martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Note al Capitolo VII






Note al Cap.VII


1)          Il culto originario del Triregnum ellenico e del suo equivalente latino, erroneamente chiamato ‘triade capitolina’ (la triade è una diade con aggiunta d’un terzo elemento da essa generato per connubio: ad es. Poseidone, Anfitrite e Tritone), non può che risalire alla mitica Età del Bronzo; quando le genti di lingua indoeuropea, che personalmente preferiamo chiamare ‘Iapheti’ alla maniera biblica, erano ancora indivise; o, visto che non se ne trova l’equivalente al di fuori della cultura greco-latina, qualche tempo dopo, ma comunque prima di quel periodo che la paletnologia chiama ‘Neolitico’.  Nello schema proprio dell’Età del Ferro (facciamo sempre riferimento in tal caso all’età mitica, cioè al periodo cronologico dal 4.480 a .C. in poi, non a quella omonima che per un cattivo senso imitativo è nota in archeologia), rimane ancora una terna di numi come abbiamo già visto (Asterio, Minosse, Dioniso), ma di tutt’altra portata.  A questi ultimi è da riportare la trimorfia in veste muliebre di Europa, Pasife e Arianna.
2)          Plut., op.cit., lxxv.  L’autore chiarisce che il nome di Amphitrítē e quello di Trítōn dipendeva dall’esser ritenuti costoro insieme a Poseidone depositari divini della ‘Terza Regione’ (Trítē Chōra).  Si noti che gli antichi usavano il concetto cosmologico di Regione e non quello giuridico di Funzione.  Di Plutarco d’altra parte occorre fidarsi quasi ciecamente, diversamente da quel che suggerisce il pur eruditissimo Cook, essendo lo scrittore di Cheronea iniziato ai Misteri Dionisiaci.  Su un piano strettamente filologico, tuttavia, sarebbe più congruo immaginare che il carattere ternario degli appellativi considerati derivi allo stesso modo della triplicità del Triódous da una vetusta interpretazione simbolica – indi stratificatasi culturalmente ed in seguito riadattata – concernente la fisionomia corporea spesso tripartita dei numi titanici ed argenetei.  Vedi la loro assai frequente tricefalia, che si traduce talora piú limitatamente in una trifrontalità od in una trioftalmia, oppure in una tripolarizzazione della capigliatura; meno diffuse sono per contro la loro trimanualità o la loro tripodia, ed ancor piú raramente la triplasia dei seni od il trifallismo.  Quest’ultimo, tanto per esemplificare, lo abbiamo riscontrato solo fra gli Egizi (ibid., xxxvi).  S’incontra pure nel caso di rappresentazioni teriomorfiche e semiteriomorfiche una trilobazione delle code, pescine o serpentine che siano.  Altrove, ad es. nella Volpe a 9 Code cinese, avviene una moltiplicazione x 3 della triplice coda che allude ai 9 Cieli.  Risulta chiaro, insomma, che la sostanza è ad ogni modo quella descritta da Plutarco.
3)          Per una documentazione sulle raffigurazioni della Folgore, a forma di dardo lineare doppiamente acuminato oppure con due o tre lingue lignee, vide Co., op.cit., §iv, alfa-beta (figg. accluse), pp. 722-85.  Sul soggetto cfr. pure il commento al riguardo in G.Furlani, Preistoria del tridente- S.M.S.R. (A.1932, Vol.VIII), riv.cit., 1932, pp. 42-7.  Gli specialisti del settore tendono grosso modo ad ipotizare una fantomatica linea unica di sviluppo iconografico a carico sia del Fulmine sia del Tridente, che avrebbe condotto i due oggetti sacri successivamente ad una sostanziale differenziazione.  Sennonché le loro ipotesi – ci permettiamo di affermare – finiscono per apparire troppo generiche, risultando anzi praticamente inconsistenti, dal momento che tali studiosi non tentano in alcun modo di spiegare come siffatta diversificazione sia primariamente avvenuta e a quale scopo.  E neppure è offerta dagli stessi alcuna ragione che possa dar conto perché mai la Folgore venga con cosí significativa costanza ritratta Bifida o Trifida, a parte la forma a dardo cui si è sopra accennato.  Mentre il Tridente possiede quasi sempre le sue consuete Tre Punte.  Rimarrebbero inoltre da chiarire le motivazioni per le quali, in entrambi i casi, ci si trova dinanzi immancabilmente ad un numero ben delimitato di raggi o di punte.  Quando c’imbattiamo in immagini di divinità dotate di folgore siamo perciò sollecitati dal particolare ora sottolineato a dedurre di esser di fronte non alla descrizione naturalistica d’un fenomeno atmosferico, bensí al simulacro di un dio, del quale non è tollerabile si sottovaluti qualsivoglia dettaglio, ogni parte della figura avendo un suo preciso valore simbolico. 
4)          È incongruente supporre una provenienza differenziata per dei fattori, quali le armi rispettive dei tre principali Cronidi, i quali palesemente costituiscono l’insieme unico ancorché settorialmente ripartito della ‘Stirpe divina’, risalente secondo le tradizioni elleniche all’Età del Bronzo.  Si badi, inoltre, che il Forcone Bidentato di Ade rappresenta forse un sostituto tardivo dello Scettro Tripartito; occorre del resto far presente che fra due codeste sacre insegne Plutone, doppione latino di Ade, dispone piú spesso della seconda.  Per una delucidazione approssimativa delle caratteristiche iconologiche di tale arma nei confronti degli altri due strumenti divini, seppure colle riserve indicate alla n.prec., cfr. op.cit., §4 (delta), pp. 798-806.
5)          Il termine non appare del tutto corretto estendendolo all’intero panorama indoeuropeo, per cui lo si intenda in riferimento ad un sistema sociale diviso rigidamente in classi, come si verificava presso le tribú barbare medievali.   
6)          Il nome del dio (Ker., op.cit., Vol.1, Cap.14, p.213) era scritto anticamente Aís e proveniva quasi sicuramente dalla voce Aíx = ‘Becco’ (scr. Aja = Id.), invero un’ipostasi di Egipan – in qualità di figlio di Tifeo/ Tifone – designante una variante dell’avversario dionisiaco di Apollo nel mito pitonico.  Il senso letterale del termine ιδης/δης (‘Invisibile’) è abbastanza prossimo peraltro a quello del vocabolo sanscrito citato, che significa infatti secondariamente ‘Non-generato, Immanifesto’.
7)          Quest’ultima assimilazione potrebbe sembrare un po’ forzata.  Ma, è indubbio, tanto Poseidone quanto Quirino appartengono ad una categoria divina di tipo inferiore rispetto alle altre due coppie equivalenti di numi; ossia ad una categoria connessa alla classe sociale dedita alle arti, compresi l’allevamento e l’agricoltura, ed ai commerci (marittimi e non).
8)          Annotiamo, peraltro che la Trimūrti induista è nettamente dissimile dalla cd. “Triade” capitolina e dal Triregnum del pantheon olimpico.  Giacché il primo membro della serie ternaria hindu è effettivamente, non soltanto sul piano virtuale, una deità sacerdotale; essendo Brahmā un vero dio aureo, analogo a Varua, corrispettivo indiano dell’Urano greco come abbiamo rilevato in precedenza.  Mentre Rudra-Śiva, il terzo membro della serie, è un dio argenteo; al pari di di Apollo-Crono (od Elio-Crono), di cui costituisce un parallelo evidente in terra indiana.  Del pari Viu, il quale altri non è che una forma di Dyaus Pitar (seppure nell’induismo medievale i rapporti di forza del rispettivo culto di codeste divinità appaiano ormai definitivamente rovesciati rispetto alle antiche scritture) ossia lo Zeus vedico, è da annoverare fra i deva dvaparayughici, vale a dire bronzei.
9)          In base alla considerazione svolta alla n.prec., rapportandone il succo alla tradizione greco-romana ci si accorgerà adunque che Zeus e Iuppiter, i corrispettivi mediterranei di Dyaus, erano solamente a titolo sostitutivo i divini rappresentanti del sacerdozio; in altre parole, lo erano esclusivamente per quel tipo di umanità venuto in auge a partire dalla Terza Epoca ciclica, ma che non aveva in linea generale la vera disposizione caratteriale propria dei sacerdoti primordiali, dall’aerea e celeste (alchemicamente dovremmo dire aurea) natura.  La medesima cosa vale per Hádēs e Mārs, in relazione alla regalità, a questa non prettamente confacentesi dal punto di vista temperamentale; benché non si possa negare che codesti due dèi abbiano tuttavia ereditato in maniera piú specifica la funzione regale, assumendo secondariamenteb da parte loro una natura ignea e solare (od argentea stando al senso alchemico) in luogo della loro primaria essenza seminale e pluviale (equivalente alla natura bronzea dal punto di vista cosmologico indicato).  Mentre le figure di Poseidone e Quirino sono assolutamente congeniali al carattere terziario, sotto il profilo dell’ordine cosmogonico, che è loro assegnato; nonostante tale carattere sia per la verità da ascrivere, in coerenza coi postulati della dottrina ciclica, all’intero Triregno.
10)        Ac., Le ‘Caste’, p.14.    
11)        Rammentiamo  altresí che tali ‘Generazioni’ sono nello schema quaternario degli Elementi gli Dei, i Demoni, gli Eroi e gli Uomini comuni.  Le Stirpi Umane, è ovvio,  vanno di pari passo colle Stirpi Divine (art.cit., pp. 20-2, n.25).  Vide nn. 35 e 58.
12)        La cosa vale almeno per il Tridente.  Per quel che riguarda i due paralleli strumenti divini rimandiamo ad altra sede la trattazione dettagliata del problema, riguardante le cd. ‘Generazioni Divine’.  Cfr. Ac., Le arc., §b.3 sgg.
13)        Grav., op.cit., §7.e, p.33.
14)        Per le fonti testuali dell’avvenimento mitico vedi op.cit., p.34, n.8.
15)        Serv., In Verg. Aen.- iii. 636 (menzionato apud Co., op.cit., Vol.I, P.I, Cap.I, §6.d [vi], p.312).  Il Cook (ibid., §§ v-viii, pp.302-23), discutendo attorno al soggetto del ciclope come personificazione della ruota solare, asserisce sulla base di Ellanico che i Ciclopi – in genere 3 o 7 di numero  – avrebbero derivato il loro nome dall’uranide Kýklops, vale a dire un singolo ciclope.  Dal punto di vista figurativo l’Occhio Ciclopico costituirebbe, invece, uno sviluppo della Ruota Solare licia; sviluppo che, a partire dal V sec. a.C., sarebbe passato attraverso la raffigurazione in campo numismatico di Tre Gambe umane rotanti ed irradiantisi da una Ruota a 4 Raggi (ib., p.305, fig.235).  Indi, dal IV sec. in poi, sarebbe stato mutato il disegno centrale in una sorta di Gorgóneion; talora triorecchiuto, mentre intanto venivano conferite ali ai piedi del Triskelés (p.306, figg. 242-4).  Si confronti il tema con quello, da noi precedentemente trattato, del Tripode delfico o del Vāmanāvatāra hindu.  Esaminando una testimonianza punica dello stesso motivo iconografico (p.307), ossia una stele votiva avente da immagine centrale la faccia d’un nume solare (Ba’al Hammān), l’autore ne deduce quindi che quella era la fisionomia originale del Triskelés.  Di presso a tale antropomorfizzazione della Ruota Solare, si sarebbe assistito in seguito (p.309 ss) ad una duplice rappresentazione del motivo dei Ciclopi; da una parte, nel Mediterraneo Orientale, esendo stati generati i titanici Cheirogástores (lett. i ‘Braccio-panciuti’) e dall’altra, nel versante occidentale del medesimo mare (vedi Magna Grecia), avendosi i Ciclopi monoculari del tipo del siculo Polifemo.  Nelle arti plastiche però, incoerentemente, questi ultimi sarebbero stati effigiati con i due occhi normali accanto all’Occhio Ciclopico.  Codesta suddivisione, voluta dal N., è invero palesemente artificiosa onde possa esser accettata.   Non si dovrebbero infatti contrapporre tra loro gli Occhi (secondo noi equiparabili a Corna da un punto di vista  simbolico) e le Gambe (o Braccia che siano) di un nume, se non in rapporto a due parallele applicazioni tematiche di analogo – seppur non identico – significato.  Vedi in India per un utile confronto la relazione reciproca tra le Corna e le Gambe di Nandin, il vāhana taurino di Mahādeva, le une e le altre reputate emblemi rispettivamente della Conoscenza e della Legge.  La stessa cosa può dirsi dei Tre Occhi di Śiva, rispetto alle Tre Gambe del dio, allorché questi si presenta in veste di Tripāda.  E non diversamente va interpretata la trioftalmia di Apollo, o dei Ciclopi, in riguardo vicendevole al Tripoús ed al Triskelés.  Il nome del Kýklops primigenio, d’altronde, etimologicamente non è a nostr’avviso da leggersi – secondo quanto suggerisce il Cook – ‘He of the Round Aspect’; bensí semmai ‘He of the Cyclical Aspect’, dato che siffatto Ciclope al di là della sua apparente ostilità nei confronti di Crono non è che un’ipostasi di costui medesimo, in qualità di ennesimo doppione saturnino di Apollo.  Ciò per il fatto che il concetto di ‘Cielo’ (lat.arc.Càelum) deve aver immancabilmente preceduto quello di ‘Cerchio’, (lat.Circus) come insegna Platone nel Timeo, quest’ultimo da intendere in riferimento evidente allo Zodiaco Solare.  Tant’è che che nell’iconologia hindu il Pāśa o Kālapāśa (emblema ciclico-annuale di tipo shivaita) risulta nettamente più atavico del Cakra o Rāśicakra (emblema annual-zodiacale vishnuita). 
16)        La personificazione, parziale o completa, di Nandin a volte viene considerata non meno del toro divino a volte un’ipostasi di Śiva ed a volte un fedele compagno del dio.
17)        Sull’Apóllōn Triópios dei Dori vide Cap.IV, n.43.  Abbiamo di già fatto cenno in quella nota che la triocularità, ampliando poi il discorso ad altri emblemi ternari nella n.2 di questo capitolo, in Occidente come in Oriente – vedasi colà la figura omologa di Mahādeva – equivale alla trifrontalità; nonché alla trimanualità, alla tripodia ecc.  Non è piú reperibile, attualmente, un’iconografia tricorne per Apollo; si dà il caso, tuttavia, che a volte un tripode aureo sia collocato in testa al dio solare posto in cima al Parnaso.  Come Śiva sul Kailāsa.  Cfr. in proposito J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizione mitologica nella cultura e nell’arte rinascimentali- Bollati Boringhieri, Torino 1981 (ed.or. La survivance des dieux antiques. Essai sur le rôle de la tradition mythologique dans l’humanisme et dans l’art du Renaissance- Flammarion, Parigi 1980),  P.II, Cap.V, §5, p.197; incl. p.227, fig.68.  Analoga considerazione vale pure per Krónos.  D’altro canto raffigurazioni realmente tricorni o triradiate, a parte quella della dea Atena, non esistono piú nei tempi storici in tutta l’arte egea; segno evidente che quest’area era caratterizzata rispetto alle altre circostanti da una civilizzazione avanzata ed aveva ormai perduto i suoi tratti maggiormente vetusti, sopravvissuti solo tramite il possesso da parte di qualche antico nume della propria trioftalmia.             
18)        La trasformazione del capo triradiato, o tricorne, in una corona tripuntata è fenomeno ricorrente ancor piú apertamente nell’arte indiana (Ac., art.cit., §a.1 sgg); secondo quanto è rilevabile a livello iconologico dalle metamotrfosi figurative nei tempi medievali del Proto-Shiva e della Proto-Shakti dell’Antica Civiltà dell’Indo (ibid., ill. 1-10), a loro volta prodotte nel III mill. av. l’E.V. da una cristallizzazione di determinate effigie neolitiche, se non addirittura mesolitiche.  Cfr. le immagini delle tavole da noi riportate nell’art.cit. con i simulacri lignei a testa coronata, sopravvissuti peraltro fino ad epoca moderna (XVI sec.), dell’arte rurale delle regioni himalayane.  Vedi, soprattutto, quella dello Himachal Pradesh.
