhema può essere inteso ontologicamente, interpretando la Montagna Polare come il Cielo quale Principio della Manifestazione ed in quanto tale opposto agl’Inferi; mentre l’Albero del Mondo, in senso assiale, è una raffigurazione dell’Assoluto.  In questo modo il Serpente (An-anta significa ‘Infinito’) viene a raffigurare il Non Essere (A-sat) che lo caratterizza, mentre l’Aureo Corno del Pesce ci rimanda al ‘Raggio Solare’ o ‘Settimo Raggio’, unificante il macrocosmo ed il microcosmo.  Il Pesce possiede di per sé (corno a parte) un ruolo viceversa demiurgico-solare, di contro a quello ricettivo-lunare dell’Arca; per essere piú chiari, il Pesce simbolizza la Śruti (‘Rivelazione’) e l’Arca in tutta evidenza la Smti (‘Tradizione’).  Le Piogge diluviali alludono, invece, alla Manifestazione.  Se viceversa analizzassimo la summenzionata simbologia in senso limitatamente cosmologico sarebbe allora opportuno considerare la Montagna Boreale – puranicamente identificata alla catena himalayana – nel senso semplicemente di Terra Iperborea, intendendo poi l’Albero ed il Serpente vicendevolmente come l’Essere (Sat) e il Divenire (Kāla); giacché l’Essere costituisce il Principio della Manifestazione (Vyakti) e in quanto tale equivale all’Albero Cosmico (Kalpavka), preposto all’insieme dei 14 Manvantara (il Kalpa).  Nel qual caso la menzione del Corno, non potendo ricalcare quella dell’Albero, dovrebbe necessariamente far riferimento ad un’assialità di tipo astrale; in relazione evidente sia ad un Punto Cardinale (il Centro, articamente inteso oppure in senso galattico), sia ad una corrispondente posizione dei poli celesti (l’asse Vega-Sirio, dominante durante I Ciclo Avatarico), a propria volta sideralmente correlata ad un dato Punto Vernale (ossia una primeva congiunzione dei Sette Pianeti nel Segno del Toro, posto a quell’epoca al Solstizio Invernale, mentre al Punto Gamma trovavasi il Leone).
Sebbene le suddette speculazioni siano frutto delle nostre personali elucubrazioni mentali, ci risulta siano involontariamente in linea colla tradizione indiana; dato che anche i Brahmani indiani odierni interpretano cosí le cose, in base a quel che ci aveva riferito tempo fa un nostro collega di studi (139), assegnando al solstizio invernale un ruolo primevo in tal senso.  Del resto, la tradizione orientale e quella occidentale attribuiscono entrambe unanimemente alle settemplici congiunzioni planetarie (140) la causa dei periodici e perenni rivolgimenti del cosmo.  Il significato del Pesce, dell’Arca e delle Piogge secondo codesta accezione, senza dubbio piú ristretta di quella precedente, sarebbe allora da indicare in prospettiva astrologica rispettivamente nel Sole, nello Zodiaco Solare e nei Diluvi ciclici.  Cfr. Coll’Arca dei Viventi (gr.x-w/ xό-w = ‘vivere’), ed il relativo Diluvio Universale, del leggendario Noè biblico.  Pur se lo Zodiaco rimaneva al tempo di Manu (cioè di Adamo) sconosciuto, ma la cosa potrebbe valere allora pure per le settemplici congiunzioni e per molto altro.  È  chiaro che si tratta d’una interpretazione a posteriori, pur essendo ciononostante valida, l’intera gamma del simbolismo essendo d’origine post-paradisiaca.
Ad ogni modo, detto en passant, l’unica interpretazione cosmologicamente sensata dell’arca diluviale della leggenda noaica nel testo biblico non può che essere un’interpretazione di tal genere.  Ferme restando le allusioni di tipo etico-allegorico o storico-antropologiche, che debbono esser aggiunte alle altre sopra formulate, non contrapposte (141).  



p)  Mīn, prototipo paleo-dravidico del dio-pesce

Padre Enrique Heras, un gesuita ispanico naturalizzato in ambiente indiano col nome britannico di Rev. Henry Heras secondo l’uso protestante e divenuto direttore dell’Indian Historical Research Institute presso il St. Xavier’s College di Bombay, ha analizzato alcune delle principali varianti del mito in questione in un celebre saggio (142); il cui valore non ci risulta sia stato debitamente riconosciuto, come spesso è successo per varie opere che hanno aperto nuove vie interpretative, pur avendo esse il solo torto d’includere nel materiale presentato della zavorra.  Intelligentemente lo scrittore anglofono, trattando il motivo leggendario dell’Arca e del Diluvio (143), richiamava l’attenzione della critica verso un possibile prototipo paleo-dravidico del dio-pesce: Mīn, un aspetto del dio Āṇ, secondo lui descritto con ‘occhi-di pesce’ nelle iscrizioni dei sigilli dell’antica Valle dell’Indo rinvenuti nella zona di Mohenjo Dāro (144).  Dato che Āṇ (cfr. con l’An/-u sumerico) risulterebbe in tal modo a nostro giudizio il corrispondente pre-vedico del vedico Varuṇa (145), l’ipotesi proposta da Padre Heras s’accorda perfettamente con la teoria di Coomaraswamy (146) riguardo l’antica natura del nume delle acque – celesti ed infere – come l’originario Re Pescatore di cui il Pesce è veicolo.  Egualmente si potrebbe intendere Brahmā, al cui proposito vide supra, come un ‘ipostasi  in ambito hindu di Varuṇa (147).
La dualità apparente tra le immagini del Re Pescatore e del Pesce, ciascuna delle quali è applicabile a qualsivoglia membro della Trimūrti, si riferisce sul piano cosmologico alla contrapposizione tra il ruolo uranico-solare (polare-diurno) del primo e la funzione uranico-lunare (ossia polare-notturna) del secondo.  Tale distinzione ci permette indirettamente di comparare il Re Pescatore alla figura solare di Agni (il Divoratore) ed il Pesce a quella lunare di Soma (l’Alimento); ma bisogna fare attenzione al contesto, visto che l’identità può essere concepita anche in termini rovesciati.  In altre parole, si può intendere Agni (il Re Pescatore, munito di Canna) in senso lunar-polare, ovvero notturno-assiale; e viceversa Soma (il Pesce, munito di Dente) in senso solar-polare, ossia diurno-assiale.  Nel caso di Varuṇa, peraltro, l’identità con le due opposte figure è doppia; giacché il nume oceanico è primordiale e ambivalente (kritayughico) rispetto ai complementari sebbene distinti (tretayughici) Agni (Fuoco, Sole) e Soma (Acqua, Luna).



q)  Il mito di Varua,
 altra versione della leggenda del Re Pescatore

Osserveremo ancora che per quel che riguarda Varuṇa la possibile identificazione di cotale deità dotata di cappio in qualità di Maya a Prajāpati, o come Yama a Pāśupati (notare la quasi precisa inversione sillabica dei nomi: ma-ya/ya-ma), rispecchia il duplice volto del Re Pescatore quale traghettatore di anime verso <Questo> o l’<Altro Mondo>.  La Manifestazione è infatti concepita nel pensiero indiano come il magico frutto d’una sacra unio (mithuna) tra la Verga/Fallo di un Māyin (‘Illusionista, Mago’), rappresentato alternativamente in vesti demonico-asuriche col nome di Maya (l’Architetto dell’Universo), e la Ruota/Vulva della dea Māyā, incarnante l’illusione cosmica.  Prajāpati (cfr. col biblico Iaphet, trascritto talora Iafet) e Pāśupati  non sono che i loro equivalenti kaliyughici. 
Iconograficamente Re Varuṇa deve di sicuro aver perduto la Canna-lenza (ossia il Kāladaṇa, emblema dell’Asse) di cui egli in principio era di necessità dotato, secondo quanto tradisce il suo veicolo pescino antecedente al Makara, che si può supporre non meno di codesto composito animale originariamente dotato di rostro; la stessa arma (ayudha) in forma astrattizzata ha infatti continuato a caratterizzare Yama, doppione del medesimo, in qualità di Dharmarāja (148).  Anche la ’Verga’ di Iānus (149) fra i Latini è da intendere simultaneamente in accezione fallico-assiale, in entrambi i casi comunque in rapporto col Rostro del Delfino; vedi asterismo omonimo, presso il Capricorno, coincidente col dominio annuale del dio degli inizi (150).  Varuṇa ha mantenuto comunque il Cappio (Pāśa), chiaramente un’effigie dal punto di vista cosmologico della Ruota Celeste (Kālacakra), con allusione ontologica allo Zero Metafisico (151).  Non si tratta ad ogni modo della ruota planetaria sic et simpliciter, bensí d’una ruota in senso uranico; connessa plasticamente alla diretta percezione ottica primeva del movimento delle stelle in quanto lumi celesti e delle nuvole siccome fonti di acque (le mitiche ‘vacche’), dunque ancora senza distinzioni temporali in dettaglio, a parte i 2 solstizi.
Ciononostante, se uniamo fianco a fianco graficamente il supposto doppio emblema del nume, vale a dire la Verga (Fallo/Asse/Uno) ed il Laccio (Vulva/Ruota/Zero), otteniamo nientemeno che la cifra 10, il numero dei periodi avatarici d’un Manvantara.  Non a caso questa cifra, oltre ad esser tenuta in grande considerazione per motivazioni analoghe da varie tradizioni (cinese, indiana, iranica, sumerica, celtica) era posta alla base della Tavola Pitagorica presso i Greci e costituiva fonte di profezia all’interno della romanità nelle speculazioni della Sibilla Cumana (152).
Etimologicamente il nome Varuṇa è da rapportare, oltreché al gr. Ouranós, al scr. Uraṇa (‘Ariete’); dalla qual cosa si ricava, palesemente, una doppia conferma dello smarrimento del prisco attributo uranico.  Visto che da un lato il nume ellenico del firmamento stellato conserva nel suo bagaglio mitico, nonostante l’evirazione cui è stato sottoposto dal figlio Crono, quel ‘Fallo’ donde s’è ingenerata – dopo la caduta dell’organo divino nelle ‘Acque’ – la bella ed amorosa Ouranía (Afrodite)(153), talvolta non per niente effigiata col Becco (154).  E che dall’altro pure l’Ariete, equivalente pastorale del Cervo in campo venatorio, incorpora in sé una valenza cherato-fallico-assiale di matrice preistorica; probabilmente modellata su un’ancestrale icona antropomorfica paleo-siberiana dell’Axis Mundi sotto forma di Signore delle Renne, in possesso d’un connotato itifallico o d’un singolo corno o qualcosa d’equivalente che certe dee-madri preistoriche (vedi la Venere di Laussel, in Francia) paiono impugnare a mo’ di Cornucopia (155).  L’itifallismo del primigenio Signore degli Animali è d’altronde strettamente legato sul piano simbolico, come vedremo piú avanti, alla Zanna del Pesce Monodono ovvero al Corno della Renna/Cervo/Antilope Unicorne.
Il duplice volto del ‘Traghettatore di Anime’, sia costui Varuṇa o Yama, corrisponde nella tradizione ebraica alla doppia facies cabalistica di Metatron.  Nella tradizione hindu, in ogni caso, troviamo un ennesimo allotipo in Kāla.  Cosí come accade in Grecia, dove il figlio Crono costituisce una variante funzionale del padre Urano; parimenti la figura di Kāla o del suo alter-ego Śiva, detentore della signoria sui cicli astrali, corrisponde in India ad una specificazione posteriore della figura divina primeva rispetto al primaziale Varuṇa.  Kāla infatti costituisce il mediatore fra le due metà opposte e complementari del Cakra (‘Ruota’), individuanti gli aspetti essenziali del Divenire; figurativamente rappresentate dalle <corna> numinose, scomparse invero o non presenti nelle figure di Varuṇa e di Kāla, ma ben evidenti nel caso di Yama e Śiva.  Non per nulla l’equivalente greco di Kāla, Crono, risulta essere sul piano dell’etimo il ‘Cornuto’ per eccellenza; benché colla civilizzazione abbia perso al pari dell’omologo indiano il selvaggio costume delle corna e pertanto ne manchi dal punto di vista figurativo (156).  Il duplice arco temporale, delineato dalle 2 Corna opposte, simboleggia in senso lato la Manifestazione e la Dissoluzione del cosmo.
Estrapolando dai dati delle varie icone divine si può affermare generalizzando che l’Asse della Ruota, nonché quello del Triśūla (‘Tridente’) ovvero il Bastone impugnato dal nume alludono viceversa al Principio di Divina Unità al di là d’ogni dualità fenomenica.  Il che è espresso sul piano iconografico dal Kāladaṇa (‘Asse Celeste/ Temporale’), l’arma appartenente invisibilmente al signore delle acque celesti ed infere accanto al piú consueto Kālapāśa (‘Laccio Celeste/ Temporale’); sebbene esso appartenga di preferenza a Yama, omologo del Giano latino (157).  Insomma, oltre ogni dualità sta Svayambhu (‘Esistente-in-sé’, epiteto di Brahmā); la sua duplicazione nella bivalente fase del Divenire – meno accentuata in Varuṇa o nel corrispettivo greco Urano, piú in Kala o Crono – mostra alternativamente una faccia benefica ed una malefica, che dan conto in maniera efficace seppur drammatica del rapporto fra l’Essere e la sua Essenza.  In altre parole la simbologia celeste ed argentea di Kāla-Κρόνος, a differenza di quella uranica ed aurea di Varuṇa-Οὐρaνός, sottolinea il passaggio spirituale negativo avvenuto irrimediabilmente nel mondo fra il Satyayuga ed il Tretāyuga; col conseguente trasferimento a contrassegni di per sé unitari d’un latente contrasto di carattere temporale (Luce/Tenebre), abbinato inevitabilmente ad una simultanea dicotomia di genere spaziale (Cielo/Terra).
Parimenti al Pāśa il Makara, con cui spesso Varuṇa s’accompagna costituendo una variante veicolare del Matsya, racchiude intrinsecamente la stessa triplice simbologia di quest’ultimo attraverso la ripartizione schematica della propria Proboscide Elefantina (assimilabile ad un Corno Pescino), della Testa e della Coda.  Nel caso volessimo però intendere il Pāśa di Varuṇa testé menzionato non già come Kālapāśa, alla maniera shivaita, bensí piú semplicemente quale simbolo generico del Sasāra ovvero della Māyā – senza dunque alcuna distinzione duale tra Creazione e Distruzione, cioè tra Prajāpati e Pāśupati – è ad un’interpretazione brahmanica del soggetto che dobbiamo rifarci.  Varuṇa in tal senso ossia concepito nei panni di un dio primigenio, e non secondo una prospettiva shivaica ed infera, va inteso senza dubbio quale allonimo di Brahmā o di Yama.  Quantunque, ad onor del vero, egli sia piú prossimo al Kūrmāvatāra; mentre Yama e Brahmā lo sono, ovviamente, al Matsya  (158).
Egualmente Māyādevī, di cui il Pāśa abbiamo ora suggerito essere un contrassegno, è da intendere come l’avvolgente ed in realtà indistinta <figlia-consorte> del nume uranico; non altri che Vāruṇī, alias Varuṇānī.  Checché ne pensasse Eliade, il quale insensatamente negava ogni relazione linguistica diretta fra Vāruṇa ed OὐρανόV (159), costei va filologicamente rapportata alla Venus latina, strettamente apparentata all’Oὐρανία ellenica.  Tant’è che entrambe le dee greco-romane, nella comune posa figurativa di Anadiomene, sono effigiate col Pesce.  In realtà un Kētos, cioè un Mostro del Mare, sotto parvenza di delfino ma con denti di squalo analogamente al Makara della sposa-consorte del dio delle acque indiano.  Si rammenti pure per un’ulteriore comparazione col mondo latino il personaggio di Venīlia, la sposa di Giano; poiché quest’ultimo, diversamente da quanto sosteneva il poeta Ovidio, fungeva da versione romana del dio greco Urano.  Per quanto occorra al fine d’una maggior precisione tener conto del rapporto vicendevole sia del nume latino che di quello ellenico colle figure distinte, quantunque apparentate, di Yama e di Varuṇa.  L’uno in realtà piú primordiale dell’altro.
Siccome abbiamo visto sopra che anche Brahmā rientra nella categoria dei numi aurei, occorrerà estendere la comparazione degli attributi simbolici di Vāruṇī e di Māyā oltreché a quelli greco-romani di Ouranía  e Venus, pure ad ogni altro attributo delle varie paredre del dio indiano quadricipite: Sarasvatī, Vāc, Uas.  Un’esplicazione delle equivalenze di siffatte tipologie iconografiche non rientra tuttavia nel tema di questo scritto.  Ci limiteremo solamente a segnalare che le dee sunnominate sono state in un secondo tempo assimilate in chiave śaiva a Rohiṇī (lett. la ‘Rossa’) e pertanto identificate cosmicamente alla ‘Cerbiatta’ inseguita da Prajāpati e difesa da Rudra/śupati nel mito dell’incesto cosmogonico.  Tale mito, per quanto riadattato all’inizio del Kaliyuga, adombrava primieramente l’allestimento dello Yajñacakra ovverosia la Ruota Annuale del Sacrificio.  Essendo Prajāpati una figura tarda, kaliyughica, questo ruolo creativo doveva una volta appartenere ad altri; forse a Varuṇa, o al doppione Kāma.  Esso, pertanto, si colloca nel suo nucleo fondamentale al principio del Tretā.  D’altronde vi è una indubbia relazione, come avremo modo di chiarire in seguito, tra gli emblemi ittici e quelli cervini. 



