martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo IV






Cap.IV

La simbologia della ‘Sega’
 del Pescesega nella cultura indoegizia




a)  Il culto del ‘Rostro’ del Kombumīn
presso alcune tribú dravidiche di pescatori

C’informa Padre Heras (1) che presso gli antichi Drāvia, tra le tribú della costa dedite esclusivamente all’attività peschereccia, era in voga tempo or sono un culto di tipo betilico della ‘Sega’ del Pescesega, definito in lingua locale Kombumīn; o per meglio dire il rostro di siffatto animale sarebbe stato scelto dai pescatori tamil come preferenziale oggetto di venerazione nel loro rituale ittico, in rappresentanza del nume delle acque costiere, una terrifica deità dai contorni quasi sicuramente shivaiti.  Ed ancora, citando un poema bardico tamilico (Paṭṭinappālai, contenuto nel Pattupāṭṭu, un’antologia del XIII-IV sec.)(2) l’autore scrive che i Parava, una tribú indigena di pescatori già conosciuta a suo dire nelle iscrizioni pittografiche di Mohenjo Daro, erano soliti piantare il corno – o la lama, se preferiamo – del pescesega sulla sabbia, al centro delle loro capanne; e che essi prima di recarsi a pescare allestivano cerimonie in onore di cotale rostro, inghirlandandolo ed adorandolo, poiché in questo modo intendevano celebrare in pompa magna lo Spirito (chiamato Vala) insito nel medesimo.   



b)  Relazioni fra il Kombumīn, il Makara e la Kasatka

Questo cerimoniale dimostra, se non altro, quanto indicato nel capitolo precedente.  Cioè che il culto della <Sega> del Pescesega riecheggia nell’Asia Meridionale – vorremmo dire apertamente sostituisce – con rituali inneggianti all’Axis Mundi, nei quali la capanna domestica dei pescatori indiani svolge un ruolo essenzialmente cosmico-ontologico, il culto boreale della <Zanna> di Narvalo; cetaceo il cui dente ha, difatti, un  preciso significato polare.  In conclusione Padre Heras (3) è del parere, non senza buona ragione, che il Makara – cui nella Bhagavad Gītā Ka s’identifica  tramite la seguente allocuzione: “…Tra i pesci Io sono il Makara…” designi dal punto di vista lessicale non solo il Coccodrillo; ma soprattutto, avendo <Coda di Pesce>, il Pescecane od il Pescesega.  Secondo noi anche il Delfino, o meglio il Mostro del Mare in forma di cetaceo con denti da squalo.  In quest’ultima accezione, con riferimento simbolico al Kombumīn, dovremmo quindi  intendere la celebre frase della Gītā (x. 31) testé riferita.  D’altronde, come abbiamo già rilevato, il termine Makara – con cui è contrassegnata in sanscrito pure la Balena –  indica in India un emblema zodiacale che è l’esatto equivalente indiano del Capricorno nel mondo occidentale e vicino orientale;  vale a dire il primo Segno dell’Inverno, con cui comincia la fase ascendente del Sole e che si trova nei pressi del Delfino extra-zodiacale.  Per questo, nell’ambito annuale è proprio il Solstizio Invernale che simboleggia il Nord (assimilato al Polo Nord), in altri termini la Montagna Cosmica ovverosia l’Asse Polare; dato che la Manifestazione è contenuta, principalmente, nell’Ente che la determina.  Per la stessa motivazione la Capra-pesce greca (Αἰγόκερως)(4), o l’Antilope-pesce mesopotamica, ha quali componenti emblematiche per una metà la <Testa Antilocaprina> d’un arcaico ‘Signore della Montagna’ in funzione solare del tipo dell’indiano Bali (cfr. col Baal cananeo  od il Beli-Apollo celtico) e per altra metà la <Coda Pescina> d’un primigenio demone dell’Abisso Marino in una funzione infernale del tipo dell’χελῷος greco.  Giacché codeste 2 componenti antitetiche sono espressione d’un originario simbolismo titanico cielisolare, sia pure d’una celestialità e d’una solarità di poi demonizzate, ora si comprenderà bene quali interrelazioni culturali sussistano realmente tra il Pescesega (o Kombumīn) delle popolazioni indo-oceaniche ed il Narvalo (o Kasatka) delle genti artiche e subartiche.