19)        Sez., op.cit., p.236, fig.80.
20)        Ac., Le ‘Caste’, N°12, pp. 26-9, n.14.
21)        Il Dīs/ Dītis (rar.) latino, nome di Plutone, corrisponde alla dea mortifera rigvedica Diti (lett. ’limitata’), opposta ad Aditi (‘Illimitata’).  In India, crediamo, il paredro di costei era forse in principio Dyaus Pitar; giacché Dīs era chiamato dai Romani Dīs Pāter; nome sicuramente apparentato a Dispiter/ Diespiter, che però era appellativo di Iuppiter (Giove) a giudizio del Tocci.  In conclusione, si può ipotizzare che i 3 Dei del Triregnum altro non fossero che ipostasi d’un unico dio funzionalmente triforme.
22)        Apollo è divenuto in Grecia per riadattamento mitico un dio eroico, pur detenendo in sé tratti parzialmente d’altra origine, in particolare danaico-pelasgica; questi tratti si sono fusi assieme cogli altri, d’origine giapetica (cioè iaphetica, in termini biblici) trasformando un dio iperboreo (Apollo Delfinio) dapprima in un titano ofidico di tipo delfico, poi in un semidio di tipo olimpico ed infine nell’avversario divino di Orione.  Esattamente come Rudra-Shiva in India appartiene per certi aspetti al mondo ario, caratteri oceanico-australi a parte, e per certi altri al mondo turano-dravidico.  Troviamo infatti dei paralleli etimologici al suo nome greco tanto in Europa (norr. Balder, celt. Belen, lig. Belin), quanto in Asia (siro-pal. Baal, fen. Ba’al, bab. Bel, scr. Bali).  
23)        Riguardo il Corno Tripartito dell’Aureo Mga Ekaśṛṅga vedico-puranico vide Capp. III, n.51 e IV, n.44; codesta mūrti riveste la parte, a nostro modo di vedere, di una delle piú importanti ipostasi di Mahādeva.  Cfr. inoltre il Grav. (op.cit., §90, p.278, n.3) a proposito di un’asserzione di Ctesia su un argomento affine; benché l’autore greco, alludendo ai 3 Colori misterici dell’Unicorno indiano, che sarebbe meglio comunque definire ‘indico’, non faccia per la verità esplicita menzione di alcuno scritto sacro.  Probabilmente non era ancora stato composto, il testo che menziona il simbolico animale (Varāha Purāṇa) risalendo nella sua stesura storica all’VIII-XII sec. d.C.
24)        Sull’icona di Lucifero Trifronte, riportata dall’Arrighini, vedi art.cit. 
25)        R.Merkelbach, I misteri di Dioniso. Il dionisismo in età imperiale e il romanzo pastorale di Longo- Ecig, Genova 1991, pp. 271, ill.44 e 279, ill.57.  La prima tavola ritrae il Divino Fanciullo che si nutre dal Corno dell’Abbondanza, offertogli amorosamente da parte della Ninfa Amaltea; mentre nella seconda incontriamo Dioniso, questa volta barbuto, che solleva maestosamente il Corno.  
26)        Plut., De Is.- xxxv; il locus menzionato attesta, inoltre, la notevole diffusione nell’Ellade – ancora in epoca storica – di statue interamente tauromorfiche di Dioniso (“taurómorfa Dionýsou poioûsin agálmata polloì tôn Hellnōn”).  Una conferma di codesto tratto proviene d’altronde da un passo di Ateneo, se è concesso appoggiarsi ad un’apposita segnalazione del Merkelbach (Merk, op.cit., Cap.I, §8, p.19).
27)       Ac., La sa., Cap.VI, §i passim.
28)        Pl., Criti., 113 (VII/ c).
29)        Ibid. come alla 27.
30)        Her., op.cit., Cap.I, § 3.c, p.81 (vedi figura allegata).  Padre Heras (ibid., §vii, p.121) li chiama alternativamente Veḷāḷir (‘Popolo del Tridente’), intendendo che costoro possedevano tale arma nelle loro insegne quale proprio segno distintivo, in senso totemico; e distinguendoli perciò da altre genti, come i Vilāḷ (‘Arcieri’), i Mīnānir (‘Popolo del Pesce’), i Parava (una sottotribú dei precedenti Mīna, scr. Matsya, della quale abbiamo già a lungo argomentato piú addietro), i Nandor (‘Popolo del Granchio’), i Pava (‘Serpi’), i Kuaga (‘Scimmie’) – resi famosi dal Rāmāyaa – ecc.
31)        Si sottintende, con ciò, che tale strumento sacro presieda spiritualmente alle Tre Vie fondamentali della spiritualità indiana (il Cammino di Destra, Mediano e di Sinistra).  Il che spiegherebbe perché mai le voci vel e kal, denotanti entrambe il tempo, siano dei sinonimi in marathi.  Significativamente, nell’antica Grecia il s.m. Triódous convergeva foneticamente col vocabolo Tríodos (‘Trivio’), a testimonianza del fatto che tali Vie delle quali s’è parlato poc’anzi esistevano anche in ambiente mediterraneo.
32)        Ibid. come alla 12.
33)        Il senso preciso del scr.  śūla al pari di quello dell’ingl. shar-p, connesso filologicamente al termine dell’antico indiano, è ‘punta’.
34)        Furl., op.cit., passim.
35)        Call., Hym. in Del.- xxi.  Per altre fonti cfr. Grav., op.cit., §54, p.169, n.1 (in parvo).
36)        I Telchínes erano già stati, secondo la tradizione ellenica, i forgiatori della falce a becco di corvo (gr. ἅρπη) mediante cui Padre Crono aveva evirato Padre Urano.
37)        Secondo altre fonti (consultate da Toc., op.cit., s.v.TELCHÌNI, p.474/ coll.a-b), essi sarebbero nati da una misteriosa relazione fra il Sole e Minerva; tradotto in termini greci, da un connubio tra Apollo-Crono (alias Elio-Iperione) e Pallade Atena, denominata non per niente ‘Telchinia’.  È opportuno specificare che codesta dea, la quale funge invero da antagonista di Medusa nella storia di Perseo aiutando il titano ad annientarla per via del volto mostruoso e pietrificante della demonessa, aveva come emblema la Civetta al pari della Minerva romana; inoltre la Cornacchia, al modo della Kalī indiana (vedi la facies della dea sotto forma  di Dhūmavatī, una delle Dāśamahāvidyā).  Quest’apparente dicotomia tra Atena (o Minerva) e Medusa allude dal punto di vista cosmologico all’opposizione celeste-zodiacale, verificatasi all’inizio dell’Età del Ferro, fra l’Aquario e il Leone; Segni che governavano a quell’epoca, rispettivamente, il Solstizio Invernale ed il Solstizio Estivo.  La simbolica antitesi con cui si ha ivi a che fare è già rappresentata, peraltro, negli stessi due nomi di Atena e di Pallade affibbiati alla vergine greca (vide Cap.VI, n.204).  I rapaci suddetti, così come accade in altre occasioni per l’Aquila, fanno comunque di Pallade, Minerva e Kali delle dee infere; mentre le sembianze leonine della Testa di Gorgone, equiparabili alla natura felina di Durga (di solito accompagnata nei propri ritratti dal Leone o dalla Tigre in guisa di cavalcatura personale), provano – al di là di quel che potrebbe sembrare di primo acchito – la natura paradisiaca di Medusa e dello sguardo immortalante di costei.  Ben diverso è però il ruolo di Medusa allorché ella è considerata la ‘Terza’ delle 3 Gorgoni, figlie di Φόρκυς e di Κετώ; in questo caso infatti è possibile immaginare una ‘Quarta Gorgone’, come avviene per le Moire, che superi le consorelle.  Ciò è da porre dl resto in rapporto col ciclo lunare, che nell’ambito dell’Età del Ferro deve essere inteso per analogia a partire dalla fase calante.  Si noti che, assommando alla contrapposizione or ora suggerita tra Atena e Medusa la similare antinomia tra la dea-colomba (Afrodite) e la dea-ape (Ker), la prima attinente all’idea di Vita e la seconda al concetto di Morte (vide n.150), si otterrà una versione tutta femminea del Tetramorfo; siccome la dea-colomba (allotipo della dea-vacca) e la dea-ape (alter-ego ellenica della dea-scorpione indo-egizia) alludono alle posizioni contrapposte dei Segni del Toro e dello Scorpione, vicendevolmente agli Equinozi di Primavera e d’Autunno, nel particolare momento cronologico surriferito.
38)        Vide Cap.VI, n.21.
39)        I loro tratti reconditi  di deità marine erano evidenziati dal matrimonio mitico d’una loro sorella, certa Halía (da hál-s, hal-ós = ‘mare’), con Poseidòne; cotesta Alía assumerà in seguito il nome di Leucotea, come abbiamo già visto accadere da parte di Ino.  Vide Cap.VI, n.186.  Poiché Ino non è diversa da Pasife (ibid.) ecco che tutti questi personaggi femminili sono da valutare soltanto delle facce molteplici di un’antica signora del mare dai mille nomi (Alía, Anfitrite, Afrodite Anadiomene, Càfira, Càbira ecc.).  Cfr. Ker., op.cit., Cap.XI, pp. 171-2.  Da Halía Poseidone ottiene una <figlia>  – la Ninfa Rhódos – e Sei Figli, che violenteranno la loro <Madre>, in base al noto copione di un’antica mitologia imperniata sull’incesto cosmogonico ed assai diffusa in tutto il mondo indomediterraneo; dopodiché costoro, essendo stati fatti sprofondare per vendetta del dio del mare o della dea dell’amore, diverranno demoni orientali.  La Ninfa Rodi (qualcuno scrive Roda), bisogna aggiungere, era nata in base ad altri fonti da Elio; che aveva generato in lei ‘Sette Figli’, tra i quali pare vi fosse un tal  Āttis , il quale avrebbe poi fondato nientemeno che Eliopoli.  Chiaramente cotesta figura, insieme a quelle degli altri fratelli, alludeva astralmente ad Orione; asterismo composto di 7 stelle, cui era quasi certamente dedicato il famoso ‘Colosso’ di Rodi.  Cfr. col  mito di Learco, il <figlio> di Ino.  Vide Cap.II, nn. 131-2.  E  Rhódos è parallelamente da allineare ad Alía-Leucotea, pur presentando riferimenti piú specifici rispetto a costoro, la lunarità delle quali è viceversa maggiormente accentuata, nei confronti dell’asterismo di Aldebaràn (Alpha Tauri); che all’inizio della Quarta Epoca ciclica trovavasi al Punto Gamma, precedendo le Pleiadi, stranamente adombrate in una delle due versioni del mitologhema nei panni maschili dei ‘Sei Fratelli’ della Ninfa.
40)        Pur nell’eventualità di un’interpretazione prevalentemente lunare (cosa resa implicita del resto dall’impiego che talora vien fatto dal nome al femminile), è chiaro che non si tratterebbe in tal caso dell’aspetto propriamente ricettivo della Divinità; bensí di quello piú particolarmente generativo, esemplificato dal concetto latino di Lunus e contrapposto, sotto un profilo maggiormente operativo che sostanziale, all’aspetto creativo e solare vero e proprio della medesima.  È concepibile d’altronde, volendo cavillare, un ennesimo aspetto divino in rapporto al volto gorgonico di Medusa (cfr. n.37, tenendo conto che il ‘Gorgo’ è anche un contrassegno solare e polare); ossia il principio passivo-solare, che potremmo definire solare-conservativo, il quale è complementare a quello attivo già contemplato di carattere solar-assiale.   
41)        Tra l’altro, vi è chi (Mor., op.cit., s.v.TELCHÍNI, p.470) ha apparentato etimologicamente i Telchínes ai Tyrrhenoí, vale  a dire ai Tirreni, circa i quali – almeno riguardo il loro nucleo primario – dicevasi infatti fossero di derivazione egeo-anatolica.  Vedi in proposito gli studi del Semerano, sui quali concordiamo a grandi linee.
42)        I Rodioti erano secondo il Graves (Grav., op.cit., §42, p.141, n.4) gli unici commercianti marittimi dopo la Guerra di Troia ad esser riconosciuti come tali dagli Egizi, avendo essi relazione con il culto dello Zeus Eliopolitano; sulla cui corazza spiccavano i busti delle 7 Potenze Planetarie, a palese testimonianza della complessità dei culti astrali già in epoca pre-indoeuropea.
43)        Op.cit., §54.b, p.169; benché l’autore si riferisca alla Telchíne, anziché ai Telchíni.  Ma la sostanza non cambia, tenendo conto delle motivazioni cicliche; insomma delle tematiche proprie al culto della Magna Mater, addicentesi perfettamente alla Quarta Epoca.  È da presupporre, tuttavia, che l’habitat originario prima dell’ultimo Diluvio fosse Creta; una Creta evidentemente assai estesa in superficie, forse addirittura collegata territorialmente a quelle che oggi ci appaiono essere delle isole.  E non è da escludere che tra queste vi fosse Rodi stessa.
44)        Ibid. come alla 38.
45)        Con ciò intendiamo asserire che tale figura era una sorta di Zeus con certi tratti del padre Crono.  Od, in altre parole, che in Egitto già in tempi protodinastici si veneravano non solo le 6 (o 7) Sfere Celesti, ma pure i 12 (o 13) Soli dello Zodiaco.  È probabile che cotali ‘Sfere’ fossero poste in  associazione coi cd. ‘Raggi Solari’, di egual numero; od omologate alle ‘Lingue del Fuoco’, equipollenti alle cuspidi della Doppia Folgore, per esprimerci nel linguaggio induista.  E che, per analogia, cotesti Soli Zodiacali presiedessero alle <Piogge>.  Donde si comprende bene come An, il primevo nume uranico-solare di Eliopoli (ex-Anu o Anūr), una volta assunto l’epiteto di Amon-Rā (dalle corna arietine), abbia potuto venir assimilato a Zeus; evidentemente in qualità di ‘Signore della Folgore e della Piogge’, ciò che sarebbe stato come denominarlo sovrano dei 7 Cieli e 13 Soli.  Sul rapporto sacrale tra Rodi e l’Egitto vide n.42.
46)        Cit., §54.a, p.169.
47)        Il 9 è qui una moltiplicazione del 3, avendosi ancora una volta a che fare nel contesto colla questione della Triplice Dea Luniterrestre.  Vide Hekátē (scr. Śakti, secondo il suggerimento del dott. Albrile), demonessa di provenienza sicuramente panellenica, ad un tempo trimorfa e cinocefala ed avente dei risvolti marini sotto forma di Scilla ecc. 
48)        Per la variante femminile si riveda quanto si è detto alla n.43.  Ma questa volta, nel caso delle Telchine, è l’aspetto realmente ricettivo che deve viceversa venir preso in considerazione.  Vide n.40.