r)  L’apparente bipolarità tra il Re Pescatore e il Pesce

Vorremmo ora far notare che nel caso di Brahmā e di Śiva la bipolarità tra il Re Pescatore e il Pesce si rivela meno accentuata rispetto ad analoghe rappresentazioni vaiṇava, ove i due aspetti appaiono in genere piú antitetici.  Per cui nell’iconografia del Matsyāvatāra la figura umana avatarica, simboleggiante il Jīvātmā, è vista emergere dalla Bocca Pescina – equiparabile al Makaramukha od al Kālamukha, ossia alla Porta comunicante coll’Assoluto – come emanazione del Pesce (Ātmā); quasi si trattasse di due principi in qualche modo distinti, seppure destinati a regolare armonicamente le vicende del cosmo secondo lo spirito della bhakti  vishnuita.
L’atteggiamento shivaita, consapevolmente ispirato piú alla Conoscenza che alla Devozione, concepisce invece il rapporto tra la dimorfia piscatoria in modo assai meno antitetico.  Cfr. il ruolo del Matsyendranātha (160), che subisce la metamorfosi in <pesce>, vale a dire il riassorbimento nell’Ādinātha (il ‘Signore Supremo’).  Nella sua versione tibetana Mīnanātha, col nome locale di Lu-i-pā, addrittura divora gli intestini – ovvero la dottrina esoterica – del Pesce; i quali, evidentemente, simboleggiano il segreto nutrimento della Gnosi.  A parziale smentita di quanto appena rilevato e quasi a prefigurare l’esistenza d’una piú sommersa bhakti shivaita, Padre Heras (161) ha però giustamente accostato l’ittiomorfismo del Mīn paleo-dravidico a quello della dea Mīnākī (lett. ‘Occhi-di Pesce’), matrona di Madurā; una forma di Śakti la cui analogia strutturale colla figura di Matsyagandhī/ā (Minagandhī/ā) è purtroppo sfuggita all’autore, che peraltro non si è avveduto neppure dell’identità tra l’antico dio Mīn ed il piú tardo Mīnanātha (162).   Ciò malgrado, ci ha fornito nell’ambito dell’India brahmanica una delle rare immagini di Manu col Matsya per vāhana, tratta da Forte Raichur (Naurangi Darwaza)(163), ravvisando non a torto una stretta parentela tra questi, il cretese Mίνως, l’egizio Mīn ed il pre-vedico Mīn.
La posizione del nume seduto a dorso di pesce è il carattere iconologico specifico della rappresentazione brahmanica di Manu, mentre il tardo Mīnanātha nell’iconografia buddhista (164)  fuoriesce dal ventre d’un grosso pesce (mahāmatsya) similmente a Giona (165), oppure lo tiene in mano; è questo il caso ad es. della raffigurazione situata nel tempio della Devī Jagadambā (‘Dea Madre Universale’) a Khajurāho, nel Madhya Pradeś (166).  Mīna in versione buddhista è un <pescatore>, con in mano <un pesce> oppure <molti pesci>, di uno dei quali mangia le interiora.  Ma altre volte ne cavalca uno grande (167).  Del tutto diverso è invece il Matsyāvatāra, che ha generalmente pescina solo la metà inferiore del proprio corpo quasi fosse un sireno, oppure è concepito fuoriuscire dalla bocca del pesce in forma semiumana; talora differentemente codesto avatāra ha l’intero corpo in forma di matsya, ad esclusione del capo, ovviamente.  Inoltre vi sono immagini, per quanto rare, che dipingono il I Avatāra vishnuita in modo alquanto inusitato come una sorta di <Pesce Grosso tra i piccoli> (168); chiara immagine d’un perfetto tra esseri imperfetti, o meglio che dispongono della sola perfezione naturale, non di quella assoluta.  Secondo un’ulteriore variante, ci si può imbattere in una figura umana (Manu) che acchiappa per la coda il Pesce (evidentemente l’Avatāra) a mo’ di Pescatore (169).  In ogni caso, nei testi vishnuiti non vi è mai completa identificazione fra Manu e il Matsya.
Il Primo Uomo d’altro canto compare raramente, a parte le due eccezioni segnalate e probabilmente poche altre, nell’icona del I Avatāra; a meno che lo si voglia identificare brahmanicamente – cosa sempre possibile, ma quivi un po’ forzata – alla figura avatarica stessa emanata dall’Assoluto, di per sé in veste pescina.  Dal momento che tra l’Uomo e il Divino il Vishnuismo concepisce sempre una certa distanza, almeno latente, quando non anche apertamente dichiarata.  La fede bhāgavata, vale a dire nel Bhagavat (il Beato, cioè Viu, particolarmente nella sua discesa krishnaita), non s’esaspera nel sacrificio; è gioviale, aperta alla liturgia ed alla celebrazione poetica o musicale.
Proprio come avviene, sebbene in modo piú distinto, nella dottrina dello Dvaitādvaitavāda Vedānta (‘V. della Dualità nella Non-dualità’) del sanscritista telugu Nimbārka (XI-XIV sec.?) ed in quelle maggiormente popolareggianti dei suoi due grandi discepoli.  Ovvero nell’Acintya-bhedābhedavāda (‘Via dell’Inconcepibile Differenza nella Non-differenza’) del revivalista bengalese Caitanya (XV-XVI sec.), nonché nel preteso Śuddādvaitavāda Vedānta (lett. ‘V. della Pura Non-dualità’) di Vallabhācārya (XV-XVI sec.), benché le cose stiano in realtà un po’ diversamente da quanto suggerito da quest’ultima definizione.  Infatti, nonostante che in questo terzo tipo di devozione si faccia a meno della Māyā, si ha a che fare nell’insieme con 3 punti di vista vedantici sottintendenti pur sempre fra i due principî opposti e complementari di Rādhā e Krsna (adombranti l’Anima e la Divinità) una certa dualità, anche se compensata da un caldo trasporto amoroso.  Le autoattribuzioni degli appellativi di Caitanya (‘Consapevolezza’) e di Vallabha (‘Innamorato’), evidenziano chiaramente un atteggiamento sentimentaleggiante nei confronti della divinità adorata, attraverso il quale il maestro spirituale di turno s’identifica ora a Kṇa ora prevalentemente a Rādhā.
In tale concezione, caratterizzata intrinsecamente da un senso giocoso (si esamini in proposito il concetto di Līlā) e dinamico della realtà universale, l’Essere non appare mai statico, bensí in perenne trasformazione verso il Divenire.  È in questa linea di pensiero che s’inserisce, d’altra parte, l’interesse salvifico della dottrina avatarica; la quale implica che nei momenti di gravi crisi cosmiche l’Essere Divino misericordiosamente discenda nel mondo in forma plenaria (Pūrāvatāra) al fine di sorreggere gli uomini dalle miserie della vita mondana, indirizzandoli verso la giusta meta interiore.  Infatti la Creazione rappresenta appunto un Gioco Divino, ma solo per Hari; non per i jīva, ossia le anime immerse alternativamente nelle gioie e nelle sofferenze dell’esistenza.  La Līlā – di cui la dea Lalitā (lett.‘Colei che gioca’) rappresenta un’incarnazione in forma umana dell’Universo – non costituisce inoltre una serie di accadimenti immotivati, essendo essa legata imperscrutabilmente alla Giustizia Eterna (Sanātana Dharma), inscindibilmente connessa a sua volta alle azioni individuali (Karma).  Sono queste ultime in definitiva, specialmente quando consistono in atti egoistici, che impediscono agli esseri l’affrancamento dalla vita terrena e determinano la loro rinascita; mentre gli atti altruistici, costituendo un tentativo di superamento delle limitazioni individuali (specialmente se sono consapevolmente scevri dal frutto dell’azione, come indica lucidamente la Gītā), li svincolano dalle contingenze mondane.
Nel caso tuttavia del conciliante Viśiādvaita Vedānta (il ‘V. della distinta Non-dualità’) del maestro tamil Rāmānuja (XI sec.) – rifacentesi per bocca propria ad un punto di vista Śrī-vaiava, riconducibile in precedenza da un lato ai pañcarātrin e dall’altro a Nammālvār (170) – ed ancor piú nello Dvaitavāda (‘Via della Distinta Dualità’) del bhāgavata canarese Madhvācārya (XII-XIII sec.) il rapporto fra gli opposti, in tale scuola indicati preferenzialmente coi nomi divini di Nārāyaa e Lakṣmī, è inteso con atteggiamento maggiormente riverente e freddamente devozionale, accentuando quindi la maestà e la gloria dell’Assoluto di fronte all’umano.  L’Assoluto costituisce la vera intimità d’ogni essere, ma simultaneamente lo trascende.
Al contrario il succitato punto di vista śaiva, concernente Mīnanātha, è caratterizzato da una non-dualità nei confronti del Divino piú accentuata rispetto a quella vaiava ed un’ascesi, comprendente immancabilmente la mortificazione della carne, maggiormente severa ma efficace.  Onde l’atteggiamento umano risulta, di conseguenza, assai meno aperto di quello vishnuita; insomma, si escludono la Grazia ed il concetto salvifico, appartenenti esclusivamente alla Via di Mezzo.  Esiste però una bhakti anche in campo shivaita, meno raffinata ed importante di quella vishnuita; in questo caso si segue la Via di Sinistra, non di Destra.  In altre parole, non si pratica l’ascesi ma un libertinaggio di tipo tantrico, sebbene evidentemente a scopo purificatorio.  Il Matsyendranātha nepalese di cui sopra, vagamente identificabile a śupatinātha, può esser ricordato in tal senso.  È chiaro che né Matsyendranātha è il Matsyendra concepito quale Ādiguru,śupatinātha è l’Ādinatha; sono invece, rispettivamente, i corrispondenti kaliyughici di quel maestro apritore della via e della corrispondente divinità che nei loro ancestrali aspetti venivano ossequiate nel Tretā.  Colle differenze di pratica spirituale appena indicate, le quali saranno meglio precisate piú innanzi.
Resta infine da dire qualcosa sulla bhakti di tipo śākta, concernente in parallelo la suddetta devī di Madurā (Madurai, Maturai).  Mīnākṣī  viene venerata in questo importante centro del Tamil Nadu e può esser considerata un residuo iconologico a livello di deità tribale di Mīnā, l’antica signora shamanica dei pesci; nonché dei coccodrilli e degli animali marini, fluviali o lacustri in genere (171).  Ciò sebbene figurativamente non compaiano nel sembiante moderno della dea tratti pescini evidenti, a parte naturalmente gli occhi, anche se limitatamente al nome che porta.  Ella è ritenuta la figlia deificata d’un re di dinastia ṇḍya, ma indipendentemente da tale storicizzazione di tipo evemeristico, è chiaro che si ha a che fare in ogni caso con una divinità ittica ed un simbolismo di valore shaktico; sia che il nume costuisca la classica evemerizzazione nel senso sopraddetto, oppure che rappresenti lo sviluppo tardivo (in senso evemeristico o meno non importa) d’un culto vetusto.  D’altro canto certi caratteri propri alla dea, quali il trimorfismo del petto che talvolta compare nella sua icona, ci rivelano l’originaria natura tripartita del nume; cosa la quale, possiamo notare en passant, traspare persino dal copricapo divino oggi in parte andato disperso della Mīnākṣī  del Tempo di  Minakshiamman a Madurai.  Fatto che ci riporta neppure troppo sorprendentemente al capo triradiato d’una dea, sorta di Proto-Durga, dell’antica Valle dell’Indo (172).
A questo proposito occorre aggiungere che Coomaraswamy (173), forse facendo inconsapevolmente un gioco di parole fra yaksī  (naiade) e akṣī (occhio), la reputa siccome figlia di Kubera un’antica yakṣiṇī, vale a dire una forma di Durgā venerata da tribú selvagge.  Esiste in effetti un daitya equivalente, citato nella lessicografia (174), di nome Mīnākṣa.  Ora, bisogna sapere che a livello etnoantropologico si può risalire a dei culti facenti in certo senso da tramite fra le deità di villaggio (grāmadevatā) attuali e quelle note attraverso i reperti archeologici.  Questo per il fatto che il folclore, in effetti, rappresenta un mondo decaduto di superstizioni piú o meno ancora in vita.  E, per ciò stesso, è facile che accolga i residui figurativi di tematiche sacrali in estinzione.  Non è possibile al momento offrire quindi una spiegazione esaustiva della simbologia dell’immagine testé descritta e del valore semantico reale della triplicità indicata.  Lo faremo in un prossimo paragrafo, trattando della cd.‘Triplice Corrente’.
Secondo quanto avevamo sopra ipotizzato vi sono, inoltre, dei riferimenti possibili – ancor precedenti sul piano cosmologico – a Mīnagandhā; ma anche in tal senso, onde poterci bene districare nei meandri del simbolismo tradizionale che è oltremodo complesso, è necessario prima affrontare altre tematiche.  Dopodiché arriveremo alla constatazione dell’esistenza d’uno shaktismo ittico, il cui punto di vista sul piano gnoseologico potrebbe situarsi in un punto intermedio fra il brahmanismo (ci venga scusato il neologismo) e lo shivaismo, almeno lo shivaismo d’origine meridionale.  Oggi la parola ‘brahmanesimo’ è sinonimo volgarmente d’induismo.  Non esistono però se non minimamente templi dedicati a Brahmā e, di conseguenza, scuole di brahmanismo puro; i brahmani odierni sono invero dei sacerdoti decaduti, solitamente dediti a culti di tipo shivaitico, vishnuitico o shaktico.  Benché propriamente codesti culti dovrebbero appartenere, secondo la logica induistica, ad altre caste.  Cioè rispettivamente agli katriya, ai vaiśya ed agli śūdra.
Pur non esistendo scuole brahmaniche in senso letterale, ecco il motivo per cui non vi abbiamo sopra fatto cenno, è sopravvissuto ad ogni modo un punto di vista per cosí dire brahmanico o per meglio dire brahmanizzante.  In altre parole, solo in relazione alla coppia primaria Manu-Brahmā (175) ovverosia da un punto di vista prettamente brahmanico, vi è una perfetta omologazione fra il Jīvātmā e l’Ātmā; parimenti a quel che accade nel Viśuddhādvaitavāda Vedānta (il ‘V. della Via della Completa Non-dualità’), chiamato anche Kevalādvaitavāda (’Via della Liberazione Non-duale’).  Insomma nella dottrina completamente monistica quantunque in realtà tendenzialmente shivaitica di Śakarācārya, l’insigne maestro tamil dell’VIII-IX sec. d.C.(176).  Peraltro l’icona di Manu su Matsya cui abbiamo sopra fatto cenno, interpretabile mitologicamente come Brahmā sul proprio arcaico vāhana (alternativamente allo Hasa, l’unico piú tardi in uso), ci spinge del pari alla medesima conclusione; dato che in ambito hindu ciascun veicolo zoomorfico costituisce di per sé un allotipo del suo sormontatore divino, pur se nella coppia summenzionata di numi sarebbe invero piú corretto affermare l’opposto (177).  Giacché è Manu in qualità di prototipo divino dell’Uomo che individua un’ipostasi di Brahmā, non viceversa.