c)  Ricerche sui Parava

Ma non è tutto.  Avendo fatto da parte nostra una breve ricerca riguardo i summenzionati Parava, o Paravar, ci siamo accorti che tale gruppo etnico costituiva un tempo (III-II mill. a.C.) un ceppo piuttosto ampio e ramificato della popolazione dell’India pre-vedica (5).  Esso avrebbe generato, a giudizio dell’Oppert (6), un numero assai consistente di tribú sparse nel vasto territorio indiano e di dinastie dell’India storica connesse inscindibilmente alle prime; il nome delle quali si sarebbe pian piano corrotto, parallelamente ad altre e piú decisive differenziazioni culturali.  Insomma, a tal etnia – che Tolomeo (Ptol., Tetr.- vii. 1, 70) definiva Pōroúaroi – apparterrebbero tanto i Paurava, Pārada, Pārata, Paravāra, Paramāra, Pramāra, Prahāria, Parihāra, Pariah e Parja, ed anche Brahui (= Baluci)(7), Bār, Bhār (8), Bharata, Palla, Pallar, Pallar, Palli, Pulayar, Pulinda, Puṇḍra, Pāṇḍya, Pallava, Balla, Bhalla, Bhalāna, Bhīl ed altri; quanto i Malla, Mallar, Maḷḷar, Malli, Māl, Māla, Māler, Mālair, Malaya, Malayāli, Malaka, Mallaka, Mālava, Mallava, Mālavarti, Malada, Malaja, Māra, Māri, Mār, Mhār, Mhair, Mer, Marava, Mahār, Mahāra, Makār e cosí via.  Vi sono storie leggendarie, a tal proposito, che legano immancabilmente i Pāṇḍya del Sud agli epici Pāṇḍava del Nord (9); anche altre tribú tra quelle citate (vedi Paḷḷi, Paḷḷar ecc.) si sono in modo indiretto collegati ai Panduidi per via del culto da loro praticato del Dharmarāja alias Yudhīhira, dei fratelli di costui e di Draupadī, la comune consorte di essi tutti (10).  E persino gli stessi Pariah, divenuti alfine la sottocasta schiavizzata per eccellenza (11), sembra siano stati rappresentati tempo or sono da genti con una loro propria dignità, indi andata perduta (12); poiché, essendo in seguito stata vinta dagl’invasori ari, codesta etnia sarebbe decaduta culturalmente.  Sino al punto da esser spinta ai margini del consorzio sociale come tribú indesiderata di ‘fuoricasta’, non appartenenti all’ordine tradizionale (dei vincitori, ovviamente…).



d)  Origini dei Parava

Orbene nelle tradizioi dei Parava – ai quali tutto sommato i Pariah sono in qualche maniera apparentati (13) – vi è memoria che il loro habitat originario, prima della grande e terribile guerra combattuta nella piana del Kuruketra e narrata nel Mahābhārata, si trovasse presso Ayudhya sulle rive della Yamunā (14).  La loro posteriore dimora marittima, nel Sud dell’India (distr. di Tinnevelly) e a Ceylon (sulla costa nordoccidentale), sarebbe stata raggiunta a seguito della sconfitta nella Guerra del Kuruketra, avendo essi affiancato i Kuru (15), tragicamente annientali dai Pāṇḍava.  Personalmente siamo convinti che vi fosse prima dell’epico scontro (16) un certo rapporto fra i Kuruidi e i Paleo-turi, cosí come tra i Panduidi ed una parte dei Paleo-dravidi; dal momento che i Pāṇḍu ed i correlati Pāṇḍya, costituivano una delle due ripartizioni fondamentali dei Damila o Tamil.  Ma poi a Kaliyuga piú che inoltrato (vale a dire nel I mill. a.C.) dopo la discesa degli Ārya e la lotta contro gli Anārya, è da supporre che le cose siano mutate e le due dinastie rivali dell’epico scontro abbiano finito inconsapevolmente per assumere i panni dei contendenti piú recenti.  Anche le alleanze e le controalleanze locali riflettono, necessariamente, una situazione del genere.  Circa la genealogia dei Parava si racconta, in alcuni Tantra, che codesta tribú sia discesa da donne śūdra unitesi a dei brāhmaa; ma, probabilmente, la cosa è da intendere nel senso di un’unione etnica tra i componenti di due razze elementarmente equivalenti alle due caste considerate (17).  Vale a dire, dei proto-mongoloidi si sarebbero mescolati ad un ceppo indigeno kaliyughicamente decaduto, di tipo negroide.  La risoluzione del problema non è comunque per niente facile, dal momento che fonti alternative (il Jātībēdi Nūl, opera della letteratura tamil) non concordano con il dato or ora esaminato, offrendo testimonianze diverse; assegnano cioè allo stesso ceppo etnico una discendenza di tipo vaiśya, più precisamente mercantile.  All’interno della tribú, però, vien confermata la prima versione genealogica; poiché i membri della medesima si dice affermino che i loro progenitori appartenessero alla “Razza di Varua”, in altre parole alla Razza Bianco-gialla, ovvero alla sovracasta semi-sacerdotale (18).   Il che conferma pure la nostra deduzione riguardo una possibile ascendenza proto-mongoloide, o qualcosa di simile, da parte dei Parava (19).    