49)        C’informa Erodoto (Her., Hist.- i, 1-4) che i Lici (Lýkoi) avevano preso nome da Lico (Lýkos), figlio del mitico sovrano ateniese Pandione (cfr. in India colll’epico Pāṇḍu) e fratello di Egeo.  La loro patria originaria sembra  fosse stata Creta, dalla quiale erano stati costretti ad emigrare in Licia; tale terra anatolica appellavasi un tempo Miliàde ed era abitati dai Solimi, ai quali sarebbero subentrati appunto i Lici, un tempo denominati ‘Termili’.  Codesta denominazione (gr.Ter-m-íl-ai), che quelle genti si attribuivano di per sé, sarebbe secondo Padre Heras (Her., op.cit., Cap.V, App., §§ 1-2, pp. 480-4) la versione ellenizzata della voce Tir-am-il-ar, con cui i Dravidi designavano la propria identità tribale; posto che il scr. Drāvia derivi da una precedente forma *Dr-am-il-a, donde proviene in parallelo per contrazione il termine T-am-il, pur indicando quest’ultima voce solamente il ceppo predominante dell’intera etnia.  Tal vocabolo sarebbe semplicemente un appellativo, non un nome proprio, e significherebbe – sempre a giudizio di Heras (ibid., §1, p.481) – ‘Figli del Mare’; da tira- (‘acqua, mare’) e -il- (suff. col valore di ‘figli, progenie’), colla desinenza plurale -ar.  La cons.mediale –m- (o –v-) in quest’ottica, che non condividiamo fino in fondo, sarebbe solo un infisso. Quest’ultima spiegazione, tuttavia, non ci convince. La -am/ av- mediana (personalmente facciamo una scomposizione tematica un po’ differente dalla sua), a nostro parere, denota ‘signoria’ al pari del suff. -an- nella lingua sumera; e, come ha osservato il Semerano in un suo saggio storico-linguistico, le consonanti w ed m erano interscambiabili nelle lingue antiche del Vicino Oriente.  La stessa denotazione la troviamo in Grecia probabilmente quale lascito della cultura pelasgica, anche questa d’origine camitica, come la cultura sumerica o quella dravidica.  Onde il significato reale potrebbe essere anziché ‘Figli del Mare’, appellativo in cui qualsivoglia popolazione rivierasca avrebbe potuto riconoscersi, semmai  ‘Figli dei Signori del Mare’; in altre parole degli Atlantidei, che secondo Platone in un tempo antichissimo (si può supporre grosso modo fra il 20.000 ed il 10.000 a.C.) dominarono nauticamente l’Oceano Atlantico prima d’ogni altro popolo a causa della loro avanzata civiltà rispetto all’Europa preistorica.  Che non si tratti comunque d’un abbaglio del gesuita ispanico è ulteriormente dimostrato dal fatto che nel loc.cit. dello storico ellenico – che noi avevamo già intracciato indipendentemente dal N., non ancora conoscendo l’ipotesi linguistica dell’autore – ai Termílai, descritti con costumi in parte cretesi in parte cari, viene ascritta una discendenza materlineare; esattamente come al ceppo dravidico e a differenza d’ogni altro popolo circostante, che al contrario riconosceva  unicamente la discendenza paterna.  Tutto ciò giustifica l’accostamento, suggerito da parte nostra, delle tematiche mitologiche cretesi alla mitologia anaria indiana.  Cosí si vedrà che l’aspetto lupesco di Apollo – sia stato questo od un altro il nome pre-ellenico del nume considerato – fa da contraltare, senza dubbio, alla veste cervina del medesimo; cfr. al riguardo Learco, Atteone, Ciparisso ecc.  Proprio come in India avviene con Rudra-Śiva, il quale si sdoppia negli allomorfi shivaiti di Bhairava e Mgeśvara: il primo ha per veicolo il Cane (Śvan) od il Lupo (Vka), il secondo ha forma cervina.
50)        Grav., op.cit., §54, p.169, n.1.  L’autore mette le 9 ‘Figlie del Mare’ in corrispondenza colle 3  Danaidi, a gruppi di 3, e le 3 Danaidi con Scilla.  Cfr. n.47.  E, come altri (vide n.41), fa discendere l’etimo del loro nome dalla voce Tyrrhen/ Tyrsen sostenendo che i Cretesi erano affini ai Libici (s’intende Proto-libici), oltreché agli Egizi, per i quali la cons.liq. r era interscambiabile colla l (ütr = ütl).
51)        Her., op.cit., Cap.II, §1, p.166, figg. 18-9.
52)        Op.cit., pp. 166-7.
53)        Cit., Cap.III, App., pp. 406-7.  Il titolo di Mina ricorre nondimeno, secondo Graves (e questo dato risulta assai importante per il nostro dibattito), tra i dignitari salomonici della dinastia etiopico-abissina.
54)        Vide Cap.III, nn. 53-5
55)        P.405.
56)        Cfr. le immagini citate alla 51 e le succesive figg. 21 (p.167) e 23-4 (p.169).
57)        Ci assumiamo totalmente la responsabilità di codesta correzione alla tesi di Padre Heras, poiché è evidente che non tutti gli dèi supremi presentano carattere paradisiaco, cioè aureo;  sappiamo per contro che non tutti gli dèi paradisiaci sono di tipo supremo, essendo di già intervenuta certa dualità nella seconda metà del ciclo paradisiaco, od aureo che dir si voglia.
58)        Inteso non solo quale Primo Uomo, ma nel contempo quale Unica Divinità, Re Manu è correlato a Re Yama (il Dharmarāja); cfr. i corrispettivi Yima e Iānus, rispettivamente, fra Iranici e Latini.
59)        A. di Nola, s.v.ADAMO, §2.b, pp. 41-4; apud AA.VV., Enciclopedia delle Religioni- Vallecchi, Firenze 1970, Vol.1.
60)        G.Acerbi, La questione dell’Unicità Divina- Herakles (A.I, N°1), giu. 2015, §3, p.9-11.
61)        Vedi, ad es., Bran e Manannan fra i Celti.
62)        Ac., art.cit., p.10.
63)        Si badi che il Paradiso Terrestre non è il corrispettivo ebraico della Terra Iperborea greco-romana o dell’Iavta hindu, ma semmai d’una immaginaria ecumene intercorsa durante l’intera Età dell’Oro.  Sulla suddivisione in 4 fasi dell’Epoca Paradisiaca giudaico-cristiana cfr. Mri., Il viag. I (18-08-15), §a passim.  Inoltre fa riferimento all’Atlantide ossia alla Terra Occidentale, quindi risale per tali connotazioni all’Epoca Bronzea. (ibid., p.1).
64)        Da notare la consonanza fonetica del nome della figlia-consorte di Manu, Parśu (‘Costola’), con quello del VI Avatara: Paraśu (‘Ascia’), letto appunto Parśu in hindi.  In effetti, questo personaggio è un prolungamento della seconda fase del Satyayuga, relativa alla ‘Nascita di Parśu (corrispettiva hindu di Eva), nella seconda fase del Tretā.
65)        In un sigillo indico (Ac., Le arc., fig.20) si osserva il Pesce fare capolino sopra la testa d’un Antilocapride Dicefalo, nel contempo Unicorne e Bicorne, cosa che lo fa equivalere all’Antilocapride (Monocefalo) Tricorne.
66)        Non sempre Osiride possiede valenze di questo tipo.  È inoltre da tener a mente che Āṇ (varr. An/Anu/Ana) era un nome di tale dio (o di Rā), corrispettivo egizio del paleo-dravidico An e del sum. An, var. Anu, il nume dal tridente od analogo amblema sul capo (Her., op.cit., Cap.III, §2, pp. 288-9).  Ibid. come alla 54.  È da supporre che l’Āṇ o An paleo-egizio – nonché i suoi omologhi indo-mesopotamici (ve n’è anche uno etiopico del tutto consimile) – costituisse in principio una vera divinità paradisiaca, al modo delll’Urano greco o del Varuna indiano (vide n.55); ma in seguito deve esser avvenuta una sua parziale demonizzazione, tant’è che egli è stato identificato al dio asiatico El (cit., p.287), chiamato in tempi tardi El-Kronos a causa delle proprie affinità con l’Elio-Crono (= Apollo-Crono) greco.  El infatti non meno dell’An paleo-egizio (§5, pp.332, fig.199), del corrispettivo mesopotamico (Cap.II, §3, p.195, fig.53) e di quello proto-indiano (§§ 1, p.169, figg. 23-4 e 3, p.195, fig.54) o del Tauro-Apollo (= Crono, o Dioniso, a seconda dei riferimenti ciclici che si potrebbero tirar in ballo) della numismatica ellenica del V sec. a.C. (Co., op.cit., §iii, p.298, fig.221), veniva raffigurato con corna taurine in base a quel che ci è illustrato da una stele votiva proveniente da Ugarit (Ras Shamrah) e recante un rilievo ora appartenente al Museo Nazionale di Aleppo (G.Garbini, La religione della Siria antica, §, 3, p.204, fig. n.num.); apud AA.VV., Storia delle religioni- Utet, Torino 1961 [I ed. 1934, a c. di P. Tacchi Ventura; indi rived. ed ampl.  sotto la dir. di G.Castellani], Vol.2.  Dobbiamo però precisare, a parziale smentita di ciò che abbiamo appena sostenuto, che l’An paleo-egizio a differenza delle corrispettive divinità indo-mesopotamiche non disponeva esattamente di corna taurine; ma aveva, pur tuttavia, il capo triradiato.  E dunque può benissimo essere assimilato in virtù di quanto dichiarato al Cap.VI, n.206, agli altri pressoché omonimi numi della serie divina contemplata.  La trasformazione dell’An demonico-solare e triradiato (= taurocefalo) nel dio solare Amon-Rā, criocefalo, giustifica quanto da noi asserito alla n.45 a proposito dello Zeus Ammone Eliopolitano, definendola un connubio iconografico-culturale tra Crono e Zeus.
67)        Her., op.cit., p.167, fig.20.  Il termine sumero-dravidico designante il re è kon (ibid., Cap.II, App.I, s.v.: PRINCE, p.272), che ha identica base filologica dell’ingl. kin-g e del mong. khan; tutte voci indicanti del resto un’assimilazione ancestrale di carattere shamanico tra il capo, nella doppia accezione di ‘testa’ e di ‘comandante’, ed il cielo.  Cfr. in proposito la k/-, avente una connotazione uranica in tutta l’Eurasia e persino nell’America precolombiana. 
68)        A conferma della congettura formulata dal gesuita spagnolo, in una scena sacrificale contenuta nel rilievo egizio d’un tempio dedicato ad Amon-Rā e costruito nel’Oasi di Siwah dal governatore locale (certo Un-Amon) durante la XXI dinastia, si vede tale governatore fare delle offerte dinnanzi al dio ritratto con testa di montone.  Il particolare piú interessante della scena è tuttavia il fatto che codesto Un-Amon, oltre ad avere l’uraeus in fronte, porta sul capo un inequivocabile tridente; un abbozzo dello stesso emblema pare esservi pure, se non siamo ingannati dal disegno col tratteggio del soggetto (Co., op.cit., §6 [i. theta], p.385, fig.293), sopra la testa di Amon-Rā, posto accanto alla propria consorte Mut.
69)        Anche in tal caso, rileviamo, il Re costituiva l’umana incarnazione di VēlaN (lett. il ‘Signore del Tridente’); una denominazione talora appartenente ad Āṇil, il numinoso figlio di Āṇ (‘Signore, Padre’) e Amma (‘Signora, Madre’), con i quali il terzo membro serie doveva senza dubbio formare una primeva Triade (Her., op.cit., §1, p.168 ss).  Questo Āṇil è il nume chiamato di poi Skanda-Kārttikeya o MurugaN, il piú anziano dei 2 (ma talora sono 3) <figli> di Mahādeva; in questo caso omologabile ad Āṇ, cioè a Varua.  
70)        Sposo di Amaa e padre di Enlil, il Crono mesopotamico.
71)        In uno di questi troviamo infatti la seguente epigrafe (op.cit., App.II, p.281): VēlaN-avan Venkō, ovvero la “Bianca Montagna del Signore del Tridente”; in altre parole, di Āṇ. [La trascrizione della n finale accentuamente palatale, al modo dravidico, è nostra.]
72)        Vide Cap.III, n.44.
73)        Cit., pp. 165-6.  La traslitterazione dei pittogrammi dati da Padre Heras è la seguente: Nand Uavan.  In questa ed in altre trascrizioni diamo per scontato, naturalmente, che le interpretazioni linguistiche del gesuita ispanico siano ancora valide.  Benché circa una quarantina d’anni dopo siano state criticate da studiosi quali il Parpola, che pure hanno dimostrato verosimile l’ipotesi già accreditata negli Anni ‘50 che gli antichi sigilli della Valle dell’Indo riportassero una lingua paleo-dravidica.  Se cosi non fosse esattamente, stando a piú recenti od eventuali future dimostrazioni, la nostra tesi di fondo ivi esposta non cambierebbe di molto, né verrebbe in qualche modo inficiata.  Noi stessi del resto abbiam tenuto conto d’un quadro abbastanza diverso rispetto a quello prospettato da Heras, ossia la presenza nella zona vallinda di popolazioni non dravidiche come i Dāsa o Dāśa (donde presumiamo sia discesa logicamente la saga del Dāśarāja, che abbiamo cercato di documentare nel Cap.I); genti che il Parpola – almeno fino alla metà degli Anni ’90 riteneva proto-arie (ma non siamo aggiornati su eventuali ulteriori sviluppi da parte dello studioso finnico o di altri suoi colleghi dopo quella data) – e che noi, invece, riteniamo turane.   Crediamo che l’importanza di codeste popolazioni sia trasparsa al Parpola attraverso l’analisi in dettaglio del gveda e delle fonti iraniche parallele.  Da parte nostra siamo invece giunti ad un risultato analogo mediante lo studio approfondito del Mahābhārata, continuando quello della prima tesi di laurea, e d’un testo del folclore kashmiro già segnalato da Padre Heras.
74)        Il termine deriva da una lingua moderna, il sindhi, e designa il tumulo in cui sono state fatte le scoperte archeologiche dopo opportune segnalazioni.  La base del primo termine del composto è comunque in sanscrito la stessa dei vocaboli moh-a (‘privazione di coscienza’), mok--a (‘liberazione, morte’).  Ciò indipendentemente da ogni altra questione.  Vi è infatti chi ha prospettato, in proposito, un’antica distruzione atomica.  Cfr. G.Acerbi, I Vimana. Le macchine volanti della Preistoria e il transumanesono dei cyborg- Alle pendici del Monte Meru (blog, 10-02-17), Video D.
75)        In un passato recente è possibile che questi simboli enumerati, in qualche rara occasione, si siano sovrapposti e confusi.
76)        I Cicli Avatarici seppur sotto altro nome erano conosciuti in tutta l’area indomediterranea e nelle sue propaggini culturali: dall’India alla Persia, dalla Mesopotamia alla Grecia, dall’Italia antica alla Gallia.
77)        Per un approfondimento del tema cfr. Ac., Il culto del N., passim.
78)        Vide Cap.IV, n.17.
79)        Ch. Autran, La Flotte a l’Einsegne du Poisson- Libr.Orientaliste P.Geuthner, Parigi 1939.
80)        Vide Cap.I, n.266.
81)        Presso i Latini vi è un re mitico, Numa, che per quanto citato nell’enumerazione dei <Sette Re> dopo Romolo andrebbe collocato al primo posto.  Cfr. Cap.1, n.262.
82)        Wikim.C.: Minosse con Scettro d’Oro e Corona Tripuntata giudica i Morti nell’Ade (miniatura anonima dall’Othea’s Epistle Queen’s Manuscript, XV sec.). 
83)        Wikim.C.: Pasife con Corona Tripuntata e il Toro (miniatura anonima dall’Othea’s Epistle Queen’s Manuscript, XV sec.). 
84)        A conferma di quanto preannunciato nel Cap.VI, §o.
85)        Vide n.92.
86)        Cfr. pure Ac., La legg. di Ba., §c, p.3.
87)        Vedi immagine di Amymone, condotta via sulla groppa da  Poseidone, munito di coda pescina e di cresta unicorne; incisione in rame di G. Pencz, copia da A. Durer, XVI sec.
88)        La trilobazione della Coda del Delfino greco-cristiano è posta talora in certe effigie delle catacombe cristiane in correlazione col Tridente, che rappresenta esotericamente la Triplice Via ermetica del Sacrificio (Destra, Centro, Sinistra); anche il Makara indo-buddhista, pur non essendo associato al Tridente al modo del Delfino Cornuto testé citato, possiede corna antilocaprine e quindi presume la stessa applicazione simbolica.  Cfr. sui due argomenti G.Acerbi, Il Magn. P., sgg.  Il Delfino, di per sé essendo emblema di Resurrezione, si spiega col fatto che i Cristiani a differenza dei pagani credevano nella Resurrezione dei corpi.  Ma Resurrezione del corpo non significa tanto che si rinasca esattamente collo stesso corpo e colla stessa mente, quanto piuttosto che il complesso psichico-spirituale una volta scissosi dal corpo e poi fra le due componenti che lo costituisce favorisca di poi una rinascita spirituale completa, vale a dire con una corporalità in relazione ad un analogo apparato psico-intellettivo.  Dal che s’intravede come la Rinascita, la Palingenesi, la Metempsicosi e la Resurrezione non sono che varianti d’un medesimo concetto.