s)  Ruolo di Matsyendranātha nel Tantrismo

Riguardo invece Matsyendranātha dobbiamo in ultimo specificare che molti, assurdamente, confondono questa figura di divino mahāsiddha ed avatāra shivaita di Bhairava con l’omonimo maestro di Goraka (X sec. a.C.)(178).  Sarebbe come scambiare Śakara, cioè Śiva, per Śakarācārya; benché, effettivamente, in entrambi i casi il personaggio umano corrispondente possa essere scelto ad immagine di quello divino, al fine d’indicare la fonte d’una data linea dottrinale trasmessa tradizionalmente.  Donde si spiega l’appellativo alternativo di Matsyendrapāda, nel tantrismo induista; o di Rohitapāda/ Lūhipāda, tib. Lu-i-pā, nel tantrismo buddhista.  Sotto codesto aspetto, occorre precisare che a siffatti nomi risalgono due tipi principali di sentieri spirituali (mārga) dal punto di vista tantrico, l’Akulācāra e il Kulācāra: il primo, basato testualmente sull’Akulavīra Tantra, è una via śaiva (Akula = Śiva); mentre il secondo, richiamantesi soprattutto al Kulajñana Niraya, è una via śākta (Kula = Śakti).
Purtroppo non ci è dato di sapere quale sia precisamente il ruolo <ittico> svolto dalla Devī in senso stretto.  Si può immaginare,  a mero titolo di discussione saggistica, che esso possa concernere quella spiritualità riflessa ed indiretta di cui Matsyendra è dichiarato essere portatore nel mondo umano in una leggenda puranica summenzionata.  In questo caso però, trattandosi di tantrismo, è facile immaginare un adattamento al Kaliyuga di entrambe le scuole.  Lo shivaismo kaliyughico (testualmente definito settentrionale) non può che risultare maggiormente duale di quello tretayughico (meridionale), a dispetto di certi pregiudizi nostrani tesi a confondere razzismo e cosmologia.  Esattamente come si potrebbe parlare per contro d’uno shivaismo primordiale, satyayughico (se preferiamo, orientale ), facente il paio collo shaktismo primevo già citato.  In ogni caso, ci si riferisca ad un epoca antecedente o a tempi recenti, va precisato a scanso d’equivoci che lo shaktismo è sempre necessariamente piú duale dello shivaismo coevo, seppur complementare ad esso.  Visto che, in sostanza, il culto della Śakti riguarda la Potenza del Principio espressa nella Manifestazione e quello di Śiva il Principio Immanifesto.  Il discorso cambia, ovviamente, se ci riferiamo ad epoche diverse.   
Orbene la storia di Matsyendra (Kaul.N.- xvi. 11-37), che diviene prima <pescatore> e poi <signore> (nātha) dopo aver squartato il Mahāmatsya (ivi nella funzione sottintesa, a nostro parere, di Brahmā), è suscettibile d’essere interpretata alla stregua di un’ennesima variante del mito del Re Pescatore.  Siamo convinti altresí che la distinzione che a volte si fa nella tradizione tantrica tra i nomi di Matsyendra e di Mīna come di ‘Padre e Figlio’ o di ‘Fratello Maggiore e Minore’ (179), fosse in principio correlata all’analoga distinzione propria della tradizione vedica – almeno nelle piú antiche versioni della leggenda – fra Brahmā (il Pesce) e Manu (il Re Pescatore).  Sull’equivalenza tra Manu e Mīna, od il piú arcaico Mīn, vedasi quanto dichiarato piú addietro citando Padre Heras.  Del resto tanto Matsyendra quanto Mīna svolgono nei miti alternativamente la parte di Pesce, o di Re dei Pesci, e di Re Pescatore (180).



t)  Il significato delle quattro figure femminili
nella succitata storia di Vasu

Rimane adesso da delineare, con maggiori dettagli, il significato delle quattro fondamentali presenze femminili della storia di Uparicara, narrata nel Mahābhārata; storia che abbiamo raccontato all’inizio di codesto capitolo e che intendiamo qui riprendere, per meglio comprenderla, a conclusione del discorso. Rammentiamo d’aver menzionato per l’occasione le seguenti figure: 1) Girikā, 2) Gagā, 3) Adrikā, 4) Satyā.  Tali personaggi femminili sono palesemente in relazione colle molteplici valenze della Śakti.
Girikā, la bella figlia della dea fluviale Śuktimatī e del dio montano Kolāhala, equivale funzionalmente a nostro avviso ad Indrāī; costei ha un doppione in Aindrī o Śacī (corrispettivo femminile di Śakra, ‘Potente’, epiteto per eccellenza del Devarāja), egualmente dotata di particolare avvenenza.  Incarna dunque la Śakti in tutta la propria potenzialità.  Altrove, invece, Girikā subentra ad Adrikā nel ruolo di madre di Matsyakālī e del Matsyarāja.  La cosa però è comprensibile solo se si conosce la vicenda di Śuktimatī, parallela anch’essa a quella dell’apsaras.  Orbene, secondo quanto narrato dal Mahābhārata (Ādip., lxiii) quale anticipazione – da noi in precedenza volutamente omessa – della storia dei gemelli ittici, il nume del Monte Kolāhala si era innamorato della dea fluviale Śuktimatī  e l’aveva sottomessa ai suoi desideri.  Il mattino seguente gli abitanti del Regno dei Cedi (Cedirājya, uno dei regni preminenti dell’antico Bhāratavara), ove si praticava una spiritualità di tipo primordiale onorando pace e giustizia (181), informarono il re che il fiume corrispondente non c’era piú.  I miti non sono basati sulla logica razionale…  Sta di fatto che il re diede un gran calcio alla montagna e la spezzò in due, ripristinando lo scorrere del fiume.  Di conseguenza la dea generò due gemelli, un maschio ed una femmina.  Per riconoscenza Śuktimatī  li affidò al re, il quale fece del maschio il generale del proprio esercito e della femmina (la suddetta Girikā), la propria futura sposa.    
Le altre tre dee è probabile siano correlate alle paredre dei membri della Trimūrti, vale a dire Sarasvatī, Lak e Pārvatī,  ma in una maniera che non è semplice riconoscere.  Adrikā, la ninfa che solo dopo aver partorito i Gemelli ottiene di rompere l’incantesimo che la vede relegata in forma pescina e tornare al Cielo, sembra ricoprire lo stesso ruolo di Lakṣmī.  Mentre Satyā, dapprima affidata in adozione al Re Pescatore, diviene in seguito amante di Parāśara ed alfine seconda sposa di Śāntanu (in altre parole amante di Viu e sposa di Śiva); per cui pare svolgere la parte di Sarasvatī, in senso kaliyughico.  Insomma, si può dire incarni la Rivelazione Primeva ed i suoi susseguenti riadattamenti epocali.  In quanto a Ga, la prima consorte di Śāntanu, è facile considerarla a sua volta un allonimo di Pārvatī (D.Bh.P.- ix. 6, 16-21); cfr., per analogia, il rapporto numinoso della fluviale Śuktimatī con la montana Girikā.  Se i summenzionati ruoli appaiono un po’ confusi, rispetto alla norma, è per il fatto che nel testo epico di riferimento la suggerita distribuzione delle Generazioni Divine nelle epoche mitiche non è quella solita.  In tale riadattamento dei nomi sono Indra e consorte che fungono chiaramente da dèi supremi e primaziali,  A seguire, nell’ordine, andrebbero allora considerati Śiva e Pārvatī; poi Viṣu e Lakṣmī, indi Brahmā e Sarasvatī  oppure Prajāpati e Rohiī.  Cioè la Trimūrti (182), sia pure a rovescio rispetto all’ordine normale.
Intendendo il tutto esotericamente, ne deduciamo indirettamente l’idea d’una inesorabile trasformazione della Rivelazione Primordiale attraverso il trascorrere ciclico degli Yuga; o meglio, d’una frammentazione della medesima nelle varie vie tradizionali di realizzazione spirituale.  Queste si sono viepiú aggravate d’orpelli, tanto da risultare a poco a poco inefficaci, perché incomprese ed inesplorate nei meandri della loro profonda ed oscura simbologia.  Dopo il Satyayuga, l’epoca di Vasu e della pratiche sātvata da parte dei ṣi (183), è sopraggiunto il Tretā con il culto dei Daitya ovvero degli Antenati.  Le pratiche gnostico-ermetiche a questo associate, ed escogitate a parziale rimedio della nuova situazione venutasi a creare in tempi post-paradisiaci, sembrerebbero esser simboleggiate nel contesto mahabharatiano dai ‘Sette Figli’ (Vasu) che Ga genera a Śāntanu – ossia Pārvatī a Śiva – e presto sopprime (184).  Si allude con ciò ovviamente all’Ebdomade, in riferimento ai 3 piani del Trimundio (185).  Un ottavo figlio, Bhīṣma, sopravvive uale ipostasi del dio unico del Satyayuga.  Indi il culto dei Pit subentra quello dei Deva, le offerte rituali di animali sono sostituite da quelle vegetali.  Vale a dire, al versamento del sangue – fattore correlato all’Elem.Fuoco e principalmente associato al Tretāyuga – è sostituito il versamento della linfa o di altri umori vegetali; correlati all’Elem.Acqua, il cui dominio ricorre viceversa nel Dvāparayuga.  L’Arca del Re Pescatore della quale si parla nella storia di Matsyakālī è ancor una volta ovviamente quella zodiacale, tramite cui gli esseri giungono a questo mondo e se ne dipartono.  Le acque fluviali sono infatti connesse alle piogge, dunque alle influenze celesti, nel doppio senso discendente ed ascendente.  Vedi influssi ed efflussi astrali.  Ecco la ragione onde il mito del Re Pescatore ha a che fare, tanto in Oriente quanto in Occidente, col ciclo di vita e di morte; che si traduce dal punto di vista agrario oppure pastorale rispettivamente in umidità o siccità, fecondità o sterilità.  In ultimo sopravviene il Kaliyuga, preannunziato dalla fine di Ka, ucciso dal cacciatore Jarā (‘Vecchiaia’) con una freccia al calcagno; unica parte vulnerabile di cotale avatāra, non meno di quanto accade per Achille nella Guerra di Troia.  Col che tutti gli eroi superstiti del poema mahabharatiano se ne tornano alle loro sedi superne, avendo ormai adempiuto al mandato celeste ad essi affidato.  I Deva, con tutto il rituale che li riguarda, per cause cicliche finiscono pure loro col diventare inattuali.  Come in precedenza era accaduto agli Asura.  Dopo la Guerra di Bhārata, ai Deva subentra alfine nel culto la Devī misericordiosa, il Kaliyuga essendo l’Epoca degli Uomini per antonomasia.