e)  Tradizioni dei Parava sul Diluvio

Inaspettatamente, costoro dichiarano di essere stati generati assieme a Kārtikkeya all’epoca della lotta di Śiva contro gli Asura (20).  Essendo stati allevati assieme a tale <figlio> di Mahādeva, ed avendo avuto al pari di questi per nutrici le Kttikā (Pleiadi)(21), i  Parava asseriscono d’aver costruito un tempo  (22) un’Arca (Dhoni) onde sfuggire al Diluvio che si appressava ed alla generale distruzione che ne sarebbe  conseguita (23).   Prima del Diluvio, a nostro parere lo stesso di cui si parla nel Mahābhārata (Mausalap.,  vii. 41-3) trattando  della conclusione della Guerra del Kurukshetra e che avrebbe fatto sprofondare nell’Oceano Indiano (Mar Arabico) la terra appartenente a Ka-Vāsudeva ed ai seguaci del principe yādava (24), i Parava (Paravar, Parathar o Parathavar secondo la dizione tamil) erano un popolo molto potente il quale faceva valere le proprie conoscenze marittime e nautiche al fine di mantenere una superiorità sulle tribú limitrofe (25).
Si allude qui a delle isole occidentali menzionate nella tradizione hindu, attualmente sommerse; un tempo probabilmente dislocate nelle acque adiacenti alle coste del Gujarāt (antica sede degli Yādava) in un’area estesa circa cento leghe (yojana) all’interno del mare.  Presso di esse, narra l’epopea, era stata edificata la cittadella di Dvārakā (o Dvāravatī ); un centro munito di una massiccia fortezza circostante, che dal punto di vista militare rendeva siffatta rocca praticamente imprendibile dal continente.  Tanto che questa era diventata la capitale d’un regno insulare, ove si tramanda risiedesse Śrī Ka (26).



f)  Il “Re dei Pescatori” come Re dei Parava

Non bisogna scordare d’altronde la parziale origine brahmanica, per linea paterna, di tal etnia.  Nella leggenda del Re Pescatore (il Dāśarāja) e della <Figlia> (Satyavatī), analizzata nella parte iniziale di cotesto nostro scritto, è il primo dei due succitati personaggi che copre un ruolo brahmanico confacente alla genealogia storica della tribú in questione; mentre l’avvenente fanciulla, colà nella mansione assai modesta di traghettatrice, svolge per contro un mestiere inferiore e subordinato.  Era infatti costume tribale tra i Parava, parrebbe, che le femmine si occupassero del traghettamento dei passeggeri fra le rive opposte della Yamunā (27). 
Trattavasi, peraltro, di un lavoro mercantile che piú tardi decadde d’importanza e fu ridotto ad un rango servile.  Ciò equivale, esattamente, a quanto viene dichiarato in maniera esplicita riguardo la provenienza castale della capostipite materna della tribú.
Facciamo notare ancora che il Chitty descriveva il “Re dei Pescatori” come “the King of the Parawas” (28), anziché appunto come il Dāśarāja.  Non sappiamo bene a quale edizione del Mahābhārata, o tradizione orale, facesse riferimento onde motivare la sua affermazione; ma immaginiamo che il vecchio articolista debba sicuramente aver avuto i suoi buoni motivi per voler affibbiare al personaggio indicato codesta attribuzione, visto che il termine dāsa/dāśa (29) – non meno della voce niāda (30) – ha assunto per l’appunto in sanscrito il significato di ‘pescatore’.



