martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo VII






Cap. VII

 Il Pesce Cornuto, il Granchio
 ed il Tridente – emblemi euroasiatici  della Profezia, del Sacerdozio
e della Regalità




a)  Riflessioni sulla simbologia della Folgore di Zeus, dello Scettro di Ade e del Tridente di Poseidone

Ponendo quindi a confronto la Folgore di Zeus, lo Scettro di Ade e il Tridente di Poseidone, cercheremo di mettere in luce le differenze sostanziali fra gli strumenti sacri tenuti in pugno dai 3 sommi dèi del Triregnum ellenico; proprio ciò equivarrà indirettamente ad evidenziare la reale natura dei medesimi, le paredre dei quali (Era, Persefone ed Anfitrite)(1) debbono esser valutate – secondo quanto abbiamo prima asserito – alla stregua di personificazioni della loro divina ‘Potenza’; la Dýnamis, per rifarci ad un concetto gnostico, ma comunque di derivazione greca.
Il Keraunós di Zeus, comparabile al Vajra del vedico Indra, va in tal modo concepito nei termini di una saetta trifida (a volte raddoppiata od anche ridotta ad un semplice dardo); con raggi piú o meno ondulati e pregna di significati gnoseologici e sacerdotali, emblematicamente diremmo ‘aerei’.  Viceversa lo Skêptron regale di Ade, di cui abbiamo un parallelo cretese nello Scettro di Minosse, è inequivocabilmente da intendersi come un contrassegno nel contempo di prestigio e di dominio, in una parola ‘igneo’.  Mentre il Triódous di Poseidone, una fiocina tridentata al dire di Eschilo scagliata dal dio del mare onde colpire gli animali marini, possiede rebbi quasi sempre diritti (benché leggermente divaricati verso l’esterno, diversamente dalle punte della Folgore); a parte qualche eccezione, avendo cosí una connotazione dal punto di vista elementale tipicamente ‘acquatica’, ciò che sottintende sul piano delle corrispondenze simboliche un’influenza sottile sul mondo commerciale e produttivo.  La qual cosa giustifica pienamente la spiegazione di Plutarco (2) riguardo il carattere ternario di cotesto strumento, il quale sta in stretto rapporto col Mondo Terreno nello schema tripartito del Trimundio, sopra di esso essendo collocati sia il Mondo Celeste che quello Atmosferico.  Il Mondo Marino, in effetti, giace allo stesso livello di quello Terreno e quindi ne fa parte inevitabilmente; oltretutto, esprime concettualmente  meglio di quest’ultimo la fluidità mentale ch’è propria della ‘Terza Casta’ ossia la classe sociale dedita ai commerci e alla produzione.  Esattamente come le altre due armi, impugnate da Ade e da Zeus, ci rimandano vicendevolmente al Mondo Intermedio (Atmosferico) ed a quello Celeste (Solare); l’uno e l’altro sono corrispondenti difatti, nell’ambito della serie quaternaria degli Elementi, al Fuoco e all’Aria.  Ora, viene da chiedersi, quali erano veramente le valenze originarie degli emblemi descritti?  Al di là della loro caratterizzazione elementale, la quale deve esser ritenuta pur sempre un’applicazione posteriore alla loro primigenia ideazione.  Perché, inoltre, tutte e tre le armi posseggono in certo senso una comune struttura tripartita?  Anche se – è ovvio – vi sono  notevoli eccezioni in questo, soprattutto in relazione alla Folgore di Zeus; che appare a volte bifida, al pari delle saette racchiuse nelle mani di alcune deità vicino orientali (3).
