Cap.IV
La simbologia
della ‘Sega’
del Pescesega nella cultura indoegizia
a) Il culto del ‘Rostro’ del Kombumīn
presso alcune tribú dravidiche di pescatori
C’informa Padre Heras (1) che presso gli antichi Drāviḍa,
tra le tribú della costa dedite esclusivamente all’attività peschereccia, era
in voga tempo or sono un culto di tipo betilico della ‘Sega’ del Pescesega,
definito in lingua locale Kombumīn; o per meglio
dire il rostro di siffatto animale sarebbe stato scelto dai pescatori tamil
come preferenziale oggetto di venerazione nel loro rituale ittico, in
rappresentanza del nume delle acque costiere, una terrifica deità dai contorni
quasi sicuramente shivaiti. Ed ancora,
citando un poema bardico tamilico (Paṭṭinappālai, contenuto
nel Pattupāṭṭu, un’antologia del XIII-IV sec.)(2) l’autore scrive che i Parava, una
tribú indigena di pescatori già conosciuta a suo dire nelle iscrizioni
pittografiche di Mohenjo Daro, erano
soliti piantare il corno – o la lama, se preferiamo – del pescesega sulla
sabbia, al centro delle loro capanne; e che essi prima di recarsi a pescare
allestivano cerimonie in onore di cotale rostro, inghirlandandolo ed
adorandolo, poiché in questo modo intendevano celebrare in pompa magna lo
Spirito (chiamato Valaḷ) insito nel
medesimo.
b) Relazioni fra il Kombumīn,
il Makara e la Kasatka
Questo cerimoniale dimostra, se
non altro, quanto indicato nel capitolo precedente. Cioè che il culto della <Sega> del
Pescesega riecheggia nell’Asia Meridionale – vorremmo dire apertamente sostituisce – con rituali inneggianti
all’Axis Mundi, nei quali la capanna
domestica dei pescatori indiani svolge un ruolo essenzialmente
cosmico-ontologico, il culto boreale della <Zanna> di Narvalo; cetaceo il
cui dente ha, difatti, un preciso
significato polare. In conclusione Padre
Heras (3) è del parere, non senza
buona ragione, che il Makara – cui
nella Bhagavad Gītā Kṛṣṇa
s’identifica tramite la seguente
allocuzione: “…Tra i pesci Io sono il Makara…”
designi dal punto di vista lessicale non solo il Coccodrillo; ma soprattutto,
avendo <Coda di Pesce>, il Pescecane od il Pescesega. Secondo noi anche il Delfino, o meglio il
Mostro del Mare in forma di cetaceo con denti da squalo. In quest’ultima accezione, con riferimento
simbolico al Kombumīn, dovremmo
quindi intendere la celebre frase della Gītā
(x. 31) testé riferita. D’altronde,
come abbiamo già rilevato, il termine Makara
– con cui è contrassegnata in sanscrito pure la Balena – indica in India un emblema zodiacale che è
l’esatto equivalente indiano del Capricorno nel mondo occidentale e vicino
orientale; vale a dire il primo Segno
dell’Inverno, con cui comincia la fase ascendente del Sole e che si trova nei
pressi del Delfino extra-zodiacale. Per
questo, nell’ambito annuale è proprio il Solstizio Invernale che simboleggia il
Nord (assimilato al Polo Nord), in altri termini la Montagna Cosmica ovverosia
l’Asse Polare; dato che la Manifestazione è contenuta, principalmente,
nell’Ente che la determina. Per la
stessa motivazione la Capra-pesce greca (Αἰγόκερως)(4), o l’Antilope-pesce mesopotamica, ha quali componenti
emblematiche per una metà la <Testa Antilocaprina> d’un arcaico ‘Signore
della Montagna’ in funzione solare del tipo dell’indiano Bali (cfr. col Baal
cananeo od il Beli-Apollo celtico) e per altra metà la <Coda Pescina> d’un
primigenio demone dell’Abisso Marino in una funzione infernale del tipo dell’ Ἀχελῷος greco. Giacché codeste 2 componenti antitetiche sono
espressione d’un originario simbolismo titanico cielisolare, sia pure d’una
celestialità e d’una solarità di poi demonizzate, ora si comprenderà bene quali
interrelazioni culturali sussistano realmente tra il Pescesega (o Kombumīn) delle popolazioni indo-oceaniche ed
il Narvalo (o Kasatka) delle genti
artiche e subartiche.