g)  Il trasferimento del Mahāmatsya
dal “Mare del Nord” al “Mare del Sud”,
secondo un testo vernacolare tamilico

Ebbene, sempre a proposito dei Parava, il Chitty (31) racconta una curiosa storia; che, come si vedrà in un testo successivo (32) trattando dei collegamenti culturali tra la simbologia del Narvalo e quella di altre specie oceaniche cornute (Pescespada, Pescesega) o meno (Balena, Pescecane, Delfino), avrà addirittura un’importanza determinante nel permetterci di collocare nella giusta prospettiva cosmografica il simbolismo generale del Pesce.  Narra la vicenda riportata in un upapurāṇa tamil, il Valēvīsū Purāṇa (forse la versione vernacolare d’un testo classico, od altro, non sapremmo ben dire), che Pārvatī e Kārttikeya avevano una volta col loro comportamento offeso Mahādeva essendosi lasciati sfuggire il segreto di alcuni ineffabili misteri.  Essi perciò erano stati costretti ad abbandonare le sedi superne e a scender giú nel mondo degli uomini, coll’obbligo di passare attraverso numerose rinascite prima di poter essere finalmente riammessi alla presenza divina; ma dietro supplica di Pārvatī la punizione era stata loro ridotta, sicché le due figure divine erano alfine state entrambe sottoposte ad una sola trasmigrazione.  Ora siccome a quel tempo il Re dei Parava, certo Tryambaca (lett. ‘Triocchiuto’, epiteto di Śiva) e la sua consorte Varua-Valli (lett. ‘Cielo-Terra) solevano praticare l’ascesi (tapas) al fine di ottenere in grazia del Cielo della prole, ecco che la dea decise d’incarnarsi quale loro figlia; mentre il figlio di lei, essendosi trasformato in pesce, rimase per qualche tempo nel “Mare del Nord” (33).  Indi si diresse verso il “Mare del Sud” (34), dove, essendo cresciuto enormemente di grandezza (35), cominciò a vessare le imbarcazioni dei marinai parava disturbando enormemente i loro commerci.  Avendo fatto il re pubblica dichiarazione che chiunque avesse avuto il coraggio di catturare quel ‘Grande Pesce’ (cfr. col Mahāmatsya dei mahāpurāṇa sanscriti) avrebbe avuto quale ricompensa la mano della Principessa, Mahādeva, assunto l’aspetto di un comune pescatore della tribú dei Parava, aveva finito per acchiappare il grosso animale, tornando cosí a riunirsi colla sua celeste paredra.  Coomaraswamy inserisce una diversa versione della leggenda, putroppo senza segnalarne la fonte, in un proprio libro di mitografia induista e buddhista (36); che, ovviamente, è da interpretare esotericamente non meno della precedente.  La storia ivi descritta varia rispetto all’altra in alcuni particolari.  Ovvero il motivo della maledizione di Śiva nei confronti della sua consorte e del conseguente allontanamento della dea dal dio diventa la disattenzione di costei verso gl’insegnamenti yogici da lui impartiti.  Tormentato però dal desiderio della sublime sposa, il dio invita il proprio alter-ego Nandi ad assumere la forma di un terribile squalo per spezzare le reti dei pescatori e far naufragare in tal modo le loro barche.  Pārvatī viene trovata intanto sulla spiaggia dal <Re Pescatore> (37) ed è adottata da costui come <Figlia>.  Tutti i <Pescatori>, naturalmente, vorrebbero <sposarla>.  Ma, nel frattempo il Pescecane diviene sempre piú fastidioso e pericoloso per l’incolumità dei <Naviganti>.  Infine, col consuto stratagemma della donazione della <Figlia> in isposa al piú prode tra coloro chesi contendono la mano della Principessa, Maheśa presentatosi in veste di pescatore proveniente da Madurai riesce a catturare lo Squalo, riconquistando la sua beneamata, per tornare cosí soddisgatto al Kailāsa.  Nessuna delle due storie ci spiega che fine abbiano fatto i due grossi pesci catturati e annientati, ma è intuibile che una volta sacrificati siano tornati alle loro sedi celesti come Kārtikeya e Nandi.  Dal che tuttavia possiamo dedurre, indirettamente, che anche il figlio e il veicolo di Śiva possano assumere talora veste pescina.     