Potremmo rispondere alla precedente domanda adducendo la ragione, ad imitazione di Plutarco, che tutte e tre le divinità del Triregnum appartengono nonostante la distinzione specifica di ruoli ad un’unica sfera divina (4); legata a ciò che l’autore definisce Trítē Chṓra e che il Dumézil chiama, dal punto di vista giuridico corrispondente, ‘Terza Funzione’.  Ma il Dumézil per le sue teorie trifunzionaliste ha preso spunto, anziché dalla tradizione greca, dalla tradizione romana; che purtoppo distorceva a suo comodo, negando la primazialità di Giano ed accusando di “primitivismo” coloro che la sostenevano quale fondamento ideale della romanità medesima.  Di qui ha esteso il concetto, con coerenza sebbene col vizio di fondo che abbiamo segnalato, all’intero panorama delle genti indoeuropee.  È comunque scontato che gli Dei del Triregno ellenico svolgessero funzioni analoghe, secondo una prospettiva per cosí dire castale (5), a quelle svolte dai corrispettivi numi latini.  Infatti è facile osservare come il ruolo eminentemente sacerdotale tenuto presso i Greci da Zeús Patr sia espletato in parallelo da Iuppiter; mentre Háidēs (6) equivale perfettamente a Mārs ed, altrettanto, può esser dichiarato a proposito di Poseídōn nei confronti di Quirīnus (7).  Il Dumézil commette una grave negligenza assegnando tout court al primo componente di questa terna la funzione sacerdotale ed al secondo quella regale, relegando soltanto al terzo il ruolo produttivo (8).  Ciò che gli contestiamo è precisamente il fatto che la genesi di codeste trimorfie divine (9), le quali sarebbe scorretto denominare “triadi” (in base ad una consueta e purtroppo abusata definizione), viene riportata dal mito ad un’epoca ciclica, la terza, in cui predominava un’umanità caratterizzata a grandi linee da tendenze psichiche affini a quelle della classe dei produttori (la Terza Classe secondo Platone)(10).  Onde siffatte trimorfie debbono esser raffrontate, sul piano delle ‘Generazioni umane’ (11), a quella degli Eroi o Semidei; per i quali esse, secondo l’insegnamento degli antichi, erano oggetto di venerazione in un lontano passato.  Insomma Zeus, Ade e Poseidone sarebbero in tal prospettiva da reputare le principali divinità della fecondità e della fertilità rivelatesi a quel genere d’umanità di cui la classe dei produttori costituisce una proiezione sul piano sociale e gli Eroi  (posti dallo stesso Platone in rapporto all’Eros, da lui inteso in questo caso elementarmente come principio seminale generatore d’abbondanza) sul piano ciclico.  Ecco allora che ci troviamo di fronte, volenti o nolenti, ad un fattore importante e sicuramente decisivo per la risoluzione del nostro quesito.  Se cotali ripartizioni delle armi simboliche ci rimandano per un verso alle triplicità varie di carattere titanico-solare già esaminate al Cap.II, delle quali sembrano risultare un parziale adattamento posteriore (12), non è affattto azzardato ipotizzare che pure a livello figurativo sia avvenuto un trasferimento di tale simbolica primeva dagli uni agli altri numi.