c)
Ricerche sui Parava
Ma non è tutto. Avendo fatto da parte nostra una breve
ricerca riguardo i summenzionati Parava,
o Paravar, ci siamo accorti che tale
gruppo etnico costituiva un tempo (III-II mill. a.C.) un ceppo piuttosto ampio
e ramificato della popolazione dell’India pre-vedica (5). Esso avrebbe generato,
a giudizio dell’Oppert (6), un
numero assai consistente di tribú sparse nel vasto territorio indiano e di
dinastie dell’India storica connesse inscindibilmente alle prime; il nome delle
quali si sarebbe pian piano corrotto, parallelamente ad altre e piú decisive
differenziazioni culturali. Insomma, a
tal etnia – che Tolomeo (Ptol., Tetr.-
vii. 1, 70) definiva Pōroúaroi –
apparterrebbero tanto i Paurava, Pārada, Pārata, Paravāra, Paramāra, Pramāra, Prahāria, Parihāra, Pariah e Parja,
ed anche Brahui (= Baluci)(7), Bār, Bhār (8), Bharata, Palla, Pallar, Pallar, Palli,
Pulayar, Pulinda, Puṇḍra,
Pāṇḍya,
Pallava, Balla, Bhalla, Bhalāna, Bhīl
ed altri; quanto i Malla, Mallar, Maḷḷar, Malli, Māl, Māla, Māler, Mālair, Malaya, Malayāli, Malaka,
Mallaka, Mālava,
Mallava, Mālavarti,
Malada, Malaja, Māra,
Māri, Mār, Mhār, Mhair, Mer,
Marava, Mahār,
Mahāra, Makār e cosí via. Vi
sono storie leggendarie, a tal proposito, che legano immancabilmente i Pāṇḍya del Sud agli epici Pāṇḍava del Nord (9); anche altre tribú tra quelle
citate (vedi Paḷḷi, Paḷḷar ecc.) si sono in modo indiretto
collegati ai Panduidi per via del culto da loro praticato del Dharmarāja alias Yudhīṣṭhira,
dei fratelli di costui e di Draupadī, la comune
consorte di essi tutti (10). E persino gli stessi Pariah, divenuti alfine la sottocasta schiavizzata per eccellenza (11), sembra siano stati rappresentati
tempo or sono da genti con una loro propria dignità, indi andata perduta (12); poiché, essendo in seguito stata
vinta dagl’invasori ari, codesta etnia sarebbe decaduta culturalmente. Sino al punto da esser spinta ai margini del
consorzio sociale come tribú indesiderata di ‘fuoricasta’, non appartenenti
all’ordine tradizionale (dei vincitori, ovviamente…).