h)  Confronti fra VaruaN-Varua e Vālāḷ-Vala

Riguardo lo Squalo il Basham (38) asserisce in altro contesto che i pescatori tamil hanno venerato a lungo una divinità oceanica, definita VaruaN [la consonante finale è trascritta anche sottolineata oppure con doppio punto diacritico, a significare una fortissima cerebralizzazione] ed avente per emblema il cd. ‘Corno di Pescecane’.  Abbiamo l’impressione che, nel caso indicato, il Corno (o Dente?) di Pesececane sia una sostituzione  piuttosto inadeguata del Rostro del Pescesega,  già da noi menzionato in riferimento ad un assunto di Padre Heras.  Subito di seguito, il Basham (39)  aggiunge che Varua è il nome ario d’una deità anaria; sennonché è opportuno a questo punto rammentare che l’essere demonico in precedenza descritto, inerente alla Sega del Pescesega e denominato Vālāḷ, apparteneva alla sfera sacrale dei Parava.  Proprio quei Parava che, stando al Chitty, discenderebbero da Varua; il che proverebbe, indirettamente, la reale e sostanziale identità fra VaruaN e Vālāḷ (40). 


A tal punto dobbiamo fare per inciso una comparazione, fra Vala/ Bala e Vali(n)/ Bali(n).  A nostro parere, costoro stanno al sumenzionato Vālāḷ come Varua a VaruaN.  Infatti Vala viene considerato un condottiero asura, a capo dei Paṇi (41), ma altri lo danno come figlio di Varua e di Devī (42).  Bala è solo una diversa trascrizione del nome.  Sono lo stesso personaggio?  Certamente, e non solo per la comune appartenenza alla categoria asurica, ma per il ruolo di capo.  Vi è sempre un parallelo fra generazioni umane e generazioni divine.  Varuna, difatti, è il capo degli Asura (43) e gli Asura sono deità anarie (44).  Non importa che egli sia divenuto una delle piú importanti divinità vediche, sottraendo il posto dominante cosí a Dyaus Pitar.  Cfr. Urano e (Padre) Zeus in Grecia per un corretto rapporto fra il ruolo di queste due divinità celesti.  In Asia, sia presso gl’Iranici che gl’Indiani, ha preso piede il culto di deità spurie, di sicuro perché le invasioni che hanno portato gli Ari al potere militarmente non erano di grandi dimensioni.  Diversamente da quanto si vuol far credere sia da parte accademica (per motivi neo-coloniali) che non-accademica (vedi esoterismo deviato, dello stampo di quello degl’Illuminati).  Anche nel Nordeuropa deve essere capitato qualcosa di simile, visto che gli Aesir hanno pigliato il posto dei Vanir nell’Olimpo germanico, una volta che i cultori di Odino hanno lasciato la terra di Asía.  Cfr. cogli Ahura iranici, fr i quali Ahura Mazdā è il supremo.   Orbene, se vi è un altro nume che può essere ricondotto alla stessa matrice, questi è Vali (chiamato anche Vala); uno dei nomi vari dell’avversario di Indra (altri sono Vtra, Namuci, Viśvarūpa), col compito di nascondere le ‘Vacche’ in una grotta (45), tardivamente addivenuto un fratello di Vtra.
Con ciò il quadro sin qui tracciato risulta alfine completo, poiché l’attribuzione ai pescatori tamil del suddetto ‘Corno’ – sia esso di Pescecane o di Pescesega, poco importa la distinzione – collega adesso cotal oggetto di numinosa venerazione non piú ad un generico nume indigeno, bensí ad un omologo tamilico del Varua rigvedico (46); personaggio che difatti avevamo visto al Cap.I costituire invero una variante vedica della figura del Re Pescatore epico (supposto identico a Manu Satyavrata, di cui tuttavia il Mahābhārata non menziona il nome), quindi del padre putativo di Satyavatī (47).  Da quanto affermato sopra si deduce manifestamente che lo Śiva indiano, considerando le varianti del nume in forme analoghe a quelle del Re Pescatore (Varua, Vala, Tryambaka, Matsyendranātha) o di Pesce (Skanda, Nandi, VaruaN, Vālāḷ, Mīnanātha), non meno del Mīn egizio associa talora alla simbologia fallica sia il ‘Corno Pescino’ (contraltare ittiomorfico dell’Unicorno cervino-antilocaprino od antropomorfico) sia la ‘Coda Pescina’ (equivalente anch’essa dell’Unipede cervino-antilocaprino od antropomorfico).