u)  Mīnākī, signora della Trivei

Bisogna aggiungere ora, in conclusione, qualcosa sulla simbologia delle tre dee che rappresentano la Triveī (‘Triplice Corrente’) in senso macrocosmico (186).  Il Moor ci offre una loro unitaria icona tricefala (187), appartenente alla collez.priv. del col. Stuart ed avente per vāhana il Grande Pesce, di natura composita.  La pittura ritrae le dee in un unico sembiante a 6 braccia, disposto a ginocchioni sul dorso del fantasioso animale.  Le vesti divine appaiono auree ed altrettanto il corpo del pesce, magicamente dotato tuttavia di orecchie in una testa da mammifero (sic!).  Evidente concessione artistica alla percezione primeva della Śruti (188), nonché ad una nota tecnica di meditazione upanishadica.  Giustamente l’autore interpreta la dea dal volto bianco come Gagā, da lui ritenuta non meno di chi scrive associata a Pārvatī (lett. la ‘Montanara’); la dea dal volto blu (189) come Yamunā, identificabile a Lakmī, e quella invece dal volto rosso come Sarasvatī.  Se Yamunā tiene in mano l’Ampolla dell’Amta (‘Ambrosia’), Gagā è riconoscibile dal marchio in fronte; viceversa Sarasvatī è caratterizzata dal  libro in mano, presumibilmente il gveda.  C’informa sempre il Moor (190) d’essersi una volta imbattuto di persona, nella città di Poona, in un complesso in terracotta in cui le ciocche tripartite dei capelli di Radhā (191) venivano foggiate a forma di triveī dall’amante, il quale mirava rapito l’opera in fieri nelle proprie mani.
Ordunque, siccome tradizionalmente – non solo in India – il color blu corrisponde spesso al nero (un aggettivo sanscrito li designa entrambi), si potrebbero intendere i 3 colori delle dee sunnominate in senso microcosmico; ovvero, quali contrassegni femminili delle 3 correnti sottili dell’organismo umano (Trināḍī), producenti interiormente mutamenti alchemici.  Visto che il loro veicolo, l’Aureo Pesce, costituisce per via delle ampie orecchie un chiaro rimando microcosmicamente all’Au (Verbo) e macrocosmicamente all’Ādiśruti (‘Rivelazione Primordiale’).
L’Aureo Pesce potrebbe essere identificato per intero al vāhana ipotetico di Mīnākī od alla dea stessa, in virtú della consueta equiparabilità iconologica fra un veicolo ed il proprio nume, di cui le dee fluviali sunnominate non sono che aspetti secondari coincidenti coi 3 petti di costei (192); in parte al supposto veicolo pescino di Gagā, Yamunā e Sarasvatī (od alle medesime), le 3 dee alludenti da un lato alle equivalenti forme shaktiche della Trimūrti e dall’altro ai 3 fiumi (Trinadī) che un tempo scorrevano nell’India Settentrionale (193).  Sebbene la Sarasvatī si sia prosciugata, la simbologia realmente fenomenica d’un tempo svanito è rimasta intatta col passaggio di codesta corrente fluviale dal visibile all’invisibile (194).  Cominciando da Gagā, è lecito sospettare che il Bianco Pesce fosse l’originario veicolo della dea dal volto bianco anziché il solito Makara (195), dato che ritta su di esso compare ancora realmente in una rara immagine pittorica (196).  Altrettanto non si può affermare invece di Yamunā e Sarasvatī, che mai a differenza della prima sono associate ad elementi ittici, se non nell’icona tricipite in questione.  La dea dal volto blu sormonta sempre il Kūrma (‘Tartaruga’)(197) e quella dal volto rosso, rispettivamente, lo Hasa (‘Oca Reale’) od il Mayūra (‘Pavone’)(198). 
La Gagā nel suo aspetto primario corrisponde al divino umore contenuto nel Vaso (Kamaṇḍalu) di Brahmā (199), il quale fa pendant col Vaso di Manu, attribuito a questi nella leggenda del Matsyāvatāra.  Le sante Acque alludono, è naturale, all’Immanifesto (Avyakta) ossia al Regno di Aditi (lett. l’Illimitata’).  Oltreché, per la loro trasparenza, alla Suprema Visione (Vidyā) dell’Anima (Ātmā) Universale da parte dell’Anima Individuale (Jīvātmā)(200); cioè all’estrema <visione di Sé>, la quale non può che realizzarsi nel Cuore del Mondo (201).  Il Pesce Monodono racchiuso da Manu nel proprio Vaso, che come l’amore insito nel cuore umano (202) tende viepiú a dilatarsi, suggerisce invece per la sua unipartizione l’immagine dell’Essere Unico (Svayambhū è l’epiteto per eccellenza di Brahmā) quale Principio della Manifestazione (Vyakta). Nel contempo, è l’incarnazione della Verità (Satya).  Per quanto appena delineato, vale a dire la sua affinità con Kāma (cfr. con Eros Protogonio), Brahmā viene considerato l’ispiratore del rito vedico.  Non per niente in un’icona il dio versa il suddetto umore ai piedi di Viu.  O meglio, di Trivi-krama (tam. Ulagalanda-Perumā), cioè Vāmana (il Nano) in funzione di V Avatāra vishnuita (203).  L’atto funge appunto da modello, in divinis, del rituale vedico.  Versare acqua ai piedi di qualcuno, in ambito hindu, è un segno di riconoscimento e di benvenuto.  Le Acque versate dal Kamaṇḍalu brahmaico raggiungono infine le chiome arruffate (jāta) di Śiva, che le riceve sul Monte Meru, dove ha avuto inizio l’ultima Manifestazione Manvantarica.  Ecco perché la Gagā è detta Viupadī, per Viupada intendendosi viceversa il Firmamento, a causa dei ‘Tre Passi’ di Viu in forma di Trivikrama.  Orbene, circa la dea del Gange, vi è chi (204) piglia spunto da codesto mitologhema per tracciare un confronto fra un’interpretazione vishnuita del soggetto ed una shivaita.  L’apparato simbolico che attornia le due versioni, in effetti, è un po’ differente.  A dire il vero, però, Vāmana è una forma di Viu relativa all’inizio del Tretāyuga, l’epoca in cui è cominciato lo Yajña (Sacrificio Annuale) (205); onde è facile capire che trattasi, in realtà, d’un mito śaiva riciclato in chiave vaiava.  Vedi la figura parallela di Vāmadeva (206).  Stessa cosa potrebbe dirsi del VI e del VII Avatāra, ma quivi non possiamo dilungarci oltre sulla questione.  Per farla breve, la distinzione fra l’interpretazione vishnuita (piú vetusta) e quella shivaita (meno arcaica) equivale ad una differenziazione fra un’accezione destrorsa ed una sinistrorsa del mito nel medesimo ambito śaiva.   
Per spiegarci meglio, Von Stietencron assegna alla versione vishnuita il seguente sviluppo, utilizzando una fonte mitica alternativa (Pd.P.- i. 30, 161-202)(207) a quella  riportata da Sivaramamurti (208).  Ossia, fa discendere la Gagā dall’Uovo Cosmico (Brahmāṇḍa), che potremmo equiparare nelle sue due metà ai 2 Vasi opposti e complementari di Brahmā e Manu.  Vi sarebbe in altre parole una Fontana Celeste da cui sgorgherebbe la Celestiale Corrente, apportatrice di madhu (‘nettare’ = luce) ed amta (‘ambrosia’ =immortalità).  Tale Fontana equivarrebbe al Viupāda (209), poiché secondo il testo puranico è Viu che col piede sinistro (Viupāda) buca il Firmamento costringendolo a liberare le Acque (210).  I ‘Tre Passi’, che fanno sprofondare il re dei demoni (nel Padma P. è chiamato Bhākali anziché Bali) agl’Inferi, hanno evidentemente carattere solare.    
Il Von Stietencron collega invece piú propriamente la versione shivaita al mitologhema della Discesa del Gange (Gangāvataraa)(211).  L’interpretazione śaiva in linea col punto di vista che le è congeniale, essendo Śiva il nume della dissoluzione e del mutamento, attribuisce a siffatta discesa il compito di purificare i morti.  Non a caso Gagā intesa come dea è una delle 2 consorti di Mahādeva, al pari della sorella Pārvatī, che come lei è figlia di Re Parvata (‘Montagna’).  Si potrebbe aggiungere che in tal ruolo – Triplice Corrente a parte – l’una è omologa di Mīnākī, ritenuta sorella di Viu nel Tamilnadu; e l’altra non è che un doppione di Umā, venerata a Madurai come prima sposa di Sundareśvara (lett. ‘il Bel Signore’ = Śiva).  A questo punto Von Stietencron fa un po’ di confusione e non è il caso di seguirlo.  Personalmente spieghiamo con termini diversi l’atteggiamento śaiva al riguardo, anche se in apparenza la sostanza non varia poi di molto (212).  Non c’entrano gli antenati bevitori di soma, dato che i Pit (‘Padri’) bevono sangue, com’è noto; a differenza degli Dei, che soli si nutrono di soma.  Né c’entra la reincarnazione, che tra l’altro è un concetto moderno d’origine occidentale; semmai dovremmo parlare di πάλιν-γένεσις (‘rinascita’)(213), scr.punar-janm (id.).  Di certo però, e qui l’autore tedesco ha ragione, vi è un rapporto nella mitologia hindu tra la Luna in quanto Regno del Soma o Paradiso Lunare e l’affluenza delle Acque nel mondo.  Con tutte le connotazioni simboliche che  esse detengono, ovviamente.  Il moto ascendente e discendente del Soma regola del resto, unitamente al principio opposto (Agni), l’intera vita vegetale ed animale (214).  Il problema è che l’autore  nel quadro esplicativo da lui tracciato introduce delle concezioni di tipo storicistico, le quali nulla hanno a che fare colla vera mitologia induista.  Non vi è un trasferimento del Mondo dei Morti (non è specificato bene da dove, parrebbe dal Cielo) alla Luna, come se il fatto fosse una convenzione culturale d’una data epoca; ma semplicemente la necessaria distinzione fra il Pitloka in senso infero-celeste e l’equivalente Pitloka in senso infero-sotterraneo, con chiaro riferimento al Caturyuga (215).  La versione śaiva del mito accentua, inevitabilmente, il passaggio lunare delle Acque e la loro caduta sul Meru; ove, recuperate da Śiva, si dividono in varie correnti, fra le quali il Gange nel Bhāratavara.  Nel mondo indiano la Luna è madre delle forme e Ianua Inferi, per cui come nel mondo greco presiede alla nascite, alla morte e al destino delle anime dei trapassati.  Sempre che gli antenati riescano a raggiungere quel tenue mondo paradisiaco, altrimenti la loro sorte è confinata nell’oscuro mondo sotterraneo (216).
L’icona di Śiva reggente la dea Gagā nella posa detta Gagāvataraa è sostituita a volte da quella denominata Gagādhāra, ove Mahādeva è accompagnato da Pārvatī anziché da Umā (217); e Gagā è effigiata sul fianco destro della testa del nume, non sopra di essa (218).  Vi è poi  il Gangāpariaya, l’immagine della devī  mentre si presenta a Śiva in veste di sposa (219).  Un ulteriore motivo iconologico è dato dal Triveī-sagama, il ‘Confluire-delle 3 correnti’.  Anche se a livello iconografico (cfr. il bassorilievo gupta del IV sec. d.C. in una grotta di Udayagiri, M.Pr.) compaiono sulla scena esclusivamente due di esse, personificate come tutto il resto della scultura e confluenti in Samudra, var. di Sāgara con in mano un Ratnakalaśa (‘Vaso dei Gioielli’) a mo’ di Ratnākara (‘Fonte di Gioielli’).  Attorno si vede gente festante, osservata dall’alto da una figura immortale (220). Nel caso dell’altorilievo di Ellora dell’VIII sec., in stile Rārakua,  le 3 dee sono raffigurate separatamente, ciascuna in una propria nicchia (221).  Altre varianti tematiche sono reperibili altrove (222).           
Benché la dea della Yamunā non presenti alcun aspetto pescino, è lecito comunque tracciare un rapporto d’identità-alterità tra il Grande Pesce della Triveī e la forma ittica di Adrikā, l’apsaras condannata a vagare per un maleficio nelle acque infere di questa particolare corrente fluviale.  Tal fiume infatti, fungente da principale affluente del Gange, nella sua controparte naturale è caratterizzato da acque piuttosto torbide e scure; tanto da esser chiamato anche Kālindī, voce apparentata a kāla = ‘nero, scuro, blu’.  Siffatta torbidezza ha cosí suggerito da tempo immemorabile una connessione d’immagine colle acque infere della mitologia di Yama, ovverosia colla fase discendente dello Yajña; in palese opposizione alla relativa limpidezza della Gagā, elevata viceversa ad espressione tangibile della facies luminosa della Yamunā e ricollegata perciò alla fase ascendente del ciclo annuale.  Sulla base di quanto appena rilevato, non è difficile allora comprendere le ragioni onde la dea Yamunā – ritenuta mitologicamente un doppione di Yamī (la ‘Prima Donna’, sorella-consorte di Yama), nonché di Kālindī (sorella di Kāla, alter-ego di Yama in funzione mortifera) e quindi equivalente alla stessa Kā (223) – sia stata rappresentata nel Mahābhārata attraverso la sua controfigura Adrikā; da intendere, possibilmente, quale variante dvaparayughica del vāhana della Triveī.  Yamunā, ossia Yamī, è dipinta come ‘nera’ per via delle conseguenze interiori della ‘caduta paradisiaca’; tuttavia, essendo interpretabile come la Prima Donna (vide supra), la figura di cotale devī al di fuori del contesto mahabharatiano ci rimanderebbe di per sé simbolicamente al Ktayuga (Età dell’Oro).  Infatti la reale natura di Yamunā-Adrikā è aurea, fatto testimoniato dal Kūrma, richiamantesi al Kūrmāvatāra.  A riprova di quanto ora specificato, si narra che fosse stata in principio un’apsaras (ninfa kritayughica), maledetta un giorno alla metamorfosi pescina da un muni (monaco, nel senso priemevo di silenzioso asceta praticante la via dei gandharva e delle apsaras)(224).  Proprio nel mentre in cui i due uccelli (nella versione del Devī Bhāgavatam sono dei falchi)(225) della storia già narrata di Satyā litigavano fra di loro per l’accaparrramento del seme di Uparicaravasu, l’apsaras si era recata sulla riva della Yamunā, ove il muni stava allestendo il suo Sandhyā Bandanam.  Colà la bella fanciulla si era buttata in acqua per fare un bagno, ben presto tuffandosi giocosamente onde cercare d’acchiappare i piedi del brahmano.  Costui, accortosi delle intenzioni erotiche della celestiale femmina, essendo stato costretto ad interrompere la propria meditazione ed i connessi esercizi di prāṇāyāma, l’aveva maledetta a tramutarsi in pesce.  Il testo citato a differenza del Mahābhārata, specifica trattarsi d’una carpa dorata (scr. Śaphara/-i), la stessa specie quindi di quella del piccolo ma poi sempre piú grande Pesce Parlante apparso a Manu.                        .