d)
Origini dei Parava
Orbene nelle tradizioi dei Parava – ai quali tutto sommato i Pariah sono in qualche maniera
apparentati (13) – vi è memoria che
il loro habitat originario, prima della grande e terribile guerra combattuta
nella piana del Kurukṣetra
e narrata nel Mahābhārata, si trovasse presso Ayudhya sulle rive della Yamunā (14). La loro posteriore dimora marittima, nel Sud
dell’India (distr. di Tinnevelly) e a Ceylon (sulla costa nordoccidentale),
sarebbe stata raggiunta a seguito della sconfitta nella Guerra del Kurukṣetra, avendo essi
affiancato i Kuru (15), tragicamente annientali dai Pāṇḍava. Personalmente
siamo convinti che vi fosse prima dell’epico scontro (16) un certo rapporto fra i Kuruidi e i Paleo-turi, cosí come tra
i Panduidi ed una parte dei Paleo-dravidi; dal momento che i Pāṇḍu ed i correlati Pāṇḍya,
costituivano una delle due ripartizioni fondamentali dei Damila o Tamil. Ma poi a Kaliyuga
piú che inoltrato (vale a dire nel I mill. a.C.) dopo la discesa degli Ārya
e la lotta contro gli Anārya, è da
supporre che le cose siano mutate e le due dinastie rivali dell’epico scontro
abbiano finito inconsapevolmente per assumere i panni dei contendenti piú
recenti. Anche le alleanze e le
controalleanze locali riflettono, necessariamente, una situazione del genere. Circa la genealogia dei Parava si racconta, in alcuni Tantra,
che codesta tribú sia discesa da donne śūdra unitesi a dei brāhmaṇa; ma,
probabilmente, la cosa è da intendere nel senso di un’unione etnica tra i
componenti di due razze elementarmente equivalenti alle due caste considerate (17).
Vale a dire, dei proto-mongoloidi si sarebbero mescolati ad un ceppo
indigeno kaliyughicamente decaduto, di tipo negroide. La risoluzione del problema non è comunque
per niente facile, dal momento che fonti alternative (il Jātībēdi Nūl, opera della
letteratura tamil) non concordano con il dato or ora esaminato, offrendo
testimonianze diverse; assegnano cioè allo stesso ceppo etnico una discendenza
di tipo vaiśya, più precisamente mercantile. All’interno della tribú, però, vien
confermata la prima versione genealogica; poiché i membri della medesima si
dice affermino che i loro progenitori appartenessero alla “Razza di Varuṇa”, in altre parole alla Razza
Bianco-gialla, ovvero alla sovracasta semi-sacerdotale (18). Il che conferma pure
la nostra deduzione riguardo una possibile ascendenza proto-mongoloide, o
qualcosa di simile, da parte dei Parava
(19).
e)
Tradizioni dei Parava sul Diluvio
Inaspettatamente, costoro
dichiarano di essere stati generati assieme a Kārtikkeya
all’epoca della lotta di Śiva
contro gli Asura (20). Essendo stati allevati
assieme a tale <figlio> di Mahādeva, ed avendo
avuto al pari di questi per nutrici le Kṛttikā (Pleiadi)(21), i
Parava asseriscono d’aver
costruito un tempo (22) un’Arca (Dhoni) onde
sfuggire al Diluvio che si appressava ed alla generale distruzione che ne
sarebbe conseguita (23). Prima del Diluvio, a
nostro parere lo stesso di cui si parla nel Mahābhārata (Mausalap., vii. 41-3) trattando della conclusione della Guerra del
Kurukshetra e che avrebbe fatto sprofondare nell’Oceano Indiano (Mar Arabico)
la terra appartenente a Kṛṣṇa-Vāsudeva ed ai
seguaci del principe yādava (24), i Parava (Paravar, Parathar o Parathavar secondo la dizione tamil) erano un popolo molto potente
il quale faceva valere le proprie conoscenze marittime e nautiche al fine di
mantenere una superiorità sulle tribú limitrofe (25).