b)  Le tre armi suddette
cedute dai Ciclopi nella Titanomachia

L’affermazione che compare nel titolo del paragrafio non è meramente congetturale, ma è basata anzi su un dato reale; poiché si tramanda (13) siano stati i Ciclopi a donare agli Dei in questione le loro rispettive armi (14), al fine di proteggerli dai Titani nella lotta (Titanomachia) che li avrebbe condotti alla detronizzazione del capo di costoro, cioè di Crono.  Il problema è che il gr. Krónos significa letteralmente il ‘Cornuto’ ed i Ciclopi d’altro canto appaiono mitologicamente, per nascita e natura, strettamente affini loro medesimi ai titani.  Quindi il loro “dono” va preso cum grano salis, tanto piú che – come vedremo tra poco – anch’essi debbono aver disposto in passato in qualche modo di …corna.  Ma procediamo con ordine.
Onde risolvere l’enigma è necessario domandarsi da dove i Ciclopi abbiano preso quelle armi, se non dal novero delle proprie tradizionali prerogative numinose.  Supponiamo insomma, per dirla in breve, che tali esseri – caratterizzati secondo Servio (15) da un aspetto ora monoculare ora bioculare o trioculare – abbiano trasmesso ai piú recenti numi il loro equipaggiamento simbolico.  Tuttavia, se fosse avvenuto in questa semplice maniera dovremmo assistere secondo logica a delle raffigurazioni anteriori, e qualchedun’altra persino coeva o posteriore, degli stessi strumenti emblematici che appaiono nelle mani degli Dei del Triregnum; non solo quindi in mano ai Ciclopi, ma anche addirittura ad altre divinità affini nella cerchia della loro famiglia divina.  Come difatti è avvenuto col Triśūla indiano durante il Medioevo, passato dalle mani di Śiva a quelle dei figli di questi (Kumāra, Gaeśa), nonché in dotazione ad altre deità femminili (Gagā, Durgā) o maschili (Nandīśa, varr. Nandīśvara o Nandikeśvara)(16) della famiglia shivaita.  In effetti qualcosa del genere è avvenuto in Grecia con Tritone, ma è troppo poco onde tenere per buona quest’ipotesi.
Qualora invece sospettassimo che la trioftalmia ciclopica faccia il paio con la triocularità di Apollo-Crono (17), visto che i Ciclopi appartengono in fondo alla medesima categoria numinosa dei Titânes, allora si potrebbe ipotizzare che le armi cedute da tre vetuste figure titanico-solari (o ciclopico-solari) a tre piú recenti e secondarie figure eroico-solari, le quali vanno sotto il nome degli dèi del sacro triregnum, siano appunto le loro ‘Corone Triradiate’; o piú semplicemente le loro …’Corna’, aventi ovviamente il medesimo valore.  Tradotto in immagini maggiormente confacenti alla nostra moderna sensibilità, vale a dire in termini calendariali, l’eccezionale passaggio di consegne ora supposto risulterebbe esser nient’altro che il solito avvicendamento ciclico, piú addietro analizzato, tra i numi bimestrali (= stagionali) o planetari dell’Età dell’Argento e le divinità mensili o zodiacali dell’Età del Bronzo.  Giacché tradizionalmente parlando si deve comprendere  che allorquando vengono tirati in ballo gli Dei, trattasi di guerre o di pacificazioni, sono sempre immancabilmente dei mutamenti da parte degli uomini nei loro confronti durante l’epoca mitica presa in considerazione che vengono adombrati metaforicamente.



c)  La Corona Tripuntata di Ade, iconologicamente connessa allo Scettro Tripartito di costui, svela l’enigma
della primaria natura cheratomorfica di codeste armi

A riprova di ciò che abbiamo sin qua sostenuto, sono rintracciabili delle immagini di Ade (o meglio di Plutone, il doppione latino dello stesso), le quali mostrano codesto dio con in capo una Corona a 3 Punte (18).  Si consideri ad es. il ms.fr. 143 della Bibl.Naz. di Parigi, intitolato Le livre des échechs amoreux, ove troviamo il dio della morte troneggiante accanto a Proserpina entro la Bocca spalancata di una mostruosa Civetta; con ai piedi Cerbero Tricefalo, dunque alter-ego zoomorfico del nume, in una lugubre scena di desolazione infernale (19).  Anche Dante (20) per la verità descrive Lucifero, identificato dal Sommo Poeta a Dite (epiteto dell’equivalente romano di Ade, giunto a Roma dalla Grecia per via etrusca secondo il Morelli)(21), con ben 3 Volti; i colori dei quali sono il Nero, il Bianco ed il Rosso.  Cioè i tipici 3 colori che s’incontrano sia in certi tripodi <apollinei> (22) cretesi e micenei (vide supra), sia nella tripartizione del corno dell’unicorno indiano (23).  Sottolineiamo questo particolare, di sapore alchemico, dal momento che avremo  modo piú innanzi di tornarvi sopra.  In un ms. veneziano del XVI sec. (24) troviamo un’illustrazione della visione dantesca con un Lucifero visto trifrontalmente, ossia ritratto con 3 Volti.  Ciò che è valido per Ade deve necessariamente esser valido pure per Dioniso, se si tiene per vera la nozione classica che i due fossero la stessa persona divina.  Infatti Dioniso appare talvolta munito di Cornucopia (25), segno evidente – quantunque ormai disperso, o per lo meno velato, come si è osservato per altri numi – della primaria natura tricheromorfica di codesta divinità.  Anziché di dispersione d’un simbolo occorrerebbe parlare piú correttamente, nel caso della Cornucopia, d’un parziale occultamento di esso; siccome il Corno dell’Abbondanza costituisce di per sé la traccia ineludibile del possesso segreto da parte d’una determinata deità d’un corno del tutto speciale, di natura assiale anziché curvilinea.  E non a caso certe volte – anche se non sempre – viene raffigurato proprio cosí, centralmente; quasi fosse una presenza astratta, quindi assolutamente distinto rispetto le altre 2 corna laterali.  Nel caso di Dioniso, si confronti la suddetta Cornucopia col paio di Corna che di solito gli vengono attribuite quando viene definito Βουγενές (‘Figlio di Bue’)(26).