Se le 3 dee fluviali non sono che semplici aspetti di Mīnāksī (226), iconograficamente concepita con 3 Petti (227), costei presenta talvolta in maniera piú ristretta i tratti della sola Satyā; coll’inconfondibile ‘odore di pesce’, che si trasforma in ‘profumo di muschio’ dopo l’incontro d’amore da lei avuto con Sundareśvara, un aspetto di Śiva (228) come si è visto sopra.  Il riferimento evidente, l’abbiamo già constatato per Matsyakā, è alla trasformazione operativa subentrante interiormente al sādhaka allorché la Śruti viene direttamente assimilata.  Si noti che anche altre dee (ad es. Ganga) possono essere assolutizzate, vestendo i panni della ‘Signora della Triplice Corrente’.   Tornando a Satyā, si consideri che  costei non compare soltanto quale madre naturale di Vyāsa (Mhbh., Ādip.- liii. 60 ss) , bensí pure come una delle consorti di Ka, il figlio di Vasudeva (Bh.P.- x.58, 32-5).  Per concedere la mano della figlia Satyā, detta Nila, il padre ossia il pio re Nagnajit aveva disposto che il pretendente riuscisse prima a domare ‘Sette Tori’ furiosi ed indomiti.  Il rampollo del clan degli Yadu riuscí nell’impresa di porli sotto controllo dividendosi dapprima in sette e legandoli poi ad uno ad uno.  Ecco una chiara allusione alla settemplice potenza dei numi planetari nel macrocosmo, riflessa nel microcosmo dai corrispondenti ‘Sette Loti’ dell’organismo sottile.  Potremmo allora tracciare un parallelo tra Parāśara, amante di Satyā, e l’omonimo capo della tribú yadava.  Se è vera quindi la nostra supposizione sul doppio ruolo giocato da Satyā di madre e di amante, sempre che si identifichi Parāśara a Ka-Vāsudeva,  né risulta che il Vasudevide commette incesto colla madre; non meno di quanto avevamo sopra ipotizzato per Parāśara, ciò confermando l’ipotesi in precedenza formulata.  Riassumendo, i due veggenti mahabharatiani nonché redattori tradizionali rappresentano una doppia e parziale manifestazione di Viu, il compositore ideale del Viu Purāṇa (229) equivalendo all’Ottavo Avatāra e quello del Mahābhārata al Nono (230).  La medesima donna divina, con alcune delle sue molteplici denominazioni (Satyavatī, Matsyodari) e sotto mentite spoglie, figura ancora d’altronde nelle vicende di due altri avatara: il sesto (Paraśurāma) ed il settimo (Rāmacandra)(231).  Vicende che sono dunque da interpretare alla stessa stregua degli episodi nei quali è coinvolto il Kṇāvatāra.    