Si allude qui a delle isole
occidentali menzionate nella tradizione hindu, attualmente sommerse; un tempo
probabilmente dislocate nelle acque adiacenti alle coste del Gujarāt (antica sede degli Yādava) in un’area estesa circa cento leghe (yojana) all’interno del mare. Presso di esse, narra l’epopea, era stata
edificata la cittadella di Dvārakā (o Dvāravatī
); un centro munito di una massiccia fortezza circostante, che dal punto di
vista militare rendeva siffatta rocca praticamente imprendibile dal
continente. Tanto che questa era
diventata la capitale d’un regno insulare, ove si tramanda risiedesse Śrī Kṛṣṇa
(26).
f) Il “Re dei Pescatori” come Re dei Parava
Non bisogna scordare d’altronde
la parziale origine brahmanica, per linea paterna, di tal etnia. Nella leggenda del Re Pescatore (il Dāśarāja) e della
<Figlia> (Satyavatī), analizzata
nella parte iniziale di cotesto nostro scritto, è il primo dei due succitati
personaggi che copre un ruolo brahmanico confacente alla genealogia storica
della tribú in questione; mentre l’avvenente fanciulla, colà nella mansione
assai modesta di traghettatrice, svolge per contro un mestiere inferiore e
subordinato. Era infatti costume tribale
tra i Parava, parrebbe, che le femmine si occupassero del traghettamento dei
passeggeri fra le rive opposte della Yamunā (27).
Trattavasi, peraltro, di un
lavoro mercantile che piú tardi decadde d’importanza e fu ridotto ad un rango
servile. Ciò equivale, esattamente, a
quanto viene dichiarato in maniera esplicita riguardo la provenienza castale
della capostipite materna della tribú.
Facciamo notare ancora che il
Chitty descriveva il “Re dei Pescatori” come “the King of the Parawas” (28), anziché appunto come il Dāśarāja. Non sappiamo bene a quale edizione del Mahābhārata,
o tradizione orale, facesse riferimento onde motivare la sua affermazione; ma
immaginiamo che il vecchio articolista debba sicuramente aver avuto i suoi
buoni motivi per voler affibbiare al personaggio indicato codesta attribuzione,
visto che il termine dāsa/dāśa (29) – non meno della voce niṣāda
(30) – ha assunto per l’appunto in
sanscrito il significato di ‘pescatore’.
g) Il
trasferimento del Mahāmatsya
dal
“Mare del Nord” al “Mare del Sud”,
secondo
un testo vernacolare tamilico
Ebbene, sempre a proposito dei Parava, il Chitty (31) racconta una curiosa storia; che, come si vedrà in un testo
successivo (32) trattando dei
collegamenti culturali tra la simbologia del Narvalo e quella di altre specie
oceaniche cornute (Pescespada, Pescesega) o meno (Balena, Pescecane, Delfino),
avrà addirittura un’importanza determinante nel permetterci di collocare nella
giusta prospettiva cosmografica il simbolismo generale del Pesce. Narra la vicenda riportata in un upapurāṇa tamil, il Valēvīsū Purāṇa (forse la
versione vernacolare d’un testo classico, od altro, non sapremmo ben dire), che
Pārvatī e Kārttikeya
avevano una volta col loro comportamento offeso Mahādeva
essendosi lasciati sfuggire il segreto di alcuni ineffabili misteri. Essi perciò erano stati costretti ad
abbandonare le sedi superne e a scender giú
nel mondo degli uomini, coll’obbligo di passare attraverso numerose rinascite
prima di poter essere finalmente riammessi alla presenza divina; ma dietro
supplica di Pārvatī la punizione era stata loro ridotta,
sicché le due figure divine erano alfine state entrambe sottoposte ad una sola
trasmigrazione. Ora siccome a quel tempo
il Re dei Parava, certo Tryambaca (lett. ‘Triocchiuto’, epiteto
di Śiva) e la sua consorte Varuṇa-Valli (lett. ‘Cielo-Terra) solevano
praticare l’ascesi (tapas) al fine di
ottenere in grazia del Cielo della prole, ecco che la dea decise d’incarnarsi
quale loro figlia; mentre il figlio di lei, essendosi trasformato in pesce,
rimase per qualche tempo nel “Mare del Nord” (33). Indi si diresse verso
il “Mare del Sud” (34), dove,
essendo cresciuto enormemente di grandezza (35),
cominciò a vessare le imbarcazioni dei marinai parava disturbando enormemente i loro commerci. Avendo fatto il re pubblica dichiarazione che
chiunque avesse avuto il coraggio di catturare quel ‘Grande Pesce’ (cfr. col Mahāmatsya dei mahāpurāṇa sanscriti)
avrebbe avuto quale ricompensa la mano della Principessa, Mahādeva,
assunto l’aspetto di un comune pescatore della tribú dei Parava, aveva
finito per acchiappare il grosso animale, tornando cosí a riunirsi colla sua celeste paredra. Coomaraswamy inserisce una diversa versione
della leggenda, putroppo senza segnalarne la fonte, in un proprio libro di
mitografia induista e buddhista (36);
che, ovviamente, è da interpretare esotericamente non meno della
precedente. La storia ivi descritta
varia rispetto all’altra in alcuni particolari.