89)        Ker., op.cit., Vol.2, L.ter., Cap.1, pp.244-8; inoltre, Grav., op.cit., §98 sgg.
90)        Essa era stata provocata dal Toro di Minosse (da taluno identificato un po’ incoerentemente al Minotauro), condotto da Eracle ad Argo; e poi di là fuggito nella pianura di Maratona, ove la bestia aveva fatto centinaia di morti, tra i quali appunto un rampollo del tiranno cretese.
91)        Da identificare funzionalmente, in quanto signore del mare, da una parte a Minosse e dall’altra a Poseidone; quest’ultimo difatti talora lo rimpiazza, impersonando un ruolo idealmente paterno nei confronti dell’Eroe.  Nella vicenda ivi narrata Egeo viceversa svolge la parte di padre putativo di Teseo, o patrigno se vogliamo.
92)        Secondo certuno (Paus., Per.- i. 17, 3 e Hyg., De astr.- ii. 5) Tetide avrebbe offerto in dono ad Anfitrite (allotipo della Nereide) la sua Aurea Corona, regalo di nozze di Afrodite; indi, essa sarebbe stata  data da costei  a Teseo e l’Eroe l’eroe l’avrebbe concessa a propria volta in omaggio alla bella Arianna.  Questo – è vero – non basta a dimostrare che pure Poseidone, il consorte di Anfitrite, portava sul proprio capo un’analoga corona; tuttavia non c’impedisce di ritenere il fatto assolutamente verosimile, soprattutto se collegato alla storia mitica dell’invenzione del Tridente da parte dei Ciclopi, o dei Telchini.  Vide n.104.
93)        L’anello d’Oro di Minosse, al pari del Filo Magico o della Collana (vide n.94) di Arianna che servirà a Teseo quale protezione dal Labirinto) è senza dubbio un emblema zodiacale.  Riguardo l’Anello d’Oro caduto nel ‘Fondo del Mare’ narrasi che le Nereidi, su invito di Anfitrite (Grav., op.cit., §98.j, p.308), lo abbiano riportato a Teseo prima della risalita di costui in superficie.
94)        Grav., cit., §98. k-o, pp. 308-9.
95 )       Secondo altri una ‘Collana’, avente fondamentalmente pur essa una funzione apotropaica.
96)        La forma primaria del Labirinto era quella di uno svastika, a parere del Cook (Co., op.cit., §6.g [xiv sgg], pp. 476-7, fig. 333-43); ma, successivamente, sarebbe subentrata al posto della precedente la forma quadrata ed in ultimo quella spiralica.  Non sempre tuttavia, si badi bene, lo Svastika possiede una caratterizzazione polare; per esempio nel mito citato la valenza solare è assolutamente indiscutibile, od almeno prevalente sull’altra.
97)        Questa posizione centrale dell’Uomo-toro (op.cit., p.477, fig.377), che di primo acchito parrebbe testimoniare a favore di un’interpretazione polare della vicenda, si riferisce invece nel caso considerato all’aspetto meridiano-zenitale del Sole all’Equinozio di Primavera; tenendo conto che il Quadrato può rappresentare anche il Quadrilatero Celeste, non soltanto la Terra Paradisiaca.
98)        Cit., §xv, p.493, fig.355; ivi il taurocefalo, col corpo nero cosparso di emblemi stellari, è abbrancato per il collo da Teseo.  Cfr. inoltre Grav., op.cit., §96.j.
99)        Co., op.cit., §14, p.473, fig.329; p.47, fig.330; p.494, fig.336, ove il Minotauro ha la pelle ricoperta di occhi (=stelle) alla maniera di Argo, chiaro doppione di Urano.
100)        Il Graves in un altro suo libro (Id., The White Goddess. A historical grammar of poetic myth- Faber and Faber, Londra-Boston 1961 [I ed. 1948; ed.it. a c. della Longanesi], Cap.XII, pp. 216-18) ci fa sapere dell’esistenza a Creta accanto al culto del Μινωταύρος di un rituale connesso ad un Μινέλαφος (‘Uomo-cervo), suggerendo altresí che una posizione intemedia nella venerazione di tali animali sacri era mantenuta dal Μινώτραγος (‘Uomo-capra’).  Ciò c’induce a ritenere che, come nel caso del greco Atteone – trasformato gradualmente dapprima in elafocefalo ed immediatamente dopo in un essere interamente elafomorfico – pure nella storia del Minotauro fosse implicata una simbologia misterica di siffatto genere, ossia di valore equinoziale-solstiziale.  Vide nn. 94-5 et infra.
101)      Il nome Thēseús, ci suggerisce una volta di piú il Graves (I m.gr., §11, p.41, n.2), pare derivare non meno di quelli di Thétis (Tetide, paredra di Peleo) e di Tethys (Teti, paredra di Oceano) dal vr. títhēmi (‘ordinare, disporre’); da ciò risulterebbe palese la connotazione demiurgica di tutti gli appellativi indicati, la qual cosa è comprovata nel caso di Teseo dalla funzione assiale dell’arma con cui egli affronta l’Avversario malefico.  Cfr. col mito vedico di Indra e Vtra, quest’ultimo talora in sembiante di Mga.   Il Toro del resto, non meno del Cervo, assume talora – sia nella mitologia occidentale che in quella orientale – la parte sostenuta piú anticamente dal Drago o dal Serpente.
102)      La Corona di Tetide, ovvero di Afrodite Urania (una facies della dea convergente con quella denominata Afrodite Anadiomene, visto che questo appellativo significa in greco ‘Emersa-dalle acque’, s’intende celesti…) era quasi sicuramente un copricapo triradiato o tricorne; dal momento che si è già segnalato antecedentemente (vide Cap.IV, n.19) come l’appellativo di Our-an-í-a – equivalente sotto l’aspetto filologico (per via d’una metatesi consonantica intervenuta in latino) alla romana Venus, er-is (oppure a Ven-īl-i-a) ed alla Vārui indiana – sia, almeno nella seconda parte del termine,  apparentabile al paleo-mesopotamico Am-a-a ed al proto-indico Am-m-a.  Si noti per inciso che la voce messapica An-a (‘Regina, Madre’) – correlata al lat. an-us (‘donna, signora, vecchia’) ed all’a.at. an-a (‘ava’) – è un nome di Afrodite rintracciabile nelle iscrizioni votive del Salento preistorico, soggetto sicuramente ad influenze egee (A. di Nola, s.v.RELIGIONE ROMANA, §1, p.454; apud AA.VV., Enc., Vol.5).  Ora, siccome il possibile corrispettivo maschile di codesta dea ossia il pluricitato An od Aṇ –omologabile sempre per metatesi consonantica al scr.Varua, pref. *w- a parte –  era effigiato tricorne (vide supra), riteniamo legittimo immaginare che anche la paredra di tale nume potesse all’occorrenza sfoggiare un analogo copricapo regale.   
103)      La Corona Borealis è ubicata in cielo fra Hercules e Bootes (‘Boaro’), accanto a Serpens e Scorpio, oltreché in opposizione al Toro.   Se, partendo dal Polo Celeste (ancora in Draco al momento della prima stesura di codesto testo ed ora passato a partire dal 3 maggio del Duemila – in verità l’Anno Zero d’una nuova Età dell’Oro –  in Ursa Minor o, piú precisamente, nella Stella Polaris) tracciamo idealmente tre cerchi concentrici nell’emisfero celeste otterremo che i 3 surriferiti asterismi di H., C.B. e B. si troveranno nella zona circumpolare, piú interna; invece Scorpio e Serpens, asterismi entrambi sullo stesso diametro della C.B., saranno collocati l’uno nella zona maggiormente esterna delimitante il Circulus Zodiacus (da Aries a Pisces) intermedia e l’altro nella fascia celeste a mezzo fra le due cosí delineate.  Dal quadro celeste appena tratteggiato ne dedurremo che l’importanza cosmologica della Corona B. doveva essere un tempo senz’altro prossima a quella dello Scorpione; costellazione che, all’inizio della greca Età del Ferro segnava l’incedere dell’Autunno.  Tanto piú che nel rapporto cronologico a livello quaternario fra l’Anno Sacro e l’Eone è proprio tale momento stagionale, corrispondente nella simbologia dei Quartieri Cosmici all’Ovest, che veniva esaltato durante il periodo ciclico indicato.  A conferma di codesta nostra ipotesi, scopriamo che presso certe tribú nordamericane di Pellerossa (A. di Nola, s.v.ASTRI, §d, p.717; apud AA.VV., Enc., Vol.1) la costellazione della Corona – insieme parzialmente a quella di Boote – ha assunto agli occhi di quelle genti la fisionomia della <Grotta> ove s’immaginava andasse in letargo l’Orso al principio dell’Autunno, per uscirne in Primavera; con palese allusione da un lato all’Orsa Maggiore e, dall’altro, al luminare diurno ovvero alla luce solare.  Di certo, delle 7 stelle componenti l’asterismo della Corona solo 3 – una centrale (la stella α, ossia la maggiore in magnitudo) e 2 alle estremità dell’arco da esse formato – devono esser messe in risalto, al fine di delineare una possibile mitologia astrale concernente l’Aurea Corona di Teseo (Dioniso) ed Arianna.  Segnaliamo inoltre che tale carattere ternario, in associazione colla costellazione della Corona, non è un fattore esclusivo della mitologia egea; infatti, esaminando i miti nordici (ibid., s.v.CELTI, §6, p.1708), c’imbattiamo in Arianrhod ovverosia  in una sorta di Ariádnē celto-britannica (della quale trattasi in uno degli 11 racconti gallesi del Mabinogion, figlia  di Don (cfr. nell’etimo, colla Dana irlandese, la Danáē greca e la Diana latina) nonché madre di Dylan Eil Ton (il <Figlio del Mare>); costei è d’altra parte accompagnata da 2 sorelle divine, assieme alle quali formava sicuramente in tempi pre-medievali una trimorfia lunare del tipo di quelle diffuse contemporaneamente nel Mediterraneo Orientale.  Siffatte <Tre Sorelle> sono comparabili indubbiamente alle 3 dee che nella tradizione cretese compaiono sotto l’aspetto di Vegliarda, Madre e Vergine e che vanno sotto i nomi di Europa, Pasife ed Arianna.  In ultimo è opportuno rilevare come la situazione astronomica poc’anzi descritta, con la costellazione di Ercole posta accanto alla Corona Boreale (W.Schroeder, Astronomia pratica- Longanesi, Milano 1967, Cap.XVI, p.234, mp.19 ed App., p.249, fig.78; ed.or. Practical Astronomy, edit. ed ediz. nn. cc.), spieghi il motivo onde la vicenda del Minotauro sia legata per un verso al personaggio di Eracle; che lo doma in veste interamente tauromorfica, conducendolo alfine in Attica.  E per un altro verso alla figura di Teseo, che finice per annientare il mostro tauromorfo nella Piana di Maratona o nell’aspetto semiumano da esso diversamente assunto dopo esser stato ioncongruentemente trasferito di nuovo nella sede cretese.  Ma secondo quant’è logico attendersi, non si deve pretendere un’eccesiva coerenza dai miti; dato che questi descrivono situazioni paradigmatiche, rispecchiando soltanto metaforicamente la verità storica.      
104)      K.N. Mukherji, Popular Hindu Astronomy- Sree Saraswaty P.L., Calcutta 1969, Intr., Ex.VII, p.47.
105)      Mukh., op.cit.  Altre preziose informazioni su tale asterismo si trovano in A. di Nola, s.v.GRECIA, Religioni della; apud AA.VV., Enc., op.cit., Vol.3 p.576.  Ovvero secondo Igino (Astronomia poetica- ii. 4) Filomelo, figlio di Iasione e di Demetra, sarebbe stato trasformato in Boôtes quale premio per aver aggiogato per primo i buoi al carro.  Esichio (Lex.., s.v.: βουζύγη = ‘colui ha messo il giogo al bue’) et al. aggiungono senza nominarlo altrimenti che l’eroe ha aggiogato i buoi per i lavori dei campi e ne ha fatto degli animali sacri all’agricoltura col divieto di ucciderli.  Questo principio valeva in origine non solo per Indiani ed Iranici, com’è rispato, ma pure dunque per Greci e Romani.  Cfr. L.Quilici, Roma primitiva e le origini della civiltà laziale- Newton C., Roma 1979, pp. 96-7.
106)      Presso i Kirghisi (A. di Nola, s.v.ASTRI; apud AA.VV., op.cit., Vol.I, p.718), popolazione uralo-altaica, le 7 stelle dell’Orsa Maggiore fungevano da ‘guardiani’ delle stelle: le loro luci erano paragonate a dei cavalli, che se fossero stati raggiunti dal lupo (la notte perpetua) sarebbe giunta la fine del mondo.
107)      È ovvio che la cosa valga per gli stessi Dioniso ed Arianna, poiché entrambi sono descritti nella leggenda narrata con in testa la Corona d’Oro; ed anche a Teseo, che compie attraverso l’uccisione rituale del Minotauro un vero e proprio autosacrificio cosmogonico a livello demiurgico (vide n.seg.), è assegnabile un’analoga posizione dal punto di vista simbolico.  Egualmente dicasi per l’avversario del figlio di Poseidone.  Vide n.166.
108)      La validità della tesi da noi prima sostenuta circa il possesso da parte dei Ciclopi di una primaria simbologa cheratomorfica connessa alle future armi dei tre componenti del Triregno olimpico è dimostrata se non altro dal fatto che si possono reperire delle immagini, sagomate su bracieri in  terracotta di modello ellenistico, ritraenti – secondo il Furtwängler – un singolo Ciclope col Fulmine disposto centralmente sulla sommità del proprio capo.  Vide Co., op.cit., §6.d (vii), p.319, figg. 251-3 (con comm. alle pp. 318-9).  I Tre Telchini non sono, dunque, che una variante dei Tre Ciclopi.  Si noti che, presso i gruppi a loro affini (Cureti, Cabiri), uno dei tre numi solari componenti la sacra terna – denominato Kábiros o Cádmilos/Cásmilos – aveva un ruolo centrale rispetto agli altri due; ciò ovviamente conferma la nostra personale supposizione che il Tridente da loro fabbricato per Poseidone fosse in principio nient’altro che un paio di corna, dotate di valenze simboliche contrapposte, ed una protuberanza intermedia avente un ruolo unificante rispetto alle altre due laterali. 
109)      Erroneamente qualcuno asserisce che la Corona sia stata una volta null’altro che un serto vegetale (op.cit., §6.g, xv, p.492).
110)      Op.cit., Vol.2, P.I, Cap.II, §3.c (i.delta), p.537, fig.407.