v)  Bran e Manannan,
corrispettivi celtici di Brahmā e Manu

Nell’introdurre la sua analisi del divino pantheon celtico un valido studioso (232) ha premesso queste significative parole: “…il politeismo e l’antropomorfismo dei princìpi divini costituiscono delle deformazioni del pensiero religioso greco-romano.  Bisogna quindi evitare assolutamente di considerare gli dèi dei Celti in base ad un incasellamento rigido delle funzioni…  Così, infatti, si sfocierebbe in una religione naturista, zoolatra o totemica che è molto poco probabile sia mai esistita altrove che nella mente dei suoi inventori moderni.”  La premessa è ottima, compresa la stoccata al dumézilismo, o se preferiamo al dumézilismo di maniera.  Anche quando lo stesso autore (233) prende in considerazione le 5 età mitiche (234) della tradizione celtica in Irlanda – vale a dire l’Età di Partholon (lett. ‘Venuto-dal mare’), L’Età di Nemed (‘Sacro’), l’Età dei Fir Bolg (‘Uomini del Fulmine), l’Età dei Tuātha Dē Danann (‘Figli della dea Dana’) e quella dei Gaeli ovvero dei Milesi (Figli di Mile, venuti dalla Spagna ed antenati degli attuali irandesi) – e misconoscendo in parte quanto in precedenza da lui stesso asserito fa del locale ‘Libro delle Invasioni’, il Labor Gàbala (XI-XII sec.), un’opera di pura mitologia non è lontano dal vero.  Poiché, in realtà, interpreta le invasioni come fasi dell’umanità equivalenti alle quattro mitiche età greco-romane.  Si dispiace soltanto che tale mitologia sia stata inserita nel quadro biblico, trasformandola in eventi pseudo-storici.  Eppure, se tanto gl’Irlandesi quanto i Norreni hanno incorporato le proprie leggende tradizionali in un simile quadro, non può esser considerato una questione di mero opportunismo politico-sociale; è evidente che essi riconoscevano alla cosmografia della Genesi un valore universale, con i cui presupposti bisognava in qualche modo mediare.  Occorre dunque far tesoro di simili informazioni, mediazioni d’Isidoro di Siviglia a parte.  Certo, che anche i Celti non meno d’altri popoli di lingua indoeuropea immaginassero un’età dell’oro e conseguenti altre epoche di decadenza da uno stato di primordiale perfezione è risaputo, altri studiosi lo hanno postulato (235).
Se vi è altresí una divinità nel pantheon celtico rassomigliante incredibilmente al Brahmā hindu (236), nome compreso, quella è Bran.  L’appellativo, guardacaso, presenta quale variante la voce Vran.  E a tal proposito ricordiamo che Brahmā funge in ambito hindu, come abbiamo già visto (237), da  dio aureo; non meno del suo alter-ego Varua, corrispondente difatti – e non solo dal punto di vista dell’etimo, ma persino nel ruolo talora malefico – alla var. Vran (238).  Iconologicamente il primo equivale all’altrettanto primevo dio latino Iānus, poiché è tetracefalo (239); il secondo è il corrispettivo indiano del gr. Οὐρaνός, checché ne pensasse il piú illustre storico delle religioni (240).  Si tratta comunque, sia riguardo i due nomi divini druido-brahmanici sia riguardo quelli degli omologhi numi greco-latini, di deità auree.  Gli attributi degli uni s’appaiano difatti agli attributi degli altri, con qualche differenza nel versante greco-latino rispetto al versante indo-celtico.  Non è detto che per spiegare tali differenze si debba ricorrere, per forza di cose, alla teoria antropologica delle aree laterali.  Potrebbero esservi altre ragioni, che non stiamo ad analizzare (241).
Il piú importante senza dubbio di codesti sunnominati attributi è la Coppa dell’Abbondanza in dotazione a Bran il Benedetto (chiamato cosí, poiché gli si attribuiva la trasmissione del cristianesimo in Britannia durante il suo leggendario regno), visibilmente richiamantesi al Vaso di Brahmā di cui sopra (242).  Sul Paiolo della Rinascita assegnato dalla letteratura celto-gallese (Mabin.- ii) e dal folclore rispettivo a Bran, che lo dona a Re Mathowlch per riparazione della grave offesa inferta al re d’Irlanda dal fratellastro Evnissyen durante il banchetto di nozze della sorella Branwen, s’è modellato ovviamente il Sacro Calice del Graal della letteratura celto-cristiana (243).  Un secondo attributo, seppur meno pregnante, del gigante druidico è il Pesce; per l’occasione, il Salmone della Conoscenza (od il Luccio), in certo senso correlato alla Carpa Monodona brahmanica associata a Manu.   Benché Brahmā non abbia mai avuto per vāhana il Pesce (ma nei testi è ritratto talvolta come il Pesce Monodono del Diluvio), nondimeno ce l’aveva in dotazione un tempo l’equipollente Varua (244); e lo possiede ancor oggi Kāma, allotropo di entrambi.  Kāma viene presentato nel gveda come il ‘Primo Nato’ dalla ‘Mente’ di Brahmā (245).  In x. 129. 4 è per l’appunto attestata la seguente frase: “In principio vi fu il Desiderio”, non per niente nella nostra lingua chiamato in alternativa ‘Brama’…  Non esistono raffigurazioni particolari di questo mitologhema, ci pare, ma è viceversa nota l’iconografia pescina del nume invisibile (246), talora associato alla Montagna Bianca (247).  Altre divinità celtiche hanno a che fare col Grosso Salmone, od il Grosso Luccio; o persino col Pesce d’Oro Cornuto, meglio noto quale Serpente Cornuto.  Ossia Nuadu, Dagda e Finn (248).  Dagda ha pure per connotato il Calderone dell’Abbondanza, o della Rinascita, capace di saziare chiunque (249). 
Riguardo i succitati omologhi greco-latini Urano e Giano le cose vanno un po’ chiarite, poiché è evidente che nel passaggio fra due diverse culture, sia pur appartenenti allo stesso ceppo linguistico, non si dovrà giammai pretendere di rinvenire una perfetta equivalenza fra i corrispettivi numi (250).  Basta un’approssimazione al fine che ivi ci proponiamo, il quale non è di delineare a scopo didattico la religione induista o quella di altri popoli, ma semplicemente di allaragare la sfera delle comparazioni per comprendere meglio il soggetto che dà titolo alla nostra ricerca.  La storia e l’iconologia delle religioni possono pure speculare sul tali differenze, per il momento non c’interessano.  Dunque non le prendiamo in considerazione, a meno che contribuiscano ad ampliare il quadro che andiamo tracciando.  Nel caso di Urano, va rimarcato che sebbene codesta divinità non detenga apparentemente nessuno degli attributi in dotazione al Dāśarāja hindu od ai doppioni brahmanici di costui, ciononostante è possibile ritrovarli in quelli degli allotipi del nume: cosí la tetracefalia di Brahmā, emblema dell’onniveggenza, è reperibile in ῎Αργος  (251)  dai cento-occhi (custode di Io, la bianca vacca) il cui candore – in base al gr. ἀργός= ‘scintillante, bianco’ – pare rimandare ai brumosi cieli nordici e circumpolari; mentre la <Testa Tagliata> di Prajāpati, il Brahmaśiras ossia la ‘Quinta Testa’ di Brahmā staccata al dio supremo hindu da Kālabahairava (252), ha un preciso equivalente in Grecia nella ‘Testa di Orione’ trafitta da Apollo (253).  Per rinvenire la Coppa dobbiamo invece rivolgerci a Ganimede e per il Pesce ad Eros, direttamente connesso ad Afrodite Anadiomene, o ad Apollo Delfinio (254).  Abbiamo altrove dimostrato (255) che il dio-coppiere era stato in principio un nume a sé stante, indipendente dalla costellazione zodiacale dell’Aquario, pur avendo anche allora signoria sulla Bevanda d’Immortalità; insomma, un doppione di Urano.  Ovvero un dio degli inizi, se vogliamo, non meno di Giano e Gaeśa.  Egualmente si potrebbe dire di Ερως il primo dio secondo gli Orfici, che nell’elenco delle Generazioni Divine lo antepongono ad Urano; mentre Platone (256), diversamente, colloca Urano in prima posizione ed in seconda Όκέανος.  Circa ῎Αφροδίτη ῎Αναδιομένη (lett. ‘Afrodite Emergente’’, dal vr. ἀναδύομαι = ’emergere’)(257), occorre precisare che l’icona altro non rappresenta se non un aspetto di ῎Αφροδίτη Οὐρaνία (Afrodite Urania), la figlia di Urano.  Nel caso di Re Giano, non avendo il dio latino alcun alter-ego riconoscibile a prima vista (258), è necessario ragionare in profondo sugli attributi che lo contraddistinguono.  Il Bastone che porta talora in mano (259) equivale senza dubbio alla Verga di Varua, oltreché al Daṇḍa di Re Yama, alludendo da un lato alla regalità sacrale primigenia e dall’altro all’inizio dell’Anno Sacro nonché ai Solstizi (260).  La primaziale signoria sul Lazio tradisce del resto una simbologia occulta, relativa al lat. lateo (‘nascondere’): come non pensare quindi all’Ilāvarta, la ‘Terra Nascosta’ d’induistica memoria (261)? Rimane infine da analizzare l’Arca, passata poi alla Chiesa Cattolica quale emblema del Pontificato (262).  Vi è chi (263) l’ha assimilata al Pesce, ma in tal modo intesa andrebbe comunque parificata alla Balena di Giona (solamente nel suo aspetto femminile, poiché ve n’è un altro opposto e complementare) oppure alla Vēsīca Piscis (264), cioè alla Coppa Eucaristica (265); non allo χΘούς, che è già rappresentato dal Bastone-scettro (266).  I due contrassegni, unitamente, sono tutto ciò che perdura dalla scomposizione del Matsya Ekaśṛṅga originario, trainatore dell’Arca di Manu sulle acque diluviali.  
Continuando la disamina prima intrapresa delle deità celtiche affini alle divinità ittiche hindu, si constata come l’abbinamento Pesce-coppa faccia risaltare già nel celtismo pre-cristiano il personaggio del Re Pescatore, diventato in seguito un tópos del cristianesimo tardo-medievale.  Le raffigurazioni di Bran, trattandosi d’un nume molto arcaico, sono scarse.  Sfortunatamente nessun mitologhema lo riallaccia in modo evidente all’Età di Partholon (267), ma il fatto d’esser fratello di Manannan/ Manawyddan, il quale non fa parte dei Tuatha De Danann (268) e non ha perciò alcun ruolo nell’epica <battaglia> di Mag Tured (269), è un indizio ineludibile della sua vetustà.  Chi è d’altronde questo Manannan, che fa da fratello a Bran, se non il corrispettivo druidico del Manu brahmanico?  Non per niente quegli era signore del Tir Tairn-gire, la ‘Terra dei Beati (Le Roux traduce con ‘Terra di Promessa’); gli appartenevano due mucche sempre pronte a dar latte e, non meno che a Bran, un calderone costantemente ripieno (270).  Dal che ne deduciamo in base alle precedenti considerazioni che la Coppa era un attributo tanto di Brahmā-Bran, quanto di Manu-Manannan (271).  Di codesto Manannan scrive il De Vries (272) che era considerato, non meno di Bran, il figlio di Lir ed era chiamato perciò mac Lir.  Da intendere però, semplicemente, come ‘figlio del Mare’.  Il che concorda a grandi linee colla storia della prima mitica invasione, poiché in verità il dio Lir/Ler (gall.Llӯr) – sorta di Poseidone locale, prototipo dello shakespeariano Re Lear – è il maggior rappresentante dei Tuātha Dē Danann (273).  Trattasi dunque d’una filiazione posteriore, similmente a quanto accaduto in Grecia od in India ad alcuni vetusti numi riciclati posteriormente quali <figli> dei maggiori dèi piú recenti.  In Irlanda o nelle altre isole britanniche, ad es. a Mann, i Celti denotano contatti col mare assai piú ampi di quelli dell’Europa Continentale (274).  Significativa a questo riguardo è però in certi luoghi della Gallia la presenza d’un dio marino che ha assunto i connotati greco-romani tipici di Poseidone e Nettuno, col Delfino, ma è venerato col nome di Hesperius (275); ciò che tradirebbe suggestivamente la sua origine occidentale, se tentassimo una spiegazione improvvisata del sacro appellativo.  C’è bisogno di ricordare che di là dall’Atlantico, nelle ragioni del tramonto o meglio nella leggendaria isola di Atlantide, Platone poneva la signoria di un nume del tutto similare?
Il vero e proprio omologo del Nettuno latino, almeno da un punto di vista etimologico, lo si rinviene ad ogni modo in Irlanda, dove piglia il nome di Necht o Nuadu (cimr.Nudd/Lludd)(276).  Gli scavi di Lidney Park, nella cittadina di Lidney presso il villaggio di Aylburton sul Severn (Gloucestershire, Regno Unito), hanno portato a loro volta alla luce un tempio rettangolare celto-romano del V sec. d.C.; il quale ci rivela la presenza d’un inusitato dio-pescatore: Nodens, Nudens o Nodons, parificato a Marte (Silvano) ma identificabile alla deità irlandese testé citata.  Che si tratti in ultima analisi d’una divinità tripartita (277) è provato dal fatto che, guardacaso proprio sul lato nordoccidentale (evidentemente è un segno della provenienza mitica), vi sono 3 stanze tra loro connesse.  In un monumento il dio è raffigurato nell’atto di sacrificare un grosso salmone, mentre in un fregio circostante si osservano dei mostri marini circondati da pesci attorno a dei tritoni.  Il fiume Severn era venerato fin dai tempi del Mabinogion per una leggendaria pozza in esso contenuta, denominata Llyn Llyw (donde deriverebbe il nome di Lidney), ove viveva un vecchio salmone. Tutt’attorno si narra vi fosse un bosco di nocciole.  Il culto gallese del Salmone della Conoscenza non differisce di molto, del resto, rispetto a quello irlandese.  Secondo la leggenda della prima battaglia di Mag Tured a Nuadu fu mozzata una mano, ciò che lo rese inadatto a regnare sui Tuatha Dé Danann.  A Nuadu subentrò Bress, figlio di Eriu (Madre Irlanda).  Ogni re di Tara, la capitale dell’irlanda di quei tempi, si sposava con Eriu; la quale era chiamata anche Eire (ancor oggi il nome alternativo dell’Irlanda) e faceva parte d’una trimorfia (Folla, Banba, Eire), che De Vries (278) classifica come una variante delle 3 Macha.  Vale a dire, la Macha sacerdotale (sposa di Nemed, l’emblema celtico del II Grande Anno), la Macha bellica e la Macha feconda (soprannominata Mongruad ossia “dalla rossa chioma”).  Il mito, della Mano Mozza è chiaro, allude al passaggio di ruolo della deità in questione da una posizione suprema ad una subordinata (279).  J. Vendryes ha giustamente collegato il nome del dio al got. nuta (‘pescatore’), lat. nauta (‘navigatore, marinaio’) ed ha inoltre trovato linee di raccordo – ci confida De Vries – con il Roi Pêscheur della leggenda graaliana, facendo ricorso al notonier (280) nonché all’uomo con l’eschace d’arjant presenti in Chretien de Troyes onde dimostrare la propria ipotesi.  Certamente la cosa ha l’aria d’una teoria valida, ma è pur necessario tener conto che in questo modo non si esauriscono le valenze della figura del Roi Méhaignet.  Poiché Nuadu non ha ricevuto la ferita d’una lancia, gli è stata invece mozzata una mano.
Vi è una leggenda che, al contrario, spiega bene la trasfigurazione cristiana successiva del tema.  Alludiamo ovviamente al contenuto del X racconto gallese del Mabinogion, il Peredur Son of Evrawg (281).               
Ivi Peredur, abbandonata la selvaggia foresta ove era stato allevato dalla madre, approda alla corte di Artú e poi viene istruito nell’arte della cavalleria da un gentiluomo.  Nelle sue avventure giunge in seguito al castello d’un cavaliere zoppo, di cui è nipote in linea materna, e colà durante il banchetto assiste ad un inverosimile corteo.  Nel salone entrano dapprima due giovani, recanti una lancia dalla cui punta grondano 3 rivoli di sangue; indi sfilano due fanciulle, con in mezzo un vassoio contenente una testa mozzata immersa nel sangue.   Peredur viene a sapere in seguito che essa apparteneva ad un cugino ucciso dalle 9 Streghe di Caer Lloyw (282), sull’Usk.  Queste sono le stesse che hanno storpiato lo zio, il proprietario del castello.  Alla fine esse vengono annientate coll’aiuto di Re Artú. 
Se, come generalmente si ammette (283), la testa descritta è quella di Bran (circa la quale cfr. Mabin.- ii), allora tutto si spiega in maniera lampante.  Poiché Bran è il ‘Grande Antenato’ non solo di Peredur, ma dell’intera nostra umanità.  La testa divina ha un parallelo nel Mgaśiras hindu, vale a dire nella ‘Quinta Testa’ di Brahmā tagliata da Śiva sul Meru (284).   Se questo è vero, ciò implica di necessità che la ‘Testa Mozza’ di Bran (285) funge da richiamo dell’Età Aurea, o di Partholon che dir si voglia.  Non per niente l’Incantatore che rivela alla fine della narrazione i propri incantesimi a Peredur è un tipo coi capelli biondi (= aurei), mentre il Cavaliere Zoppo li ha neri (= ferrei), connotati simbolici entrambi sicuramente di valore alchemico.  A conferma del nostro assunto, Bran è difatti l’avo di Pryderi (Mabin.- iii), una chiara prefigurazione di Peredur.  Le benedizioni connesse al culto di Bran (banchetto celeste ecc.) verranno trasferite da parte di Chretien a Cristo, attraverso tutta una serie di progressivi riadattamenti della tematica pre-cristiana, che analizzeremo fra breve.  Benchè i racconti del Mabinogion appartengano da un punto di vista compositivo al XIV-XV sec., di certo la materia da essi trattata risale nel contenuto ad un’epoca precedente a tutte le altre opere del ciclo bretone.    
Il primo romanziere a scrivere sul soggetto (286) è Chrétien de Troyes (XII sec.), che affronta l’argomento della processione del Graal nel Cap.V di Perceval le Gallois ou le Conte du Graal (287).
All’arrivo al Castello del Graal Perceval (ex-Peredur, a sua volta ex-Pryderi) incontra due uomini su una bara: uno rema e l’altro pesca coll’amo (288).  Questi, essendo stato ferito da un giavellotto ai fianchi, non è piú in grado di muovere le gambe e quindi di montare a cavallo; per cui non gli rimane che dedicarsi alla pesca in barca, dato che è assai benestante.  Di qui la denominazione che gli è propria, di ‘Ricco Re Pescatore’ (289).  Dopo esser stato accolto da quest’ultimo, il ‘Figlio della Vedova’ (prima era il ‘figlio della Vergine)(290) assiste alla consueta bizzarra processione (Cap.V).  In tal caso vi è un valletto ad aprire la scena colla lancia insanguinata.  Solo una vermiglia goccia, anziché 3 rivoli di sangue scorrono da essa, ma piú avanti (Cap.VIII) il protagonista ha la visione del volo di alcune anatre selvagge; da una delle quali – ferita da un falcone – cadono 3 gocce di sangue (291) sulla neve, che rammentano al cavaliere innamorato Biancofiore (292), la bella castellana assediata da Anguingueron e da lui liberata.  Al primo valletto ne seguono dapprima altri due con dei candelabri d’oro e poi appare una damigella con un graal (vassoio) pure d’oro, da cui s’irradia luminosità per tutta la sala.  Dopodichè spunta una seconda damigella, con un piatto d’argento, a chiudere il corteo.  La sfilata si ripete ogni volta che all’ospite viene servita una nuova portata, ma il gallese rimane silenzioso per non apparire importuno.  Solo in seguito, quando si sarà confidato colla cugina, costei gli farà sapere d’aver sbagliato atteggiamento omettendo di chiedere a cosa servisse il Graal.  Poiché unicamente in quel modo il re invalido avrebbe potuto riprendere l’uso delle gambe e sarebbe ridivenuto abile a governare la sua terra.  L’indomani, dopo che Perceval si era alzato, trovando il Castello tutto vuoto e colle porte sbarrate se n’era andato senza saluti di commiato nonostante avesse urlato per farsi sentire. L’ingrato non aveva ricevuto nessuna risposta, ma in compenso aveva trovato il cavallo sellato ed il ponte levatoio abbassato da mani ignote.  Non appena l’aveva passato a cavallo, il cavaliere aveva sollecitato ancora una risposta, ma la risposta non era venuta. 
        Nel passaggio dall’ambiente druidico a quello cristiano, senza dubbio il testo si fa piú rarefatto, acquista misticismo.  Ma è questo vero indizio d’una spiritualità maggiormente elevata?  Di certo il druidismo sul finire del I mill. a.C. era scaduto a livello magico-sacrale, rispetto a tempo addietro, e si trovava in condizioni tali che soltanto una rigenerazione spirituale sarebbe stata in grado di rimetterlo in sesto.  Questa non poteva conferirgliela, in tutta sincerità, altro che la religione allora dominante ed essendo il paganesimo romano già in declino era impossibile che facesse da leva per una rinascita del druidismo celtico.  Esclusivamente il cristianesimo aveva la possibilità di risollevarlo dall’inedia in cui era caduto.  Tuttavia si ha l’impressione, leggendo fra le righe nel Mabinogion e nel Perceval le Gallois, che il valore iniziatico dei due testi sia differente e quasi opposto.  Nel senso che, pur trattandosi in entrambi i casi d’una iniziazione di tipo eroico-regale, nel caso del Peredur parrebbe prevalere una forma apollinea di simbolismo; mentre il Perceval, se non andiamo errrati, sembrerebbe indirizzato verso una forma dionisiaca dello stesso.  Ci spieghiamo meglio.  Analizzando gli elementi comuni alla duplice storia, della quale abbiamo fornito due brevi sunti, scorgiamo che la sfilata nel rispettivo contesto piú o meno si equivale.  A parte il piatto d’argento, ove Gesù e gli Apostoli avevano mangiato l’Agnello Pasquale nell’Ultima Cena.  In altre parole, avevano sacrificato l’ego divenendo virtualmente il Principio Divino.  Infatti, oggetto del corteo osservato da Peredur è la Testa Mozza di Bran; quantunque in incognito, visto che il testo non fa alcun nome in proposito.  Invece nel Perceval avviene per cosí dire uno sdoppiamento fra l’oggetto rituale – il Graal non contiene alcunché eppur risplende, per allusione evidente alla Coppa dell’Ultima Cena – ed il Re Magagnato, cioè il Re Pescatore.  Successivamente, si avrà addirittura una triplicazione del motivo, distinguendo fra di loro le due figure testé citate e il Sacro Calice, il quale perderà l’aspetto del vassoio per divenire un vero e proprio vaso.  Il fattore esplicante tale sdoppiamento è il medesimo per cui in India si trova nelle formulazioni testuali maggiormente antiche (ad es. nel Mhbh, Vanap.- clxxxxvii. 1-55) un’indistinzione sostanziale fra Brahmā e Manu, il quale viene menzionato in veste di Creatore; ma in seguito vi è distinzione fra Manu e il Matsya ovvero fra Matsyendra e Mīna (cfr. §§ r-s) e poi addirittura una triplicazione fra Manu, Viu e l’Avatāra (293).  Facciamo notare altresí che Manw (294) è il nome gallese dell’I.a di Man, a metà strada fra la Britannia e l’Irlanda.  Orbene, colui che il Galles denominava Manawyddan (il nume venerato a Man) l’Irlanda chiamava  Manannan (295).   Codesto nume era fratello di Bran e di Branwen, una delle varie vesti della dea bianca al dire del Graves (296).  Come tale costei costituiva un doppione di Rhiannon, madre di Pryderi e sposa di Pwill (protagonista del I ramo del Mabinogion), successivamente maritata dal figlio secondo la saga (Mabin.- iii) ad un altro.  Pryderi, principe del Dyvet (regione gallese) e prima prefigurazione di Parsifal, l’aveva infatti concessa in isposa a Manawyddan.  Essendo questi il fratello di Bran, è da supporre che in Mabin.- x lo <Zio Zoppo> presso il cui Castello si reca Peredur, seconda prefigurazione di Parsifal, non sia altro che Bran in celata forma.  Quale prova sta il simbolismo della testa nel vassoio, che diverrà in Chrétien un graal di lucente aspetto.  La testa mozzata depositata sul vassoio del paganesimo celtico, particolare troppo cruento per la sensibilità cristiano-medievale, la ritroveremo perciò in braccio alla cugina di Perceval ormai desacralizzata.  Alle sacre reliquie si aggiungerà, però, il piatto pasquale.  Spariranno inoltre le 9 Streghe, altro dettaglio indigesto nel computo temporale del Cristianesimo (facente perno sull’Incarnazione di Nostro signore), nel racconto gallese annientate da Artú.  Dal fatto che avessero storpiato lo zio e tagliato la testa al cugino germano (il fratello dello zio) abbiamo già dedotto, in precedenza (297), trattarsi di una simbologia cosmologica analoga a quella delle 9 Madri di norrenica memoria.  “La piú bella pulzella e di maggior rango” fra le fanciulle del Castello assediato si trasformerà a sua volta in Biancofiore.  A nostro parere le suddette leggende nascondono un riferimento astrale, in relazione all’Età di Mile, concernente Orione (la Testa Oracolare) e Aldebaràn (la Bianca Dea)(298).  Anche la faccenda dello zio (o sovrano) claudicante, similmente alla storia di Edipo – in quel caso è l’intera dinastia ad esserlo, come ha notato qualcuno – pare richiamarsi allo stesso asterismo, sia pur da un altro punto di vista; che non è cosmologico, ma ontologico, dato che era costume anticamente legare mani e piedi agl’iniziati nel loro percorso emblematico.  Come c’insegna l’arcaica storia ittita di Kessi il Cacciatore (299). 
Nel proseguire l’analisi del tema graaliano dopo Chrétien è d’uopo seguire il seguente percorso: la Continuazione di Manessier, il Romans de l’estoire dou Graal (o Joseph d’Arimathie) di Robert de Boron nella prima metà del sec.XIII; indi, subito a seguire, il Didot Perceval (dal nome del libraio parigino che deteneva il manoscritto), continuatore di De Boron.  Poi, sempre nello stesso periodo, il Perlesvaux; secondo l’autore,  la traduzione francese d’un libro in latino posseduto dall’Abbazia di Glastonbury.  Ed ancora, il Parzifal di Von Eschenbach, ispirato a Chrétien; ma pure ad un poeta provenzale (Kyot), che avrebbe trovato la storia elaborata dal narratore tedesco a Toledo, scritta in arabo.  Nonché il Lancelot-Graal (o ciclo vulgato), anonimo, comprendente 5 rami; ed infine La Morte Darthur di T.Malory, del XV sec, poggiantesi sul Lancelot (300).  Un esame del genere esula tuttavia dal compito che qui ci prefiggiamo, la semplice comparazione del tema piscatorio celto-cristiano coll’analogo motivo del mondo indiano, onde lo tralasciamo (301).
Rimane ora esclusivamente da considerare il motivo del Pesce, che in ambiente celtico si traduce come abbiamo visto in quello del Salmone (o del Luccio) della Conoscenza.  Il Pesce lo si vede persino raffigurato nel Calderone di Günderstrup, ove si osserva una figura giovanile cavalcare un luccio (302).  Non è facile desumere quale sia la divinità incisa nel metallo.  Proviamo egualmente a farlo, andando per esclusione.  In base ai dati reperiti, abbiamo visto che solamente Nuadu, Dagda e Finn dispongono dell’emblema ittico, ma nessuno di essi lo ha per cavalcatura.  Oltretutto, il fatto che pesce e figura umana divinizzata siano a cosí stretto contatto potrebbe farci propendere per una diversa soluzione dell’enigma, dato che in India tale mūrti appartiene unicamente a Manu ed al suo doppione aureo Kāma.  E se fossero Manannan e Bran in forma pescina le figure ritratte una a groppa dell’altra, o meglio dei loro equivalenti gallici (303), visto che qualcuno non a caso identifica i due numi (304)?  Non sono costoro, entrambi, possessori d’un magico caldaio?  Per quanto suggestiva, questa tesi – saremo sinceri – non ci convince.  L’unica soluzione credibile non può che essere quella proposta in nota (305), che si tratti cioè del Pesce d’Oro (anche se ivi non è Cornuto), dato che innanzi vi è l’Ariete.  Nel riquadro precedente, d’altronde, campeggia il Serpente Cornuto.  Se, come sembra, ogni riquadro rappresenta lo sviluppo scenico dell’altro, si può immaginare che il dio col pesce ne sia una trasformazione annuale.  La minuscola figura umana della precedente scena individuava il dio colla ruota, in altre parole un doppione di Dagda, per cui è possibile che anche l’altra in groppa al pesce nel riquadro successivo stia in diretta continuità con essa.  L’Ariete lo prova.  Allora, modificando di poco la congettura che si tratti d’un nume primevo tipo l’Eros greco od indiano, è lecito ipotizzare che la minuscola figura costituisca di nuovo una forma di Dagda ossia del Giove celtico (306).  Codesto dio supremo potrebbe aver assunto, al modo dell’Indra vedico ed epico hindu, accanto al carattere di supremazia quello di primazialità sostituendo in tal modo per mezzo della nuova coppia Pesce-Ariete la vetusta coppia Bran-Manannan.
Tirando le somme, ricaviamo che presso i Celti il ruolo del Pesce (la Somma Divinità) è secondario rispetto al ruolo del Re Pescatore (la controparte umana).  Rispetto all’India prevale nel mondo celtico la contrapposizione fra il prototipo divino dell’uomo (Manannan) e la sua controparte esclusivamente divina (Bran), seppur ciascuno dei due abbia assunto un aspetto evemerizzato.  È probabile che in origine i due fossero una cosa sola, come Manu e Brahmā, la cui distinzione è puramente formale.  In seguito essi si sono separati, ad indicare uno il fine terreno e l’altro quello ultraterreno, insomma il ‘Banchetto Celeste’ del folclore che caratterizza il personaggio.  Colla cristianizzazione deve esser avvenuta una triplicazione del tema, col Cristo-pesce (307) fungente per cosí dire da Matsyāvatāra.  E Perceval, piú tardi Galahad, nei panni di <Cavaliere dello Spirito Santo>.  Oppure entrambi, con doppio fine operativo terreno e celeste.  La veste del Padre Divino in questo contesto è stata assunta dalle incarnazioni di Bran quali Uther Pendragon o Re Ban di Benoic; il compito del Padre Umano ovvero del Progenitore, prima svolto da Manannan/ Manawyddan, è passato al Re Pescatore.