Ovvero il motivo della maledizione di Śiva nei confronti della sua consorte e del conseguente
allontanamento della dea dal dio diventa la disattenzione di costei verso
gl’insegnamenti yogici da lui impartiti.
Tormentato però dal desiderio della sublime sposa, il dio invita il
proprio alter-ego Nandi ad assumere
la forma di un terribile squalo per spezzare le reti dei pescatori e far
naufragare in tal modo le loro barche. Pārvatī
viene trovata intanto sulla spiaggia dal <Re Pescatore> (37) ed è adottata da costui come
<Figlia>. Tutti i
<Pescatori>, naturalmente, vorrebbero <sposarla>. Ma, nel frattempo il Pescecane diviene sempre
piú fastidioso e pericoloso per
l’incolumità dei <Naviganti>.
Infine, col consuto stratagemma della donazione della <Figlia> in
isposa al piú prode tra coloro chesi
contendono la mano della Principessa, Maheśa presentatosi in veste di
pescatore proveniente da Madurai riesce a catturare lo Squalo, riconquistando
la sua beneamata, per tornare cosí soddisgatto
al Kailāsa.
Nessuna delle due storie ci spiega che fine abbiano fatto i due grossi
pesci catturati e annientati, ma è intuibile che una volta sacrificati siano
tornati alle loro sedi celesti come Kārtikeya e Nandi.
Dal che tuttavia possiamo dedurre, indirettamente, che anche il figlio e
il veicolo di Śiva possano
assumere talora veste pescina.
h) Confronti fra VaruṇaN-Varuṇa e Vālāḷ-Vala
Riguardo lo Squalo il Basham (38) asserisce in altro contesto che i
pescatori tamil hanno venerato a lungo una divinità oceanica, definita VaruṇaN [la consonante finale è trascritta
anche sottolineata oppure con doppio punto diacritico, a significare una
fortissima cerebralizzazione] ed avente per emblema il cd. ‘Corno di
Pescecane’. Abbiamo l’impressione che,
nel caso indicato, il Corno (o Dente?) di Pesececane sia una sostituzione piuttosto inadeguata del Rostro del
Pescesega, già da noi menzionato in
riferimento ad un assunto di Padre Heras.
Subito di seguito, il Basham (39) aggiunge che Varuṇa
è il nome ario d’una deità anaria; sennonché è opportuno a questo punto
rammentare che l’essere demonico in precedenza descritto, inerente alla Sega
del Pescesega e denominato Vālāḷ, apparteneva
alla sfera sacrale dei Parava. Proprio quei Parava che, stando al Chitty, discenderebbero da Varuṇa; il che proverebbe, indirettamente,
la reale e sostanziale identità fra VaruṇaN e Vālāḷ (40).
A tal punto dobbiamo fare per
inciso una comparazione, fra Vala/ Bala e Vali(n)/ Bali(n). A nostro parere, costoro stanno al
sumenzionato Vālāḷ come Varuṇa a VaruṇaN.