d)  Supposizione d’uno sviluppo culturale parallelo, o quasi,
nell’eleborazione culturale del Tridente

Sulla figura di Poseidone non abbiamo dati a sufficienza onde dimostrare l’esistenza a livello iconologico d’un parallelo processo culturale nella formazione del Tridente, ma personalmente siamo portati a pensare che pure per tale divino attributo sia maturato un analogo sviluppo a partire dalla forma animalesca o semianimalesca del dio, benché siffatte forme non ci siano giunte storicamente attraverso le raffigurazioni artistiche.  Solamente sul piano letterario si sa dell’aspetto ittiomorfico del dio (27), ma è chiaro che al modo del figlio Tritone, deve necessariamente essere esistito un tempo (il dio è d’origine atlantidea secondo Platone)(28), anche il sembiante semi-ittiomorfico (29).
In India del resto vi sono state in passato tribú come i Velāla della Valle dell’Indo che ossequiavano il Triśūla quale oggetto cerimoniale, retto con una mano (30).  Risulta possibile, insomma, che in principio esso fosse una mera trasposizione strumentale della sacra corona d’un nume solare; costituita da 3 raggi o da altrettante corna di egual valore simbolico, in base ai principali movimenti giornalieri ed annuali del luminare diurno.  Infatti ancor oggi in India, è arcinoto, il Triśūla funge da emblema del Trikāla (31).  Circa la provenienza storica effettiva del simbolo del Tridente siamo perciò convinti che questo sia derivato piú in generale, come s’intravede a sufficienza dai reperti archeologici di tutta l’area indomediterranea (32), da un’assunzione a scopo rituale della Corona Tricorne (o Triradiata) collocata nelle icone preistoriche o protostoriche sul capo di alcune figure divine; che poi corrispondentemente hanno ereditato quell’emblema nel nuovo ambiente culturale venutosi a creare durante i tempi storici, modificandolo in misura tale da doverlo tenere fra le mani come arma propria ed insieme come contrassegno d’una simbologia solare ormai inveterata, il cui rapporto col mondo animale (in senso agrario o venatorio che fosse, non importa) era alfine caduto nell’oblio.  Ciò spiegherebbe perché mai non esistano prototipi preistorici in sé e per sé, rispettivamente del Tridente greco-romano (gr.Triódus, lat.Tridens)(33) né in Europa né in Asia.  Il Furlani (34), che al contrario del sottoscritto parla invece di una “preistoria del Tridente”, si limita ahinoi ad esaminare la protostoria del Vicino Oriente, vale a dire il mondo degli Ittiti e degli Assiri.  Benché in codesta area, diversamente che nell’area dell’Indo, si rilevi in effetti l’impiego – seppur assai modesto – di divinità equipaggiate di tridente impugnato verticalmente già in epoca protostorica; per quanto si riferisce a tempi meno prossimi non abbiamo a disposizione invece alcun caso, neppure singolo (cosí almeno ci risulta), di rappresentazione figurativa del medesimo oggetto sacro.  Dobbiamo aggiungere inoltre che Poseidone è dotato, iconograficamente, di tratti parzialmente identici a quelli dello Śiva hindu.  Tuttavia, deve esser chiaro che l’assimilazione del primo alla categoria degli Dei Olimpici – si constati il posto di costui nell’ambito del Triregnum ellenico – è molto piú evidente nella tradizione greca della partecipazione di Śiva-Mahādeva,  nonostante sia stato concesso a questi l’appellativo apparente di ‘Grande Dio’, alla categoria parallela dei Deva nell’induismo.