i)  L’Ajaikapāda hindu, corrispettivo dell’Aigipán ellenico

Per concludere il discorso tralasciato sul dio Pan alla fine del capitolo precedente, dopo l’opportuna riflessione sui Parava ed il culto del Pescesega, occorre aggiungere che per quanto riguarda cotale nume è rintracciabile una sorta di <Terzo Corno> – o di <Corno Unico>,  se proprio si vuole – non precisamente sul capo di costui; bensí piú occultamente nel Corno Spiralico… fatto vibrare all’improvviso da parte di codesta divinità nel bel mezzo delle selve ed incutente, in colui che avesse avuto l’avventura di udirlo, il famoso e reverenziale “timor panico”.  In quanto poi a fallicità, il greco Pan non è certo da meno rispetto al Fauno latino ed allo Śiva hindu; anzi ne possiede senza dubbio oltremisura, in ciò rispecchiando del resto una predisposizione orgiastica tipica di tutti i ‘Signori degli Animali’ preistorici, peculiarmente quelli d’origine neolitica.  Cfr. in ambito indiano sia col Pāśupati vedico, sia col doppione pre-vedico di questi; quantunque il primo sia noto in prevalenza tramite l’iconografia letteraria ed, il secondo, unicamente attraverso le immagini della glittica e delle incisioni rupestri di epoca tardo-neolitica e calcolitica (48).  Sicché, in definitiva, è lecito ritenere che vi fosse un tempo in area indomediterranea un Tripada di valore solstiziale-zenitale svolgente il medesimo ruolo del Treppiede apollineo (49), a cui contrapponevansi complementariamente dal punto di vista iconologico tanto l’Ajaikapāt hindu quanto l’Egipan ellenico, con riferimento solstiziale-antizenitale.  Nell’Asia Centro-meridionale, precisamente nelle zone della Scizia Orientale (abitata dalle tribú di Saci e Massageti)(50), sono stati rinvenuti in effetti degli interessantissimi Tripodi d’incerta datazione; ma risalenti in ogni caso, crediamo, al I mill. av. l’E.V. (51).  In essi ciascuno dei Tre Piedi, sorreggenti un cratere sacrificale, è plasmato con un ornamento assai particolare; i loro assi sono foggiati in tal guisa da terminare alle loro estremità, superiore ed inferiore, con una Testa ed una Gamba di Capra Selvatica.  La qual cosa dimostra fondata e veridica, fra l’altro, la nostra precedente comparazione tra il Tripode delfico ed i ‘Passi’ di Trivikrama; poiché è indiscutibile che il triplo asse testa-zampa, appena descritto, abbia valenze solstiziali-zenitali.  Da tutto ciò si deduce che in origine i riferimenti cosmologici del mito dei ‘Passi’ erano indubbiamente di carattere venatorio, dato che il motivo delle ‘Orme’ risulta correlato ai Cervidi od agli Antilocapridi. 



l)  Le immagini di Pan, Amaltea ed Acheloo:
filiazioni varie di un’arcaicissima divinità uranico-solare
di carattere ittico-oceanico ed ofidico-fluviale