Infatti Vala viene considerato
un condottiero asura, a capo dei Paṇi (41), ma altri lo danno come figlio
di Varuṇa e di Devī (42). Bala è solo una diversa trascrizione del nome. Sono lo stesso personaggio? Certamente, e non solo per la comune
appartenenza alla categoria asurica, ma per il ruolo di capo. Vi è sempre un parallelo fra generazioni
umane e generazioni divine. Varuna, difatti, è il capo degli Asura (43) e gli Asura sono deità anarie (44).
Non importa che egli sia divenuto una delle piú importanti divinità vediche, sottraendo il posto dominante cosí a Dyaus
Pitar. Cfr. Urano e (Padre) Zeus in
Grecia per un corretto rapporto fra il ruolo di queste due divinità
celesti. In Asia, sia presso gl’Iranici
che gl’Indiani, ha preso piede il culto di deità spurie, di sicuro perché le
invasioni che hanno portato gli Ari al potere militarmente non erano di grandi
dimensioni. Diversamente da quanto si
vuol far credere sia da parte accademica (per motivi neo-coloniali) che
non-accademica (vedi esoterismo deviato, dello stampo di quello
degl’Illuminati). Anche nel Nordeuropa
deve essere capitato qualcosa di simile, visto che gli Aesir hanno pigliato il posto dei Vanir nell’Olimpo germanico, una volta che i cultori di Odino hanno
lasciato la terra di Asía.
Cfr. cogli Ahura iranici, fr i
quali Ahura Mazdā
è il supremo. Orbene, se vi è un altro
nume che può essere ricondotto alla stessa matrice, questi è Vali (chiamato anche Vala); uno dei nomi vari dell’avversario
di Indra (altri sono Vṛtra, Namuci, Viśvarūpa), col
compito di nascondere le ‘Vacche’ in una grotta (45), tardivamente addivenuto un
fratello di Vṛtra.
Con ciò il quadro sin qui
tracciato risulta alfine completo, poiché l’attribuzione ai pescatori tamil del
suddetto ‘Corno’ – sia esso di Pescecane o di Pescesega, poco importa la
distinzione – collega adesso cotal oggetto di numinosa venerazione non piú ad un generico nume indigeno, bensí ad un omologo tamilico del Varuṇa rigvedico (46); personaggio che difatti avevamo
visto al Cap.I costituire invero una variante vedica della figura del Re
Pescatore epico (supposto identico a Manu
Satyavrata, di cui tuttavia il Mahābhārata non
menziona il nome), quindi del padre putativo di Satyavatī (47). Da quanto affermato sopra
si deduce manifestamente che lo Śiva
indiano, considerando le varianti del nume in forme analoghe a quelle del Re
Pescatore (Varuṇa, Vala, Tryambaka, Matsyendranātha) o di Pesce
(Skanda, Nandi, VaruṇaN, Vālāḷ, Mīnanātha), non meno
del Mīn egizio associa talora alla simbologia
fallica sia il ‘Corno Pescino’ (contraltare ittiomorfico dell’Unicorno
cervino-antilocaprino od antropomorfico) sia la ‘Coda Pescina’ (equivalente
anch’essa dell’Unipede cervino-antilocaprino od antropomorfico).