111)      A Ténedos (isola sudovest di Troia, a metà strada circa fra Samotracia e Lesbo), come a Creta, la Doppia Ascia era venerata secondo i dettami della cultura egea; che concepiva tale simbolo quale doppione delle due teste gianiformi, reperibili nelle monete indigene di stile arcaico.  Presupposto mitico di codesta bifaccialità doveva essere da un lato, avendosi a che fare con un volto barbuto (= senile oppure maschile) ed uno imberbe (impubere oppure femminile), la duplice facies di un nume multiforme quale Dioniso (magari in vicendevole contrapposizione a Zeus);  e dall’altro forse la coppia divina piú attuale della tradizione minoica, vale a dire Dioniso ed Ariadne, versione anellenica degli ellenici Apollo e Artemide.  Vide §i. omicron, p.654 ss (figg. accluse), confrontando le immagini bifronti ivi riportate con altre equivalenti seppure estrapolate da diverso contesto dei due numi greci.  Ibid., §3.a (v. tau), pp. 388-91 (figg. accluse).  A partire dal VI-V sec. a.C. si assiste pure in continente ad una fioritura, sia in certo vasellame sia in campo numismatico, del motivo delle teste gianiformi; con una differenziazione dei due volti adiacenti che, sviluppandosi da binomi del tipo Sileno-Dioniso o Sileno-Apollo, si spinge fino all’accostamento del viso barbuto di Dioniso a quello femmineo di Ariadne.  Tale fenomeno di diversificazione culmina in epoca romana, determinando la fioritura molteplice dell’effigie bifrontale di varie coppie analoghe; come quelle di Ermete ed Estia, Tritone e Libia ovvero Api ed Iside (ib., pp. 391-2 e fig.300).  Nel caso si volesse ciononostante insistere nell’obiezione che le figure gianiformi di Ténedo non siano quelle di una coppia divina, bensí di una divinità in aspetto simultaneamente giovanile  e senile, saremmo costretti allora a rifarci a Macr., Sāt.- i. 4-5 ss.  L’autore latino, anche se tardo, spiega infatti dettagliatamente come le immagini di Giano potessero prsentarsi in forma di Iānus Bifrōns oppure di Iānus-Iāna (identificati ad Apollo-Diana, nome quest’ultimo che sarebbe derivato dalla voce Iāna per aggiunta d’un pref. d- di carattere eufonico); secondo che s’intentendesse riconoscere in esse una complementarietà fra i due momenti antitetici del cammino giornaliero ed annuale del Sole, oppure fra le inverse funzioni dei due luminari celesti.  Dunque, le cose non cambiano di molto adottando una un’interpretazione solare od una lunisolare; sicché ci pare lecito intendere in un modo o nell’altro, senza distinzione alcuna, le Due Facce della Doppia Ascia.  Giacché, di necessità, ciascuna interpretazione racchiude in Sé potenzialmente anche l’altra, l’Unità metafisica essendo di per sé indistinta; anche se non assolutamente indistinta, altrimenti sarebbe l’Assoluto.  La bifaccialità dell’Ascia e la bifrontalità del Volto alludono essenzialmente a questo principio non-duale.  In origine, comunque, il Doppio Volto doveva rappresentare la non-dualità tra l’Uomo e la Divinità, l’uno effigiato come imberbe perché di recente nato e l’altro come vecchio per alludere all’<Anziano-dei giorni>. 
112)      Ibid. come alla 110, p.539.
113)      I culti cretesi di Zeus e di Crono erano caratterizzati, rispetto a quelli equivalenti del continente, da tratti sicuramente piú rozzi e tribali.
114)      Ib., p.537, figg. 408-9.
115)      Ci segnala ancora il Cook (ibid. come alla 111, pp. 663-7) che anticamente nell’isola di Ténedo erano presenti degli insediamenti minoici, presso i quali veniva praticato dai locali – autodenominantisi Astérioi – un arcaico culto del Granchio (di fiume) e della Doppia Ascia.  Cotesta effigie, determinata dall’associazine dei due simboli, fa sicuramente il paio con quella rilevabile in certe monete agrigentine (ib., figg. 604-5); ove vediamo apparire, all’interno delle Chele di un non troppo dissimile Crostaceo, un’Eiptome Taurina o un Gorgóneion.  Il significato solare di entrambi gli emblemi descritti, in relazione al Cancer zodiacale ovverosia al Trionfo estivo della Luce, è logicamente fuor di dubbio.  A riprova di ciò talvolta in certe monete d’argento del IV sec. a.C. si ha, al posto del Granchio, una Testa di Leone; Naturalmente, la sfasatura solstiziale di 30° non è solo una questione di precessione equinoziale (cfr. il passaggio del P.V. dal Toro all’Ariete nella seconda metà del III mill. a.C. ed il conseguente spostamento zodiacale di tutti gli altri Punti Cardinali), la differenza considerata dipendendo da ben altre ragioni.  Vedi il divario di Segni intercorrente tra lo Zodiaco Tropicale (a Segni Fissi) e lo Zodiaco Siderale (a Segni mobili).  Veniamo informati in ultimo dall’autore che i 3 Kabeíroi (Axiókeros, Axiokérsa e Axíeros), adombranti la grande triade formata da Zeus, Semele e Dioniso, venivano chiamati da Esichio Karkínoi e cioè ‘Granchi’.  A Lemno, presso Ténedo, pare inoltre che tali figure fossero dichiarate prole di Efesto, il divino artefice; perché nel mestiere di fabbro l’impiego delle tenaglie,o delle pinze, era naturalmente di prammatica.  Lo stesso simbolo poteva essere impiegato con una connotazione malefica, a significare una via spirituale opposta (la ‘Via di Destra’), facendo del Cancro la Porta degl’Inferi.  Ma non ci pare qui il caso, trattandosi nel contesto d’una iniziazione di tipo artigianale, in riferimento all’Età del Ferro.
116)      Ibid. come alla 113, p.540, fig.412.
117)      Cfr. Cap.VI, n.203.
118)      Ib., § i. epsilon, pp.540-50.  È naturale tuttavia che allorché il Cronide faccia le veci di Crono semplicemente ne erediti i tratti simbolici,  senza modificarli, ma solo adattandoli alla sua personalità divina; e che fungendo, invece, da <Padre degli Dei> assuma viceversa una diversa fisionomia: tridenaria anziché settenaria, diurna anziché notturna, pluviale anziché agraria (orticola) ecc.  È ciò che, principalmente, è purtroppo sfuggito all’attenzione degli storici delle religioni (e dello stesso Eliade, che ne è stato pur sempre – crediamo – il piú valido rappresentante); i quali hanno talvolta creato un po’ di confusione nelle genealogie dei numi, comparando spesso dei nomi divini appartenenti a periodi ciclici del tutto distinti e scordandosi per contro di tracciare delle correlazioni laddove sarebbe stato non soltanto lecito, ma doveroso farlo.  È il caso tipico, ad es., dei cicli fra di loro prettamente omogenei; ammesso ovviamente che ciò possa essersi davvero verificato, cosa che è sempre da valutare con estrema discrezione.
 119)      La natura titanica della trioftalmia divina è già stata da noi rilevata alla n.17.  Seppure Crono di per sé non sia mai stato fornito di tale fisionomia in tempi storici, è pur vero ad ogni modo che i Ciclopi – a lungo venerati nel Mediterraneo, e peculiarmente in terra sicula, nota altrimenti per essere stata una sede arcaica di Saturno-Crono (vide Cap.VI, n.15) sono essenzialmente delle ipostasi di codesto nume; vale a dire sono rapportabili al dio in linea di massima, non meno di altre serie ternarie maschili (vide n.108), proprio come le varie trimorfie lunari lo sono attraverso Artemide-Ecate.  Si badi che, in India, una facies abbastanza consimile a quella dei Ciclopi viene assegnata a  Mahākāla; dotato di testa con fisionomia taurina (parallelo indiano della taurocefalia del Crono delle dracme elleniche del V sec. a C.), seppure con occhi globulari alla maniera delle serpi, nonché dotato di occhio frontale.  Tale divinità incarna il volto consolatorio di Śiva, tramite cui Mahādeva vince sé medesimo.  Ossia Kāla, il celeste dio del tempo e della morte, ritratto in aspetto cadaverico o naniforme; il quale nonostante la sua terribile potenza dissolutrice è costretto alfine a soggiacere al primo nume, che è una vivida personificazione dell’Eterno, in altre parole dell’Amore Universale.  Tra i due, Mahākāla e Kāla, ci sta ina figura intermedia: l’Akāla delle Upaniad, quantunque il primo di costoro funga altrimenti da secondo Purua, trasponendo i 3 termini sul piano vishnuita.
120)      Ibid. come alla 109, §xix, pp. 545-7.
121)      Ib., §vi, tav.XXX (a fr. di p.502).
122)      §xviii, p.526.
123)      Se non si vuole definirli rigorosamente in codesti termini, gli stessi sono almeno da assimilare a grandi linee a tali figure.
124)      Onde valutare gli sviluppi tipici della simbologia del Corno dell’Abbondanza sul suolo indiano è necessario rifarsi a M.Chandra, Nidhiśṛṅga (Cornucopia). A Study in Symbolism- P.W.M.B., Bombay ?, N°9, pp. 1-33 sgg (figg. accluse).  Moti Chandra asserisce ivi che in un primo tempo gli orientalisti, peculiarmente J.Allan e H.Ingholt, reputavano la Cornucopia un dono iconografico dell’Occidente, concesso da parte dell’arte ellenistica a quella indiana di epoca post-alessandrina.  Ciò per il fatto che essi ignoravano la rilevanza culturale e rituale del Corno dell’Antilope Nera nell’ambito dello Yajña vedico; piú tardi, nell’epica, il Corno di Toro o di Rinoceronte e la Zanna di Elefante (che in certe rappresentazioni di Gaeśa è per l’appunto resa singola od altre volte persino triplicata) subentrano ad ogni modo al primo, relegandolo cosí nel folclore.  Specialmente Kubera (figlio di Iavīla, evidentemente la ‘Vacca’ – o Śakti – signoreggiante il Kaliyuga), il Dioniso orientale, riceve in dotazione il possesso di simile attributo (vale a dire il Corno di Toro); questo l’apparenta, parzialmente, a Gaeśa.  Persino ad Indra viene assegnato nella .S.- i. 163, 9 un Corno d’Oro (Hirayaśṛṅga).  E non è ben chiaro dal contesto a parere di Chandra se tale Corno costituisca un elemento propriamente decorativo, oppure fisionomico, della figura del Re degli Dei induista.  Questa singola valutazione dell’autore ci pare però inadeguata, essendo principio-base dell’iconologia religiosa che ogni tratto divino detenga un significato simbolico; quindi, conta poco o niente che l’elemento rientri nel piano decorativo oppure fisionomico.  Risulta interessante peraltro che in alcuni testi brahmanici (ibid., §1, pp. 6-7) le Corna – ed alternativamente il Corno Singolo – dell’Antilope o del Cervo vengano paragonati alla Yoni della Dea Madre, presiedente al sacrificio cosmogonico.  In effetti, il Corno dell’Abbondanza può essere inteso talora passivamente, in qualità di Coppa; interpretato in codesta vece, esso dispone allora d’una simbologia palesemente complementare a quella di ‘Corno Centrale’ dei Tricorni o al ‘Corno Unico’ degli Unicorni, entrambi essendo a loro volta equivalenti al Liga.  Tuttavia è pure ammissibile, indipendentemente da quel ch’è attestato dalle Scritture, concepire un’equivalenza in senso attivo tra il Liga e la Cornucopia; qualora non s’intenda quest’ultima un doppione del Pūrakumbha bensí, in virtú della propria assialità, un emblema dell’Asse Cosmico.  Il scr. Nidhiśṛṅga, che il Chandra – ib., p.13 – desume dal Viudharmottarapurāṇa (scritto appartenente, al dire dell’autore, al Periodo Gupta), è traducibile letteralmente colla seguente espressione: “Il Corno dei Tesori”.  Oltremodo significativa è del resto un’affermazione (p.12), reperibile nel Ragh.- ii. 2, che definisce lo ‘Spazio Intermedio’ tra le Corna della Vacca (Śṛṅgāntaram) quale vera porta per l’ottenimento della ‘Prosperità’.  Vi è ancora da notare, alla fine (p.10), che in India il Corno è tradizionalmente servito da mezzo di consacrazione nella cerimonia regale del Rājasūya.  Il che è apertamente documentato, secondo quanto si è su accennato, dall’epica.  
125)      L’Ascia – come ci indica l’etimologia medesima (dal lat. Asc-i-a, termine collegato ad Axis, che ha il valore di ‘Asse’ nel doppio senso ontologico e cosmogonico; cfr. le due voci citate rispettivamente col gr. Ax-īn-ē ed Áx-ōn dallo stesso valore semantico, ovvero cogli analoghi sostantivi in sanscrito Ak-ar-a = ‘Spada, Sacrificio’ ed Aka = ‘Asse’, provenienti dal vr. ak = ‘passare attraverso, penetrare’) – per via della sua porzione fitomorfica, essendo il manico di questo strumento nient’altro che una verga, è addivenuta per trasposizione simbolica un emblema dell’Asse del Mondo; per via della sua porzione litomorfica essa si richiamava invece in modo esplicito al potere di vita e di morte connesso al sacrificio rituale, mediante cui si attuava un’applicazione inversa (sia pure a livello solo strettamente cerimoniale) della combinazione dei due principî universali – ad un tempo contrapposti e complementari – inerenti al Sacrificio cosmogonico.  In ambito eIlenico il collegamento tradizionale fra l’Ascia, quale arma sacrificale, ed il Bovide è attestato presso un frammento letterario attribuito a Simonide di Cheo (Co, op.cit., Vol.II, P.II, Cap.II, §3.c [i. omicron], p.659 ss).  In pratica, lungo tutto l’Egeo la suddetta arma (piú arcaica, quindi d’origine evidentemente turo-danaide, mentre gli Indoari secondo quanto si deduce dall’etimo usavano la spada) era ritenuta un contrassegno prettamente dionisiaco, come dimostra l’esistenza parallela sulla costa tessalica d’un culto di Dyónisos Pélekys.  Cfr. col Paraśurāma indiano, seppure invero tal personaggio appartenga mitologicamente al ciclo argenteo, al quale del resto può venir ricondotto lo stesso dio egeo-cretese qualora sia assimilato a Crono; o meglio all’Elio titanico, anziché all’Apollo ferreo e tauromorfo, vale a dire al figlio di Zeus e Latona.  In un’anfora attica a figure nere su fondo rosso (ibid., fig.600) compare un Sīlēnós, equiparabile a Dioniso nei panni di vegliardo ossia di solitario viandante; in tale veste si presenta effettivamente il Sole in alcune mitologie indoeuropee, compresa quella indiana.  Da notare che il nome Sīl-ēn-ós nel tema *sil- sembra doversi connettere all gr. sél-as = ‘splendore’, probabilmente derivato da *svél-as per perdita del digamma, oltreché al lat. Sol = ‘Sole’ ed al scr. Śvar = ‘Cielo’ oppure ‘splendore’; mentre attravero il suff. - ēn- esso denota dominio e signoria, al modo dell’analogo suff. -on- (già considerato alla n.203 del cap.prec.) nel termine Kr-ón-os. Ci si può peraltro richiamare alla voce correlata Sel-n-ē = ‘Selene’, la dea signora della luna.  Il Vecchio dell’anfora, munito di Doppia Ascia, nonché di Cornucopia, è seduto in groppa al Toro; ma, contrariamente a quanto dicevasi poc’anzi è per l’occasione affiancato da 2 altri Sileni (caratterizzati a differenza del primo da evidente itifallismo), danzanti davanti e dietro il quadrupede.  Logico quindi supporre che le 3 immagini maschili impersonino, sequenzialmente, il movimento solare;  comunque sia, un unico dettaglio della scena è da porre in risalto a nostro tornaconto e cioè la complementarietà simbolica tra i due oggetti sacri (Cornucopia ed Ascia) impugnati da Sileno, che altri non è in definitiva se non una controfigura di Elio-Dioniso.  
126)      Giacché la Cornucopia (cfr. n.prec.) raffigura, nella sua imparità, l’Unità Divina; ciò che vale, del pari, in altro contesto, per il Corno Singolo dell’Unicorno e per il Corno Centrale del Tricorno.