z)  Il Mahāmatsya indiano al di fuori dell’ambito hindu

Il Mahāmatsya non è tema esclusivo dell’induismo, esso compare anche nel buddhismo, nel jainismo e nel sikhismo.  Oltreché nel cristianesimo.  Per cominciare analizzeremo la sua presenza in campo buddhista, ove è rintracciabile iconologicamente quale grosso pesce emergente colla testa dalle acque e circondato da loti, anatroccoli nonché da una figura umana difficilmente identificabile (308).  Probabilmente ha il ruolo che nel mito hindu ha il Dāśarāja (309).  Il riferimento ovvio della scena, in cui il Bodhisattva (310) ha assunto la forma pescina per per salvare gli altri pesci e le tartarughe, è al Matsya-jātaka (pa.Maccha-j.).  Bisogna sapere che i Jātaka (‘Nascite’), come c’insegna un grande storico austriaco della letteratura indiana (311), costituiscono uno dei 9 lembi (aga)(312) del canone buddhista o Tipiaka (‘Tre Canestri’).  Appartengono, piú precisamente,  al Sutta-piaka (‘Canestro delle prediche’); o meglio alla quinta Collezione (Nikāya) di questo raggruppamento (313), il Khuddaka-nikāya (‘Collezione dei capitoli minori’)(314), miscellanea di ben 15 raccolte (315).  Sono stati redatti in lingua pāli, probabilmente attorno al V sec. a.C. (316), per magnificare le vite anteriori del Buddha prima di raggiungere la Grande Illuminazione; in termini buddhisti exoterici, nelle sue incarnazioni in veste di bodhisatta (bodhisattva)(317) durante il suo innumerevole peregrinare nel sasara.
Il Maccha è il 75° jātaka dell’Ekanipāta (‘I Libro’)(318).  La premessa alla narrazione è la circostanza d’una notevole siccità capitata a Jetavana, fatto che fece prosciugare tutti gli specchi d’acqua, compresa la vasca del luogo.  I raccolti appassivano.  Mentre i pesci e le tartarughe, onde resistere al calore esasperante, si rifugiavano nel fango; ma corvi e falchi presto giunsero colà, facendo strage dei poveri animali.  Preso da compassione, il Maestro coi poteri concessi ad un buddha fece piovere sul Kosala per ristorare l’intera natura avvizzita.  Non era la prima volta che questo accadeva, perciò il Benedetto raccontò una storia del passato.  Narrò di quando nei giorni che furono era stato Re dei Pesci.  

Una volta a Jetavana, nel Regno del Kosala, c’era uno stagno ove poi era stata posta la suddetta vasca.  Lo stagno era un groviglio di piante rampicanti.  Là dimorava il Bodhisatta, venuto a vita come pesce in quei giorni.  Anche allora vi era stata una tremenda siccità, con appassimento dei raccolti.  L’acqua veniva meno nelle pozze, la terra asciugava, pesci e tartarughe si seppellivano vivi nella fanghiglia.  Corvi ed altri uccelli, affollando il luogo, beccavano qua e là e li divoravano.  Accorgendosi che nessuno al suo posto avrebbe potuto salvarli, il Bodhisattva decise di fare una solenne Professione di Bontà al fine di ottenere con tal efficace mezzo di far cadere della pioggia, salvando in tal modo i malcapitati da morte sicura.  Pertanto, messo a lato il nero fango, venne fuori da esso tutto annerito.  Coi suoi occhi di rubino invocò la pioggia da parte di Pajjunna, il re degi dèi, ricordandogli che egli nella sua vita pur essendo un pesce di grandi dimensioni non aveva mai rubato la vita a nessun pesce, neanche minuscolo.   Lo invocò come un signore si appella ad un servo, ottenendo la pioggia desiderata e salvando parecchie creature.

Se il Maestro aveva assunto la parte di Re dei Pesci in quei giorni, gli altri pesci erano i discepoli del Buddha e il discepolo favorito (Ānanda) altri non era che Pajjunna (319).  Non è difficile scorgere in questo apologo riferito ad un passato leggendario un’allusione, non diversamente da quanto avviene nei Vangeli Sinottici (320), alle influenze spirituali esercitate sui discepoli da parte del Maestro attraverso il suo intermediario.  La parte del Rivelatore è ivi svolta dal Maestro in forma di Bodhisatta, cosí come nell’induismo dal Matsya (Brahmā), da Mīna (Śiva) o dal Matsyāvatāra (Viu-Nārāyaa); quella del Trasmettitore tradizionale della Rivelazione ivi da Ānanda, nel ruolo di Pajjunna (321).  Induisticamente da Manu, Mīnanātha e Nara (322).  Non bisogna dimenticare, infatti, che il ‘Re degli Dei’ – sia questi Indra o una sua ipostasi – funge tardivamente da dio supremo.  Rispetto al Bodhisatta, che detiene nel buddhismo una funzione di tipo avatarico, manca ad Ānanda l’aspetto caritatevole e direttamente salvifico.  Il ‘discepolo favorito’ a mo’ di dāśarāja invia le <piogge> in forma di benedizioni, insomma d’influenze spirituali, salvando i pesci dagli uccelli; fungenti da demoni della siccità, vale a dire da procacciatori di stati spirituali inferiori.  Però è dal comando del Maestro che parte l’invito a farlo, per via della propria purezza, la quale lo fa essere compassionevole nei confronti sia dei discepoli svegli (pesci) che di quelli un po’ meno (tartarughe).     
Vi sono altri riferimenti ittici nei seguenti jātaka dell’Ekanipāta: 31, 34, 38, 114, 139.  E poi ancora nel Dukanipāta (‘II Libro’): 205, 216, 233, 236, 239.  Analizziamoli per ordine.  Nel Kulāvaka-j. (n°31) si parte da una situazione di disagio  fra due discepoli, uno dei quali è provvisto d’un setaccio onde filtrare l’acqua, l’altro no; ma quello che ne è provvisto non glielo presta, sicché il Maestro racconta d’un antico re del Magadha.  Śakka (Śakra), cioè Indra, nacque in un paesetto di quella regione; anche il Bodhisatta era nato là, nello stesso paesino del Regno del Magadha.  Non entriamo in tal caso nel contesto della narrazione, ci preme esclusivamente d’indicare che nella casa del Bodhisatta erano nate 4 fanciulle: Bontà, Ponderanza, Gioia e Altanascita.  Dopo la morte, il Bodhisatta era rinato nei panni di Śakka.  A questo punto s’inserisce una strana storia, di valore probabilmente cosmografico, non facilmente esplicabile di primo acchito. 

In illo tempore gli Asura avevano invaso il Reame dei Deva, sicché il Re degli Dei – appunto Śakka – era stato costretto dopo averli ubriacati di Soma (Bevanda, ma anche Luce) a lanciarli per i piedi lungo i picchi del Monte Sineru.  Essi erano rotolati giú fino al Reame degli Asura, eguale in estensione a quello dei Deva.  Ivi sorgeva un albero similare all’Albero di Corallo dei Deva, l’Albero di Gelsomino variopinto, il quale non meno del primo durava un intero eone (6.480 anni).  Ma costoro avevano tentato di risalire verso il Sineru, a mo’ di formiche risalenti per un pilastro, onde il Devarāja era stato costretto a montare sul suo ‘Carro di Vittoria’ e a scendere verso le profondità per combatterli.  Sennonché, giunto alla Foresta degli Alberi di Seta e di Cotone, era successo che lo stridore del suo carro aveva gettato nello scompiglio la vegetazione al di sotto del suo passaggio e con essa anche i giovani garua (garua) dimoranti nei loro nidi.  Nell’udire i loro strilli, Śakka non era rimasto indifferente e aveva chiesto al suo auriga Mātali di tornare indietro per un’altra via.  Ciononostante, gli Asura avendo visto la scena e temendo la venuta di Śakka d’altri mondi, se ne tornarono spaventati al loro reame.  Allorché il divino re se ne era andato a godere la gloria del paradiso, le suddette fanciulle che nel frattempo erano morte rinacquero quali serve di Śakka.  Tranne Altanascita che, non avendo beneficiato d’alcun suo atto meritorio, rinacque sotto forma di gru.  A questo punto, essendo Śakka curioso di vedere se costei era divenuta capace di rispettare i 5 Precetti (323), si trasformò in pesce e s’offerse da cibo all’uccello; che l’afferrò per la testa, pensandolo morto, ma all’improvviso il pesce agitò la coda.  La gru, comprendendo che era vivo, lasciò la presa.  Śakka si rallegrò del gesto, accorgendosi che Altanascita aveva raggiunto la consapevolezza dei valore dei precetti.  Dopodiché Altanascita ottenne una nuova nascita in una famiglia di vasai di Benares e poi ancora in una donna di grande bellezza, figlia d’un re asurico.         

Nella morale finale, inutile aggiungere, il Maestro identificasi a Śakka.  L’incarnazione pescina di Indra, crediamo assolutamente unica, fa il paio con quella di Viu quale Matsyāvatāra.
Un altro Maccha-j. (n°34) s’inserisce sulla vicenda d’un discepolo sedotto da una moglie alla vita mondana, prima d’unirsi alla Fratellanza (B.).  Questa volta il Bodhisatta è rintracciabile nel sacerdote di famiglia d’un re di Benares.

Alcuni pescatori in quei giorni avevano gettato le reti nel fiume.  E un grande pesce avanzava giocando amorosamente colla sua compagna.  Costei, avvertendo la presenza della rete siccome nuotava davanti al compagno, fece una giravolta e si allontanò:  Mentre l’amoroso compagno, accecato dalla passione, finí diritto nelle maglie della rete.  Non appena i pescatori lo sentirono dentro, strinsero la rete e lo tirarono fuor d’acqua.  Non lo uccisero subito, ma lo gettarono ancor vivo sulla sabbia.  Volendo cuocerlo per il loro pasto, preparono un fuoco ed uno spiedo per arrostirlo.  Il pesce allora si lamentò: –Non è la tortura delle braci o la tortura dello spiedo, o qualsivoglia altra pena, che m’affligge.  Solamente il pensiero insopportabile da parte della mia compagna che io possa essere andato con un’altra.–  Proprio in quel mentre il sacerdote venne al bagno coi suoi servi e, conoscendo la lingua degli animali, udí il lamento del pesce per la passione amorosa rimasta insoddisfatta.  Pensò che se il pesce fosse morto in quel deplorevole stato mentale, avrebbe acquisito l’inferno e decise quindi d’aiutarlo.  Andò allora dai pescatori e con uno stratagemma riuscí a sottrarlo ai pescatori.  Sicché, seduto  sulla riva dinanzi al pesce, disse: –Amico pesce, non T’avessi visto oggi, avresti incontrato la morte.  Smetti in futuro d’esser schiavo della passione!–  E con tale esortazione gettò l’animale in acqua (324). 

Naturalmente il pesce-femmina è la donna che spingeva l’uomo alla lussuria, il pesce-maschio il Fratello preso dalla passione in ricordo di lei ed il sacerdote che lo salva il Bodhisatta.  In questo caso e in altri che vedremo non paiono esserci significati simbolici che vanno oltre il contesto, di natura esclusivamente allegorica.  Si può tuttavia aggiungere che in codesta parabola i termini del confronto fra l’Uomo ed il Pesce risultano rovesciati.
Nel Baka-j. (n°38) ritroviamo le figure della Gru e dei Pesci, seppur in nuovi panni.  In questo caso si ha una pozza che per la calura estiva stava seccando, con dentro dei pesci (fra i quali uno grosso ma cieco d’un occhio) ed un granchio; gli uni beffati da una gru che propone loro di trasbordarli dalla pozza in secca ad una fresca e piena di loti e l’altro a sua volta che si beffa della gru medesima facendosi trasportare colà, salvo poi stecchirla colle chele dopo esser arrivato a destinazione.  Non stiamo ad approfondire l’apologo, poiché il tutto non rientra negli interessi della nostra discussione e pertanto lo tralasciamo.  Altrettanto non possiamo fare invece col Mitacinti-j. (n°114), il quale prende le mosse dalla presenza a Jetavana di due vecchi fra gli Anziani.  Vi era stata una stagione piovosa in una foresta del paese, da dove costoro provenivano.  I due avevano fatto provviste per il viaggio in cerca del Maestro.  Ciononostante, essi rimandavano di continuo la partenza, fino a che un mese era volato via.  Allora provvidero ad un supplemento di provviste, ma tale procrastinare portò loro via un secondo mese.  E poi un terzo.  Trascorsi tre mesi in questo stato d’indolenza, finalmente partirono giungendo a Jetavana.  Lasciate le proprie provviste nell’apposita sala, ove erano messe in comune con quelle degli altri, vennero innanzi al Maestro.  L’Ordine dei Confratelli, sottolineando l’avvenuto ritardo, ne domandò ai due la ragione; al che il Maestro cominciò a raccontare un apologo nella Sala della Verità, a loro beneficio.