i) L’Ajaikapāda hindu,
corrispettivo dell’Aigipán ellenico
Per concludere il discorso
tralasciato sul dio Pan alla fine del capitolo precedente, dopo l’opportuna
riflessione sui Parava ed il culto
del Pescesega, occorre aggiungere che per quanto riguarda cotale nume è
rintracciabile una sorta di <Terzo Corno> – o di <Corno
Unico>, se proprio si vuole – non
precisamente sul capo di costui; bensí piú occultamente
nel Corno Spiralico… fatto vibrare all’improvviso da parte di codesta divinità
nel bel mezzo delle selve ed incutente, in colui che avesse avuto l’avventura
di udirlo, il famoso e reverenziale “timor panico”. In quanto poi a fallicità, il greco Pan non è
certo da meno rispetto al Fauno latino ed allo Śiva hindu; anzi ne possiede senza dubbio oltremisura, in
ciò rispecchiando del resto una predisposizione orgiastica tipica di tutti i
‘Signori degli Animali’ preistorici, peculiarmente quelli d’origine
neolitica. Cfr. in ambito indiano sia
col Pāśupati
vedico, sia col doppione pre-vedico di questi; quantunque il primo sia noto in
prevalenza tramite l’iconografia letteraria ed, il secondo, unicamente
attraverso le immagini della glittica e delle incisioni rupestri di epoca
tardo-neolitica e calcolitica (48). Sicché, in
definitiva, è lecito ritenere che vi fosse un tempo in area indomediterranea un
Tripada di valore solstiziale-zenitale svolgente il medesimo ruolo del
Treppiede apollineo (49), a cui contrapponevansi complementariamente dal punto
di vista iconologico tanto l’Ajaikapāt hindu quanto l’Egipan
ellenico, con riferimento solstiziale-antizenitale. Nell’Asia Centro-meridionale, precisamente
nelle zone della Scizia Orientale (abitata dalle tribú di Saci e Massageti)(50),
sono stati rinvenuti in effetti degli interessantissimi Tripodi d’incerta
datazione; ma risalenti in ogni caso, crediamo, al I mill. av. l’E.V. (51). In essi ciascuno dei Tre Piedi, sorreggenti
un cratere sacrificale, è plasmato con un ornamento assai particolare; i loro
assi sono foggiati in tal guisa da terminare alle loro estremità, superiore ed
inferiore, con una Testa ed una Gamba di Capra Selvatica. La qual cosa dimostra fondata e veridica, fra
l’altro, la nostra precedente comparazione tra il Tripode delfico ed i ‘Passi’
di Trivikrama; poiché è indiscutibile
che il triplo asse testa-zampa, appena descritto, abbia valenze
solstiziali-zenitali. Da tutto ciò si
deduce che in origine i riferimenti cosmologici del mito dei ‘Passi’ erano
indubbiamente di carattere venatorio, dato che il motivo delle ‘Orme’ risulta
correlato ai Cervidi od agli Antilocapridi.
l) Le
immagini di Pan, Amaltea ed Acheloo:
filiazioni
varie di un’arcaicissima divinità uranico-solare
di
carattere ittico-oceanico ed ofidico-fluviale
Sul ruolo
solstiziale-antimeridiano dell’animale caprino nella mitologia greca vedi pure
Amaltea, la Capra Unicorne nutrice di Zeus e di Pan, discesa giustappunto dal
titano Elio (o, secondo altri, da Oceano).
Il Corno Unico di Amaltea possiede una variante nella Cornucopia, consistente in base al mito
nel ‘Secondo Corno’, spezzato, della capra-naiade. Siffatta doppia natura unicorne di Amaltea,
associata leggendariamente al Caper
zodiacale, mostra che la Coda Pescina di tale emblema è pure la Coda di Amaltea;
dal momento che, come abbiamo già stabilito nella parte finale del precedente
capitolo, unicornia ed unipedia vanno quasi sempre di pari passo dal punto di
vista iconologico. Il che accade anche
nella tradizione induista (52). Tanto piú
che la Cornucopia di Amaltea viene equiparata dal mito stesso a quella
proveniente da Acheloo, il nume fluviale trsformatosi in Toro ed in Serpe; per
allusione – immaginiamo – all’asterismo extrazodiacale del Serpente, appaiato
allo Scorpione ed in opposizione al Toro Celeste. Ecco la ragione onde il figlio di Oceano (cui è assimilabile al
dire del Fontenrose) e di Teti, è effigiato nell’agone con Eracle con Testa
Taurina e Coda Ofidica. Acheloo
nell’agone ha un corno divelto dall’Eroe (53),
donde proviene in alternativa il Corno dell’Abbondanza. Analogamente alla sorella Amaltea, Acheloo
risulta dunque doppiamente unicorne, non meno della capra-naiade. Nell’iconografia però la coda del nume
fluviale è nel contempo ofidiomorfica e ittiomorfica, per via del carattere
titanico o titanizzato di costui (54). Ciò, ad ogni modo, conferma la validità del
nostro accostamento tra Acheloo, Amaltea e la Capra-pesce astrale.