127)      Si dà il caso a volte che un paio di Cornucopie siano disposte ai fianchi d’una Verga, o qualcosa che le corrisponda, in posizione mediana; quest’ultima assume allora una funzione primaria ed assiale fra le altre due, evidentemente in un ruolo tra di loro reciprocamente antagonistico (op.cit., §3.a [vi. zeta], pp. 441-2, figg. 340 e 344).  Nella prima delle due immagini, un medaglione romano in ottone del I sec. d.C., rinveniamo 2 Cornua Copiae ai lati d’un Caduceo Alato unito ad esse nella parte inferiore; dalle stesse fuoriescono i capi di 2 Fanciulli, ritenuti giustamente dall’autore un’effigie della Doppia Regalità, vale a dire figurativamente di Romolo e Remo.  L’immagine può avere 2 significati: ovvero alludere da un lato alle due dinastie, lunare e solare (vide n.125); dall’altro alla doppia autorità, regale e sacerdotale, donde proveniva la consuetudine tradizionale del pluralis maiestatis in tutte le occasioni nelle quali si esprimevano non delle opinioni personali bensí la voce piena della legge, religiosa e non.  Nell’altra raffigurazione, una moneta di bronzo della medesima epoca, abbiamo al posto della Verga ermetica l’Ancora, emblema certamente di fissità; ciò che è conforme alla leggenda (ibid., p.441) secondo cui Romolo in obbedienza all’oracolo delfico (sic!) avrebbe fatto installare due aurei busti, di Sé e del proprio gemello, presso le magistrature di ogni sede urbana sottoposta al dominio romano.  Evidentemente, per invocare una severa ed imparziale inflessibilità; e, ad un tempo, la necessaria malleabilità nelle sentenze dei magistrati.  Esotericamente il motivo simbolico proposto si richiama in modo esplicito alle tre grandi vie spirituali contemplate in ogni tradizione, che costituiscono la base di tutta la cultura umana ed hanno un carattere veramente universale.  Lo ritroviamo anche nel Cristianesimo, sotto l’aspetto in apparenza assai esteriorizzato del racconto evangelico delle ‘Tre Croci’; qualora ovviamente si accetti d’attribuire un significato piú profondo di quello immediato alla parabola dei ‘Due ladroni’, percorrenti due sensi inversi, onde raggiungere una meta finale in realtà equivalente.  Osserviamo peraltro che pure gli Aśvina e i Dioscuri debbono aver avuto in origine, nelle rispettive tradizioni alle quali appartiene le la loro mitologia, un rapporto con i due poteri.; il terzo, quello regale, svolgendo una superiore azione per cosí dire di coordinazione tra entrambi.  Nell’induismo, però, è piú chiaro che altrove il rimando astrale di codesto antico emblema dei Gemelli Divini; che si rifà, come ancora una volta succede di trovare, all’inizio del Kaliyuga.  E, precisamente, al momento ciclico in cui il Punto Vernale trovavasi a 0° dei Gemelli (cioè a 30° del Toro).  Ciò spiega, senza bisogno di ulteriori commenti, la naturale associazione degli Aśvina col Toro del Dharma, ossia praticamente colla Legge, la cui perennità corrisponde alla durata dell’intero ciclo di manifestazione presieduto simultaneamente da 2 Segni.    Che Romolo e Remo abbiano avuto un pari trattamento fra i Latini in tempi protostorici è sottolineato dal fatto che in alcuni esempi iconografici, sempre nel conio di epoca imperiale (Co., op.cit., p.443, figg. 348-51), si vedono chiaramente due stelle brillare sopra la testa dei Gemelli romani.  Comunque il nome primario di costoro, prima dello sdoppiamento di un unico eroe eponimo troiano in due personaggi eroici, era Rhomos (Mor., op.cit., s.v.ROMOLO, pp. 434/ col.b/-435/ col.a); analogo al scr. Rāma, pure sdoppiato in India al fine di rappresentare due susseguenti avatāra vishnuiti.  Per un approfondimento al riguardo vide G.Acerbi, Afrodite, la ghibellina ‘Imperatrice del Mondo’ e l’Avril merovingio- Alle pendici del Monte Meru (blog, 5-10-16), §1, n.4.
128)      Manzionato da Ker., op.cit., L.pri., Cap.1, p.36.
129)      Una diversa leggenda (op.cit., Vol.I, Cap.VI, §7 n.num., p.103) parla, viceversa, d’un amplesso di Zeus sotto forma aquilina.  E la sostituzione è perfettamente comprensibile, tenendo conto che il Solstizio Invernale era segnato nel IV e nel III mill. av. l’E.V. dall’Aquario; mentre, l’Equinozio Primaverile dal Toro. Si badi che, secondo certe versioni tarde della storia di Pasife, anche il toro che a lei si congiungeva era stato inviato in sacrificio a Minosse da parte di Zeus oppure veniva creduto essere stato Zeus medesimo.
130)      Cit.  Il Pesce raffigura la Rivelazione Primordiale, quindi associa indirettamente Europa – al pari di Io, che ne era custodita – ad Argo, il mostro tetracefalo costituente il volto quadruplice di Urano. 
131)      In un’antichissima metopa in calcare del Tempio C di Selinunte, ora al Mus.Naz. di Palermo (Charb.-Mart.-Vill., op.cit., p.117, fig.131), scorgiamo Europa a cavalcioni del Toro Divino.  Li accompagna una coppia di delfini, inverosimilmente scolpita fra le gambe del bovide, a suggerire il magico galoppo del mitico animale sopra le acque marine, invero celesti.
132)      Ibid. come alla 129.
133)      Ib. come alla 132, p.106.
134)      È ipostasi del Signore del Cielo (Ouranós) “stellato”.  Cfr. con Asterio, il consorte legittimo di Europa ed alter-ego dell’amante di costei, per l’appunto Zeus.
135)      Co., op.cit., Vol.I, P.I, Cap.I, §6. g (iv sgg).
136)      Op.cit., p.445, figg. 313-4.  Ciò è da allineare all’epiteto, attribuito ad Era,  di βοῶπις (“dall’occhio di vacca”).  Ibid., p.444.
137)      Difatti, ella non è solo l’amante del Signore dell’Olimpo, ma anche la sposa del primo mitico sovrano di Creta; sebbene sia palese che, in tali panni, venga adombrato un antico nume uranio-solare.
138)      Impieghiamo ivi per l’occasione Il termine ‘tricornicità’, anziché quello già usato di ‘tricornia’, nonostante si tratti comunque di un neologismo un po’ forzato, poiché vogliamo evidenziare la natura ripetitiva dell’impiego del simbolo cheratomorfico nelle varie serie divine elencate, femminili e non.  La parola cheratomorfisno’, d’altronde, presenta gli stessi difetti verbali delle precedenti, cosa che la fa apparire un po’ stonata; tanto piú che nell’applicazione della medesima alle voci derivate siamo altrove stati costretti a far uso del composto ‘tricheratomorfismo’, abbreviato per necessità eufoniche – precisamente per epentesi – in ‘tricheromorfismo’.  Se qualcuno avesse tuttavia da ridire sul lessico da noi adottato, anche nel caso in cui l’eventuale correzione si dimostrasse giustificata, non per questo risulterebbe errato il procedimento logico sin qua adottato.  Né sarebbe in quel caso invalidato il tentativo fatto da parte nostra di provare l’effettiva presenza nell’Alta Antichità, con importanti risvolti culturali ancora in epoca recente, di una complessa simbologia delle Corna.  Piuttosto, occorre aggiungere, la mancanza totale d’un vocabolario tecnico onde poter definire compiutamente i termini del problema evidenzia in maniera inequivocabile l’assoluta inadeguatezza delle lingue storiche a trattare una questione di carattere cosí eminentemente esoterico; e, per di piú, connessa ad una sacralità di tipo spiccatamente preistorico.
139)      Da notare che pure la Vergine Madre cattolico-cristiana è ritratta talora con una Corona a Tre Punte – o per meglio dire Tre Croci –  sul capo, circondato o meno da Dodici Stelle.  Cfr. C.G. Jung, Psicologia ed Alchimia- Roma, Astrolabio 1950 (ed.or. Psycologie und Alchemie- Rasher, Zurigo 1944), P.II, Cap.III, §3, pp. 234, fig.105 e 236, fig.107.  Circa l’etimo del nome Ariádnē si suppone che questo possa provenire dal pref. -ari e dall’a.f. agnē (‘puro’), da intendere probabilmente – crediamo – nel senso della ‘Signora Bianca’; il riferimento ovvio sarebbe quindi ad Ino-Leucotea, cui va riportata del resto la figura stessa di Hera, omologa della latina Iūno ed equiparata ad Isis in Epoca Alessandrina.  Il Bianco infatti è uno dei 3 Colori di Io, l’ipostasi vaccina in chiave lunare della Regina dell’Olimpo (Co., op.cit., §8 sgg).  Esso si addice, in particolar modo, alla facies virginale della dea lunare, in Creta incarnato per l’appunto da Arianna; parimenti il Rosso, emblema della facies materna, attiene piú propriamente a Pasife ed il Nero, la facies senile, ad Europa.  Ricordiamo ancora per finire che il celt. Arianrhod (vide n.103), designante l’equivalente nordico di Arianna, significa letteralmente ‘Ruota d’Argento’, in rapporto forse all’Anno (lunare).  Che i due etimi posseggano in fondo una valenza similare, al di là delle apparenze, è indirettamente dimostrato dal fatto che la /-an abbia acquisito in latino sia il valore di ‘signora, vecchia’ (an-us); sia quello di ‘cerchio, anello’ (ān-us), donde si hanno le voci derivate an-n-us e ān-ul-us.
140)      Op.cit. , §11, p.441.
141)      ‘Vacche’ era il nome metaforico con valore iniziatico delle sacerdotesse di Era, la Regina del Cielo; cosí come ‘Bovari’ era l’appellativo, denso di analoghe sollecitazioni,  dei sacerdoti di Dioniso (cit., §iii, p.441).
142)      Vide n.132.
143)      Cfr. Ker., op.cit., p.106; inoltre, ibid. come alla 140.  Poco vale al riguardo l’asserzione del Cook (ib.), il quale dichiara con superficialità – a dire il vero solo in questa ed in poche altre occasioni, perché si deve riconoscere un’indubbia validità al monumentale saggio composto dall’autore sulla principale divinità ellenica – che non ha alcuna rilevanza di colore della Vacca Lunare.
144)      Ibid. come alla 23.
145)      Co., op.cit., §§ c-f, pp. 275-6; il Kérenyi (ibid. come alla 143, pp. 105-6), al contrario, parla d’un Vitello Tricolore.
145)      Tra le fonti citate vi sono Hyg., Fab.- CXXXVI; Apd.Ath., Bibl.- iii. 3, 1 e Paus., Per.- i, 43, 5.
147)      Di lui si è già detto, prendendo in considerazione le quattro figure risopondenti a tale nome nell’ambito della tradizione greca.  Vide supra.
148)      L’interpretazione da noi precedentemente suggerita a titolo meramente provvisorio circa il personaggio di Glauco non teneva volutamente conto di tutti gli elementi della storia, ora invece a nostra completa disposizione.
149)      Un’associazione equivalente tra il Miele e la Morte era stabilita anticamente in Creta dalla dea-ape Kr, signora dei defunti.  Vide n.37.  Analogo ruolo dovette avere un tempo Kālī, la dea indiana dell’amore e della morte; se è vero che il scr. Amta (‘Nettare’), gr. Ambrosía (id.), vale letteralmente per ‘Amore, Non-morte’.  Cioè ‘Vita, Essenza vitale, Acqua di Vita’.  L’appellativo di ‘Api’ pare sia stato, d’altro canto, una comune denominazione tanto degli iniziati ai Misteri di Demetra (Co., op.cit., §iii, p.443) quanto degli alchimisti (rosacruciani) medievali.  Si pensi alla celebre formula ermetica “Dat Rosa Mel Apibus”.  Nelle Upaniad (Ch.U.- iii. 1, 1-2 ss) il Fiore (= Cuore), od il Sole, costituisce un’immagine del Brahma; mentre invece sono definite ‘Api’ (Madhukta) i Raggi Solari od i versi del Veda.  E, poco oltre (ibid., 5, 10), la similitudine viene applicata agli insegnamenti segreti impartiti dal guru; anziché come avremmo potuto aspettarci, nei confronti dei Sādhaka.  Ma, in fin dei conti, la cosa non è poi molto diversa.
150)      Il paragone con Glauco, figura solare, evidenzia la maggiore affidabilità della tradizione che parla di un <Vitello> anziché d’una <Vitella>. In ogni caso, occorre precisare, sono valide entrambe le soluzioni.
151)      Inutile aggiungere che anche quest’<Erba> possiede le stesse virtú taumaturgiche di quella cronia, adoperata da Glauco Antedonio, figlio di Antédone o di Poseidòne; e collegata alla conclusione della fase discendente del movimento solare, la quale c.6000 anni fa ricorreva in Aquarius.  Vide n.124.  Il rettile che compare nel racconto è a sua volta il solito Serpente di Ade (situato in cielo presso Scorpio), ivi raddoppiato solamente per motivi narrativi.
152)      Ker., op.cit., Vol.2, L.pri., Cap.8, pp. 87-90.
153)      Op.cit., p.90.
154)      Grav., op.cit., §75. a-c, pp. 227-8.
155)      Op.cit., §75.d, p.228.
156)      Cit., §§ 75.2, p.229 e 123.1, p.430.
157)       Il termine tecnico per un asterismo che sorge (anatéllei) nelle vicinanze d’un altro è secondo il De Santillana paranatéllon: Orione, in questo caso, è un asterismo facente le veci di Taurus.   
158)      §33.2, p.114.
159)      P. Filippani Ronconi (a c. di), Upanishad antiche e medie- Boringhieri, Torino 1968 (I ed.., in 3 voll., 1960), p.470.
160)      Fil.R., op.cit., nn. 1-2.
161)      L’emblema caprino diversamente da quanto abbiamo già segnalato – vide Cap.VI, n205 – attorno alla figura di Pasife-Amaltea (in veste di dea- capra anziché di dea-vacca), non deve essere messo esclusivamente in rapporto al Solstizio Invernale (= Caper); infatti, equiparando la capra selvatica – nell’isola di Creta ve n’è ancor oggi una rara specie non presente in continente – ad un generico antilocapride (in altre parole, all’asterismo lunare di Orione), sarebbe per contro l’Equinozio Primaverile a divenire oggetto di attenzione dal punto di vista cosmologico.  Un’analoga ambivalenza di valori simbolici appartiene parimenti all’effigie di Pán, o di Aíx, allotipo tifonide del dio.  Pertanto all’inizio della mitica Età del Bronzo egli, in virtú della sua signoria sul solstizio invernale, incarnava la rinascita paradisiaca; mentre nel ciclo susseguente, a causa dello spostamento progressivo di 90° dei riferimenti annuali da parte tradizionale, la stessa posizione solstiziale è venuta a rappresentare la dissoluzione infernale.  Ciò almeno secondo lo schema a Segni fissi, ed universalmente valido, dell’Astrologia Tropicale; in quello a Segni mobili, ma altrettanto valido, dell’Astrologia Siderale l’Antilocapride – parallelamente al Toro – ha rivestito dapprima un ruolo solstiziale, concernente la Rinascita, e successivamente uno equinoziale attinente esso pure alla Rinascita.  Insomma, concludiamo rilevando che in ambito tradizionale ogni demonizzazione infera od assunzione celestiale di un dato animale è ognora soggetta ad ineludibili incombenze temporali
162)      Vide Cap.Vi, n.211.  Il nome Zagreús, epiteto cretese di Dioniso, è in greco quasi sicuramente una contraz. di Zo-á a-greús (‘Cacciatore di animali’) ed indica pertanto la valenza del dio quale <signore delle fiere>, probabilmente in riferimento alla costellazione di Orione.  Nell’idioma ellenico, infatti, dal vr. zá-ō (‘vivere’), f.sec. zó-ō, derivano il s.n. zô-on (‘essere vivente, animale; bestia, belva; figura, dipinto’) – donde proviene forse per trasformazione d’un digamma in dentale il dim. zô-(di)on (‘Segno dello Zodiaco, animaletto; ornamento, piccola figura’) – sia il s.f. z-ē (‘vita’), varr. z-a e zó-ē.  Quest’ultimo vocabolo e le sue varianti avevano indubbiamente in origine un valore ciclico, visto che esso significa altrimenti ‘durata, durata della vita’.  A conferma della nostra ipotesi circa l’etimo surriferito osserviamo che il vr. zōgréō contraz. di zō-ós agréō (‘prendere, catturare vivo’), ha esito mediale in -o- anziché in -a- come il s.m. Zagreús; ciò avviene perché l’incontro di -ō + a- dà -o-, per prevalenza della vocale tonica del suffisso, indi contratta ed allungata a causa della -o- tematica.  Mentre, dall’unione della -á tonica (del suffisso del primo termine che forma la contrazione nell’altra voce) con la a- tematica (del secondo termine) si ottiene -a-.
163)      Grav., op.cit., §127.c, p.440.
164)      Non essendo in grado di chiarire l’enigma, a tutta prima, siamo costretti a rimandare ad altra sede la risoluzione del quesito.