Una volta nel fiume di Benares (il Gange, è ovvio) vivevano 3 pesci, denominati ‘Sovra-pensiero’, ‘Pensieroso’ e Senza-pensiero’.  Un giorno vennero giú, per la corrente, dal selvaggio paese dove dimoravano.  Di conseguenza Pensieroso avvisò gli altri che si trovavano in un punto pericoloso, in cui i pescatori erano soliti gettare reti e trappole varie.  Sennonché i suoi compagni erano talmente pigri e ingordi, che evitarono di rimandare di giorno in giorno il cambio di condotta, fino al trascorrere di tre mesi.  Sicché quando i pescatori gettarono le reti nel fiume immancabilmente Sovra-pensiero e Senza-pensiero, nuotando in testa impavidi nella loro follia, cercando cibo vi finirono dentro.  Pensieroso, stando dietro guardingo, si era però accorto della rete e di quanto avevano fatto i compagni di viaggio.  Onde si propose di salvarli da morte sicura e, schivando la rete, si mise a diguazzare presso questa, quasi che fosse riuscito a strapparla e a uscirne illeso riprendo la corrente.  Nel vedere ciò i pescatori ritennero che il pesce aveva rotto la rete e se n’era andato, per cui la misero da parte e i due compagni ebbero la possibilità di fuggire in acque libere (325).                          

Va da sé, naturalmente, che i pesci poco avveduti siano da paragonare ai due Anziani e l’altro al Maestro.  C’è di piú, la rete dei pescatori è quella della Māyā – o, se vogliamo, del Re Pescatore in veste di Māyin – e la corrente è il Sasāra.
Il Gangeyya-j. (n°205) è stato narrato dal Maestro in occasione della presenza a Jetavana di due giovani Fratelli, d’ottima famiglia, che avevano da non molto abbracciato la fede buddhista.  Non rendendosi conto delle impurità del corpo, andavano vantandosi della loro giovanile bellezza.  Un giorno caddero in una disputa su chi era piú bello fra i due e domandarono ad un Anziano, piuttosto attempato, di esprimere un giudizio al riguardo.  Questi tagliando corto rispose, sarcastico, d’essere piú bello d’entrambi.  Lo rimproverarono allora di rispondere a cose non richieste, senza rispondere a quelle realmente richieste.  La Fratellanza fu informata dell’evento e ne discusse un po’.  Al che il Maestro intervenne, non lasciandosi sfuggire l’occasione per narrare una storia simile dei tempi andati. 

Una volta il Bodhisatta era divenuto il folletto d’un albero sulla riva del Gange.  Due pesci s’erano incontrati alla congiunzione di tal fiume colla Jumna (Yamunā).  Essendosi trovati l’un l’altro belli, era sorta una disputa su chi fosse il maggiormente bello dei due.  Non lontano dal Gange, videro una tartaruga accovacciata sulla riva.  Decisero allora di ricorrere ad essa per risolvere il dilemma.  L’anfibio riconobbe che i pesci erano entrambi belli, ma fece loro sapere che lei era ancor piú bella di loro.  Delusi, i due la rimproverarono di non rispondere a tono. 

Ovvio che i due pesci rispecchino i Fratelli e la tartaruga l’Anziano, col Maestro che fa da spirito dell’albero contemplante la scena.  In apparenza verrebbe da pensare di non poter andar oltre l’allegoria, ma non si deve dimenticare che il punto d’affluenza dei due fiumi sacri della tradizione indiana ha ricevuto una peculiare venerazione da parte hindu (326) e che essi alludono nientemeno che alle due correnti microcosmiche producenti l’Illuminazione (327).  Per cui i Pesci divengono in questo modo suscettibili d’una interpretazione richiamantesi alla bipolarità cosmica, cosí come la Tartaruga può essere assunta ad immagine della loro unità.  Il Bodhisatta nel suo passivo contemplare rappresenta, a sua volta, ciò che va oltre la sfera ontologica.            
In un terzo Maccha-j. (n°216) il contenuto è offerto di fronte ad uno che desiderava ardententemente la precedente moglie.  Il Maestro gli chiese se era vero che si sentiva malato d’amore.  E avendo quegli annuito, gli spiegò che era stata lei il suo danno.  A causa di quella donna infatti, molto tempo prima, era giunto sul punto quasi d’essere spiedato ed arrostito, ma per fortuna sua dei saggi lo avevano salvato.

Un tempo il Bodhisatta aveva funto da cappellano del re di Benares.  Dei pescatori un giorno tirarono fuori dalla rete un pesce che avevano catturato e lo gettarono sulla sabbia asai calda coll’intento di cuocerlo e di mangiarlo.  A tal scopo prepararono uno spiedo, mentre il pesce cominciò a lamentarsi della sua compagna, che avrebbe male inteso il mancato ritorno.  E chiese ai pescatori, perciò, di lasciarlo andare.  Il Bodhisatta, avvicinatosi alla riva del fiume, udendo i lamenti del poveretto ordnò ai pescatori di liberarlo.

Anche qui è scontato intravvedere nella compagna del pesce l’amata moglie del monaco prima di prendere i voti monacali e nel pesce il marito divenuto buddhista, nonché il Maestro nel cappellano.  I pescatori, in tal quadro, sembrano incarnare le forze dissolutrici che dominano il Sasāra e che soltanto il saggio sacerdote od il monaco attivo nell’ascesi interiore possono rendere innocue.  Il pesce è, per contro, il monaco ripreso dalla nostalgia della vita coniugale e perso nei ricordi mondani.  Unicamente il Maestro è in grado di condurlo alla liberazione da questi vincoli mortiferi.       

Il Vikaṇṇaka-j. è legato all’apostasia d’un Fratello.  Condotto nella Sala della Verità, il Maestro gli chiese se fosse realmente un apostata e questi disse di sí, attribuendone la causa alla qualità del desiderio.  A ciò il Maestro replicò che il desiderio è come una freccia a doppia punta che trafigge il cuore.  Le due punte lo uccidono, come fecero nei tempi che furono col coccodrillo.

Una volta il Bodhisatta era stato re di Benares, un buon re.  Entrato un giorno nel parco reale col suo séguito, camminava ai bordi d’un laghetto.  Chi era capace di danzare e cantare cantava e danzava.  Pesci e tartarughe, lieti d’ascoltare quel canto, si radunarono tutti assieme accompagnando fianco a fianco il cammino del sovrano.  Il re, osservando che i pesci lo seguivano formando una scia che pareva un tronco di palma specchiantesi nell’acqua del laghetto, ne domandò il perché ai propri cortigiani.  Costoro risposero che venivano ad offrire servigi al loro signore.  Il re, allietato di questo onore resogli dalle creature dell’acqua, decise di concedere loro del riso con regolarità.  Quando l’alimento fu gettato per la prima volta nel laghetto, alcuni pesci vennero a mangiarlo, altri no ed il riso andò sprecato.    Dello strano fatto fu riferito al re, il quale dispose dunque di far battere il tamburo ogni volta che venisse offerto del cibo.  Cosí avvenne, ma mentre i pesci erano riuniti asieme sopraggiunse un coccodrillo, che ne mangiò alcuni.  Di nuovo fu data notizia al re dell’accaduto.  E il re provvedette affinché il coccodrillo fosse arpionato e catturato nell’atto d’ingoiare i pesci.  Il coccodrillo allora venne arpionato nell’atto d’ingoiare i pesci.  L’animale, sofferente per la ferita, s’allontanò però coll’arpione conficcato nella carne e poi morí. 

Alla fine di tale jātaka, particolarmente edificante, non rincorrono le consuete identificazioni.  Ivi non necessitano, poiché è evidente che il Coccodrillo (Makara) rappresenti il desiderio ingordo.  Non per nulla nell’induismo è veicolo di Kāma, alternativamente al Pesce; che è viceversa il simbolo dell’amore vero, o se vogliamo del desiderio quale forza vitale del cosmo intero. 
In un secondo Baka-j. (n°236) la consueta situazione negativa introducente il solito apologo teriomorfico del Maestro è determinata dall’ipocrisia d’un Fratello, di cui la narrazione ripercorre metaforicamente la prefigurazione  ideale.         

Questa volta il Bodhisatta aveva assunto la forma ittica in uno stagno della regione himalayana.  Un grande banco di pesci andò con lui.  Vi era, d’altra parte, una gru che voleva divorare del pesce.  L’uccellò perciò venne ad accovacciarsi preso lo stagno e stendendo le sue ali guardava assente il pesce muoversi nell’acqua, attendendo il momento giusto per intervenire.  Proprio in quell’istante arrivò sul posto il Bodhisatta, col suo banco di pesci, in cerca di cibo.  Scorte le male intenzioni dell’uccello, tosto inzaccherarono lo stagno, costringendo la gru ad allontanarsene.   

L’ipocrita ovviamente nel racconto è la gru, il banco di pesci la Fratellanza.
Per ultimo, al fine di completare il nostro discorso sul buddhismo, esaminiamo lo Harita-māta-j., composto allorché il Maestro trovavasi in un bosco di bambú non lontano da Ajāsattu (Ajāśatru).  Avendo costui assassinato suo padre Bimbisāra, la regina morì di dolore.  Ma il re del Kosala gli fece guerra.  Essendo alfine risultato vincitore del conflitto Ajāsattu, questi alzò la sua bandiera marciando in trionfo verso la capitale, ma poi fu sconfitto e tutto crollò (328).  Una volta i Fratelli ne parlarono nella Sala della Verità.  Entrato il Maestro, volle sapere di che discutevano ed, informato al riguardo, volle esporre la seguente storia. 

Una volta il Bodhisatta divenne un rospo verde.  Al tempo la gente poneva gabbie di vimini in ogni cavità o buca dei corsi d’acqua onde acchiappare pesci per mezzo di esse.  In ogni gabbia si prendevano parecchi pesci.  Un serpente d’acqua, attratto dai pesci, s’infilò dentro ad una gabbia.  Una gran quantità di pesci presto s’accumulò attorno ad esso, fino a ricoprirlo di sangue, tanto da costringerlo a scivolare fuori dalla gabbia.  E pieno di pena rimase a fior d’acqua.  Nello stesso tempo il rospo verde spiccò un salto e capitò dentro la trappola.  Non sapendo a chi rivolgersi, il Serpente si lamentò col rospo del comportamento violento dei pesci.  Il rospo replicò: –Chi la fa, l’aspetti!–  Dopodiché, vedendo la debolezza della serpe, i pesci uscirono dalla trappola e si gettarono assieme su di essa annientandola.

Ajāsattu era come il serpente, altro non si può dire.  In generale comunque, potremmo aggiungere, gli apporti buddhisti alla tematica presa in considerazione sono abbastanza scarsi; ci servono però le considerazioni elaborate su Pesci e Tartarughe quali categorie dottrinali per comprendere certi aspetti ittici del cristianesimo, come vedremo al Cap.VIII.  Non molto di piú, almeno sul piano semplicemente iconografico, è rintracciabile nel jainismo; la dottrina relativa ai Jīna, i ‘Vittoriosi’, s’intende sui sensi e le passioni umane.  Anche se la condotta non violenta (ahisā) ed il rispetto ossessionante per ogni forma di vita, piú ancora di buddhisti ed induisti, di questi asceti e dei loro discepoli ci rimanda indirettamente al comportamento umano in generale degli uomini dell’Età dell’Oro.  
Nell’iconografia jaina troviamo alcune icone legate, in un modo o nell’altro, al tema ivi trattato.  Due tīrthakara in particolare hanno il Matsya per vāhana, ovvero Pupadaṇṭa (Suvidhinātha) e Aranātha (329).  I Tīrthakara sono coloro fra i jaina che sono riusciti a svincolarsi dal Desiderio, ciò ponendoli al vertice della gerarchia spirituale.  Dopo di loro vengono gli Dei che, non essendo liberi dal Desiderio, dimorano in Paradisi di godimento.  Ed infine gli yakṣa e le yakṣiṇī, desunti dalle deità dell’induismo ridotte a ranghi minori e fungenti da attendenti dei Tīrthakara; questi ultimi non compaiono nei testi tradizionali della setta, essendo stati incorporati nel pantheon soltanto a partire dal Periodo Gupta.  Suvidhinātha è bianco, ha come albero – cui regolarmente le figure della serie si accompagnano – il Nāga od il Malla e per emblema il Delfino od il Granchio; come attendenti Ajita su Tartaruga e Sutāri, o Mahākālī, su Toro (330).  Mentre Aranātha è aureo, ha come albero il Mango, per emblema il Pesce; come yakṣa Mahendra colla Conchiglia od il Pavone e come yakṣiṇī Vijayadevī con il Loto o l’Oca (331).  Neminātha, il XXII Tīrthakara è nero e ha come emblema la Conchiglia; oltre ad avere per albero il Vakula, possiede come attendenti Gomedha o Sarvahana su Cavallo o Uomo e Ambikā o Kūmāṇḍinī su Leone (332).  Anche il Patala Yakṣa (333), questa volta rappresentato a sé stante, ha per veicolo il Delfino od il Makara; è rosso, possiede 6 braccia, è tricipite e con ogni testa sorregge un cobra.  Inoltre è uno spirito presiedente ai Nāga e tiene in mano varie armi (Loto, Spada, Laccio, Mangusta, Rosario e Frutto) per la sottosetta dei ‘Biancovestiti’, ma altre per la sottosetta asceticamente piú rigida (i ‘Vestiti-di cielo’, cioè nudi).  Il Kinnara Yakṣa (334) è egualmente rosso, ha egual numero di braccia, posiede armi varie a seconda della sottosetta; nel caso degli Śvetāmbara ha per veicolo la Tartaruga, il Pesce nel caso dei Digambara (335).  Fra le yakṣiṇī  ve ne è una che viene veicolata dal Pesce o dal Cavallo da parte śvetāmbara, ma dalla Tigre da parte digambara; essa è chiamata rispettivamente Kandarpa o Manasi, ha 4 o 6 braccia e varie armi, che come al solito dipendono dal tipo di asceti che la venerano (336).  Vi è infine un dikpāla ad aver il Delfino od il Pesce per vāhana, è Varua, domina l’Ovest e ha il Laccio per attributo (337).  In ultimo, sarà bene segnalare che pure i Sikh conoscono il loro Mahāmatsya.  In un’immagine di Patiala (capoluogo del distretto omonimo, in Pañjāb), appartenente alla coll.priv. del prof. P.Singh, si sgorgono Gurū Nānak Dev – il fondatore della religione sikh – e due suoi compagni di vita conversare col Gran Pesce nel ventre dell’Oceano, circondati da numerosi pesci piccoli (338).  La qual cosa ci fa rammentare il simbolismo induista e buddhista omologo, nonché quello cristiano, come vedremo al Cap.VIII.   

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