l) Parentele tematiche (vide Cornucopia)
tra
l’Ajaikapāda
hindu e l’ Amaltheía
greca
L’Ajaikapāda
hindu, s’è visto in precedenza (55),
assolve un compito preminentemente polare; ma tale compito corrisponde, nel
contempo, ad una funzione solstiziale-antizenitale (56), secondo quanto abbiamo già suggerito. Vide
supra. Iconograficamente l’Aja Ekapādamūrti è piuttosto rara, a differenza
della semplice Ekapādamūrti, reperibile
viceversa in numerosi esempi, che non staremo qui ad analizzare. Segnaliamo solo il fatto che la seconda icona
mostra in genere caratteri terrifici, i quali l’avvicinano alla raffigurazione
di Bhairava; mentre la prima presenta
tratti benefici che l’apparentano strutturalmente alla figura greca di Egipan
o, per certi versi, della stessa Amaltea.
Un’immagine di Ajaikapāda rinvenuta a Rang Mahal, in una serie di terrecotte gupta
(57), ritrae codesta incarnazione
asurica con corna caprine, il fallo eretto ed una zampa elefantina. Oltre a questi tratti salienti s’intravedono
un Vaso Ripieno (Pūrṇakumbha), ricolmo di frutta, ch’egli
regge nella destra; ed il Sacro Cordone (Yajñopavīta), indossato
trasversalmente alla maniera dei Brāhmaṇa, su
imitazione della Cintura di Orione (Mṛgaśiras). Il primo oggetto simbolico da noi elencato
equivale a un Nidhiśṛṅga,
coè ad una Cornucopia; ciò che
apparenta il nume indiano a Pan (o a Fauno) e ad Amaltea, essendo pure costoro
associati iconologicamente in qualche modo al ‘Corno dell’Abbondanza’. In altre parole l’Ajaikapāda
con Vaso Ripieno, Fallo Eretto e Zampa Elefantina deve essere reputato una
variante dello Shiva Unicorne, Itifallico ed Unipede analizzato piú addietro ed equiparato al Pán ellenico od al Mīn
egizio. Inoltre, la Testa Caprina e il
Sacro Cinto ne ricordano la natura di antilocapride, che va a coincidere con
quella cervina di Mahādeva. Circa il secondo oggetto, di cui sopra, è
chiaro che questo allude al mistero dello Yajña. “Chiamato lo
splendente, Egli che mediante un Oscuro Piede (Asitapāda)
trattiene l’acqua nel cielo, rimandando l’acqua colle piogge nella stagione
piovosa. Cosa può esserci piú meraviglioso di questo?” Il locus
testé citato, segnalatoci dal Przyluski e dal Dumont (58), è una chiara allusione al ‘Passo Invernale’ del Sole; dunque
sarebbe maggiormente opportuno tradurre l’Asitapāda come il
<Passo Oscuro> piuttosto che il <Piede Oscuro>., onde rendere
l’espressione piú efficace.
In ultimo rileviamo l’esistenza
nel Tamil Nāḍu (59), precisamente nel Tempio sulla
spiaggia di Mahābalipuram, d’un Ajaikapādatrimūrti dell’VIII sec. d.C. (60); che fa pendant,
all’interno della medesima regione, con altri due ritratti dello stesso
soggetto dell’Ajaikapāda – non
sapremmo dire se nella forma trimorfica od in quella singola – risalenti all’XI
e al XII sec. d.C. (61).
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