Sul ruolo solstiziale-antimeridiano dell’animale caprino nella mitologia greca vedi pure Amaltea, la Capra Unicorne nutrice di Zeus e di Pan, discesa giustappunto dal titano Elio (o, secondo altri, da Oceano).  Il Corno Unico di Amaltea possiede una variante nella Cornucopia, consistente in base al mito nel ‘Secondo Corno’, spezzato, della capra-naiade.  Siffatta doppia natura unicorne di Amaltea, associata leggendariamente al Caper zodiacale, mostra che la Coda Pescina di tale emblema è pure la Coda di Amaltea; dal momento che, come abbiamo già stabilito nella parte finale del precedente capitolo, unicornia ed unipedia vanno quasi sempre di pari passo dal punto di vista iconologico.  Il che accade anche nella tradizione induista (52).  Tanto piú che la Cornucopia di Amaltea viene equiparata dal mito stesso a quella proveniente da Acheloo, il nume fluviale trsformatosi in Toro ed in Serpe; per allusione – immaginiamo – all’asterismo extrazodiacale del Serpente, appaiato allo Scorpione ed in opposizione al Toro Celeste.  Ecco la ragione onde  il figlio di Oceano (cui è assimilabile al dire del Fontenrose) e di Teti, è effigiato nell’agone con Eracle con Testa Taurina e Coda Ofidica.  Acheloo nell’agone ha un corno divelto dall’Eroe (53), donde proviene in alternativa il Corno dell’Abbondanza.  Analogamente alla sorella Amaltea, Acheloo risulta dunque doppiamente unicorne, non meno della capra-naiade.  Nell’iconografia però la coda del nume fluviale è nel contempo ofidiomorfica e ittiomorfica, per via del carattere titanico o titanizzato di costui (54).  Ciò, ad ogni modo, conferma la validità del nostro accostamento tra Acheloo, Amaltea e la Capra-pesce astrale.    



l)  Parentele tematiche (vide Cornucopia)
tra l’Ajaikapāda hindu e l’ Amaltheía greca

L’Ajaikapāda hindu, s’è visto in precedenza (55), assolve un compito preminentemente polare; ma tale compito corrisponde, nel contempo, ad una funzione solstiziale-antizenitale (56), secondo quanto abbiamo già suggerito.  Vide supra.  Iconograficamente l’Aja Ekapādamūrti è piuttosto rara, a differenza della semplice Ekapādamūrti, reperibile viceversa in numerosi esempi, che non staremo qui ad analizzare.  Segnaliamo solo il fatto che la seconda icona mostra in genere caratteri terrifici, i quali l’avvicinano alla raffigurazione di Bhairava; mentre la prima presenta tratti benefici che l’apparentano strutturalmente alla figura greca di Egipan o, per certi versi, della stessa Amaltea.  Un’immagine di Ajaikapāda rinvenuta a Rang Mahal, in una serie di terrecotte gupta (57), ritrae codesta incarnazione asurica con corna caprine, il fallo eretto ed una zampa elefantina.  Oltre a questi tratti salienti s’intravedono un Vaso Ripieno (Pūrakumbha), ricolmo di frutta, ch’egli regge nella destra; ed il Sacro Cordone (Yajñopavīta), indossato trasversalmente alla maniera dei Brāhmaa, su imitazione della Cintura di Orione (Mgaśiras).  Il primo oggetto simbolico da noi elencato equivale a un Nidhiśṛṅga, coè ad una Cornucopia; ciò che apparenta il nume indiano a Pan (o a Fauno) e ad Amaltea, essendo pure costoro associati iconologicamente in qualche modo al ‘Corno dell’Abbondanza’.  In altre parole l’Ajaikapāda con Vaso Ripieno, Fallo Eretto e Zampa Elefantina deve essere reputato una variante dello Shiva Unicorne, Itifallico ed Unipede analizzato piú addietro ed equiparato al Pán ellenico od al Mīn egizio.  Inoltre, la Testa Caprina e il Sacro Cinto ne ricordano la natura di antilocapride, che va a coincidere con quella cervina di Mahādeva.  Circa il secondo oggetto, di cui sopra, è chiaro che questo allude al mistero dello Yajña. “Chiamato lo splendente, Egli che mediante un Oscuro Piede (Asitapāda) trattiene l’acqua nel cielo, rimandando l’acqua colle piogge nella stagione piovosa.  Cosa può esserci piú meraviglioso di questo?”  Il locus testé citato, segnalatoci dal Przyluski e dal Dumont (58), è una chiara allusione al ‘Passo Invernale’ del Sole; dunque sarebbe maggiormente opportuno tradurre l’Asitapāda come il <Passo Oscuro> piuttosto che il <Piede Oscuro>., onde rendere l’espressione piú efficace.
In ultimo rileviamo l’esistenza nel Tamil Nāḍu (59), precisamente nel Tempio sulla spiaggia di Mahābalipuram, d’un Ajaikapādatrimūrti dell’VIII sec. d.C. (60); che fa pendant, all’interno della medesima regione, con altri due ritratti dello stesso soggetto dell’Ajaikapāda – non sapremmo dire se nella forma trimorfica od in quella singola – risalenti all’XI e al XII sec. d.C. (61).

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