165)      Vedi Vr.P.- ccxv. 1-9; cfr. in proposito Capp.III, n.51 e VII, n.23.  Benché in apparenza l’Hirayaśṛṅga di Mgeśvara ci rimandi di primo acchito ad uno solo dei 3 fondamentali colori alchemici è facile comprendere che la tripartizione dell’Aureo Corno, coll’attribuzione della parte mediana a Brahmā e delle altre due – la superiore e l’inferiore –  rispettivamente ad Indra (nel ruolo spettante di diritto a Śiva) e a Viu, sottitntende un rimando di ciascuna delle 3 sezioni cosí suddivise ad un determinato aspetto qualitativo della Divinità (Trigua).  Similmente al passo upanishadico sopra esaminato della Capra del Triplice Colore, dobbiamo perciò quivi considerare la tripartizione non soltanto in riferimento passivo ai Gua; ma pure in rapporto attivo colle principali stazioni solari annuali, ovvero colla prospettiva di realizzazione interiore che ad esse ed al loro simbolismo s’ispira.  Si badi che la definizione del nome di codesta ipostasi di Mahādeva (Mgeśvara = Signore dei Cervidi o degli Antilocapridi) da noi adotttata, in base alla testimonianza del Bangdel (L.S. Bangdel, The Early Sculpture of Nepal- Vikas Ph., N.Delhi 1982, Cap.XII n.num., p.53), non è riportata nel succitato testo puranico; ma risulta egualmente valida, dal momento che risale alla trasmissione orale nepalese.
166)      Vide Cap.III, n.44.
167)      Non val la pena di fare distinzioni in proposito riguardo la specie bovina, cervina od antilocaprina del Monocero egeo; poiché come abbiamo spesso sottolineato ciò che conta è la sostanza figurativa presa a simbolo dagli antichi, non la la fisiologia o la biologia di determinati animali.
168)      Per un’identificazione fra Asterio (ritratto col corpo ricoperto di astri) ed Argo (ripieno di occhi), alias Urano (dal manto stellato) vide n.134.  Il personaggio di Árgos è dal Cook (Co., op.cit., §ix, p.462) assennatamente identificato ad Árgēs, il ciclope omonimo esiodeo.  Siccome Árgos, denominato Panóptēs (‘Onniveggente’ in senso onnidirezionale), è descritto dagli autori greci (ibid.) alternativamente in possesso ora di 4 ora di 3 ora di 2 Occhi, l’Occhio Frontale essendogli stato donato in questo caso da Era, crediamo che egli debba essere allineato tipologicamente non solo all’Urano ellenico (di cui lo Zeus-Asterio cretese era un allotropo autoctono) bensí anche al Giano latino; poiché tetraoftalmia, quadrifrontalità e tetracefalia si sovrappongono inequivocabilmente nel simbolismo direzionale.  La cifra quaternaria indica infatti la totalità degli Elementi e, quindi, una perfezione di carattere aureo; ai suddetti attributi però subentrano spesso da un punto di vista mitico-rituale la trioftalmia – vedi ad es. lo Zeus di Làrissa, celebrato da Pausania – o la tricefalia, le quali testimoniano viceversa la perdita parziale della pefezione originaria ed il passaggio all’Età Argentea.  La cifra ternaria è venuta cosí a rappresentare, per trasposizione (dal momento che nella Prima Epoca non esisteva alcun rituale), il volto primigenio – o, per meglio dire, demonico-titanico – della Divinità.  Vide nn. 17 e 119.  Osserviamo comunque che Ermete, antagonista designato di Argo, di per sé si presenta nell’iconografia talora quadricipite talora tricipite; perciò, analizzando la scena dello scontro fra codeste due figure titaniche in una prospettiva maggiormente elevata, ci accorgiamo che una volta di piú il carnefice va considerato tutt’uno colla sua vittima.  Circa il fatto che Argo in qualità di dio-toro sia il vero ed originario sposo di Io (ib., p.459), attestata a propria volta quale madre di Dioniso da parte di Diodoro S., è cosa già implicita nell’identificazione prima suggerita tra quegli e Zeus-Asterio.  Senza per questo negare, tuttavia, la possibilità d’un ulteriore assimilazione tra la Vacca Lunare Tricolore e la Triplice Dea cretese dai contorni ambiguamente vaccini (Europa-Pasife-Arianna); nonché tra Argo ed il corrispondente Triplice Dio-toro minoico (Asterio-Minosse-Minotauro, altrimenti noti sotto i nomi di Zeus-Poseidone-Dioniso).  Aggiungiamo per concludere che, dopo l’annientamento di Argo da parte di Ermete, Era avrebbe trasferito alla Coda del Pavone secondo la leggenda (Mor., op.cit., s.v. ARGO, p.56, col.b) i 100 o 1.000 Occhi assegnati al primo da certi mitografi in luogo dei 3 o 4 attribuitigli da altri.  E la cosa è sicuramente rimarchevole, poiché siffatto uccello per via della sua affascinate <ruota> è stato scelto in India quale emblema della Māyā; cfr. colla Pleiade Maîa, l’omonima madre di Ermete, doppione del cacciatore Orione in quanto signore degli animali.
169)      Vide Cap.VI, n.34.  Cfr. inoltre G.Acerbi, Un antecedente greco della Dame à la Licorne- Alle pendici del Monte Meru (blog, 5-11-16).


170)      Ade alias Dioniso (vide Cap.VI, n.219), qualora funga da alter-ego del Minotauro e sia inteso perciò come signore del Labirinto ovvero degl’Inferi in senso ipoctonio, deve essere associato alla Quarta Età mitica; ed alla casta inferiore, il Dêmos (vocabolo che in greco stabilisce intrinsecamente una connessione del popolo coll’Elemento Terra e, simultaneamente, colla natura demonica).  Di conseguenza, in base a tale linea interpretativa la coppia Poseidone-Minosse indicherà la Terza Epoca e la casta dei Produttori, legata economicamente ai commerci e simbolicamente alla fecondità delle acque; mentre quella formata da Zeus e Asterio incarnerà lo sprito igneo della Seconda Epoca, conforme al temperamento della casta regale, cui difatti i due numi sono idealmente da allineare in veste di mitici capostipiti.  Manca, in verità, ogni accenno alla Prima Epoca, evidentemente perché questa non rientra nel ciclo sacrificale.  Qui non si tratta di una differenziazione fra la mitologia cretese e quella ellenica, dal momento che codesto tipo di osservazioni storicistiche sono sempre fuori luogo, soprattutto nell’ambito ora affrontato.  Ben diverso è invece il caso in cui Háidēs viene inserito all’interno del Triregnum.  Vide n.9.  Perché allora egli assume un volto aristocratico ed argenteo, quale si confà al culto del <Fuoco degli Avi>.   
171)      La natura unicorne del Minotauro (vide n.169), ad es., implica per forza di cose una pari condizione di Uomo-toro dal capo tricorne.  Tale supposta tricornia è opportunamente sottolineata dal carattere ternario dei colori alchemici dei mitici Bovidi egeo-cretesi, dei quali abbiamo prima discusso; nonché ad un fine definitivamente probatorio dai colori similari – secondo la testimonianza di Ctesia – dell’Unicorno indiano, dal Varāhapurāṇa descritto in qualità di Aureo Cervide dal ‘Corno Tripartito’ (vide n.167), le cui ‘Tre Sezioni’ sono dal testo identificate ai membri della Trimūrti induista.  A nulla varrebbe d’altro canto replicare che il cervide in questione, su cui si analizzino comparativamente le ‘Genelalogie’ nepalesi (Vaś.- i sgg), non è un bovide; siccome esiste in un altro passo puranico (Ś.P.- iv. 19, 13) una variante bufalina dell’aureo animale, seppure non unicorne.  Da taluna fonte il bufalo è apertamente riconosciuto come Mahiāsura, il demonico avversario di Durgā; in realtà uno dei tanti doppioni di Maheśa, attestante la diffusione della leggenda shivaita anche nell’ambito della simbologia bovina.  Esiste ad ogni modo (L.P.- i. 21, 25) pure una forma taurina di Śiva, questa volta davvero unicorne (lett. ”dal Corno che risplende”), in veste devaica di Nandin, propriamente il vāhaa del dio.  Giacché, in fondo, non si tratta che di una diversa applicazione calendariale – l’Aureo Cervide appare sempre un emblema nella mitologia indiana dell’asterismo lunare di Mgaśiras, una volta reputato dalle Scritture il primo della serie dei Nakatra (sebbene vi sia contestazione al riguardo da parte di alcuni) – di un mito solare concernente essenzialmente il Toro Celeste; quantunque anche un’inversione dei due simboli sia possibile, in un diverso campo d’applicazione.  Onde giustificare la nostra asserzione sarà bene però rifarci ulteriormente ad un simulacro taurino reperibile negli antichi sigilli della Valle dell’Indo e, persino, nella pittura parietale preistorica del subcontinente; ove si rinviene talora l’effigie di un bovide indiscutibilmente tricorne (in certi casi il dato risulta associato  ad una tricefalia, o dicefalia, desunta dall’accostamento composito di teste di specie forse diverse), od almeno tricuspidato (Ac., Le arc., figg. 3 e 18-20).  Siffatto attributo è confermato peraltro dalla tipologia altrettanto triplice d’una struttura tridentata – oppure triradiata, mista o con appendici vegetali –   disposta sul capo d’un demone dal solo volto bufalino, con eredità iconologiche medievali ed analoghi precedenti neolitici (ib., figg. 5-12); od in altre circostanze dal copricapo d’una demonessa dalle fattezze antropomorfiche (figg. 1-4), qundo non addirittura semitigresche (§a.2 sgg).  Sicchè non è da escludere che lo stesso Toro-Minotauro cretese e gli altri Bovidi greci affini risalgano ad un contesto preistorico, o comunque protostorico, in cui essi fungevano da forme allotropiche di Apollo-Dioniso e di Artemide-Ecate.  In maniera tale che le varie trimorfie fisiologiche – delle Corna, dei Volti, degli Occhi (a volte persino dei Denti, come nel caso delle Graie; dotate d’un <Unico Dente>, anzi di Tre…, considerando la loro triplicità lunare), del Soma  o delle Gambe – o d’altro tipo, attinenti alle divinità elleniche in riferimento limitatamente all’ultima epoca ciclica, si potrà inferire delineassero in generale una ripartizione ternaria fra le molteplici facies della Divinità, l’aspetto unico di quei numi o delle loro singole componenti fisiche – s’intende, in senso trasfigurato – indicando invece l’indistinta unitarietà di cotali facies.  Ciò potrà apparire in prima istanza un po’ troppo astratto, ma rifiacendoci dirtrettamente all’iconografia scopriremo che non è cosí.  Si analizzino dunque, a scopo orientativo, 2 altre immagini sull’argomento riportate dal Cook; che illustrano convenientemente, piú di quanto non riescano a fare le sole parole, la condizione descritta.  Entrambe le icone rappresentano infatti un toro, cui è applicato in forma diversa un equivalente simbolismo ternario.   In una di esse (Co., op.cit., §xiii, p.471, fig.327) Zeus o meglio l’animale teantropico, ivi ritratto tricolore ed unicorne (sic!) è cavalcato da Europa, la quale aspira il profumo d’un<Fiore>.  La precedono in atto quasi giocoso un Delfino e piú in là un Cervide, arrampicantesi su per un pendio da cui si elevano 3 Alberi frondosi.  La scena vagamente surreale è dipinta su un’idria (recipiente per l’acqua) ceretica – appartenente al Louvre – e narrerebbe secondo il Cook il viaggio marino della ninfa alla volta di Creta, individuata nella raffigurazione in questione da un isolotto montuoso.  A nostro parere, tuttavia, il quadro cosí tratteggiato  denota solarità e il Monte raffigurato è quello del Cielo; in cui le 3 precipue stazioni solari, solstiziali ed equinoziali, fanno pendant colla triplice colorazione della bestia taurina.  Da esse è escluso ovviamente il Solstizio Invernale, poiché questo non coincide con alcuno dei ‘Tre Colori’ principali del ciclo annuale.  Nell’altro soggetto (ibid., §xvi, p.505, fig.368), ritratto sulla superficie di un vaso a figure rosse della Coll.Hamilton, osserviamo in parallelo una tauromachia; in cui 3 lottatori nudi, dopo aver posato le loro vesti su una ‘Colonna’, affrontano l’ennesimo Toro Solare: il primo lo tiene per la ‘Testa’, il Secondo lo sorregge sul ‘Ventre’ ed il terzo lo afferra per la ‘Coda’.  Inutile aggiungere che ci troviamo pure qui di fronte alla recita di un’analoga pantomima rituale, con i corrispettivi risvolti calendariali, rispetto alla vicenda del rapimento di Europa dipinta nell’hydría etrusca.            
172)      Ker., o p.cit., L.III, p.244.  Il dono sacrificale è offerto, secondo altre testimonianze (Grav., op.cit., §98.a, p.306), ad Atena.
173)      Un’omologa della <bionda> Arianna’ (alias Afrodite) – tale la definisce Omero nell’Il.- xviii. 592 – era senza dubbio l’altrettanto <bionda> Armonia (Ker., op.cit., L.I, Cap.I, p.42), dai proverbiali <occhi di giovenca>, al pari di Era ed Io.  Ella possedeva una leggendaria ‘Collana’ ed era la sposa di Cadmo, epiteto uranico collegato alla voce Kósmos (cfr. con il  Kāma-Kāla indiano ed il Càelus latino), designante il grande avo del Dioniso tebano, cui invero s’identificava,  Il color Biondo è chiaramente un sostituto del Bianco, visto che Afrodite-Arianna costituisce un’immagine virginale della dea lunare, sulla falsariga sostanzialmente della figura di Ino-Leucotea; essa appare ispirata, in modo incontestabile, all’emblema astrale della Luna Crescente.  Il Rosso è invece il colore della Luna Piena, adombrante la Madre, ed il Nero della Vegliarda attraverso cui traspare il carattere tristemente senile della Luna Calante (Grav., op.cit., §56,1, p.172).  Dobbiamo nominare, peraltro, un inusitato aspetto di Arianna quale dea della fertilità, aspetto piú volte segnalato dal Graves (ibid., §§79.2, p.237; 88.10, p.270 e 98.5, p.172), che apparenta siffatta versione della fanciulla cretese ad Antigone, nonché all’Artemide cd. ‘Impiccata’  e nondimeno alla rodiota ‘Elena degli Alberi’.
174)      In una versione inconsueta della leggenda di Pasife (Co, op.cit., §xix, p.544) il Toro che s’accoppia colla consorte di Minosse non viene identificato a Poseidone, bensí a Zeus.  Ciò è come dire che è un doppione del figlio di Zeus, cioè di Minosse medesimo.
175)      È interessante sapere (Grav., op.cit., §51.2, p.162) che a Delfi come a Creta si venerava la Madre Terra sotto il duplice aspetto di dea dell’amore (Afrodítē) e della morte (Kēr alias Melíssa), attraverso gli emblemi contrapposti della Colomba e dell’Ape.  Siffatta antinomia concettuale, diffusa in ambiente egeo-cretese ed anatolico, tra la Mors e l’Amor – od *Amors, secondo la suggestiva interpretazione del tema da parte dei Fedeli d’Amore dell’Europa tardomedievale; cfr. sull’argomento l’etimo del gr.Ambrosía (da *Amrotía) o del scr.Amta – fa pendant col doppio volto della Devī (vedi Durgā-Kālī ) in terra indiana; anch’ella per certi versi signora della vita e, per altri, dea dissolutrice.  Non siamo però d’accordo con il N. (ibid., n.1) sul fatto che gli adoratori indoeuropei dell’Apollo Iperboreo avrebbero assoggettato i cultori della Madre Terra, sostituendo un rituale oracolare di tipo patriarcale ad uno di tipo matriarcale.  Questo cliché della religione indomediterranea come culto della Grande Dea di contro alla dottina aria degli Dei Olimpici è asssolutamente da sfatare, poiché non è per niente veritiero.  Certo, nel presunto momento della discesa verso il Sud delle genti indoeuropee (che non venivano dal Nord bensí dal Nordovest) dominava precessionalmente all’orizzonte orientale il Segno dell’Ariete, subentrato nell’ultimo quarto del III mill. a.C. al Segno del Toro.  Per cui è credibile che in tale circostanza ciclica si siano rafforzati i culti patriarcali, a sfavore di quelli matriarcali; tuttavia, non è corretto da un punto di vista rigorosamente tradizionale concepire il rituale su base etnica (a meno di riferirsi allo schema delle Cinque Razze vere e proprie, delle quali trattano effettivamente alcune tradizioni occidentali ed altre orientali), dovendosi piuttosto tener conto del dominio epocale d’una data ipostasi divina.  Che è altra cosa rispetto all’etnia, anche se un’etnia può rappresentarla per sineddoche, ma si tratta comunque d’una metafora.  Quindi trasformare il passaggio di culto in uno scontro etnico è troppo semplificativo, poiché si piglia l’accidentale per sostanziale.  Sarebbe dunque meglio far riferimento ai numi presiedenti all’Età del Ferro nell’insieme, che non alla semplice ripartizione interna di tale epoca ciclica.  In questa maniera ci accorgeremmo che il Dio del Sole governa la Quarta Età non meno della Dea Luniterrestre, sia pure in qualità di membro inferiore, sottomesso all’autorità del suo corrispettivo femminile all’interno della coppia divina.  Cfr., analogamente, il ruolo di Ištar in Mesopotamia.  Ciò è proprio parimenti anche del Kaliyuga indiano, ma non del tutto; nello Shivaismo di Sinistra, rispetto al corrispettivo Shaktismo (ne esiste anche uno di destra, seppur maggiormente obsoleto, il quale è eredità dello Shaktismo primevo), è il maschio (Śiva nei confronti di Śakti) a dominare.   Vi sono addirittura delle forme miste, che danno luogo ad iniziazioni ibride, come quella ricevuta in India dall’A. nel 1988.  Al riguardo vide Ac., Mrig., p.11, n.15.      
176)      La Terra, in quanto Elemento, rappresenta non la superficie terrestre bensí il Mondo Subterreno.
179)      Affrontiamo l’argomento nel libro cit. alla n.144 del Cap.I.
178)      Cfr. M.Restelli, Il Ciclo dell’Unicorno. Miti d’Oriente e d’Occidente- Marsilio, Venezia 1992, Cap.VIII, pp. 70-1 sgg (sul Matsyāvatāra) e pp. 41, 47-8, 52, 65-8, 139, 162 (sul Narvàlo).
179)      Rest., op.cit., fig.7; oppure Ju., op.cit., P.III, Cap.VII, p.489, fig.254.
180)      Vide la Cap.I, n.176.
181)      Vide n.27 (di questo capitolo).
182)      Ac., Mrig., passim.  Sul soggetto si vedano inoltre Cap.III, n.51 e Cap.IV, n.46.  Un ulteriore approfondimento sul tema dell’Unicorno e quello dell’Unipede, ad esso strettamente associato, con esposizione critica del nostro punto di vista sugli studi al riguardo del Restelli oltreché del Grossato et al, comparirà in un altro nostro saggio (G.Acerbi, L’Unicorno e il Terzo Occhio. L’idea del Divenire ed il suo trascendimento in India e in Nepal) ancora in fase di stesura.
183)      Cfr., infra, il §z.
184)      Rest., op.cit., Cap.IV, p.43.
185)      In egual maniera, a testimonianza dell’universalità di codesta dottrina, è possibile ritrovare lo stesso concetto di quadruplicità del Verbo in relazione ai 4 sensi delle S.Scritture – 1) Letterale, 2) Allegorico, 3) Anagogico, 4) Segreto – sia presso la cultura giudaica ed islamica (A.Grossato, Principi e leggi del simbolismo tradizionale nell’opera di René Guénon- Atti e Mem. dell’Acc.Pat. di Sc., Lett. ed Arti, Vol.XCI, P.III, Padova 1980, §3 n.num. sgg., pp. 207-10) sia presso la tradizione cristiana (cfr. il numero degli Evangelisti, rifacentesi al numero degli Elementi del Tetramorfo cosí come compare nella visione di Ezechiele, con sottile allusione al numero delle lettere del Nome Divino primario).  Si noti che in Massoneria (R.Guénon, Parole perdue et mots substitués- Ét.Trad., lug.-dic. 1948; riproposto in Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage- Ed.Traditionnelles, Parigi 1970 , T.II, Cap.IV n.num., pp. 26-49) si fa egualmente distinzione tra la pronuncia trisillabica in uso tradizionalmente per il Sacro Nome (JHVH>Je-ho-vah) ed una presunta quadrisillabica che si tramanda sia andata dispersa; quest’ultima, la cd. ‘Parola Perduta’, è in realtà la J o Y (nella trascrizione inglese della semiconsonante) e cioè l’ebraica Yod.  Vale a dire, al di là della metafora foneto-teonomastica, se ne deve arguire che l’Essenza del Nome Divino sia per intero contenuta in nuce nel Principio Unico donde proviene lo Iehi Aor (Fiat Lux).     
186)      Il che vale pure per le altre categorie citate, tutte fondate sulla nozione basilare dell’esistenza d’un Ordine Cosmico (ta, Dharmacakra), riapecchiantesi nella ‘Ruota (Annuale) dei Sacrifici’ (scr.Yajñacakra).  Benché i termini poc’anzi impiegati siano di matrice vedica non abbiamo qui a che fare, checché se ne dica, con alcunché di specificatamente indiano od indoeuropeo.  Circa l’estensione dell’idea di classi sociali piuttosto rigide oltre il confine dell’India cfr. Ac., Le ‘Caste’, riv.cit., pp. 19-26.  Persino nell’America Pre-colombiana erano in auge idee assolutamente consimili, riguardo le Caste, con prescrizioni analoghe a quelle della ‘Repubblica’ di Platone.  Unica differenza il fatto che le norme colà vigenti non avessero solo un carattere speculativo, ma fossero effettivamente applicate nella vita pratica della società tribale, innalzando – a quanto pare – i meritevoli di maggiori onori al rango che loro competeva di diritto e dequalificando socialmente per contro coloro i quali possedevano qualità inferiori allo standard abituale della loro casta di appartenenza.
187)      Si fa ivi riferimento in primo luogo alle 4 <Corna> dello Yajña vedico (personificato in forma taurina, cervina od antilocaprina; cfr. Yajñeśa, il quale è una replica di Soma-Prajāpati oppure di Agni-Kārtikeya), una cui prefigurazione si può reperir traccia in ambiente indiano – preindoeuropeo, sempre che la nostra interpretazione  sia corretta – sin nei dipinti parietali neolitici di Modi (Ac., Le arc., §b.2 sgg) oppure in certe raffigurazioni scultoree in pietra dell’Induismo medievale (T.A. Gopinatha Rao, Elements of Hindu Iconography- The Law Print House [M.Road], Madras 1914, Vol.I, P.I, Cap.III n.num., §d, pp. 248-50; inoltre il Vol.II, P.II, Cap.XVIII, §2 n.num., pp. 521-4. e tav.CLII).  Ed, in secondo luogo, alle ‘Gambe’ del Toro del Dharma alias Nandin (cfr. Ac., Kal., Vol.I, P.I, Cap.I, ); cioè il Toro Lunisolare, l’antica forma bovina di Rudra-Shiva – secondo il suggerimento di Coomaraswamy – addivenuto nei tempi storici il veicolo (vāhana) del nume in veste antropomorfica.  Un passo del Mahābhārata (Śāntip.- cclxxxv. 28), inserito all’interno d’una celebrazione epica delle prerogative numinose di Maheśa, sentenzia a tal proposito: “Namo vāya vyāya govāya vāya”.  La probabile traduzione del passo è la seguente: “Onore al (lett. “al nome del) provocatore della pioggia, all’accrescitore del merito, a colui che prende la forma di toro (= che è identificabile a Nandin), che è la personificazione del Dharma (= che è la Giustizia stessa).  La breve formula riportata dell’inno laudativo a Mahādeva è interamente giocata sull’accostamento fonetico, che crediamo basato su una sottile affinità filologica, fra il s.m. va (‘uomo, maschio; toro, Toro dello Zodiaco; Giustizia personificata’) e la v- (‘causare pioggia, procurare merito’).  Donde il vb.nom. vāya (‘che causa pioggia’), di tipo Parasmaipada, e l’agg.pron. vya (‘che accresce il merito’).  Il tutto naturalmente al dativo, retto da nama (‘onore a’).  Piú avanti (vs.84) il testo proclama esplicitamente che il nume ha il volto di Nandin (Nandīmukha), ciò richiamandoci all’immagine taurina – o meglio bufalina, in relazione forse all’ipostasi shivaita di Mahiasura – del cd. ‘Proto-Shiva’ della Valle dell’Indo ed alle susseguenti repliche medioevali, particolarmente in zone culturalmente attardate quali lo Himachal Pradesh (Ac., ibid., fig. 5-6 e 9-10).  Ancora, c’imbattiamo nel contesto  (vv. 68 e 89) in una dichiarazione d’identità tra Śiva e Yama, il Dharmarāja (‘Signore del Dharma’) per antonomasia; anch’egli talvolta caratterizzato nel volto da tratti bufalo-taurini, che fanno pendant col principale veicolo zoomorfico del dio (appunto il Bufalo od alternativamente il Toro).  Cfr. pure, con analoga effigie, Mahākāla (vide n.119); del resto omologabile a Kālanātha, cui nondimeno viene paragonato Maheśa nel passo dello Śāntiparva succitato (vs.24).  Circa l’accezione del termine kāl, nel senso simultaneo di ‘tempo, stagione; quarto, gamba’, vide Cap.III, n.27; cfr. col scr. ayana (‘via, corso’) in riferimento annuale, semestrale o trimestrale, ma mai bimestrale a differenza della voce tu.  Sul tema interviene anche Padre Heras (Her., op.cit., s.v.NUMERALS, pp. 269-70), come al solito illuminandoci attorno alla problematica in questione; egli è del parere infatti che il termine implicasse nell’antica cultura dell’Indo un pittogramma illustrante schematicamente una gamba ed in seguito stilizzato a mo’ di parentesi rotonda di apertura, quale contrassegno del quarto di cerchio.  Il scr. diś (‘punto cardinale, quartiere intermedio’), da cui proviene il vocabolo deśa (‘regione, terrirorio’), è la controparte direzionale del concetto semantico ora discusso.  A proposito del simbolismo delle Corna e di quello delle Gambe aggiungiamo in via definitiva che nell’Induismo le une rappresentano la Śruti, ovvero il Veda; le altre sono in relazione alla Smti, cioè allo Yajña e al Dharma.  Si veda sul tema quanto è dichiarato nello Sk.P.- ii. 2, 30, 17-8 (la trad. del passo è riportata in S.A. Dange, Encyclopaedia of Puranic Beliefs and Practises-Navrang, N.Delhi 1987, Vol.III: H-N, s.v.NANDĪ (o NANDI), p.1054).  Ciò ch’è attestato per le Corna di Nandin vale altresí per quelle di Maheśvara o di Yajñeśa; ed è oltremodo significativo del resto che nei versi delo Skanda Purāṇa si paragoni le Auree Corna del Toro ai 3 Veda, evidentemente di pari numero a quello dei testi brahmanici.  Il che è conforme alla triplicità, per cosí dire “argentea” delle Corna di Śiva; mentre, nel Sacrificio personificato, la quadricornia è attinente alla quadricefalia “aurea” di Brahmā-Prajāpati.  A riprova della validità indiretta di tale interpretazione, si ha nel Vr.P.- ccxiii. 30-76 – il passo è riassunto sinteticamente alla voce dianzi citata – un’attribuzione a Nandin della custodia della Porta di Destra della dimora di Mahādeva; il Guardiano della Porta di Sinistra è detto essere invece Mahākala, gaa altrove concepito in forma di kirāta ovverosia di genio della caccia.  Cfr. quest’ultimo coll’Apollo-Dioniso (varr.: Pan, Ermete, Orione, Atteone, Cefalo, Ciparisso) egeo-cretese, presiedente all’Età del Ferro della mitologia greca; ed il Toro di Śiva coll’Apollo-Crono ellenico, equivalente allo Zeus-Asterio minoico, entrambi signoreggianti l’Età dell’Argento.  Si noti che in uno Zodiaco preistorico afroatlantico (?) segnalato primieramente all’attenzione generale da parte di L. Frobenius e H. Obermaier, zodiaco che è sicuramente da reputare la piú vetusta immagine a noi pervenuta dei 12 Segni Zodiacali risalendo esso persino piú in là del 10.000 a.C. (Sem.-Kur., op.cit.), i Segni compaiono verticalmente effigiati – ad uno ad uno fino al decimo e due a seguire di lato, naturalmente con notevole variazione rispetto alla grafia attuale –  sulla gamba destra posteriore di una gigantesca figura bovina (un preistorico uro); la quale è a sua volta sovrastata da una Croce Gammata, caratterizzata da una connotazione solare, vale a dire destrogira.  Ciò ci richiama alla memoria, senza dubbio, l’accezione della base dravidica *kal- esaminata poco fa; soprattutto se si tiene conto della presenza in epoca preindoeuropea lungo le coste del Mediterraneo ed in alcune isole di un ceppo linguistico paleo-dravidico connesso a quello delle genti pelasgiche, paleo-nilotiche, proto-libiche e paleo-celtiche (proto-druidiche).  Vide Cap.IV, nn. 11, 27 e 29; inoltre, Cap.VII, n.49.  Si confronti il tutto con il quadro generale delle affinità culturali e razziali, rilevabile fra le popolazioni dell’area indo mediterranea, che è stato mirabilmente tracciato vari decenni or sono da Her., ibid., Cap.V sgg  (soprattutto da p.440 ss). 
188)      Chan., art.cit., pp. 13-4.
189)      C.B. Pandey, iis in Ancient India- Sundeep, Delhi 1987, tav.III.
190)      P.Banerjee, Rama in Ondian Literature, Art & Though- Sundeep P., Delhi 1986, figg. 10 (con testa umana e corno di cerbiatto), 11 (Isisinga, variante buddhista del personaggio con testa di cerbiatto), 13 (con testa antrpomorfica e corno di gazzella o antilope), 14 e 16 (con testa zoomorfica di gazzella o antilope).
191)      P.K. Agrawala, Mithuna. The Male-Female Symbol in Indian Art and Thought- Munshiram M-, N.Delhi 1983, tav.48 supra et infra.
192)      Vide n.169.
193)      Ibid. come alla 188, fig.8.
194)      Vide Cap.V, n.25.
195)      Vide Cap.IV, n.51.
196)      Vide Cap.III, n.47.
197)      Cfr. R.Ettinghausen, The Unicorn (apud Studies in Muslim Iconography, vol., N°3) - Smithsonian Inst.itutions (Lib.Gall. d’Arte, Occ.Papers), Washington 1950, p.67, tav.31 dextra.  Nell’altorilievo indicato, denominato ‘Trono di Jamshid’ ed appartenente ai resti del Palazzo di Persepoli (capitale del Regno Achemenide sotto Dario), secondo il trattato sui Farsi (Persiani) ad opera di Ibn al-Balkhi (XII sec.) osserviamo Jamšīd impugnare il Corno del Karkadann (l’unicorno islamico) ed affondargli nel ventre un coltello da caccia.  Il Mostro quadrinaturato sarebbe Zurvān secondo gli studiosi contemporanei.  Bisogna altresí notare che codesto Jamšīd non equivale allo Yima aureo, bensí allo Yima dell’Airyāna Vaēja, cioè allo Yima bronzeo: della seconda metà dell’Età del Bronzo, equivalente archeologicamente piú o meno al Periodo Mesolitico.  In un’altra icona presente al Mus. di Boston, un cilindro achemenide rinvenuto in Mesopotamia, appare un analogo mostro unicorne dal nome a noi ignoto; probabilmente è lo stesso eroe, ma ivi è dotato di Falcetto a becco di corvo e all’Avversario Unicorne manca la Coda Scorpionica.  Cfr. al riguardo A.Parrot, Gli Assiri- Rizzoli, Milano 1970 (ed.or. Assur- L.Gallimard, Parigi 1961), P.pri., Cap.V, p.209, fig.262.
198)      V.N. Narasimmiyengar, The Legend of Risya Śriñga- I.A., N°2, 1873, p.141.
199)      Cfr. Rest., op.cit., Cap.VIII, §2, n.20.
200)      Ibid. come alla 196.  Vide inoltre Cap.IV, n.46.
201)      Pal., op.cit., Vol.I, Cap.IV, §A, p.84.

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