e)  Testimonianza di un’origine indipendente del Tridente nella leggenda del dono a Poseidone di tale arma
da parte dei Telchíni

Una diversa tradizione (35), riguardo una fornitura alternativa a Poseidone della principale arma ascritta al dio marino, testimonia all’inverso un’origine indipendente del Tridente rispetto alle due altre armi divine da noi prese in considerazione.   Narrasi infatti che il Cronide durante la propria fanciullezza abbia ricevuto in omaggio codesto trumento da parte dei cd. Telchínes (36), i quali lo avevano amorosamente allevato ed avevano costruito tale arma al fine di proteggerlo.  I  Telchini, dichiarati dalla tradizione figli di Πόντος e di Γῆ  (cioè del Mare e della Terra = senza vera patria, in quanto spatriati da una terra evidentemente sprofondata negli abissi)(37), erano ritenuti sacerdoti pelasgici sopravvissuti al Diluvio (38) al dire di Strabone e di Diodoro Siculo; secondo taluni appartenevano in principio all’isola di Creta, che avrebbe posseduto una superficie piú estesa di quella attuale prima dell’ultima grande inondazione, e si sarebbero poi spostati verso Cipro e Rodi.  Mitologicamente invece essi sono paragonabili ai Cabiri ed ai Cureti, ai quali parzialmente s’identificano (39); nonostante una loro maggior cattiva fama, che avrebbe spinto Padre Zeus a sterminarli mediante le ‘Piogge’.  Ricordiamo a tal proposito che il Diluvio ha valenze cosmologiche complesse, non è soltanto questione di semplice inondazione o di sconvolgimenti geofisici; indica, oltre a questo, uno scatenamento inverosimile delle passioni umane, cui fanno seguito delle influenze cosmogoniche restauratrici dell’Ordine Cosmico.  In tal senso è implicato il Signore dello Zodiaco.  In modo speciale si parla di 3 Telchini, fungenti probabilmente da controparte solare e titanica (40) di colei che viene definita dal Graves ‘Triplice Dea’ lunare.  La loro sede originaria, se li vogliamo intendere piú in generale quale classe sacerdotale, sembra in effetti sia stata sommersa dal Diluvio di Deucalione, scatenato da Zeus; nel quale si narra sia perita gran parte della popolazione pelasgica, dimorante sulle coste dell’Egeo, allorché dominava ancora colà il ceppo pre-ellenico (41).  Indi, parzialmente riemersa, la stessa sede sarebbe stata di nuovo ripopolata con successivi spostamenti da un luogo all’altro dell’Egeo.  Certuni, occorre rammentare, diversamente da quanto abbiamo dichiarato sopra fanno di Rodi (42) il centro primario di diffusione dei Telchini (43).  Costoro, anziché nei panni di sacerdoti anellenici o dei loro rispettivi numi solari, possono essere viceversa intesi come un insieme di tribú anarie caratterizzate da una cultura di tipo magico-demonico; ovvero, magico-titanico (44).  Al riguardo, si tramanda che tali genti siano state le piú antiche ad esercitare la lavorazione dei metalli e che abbiano del pari primeggiato nel foggiare i simulacri dei numi.    Non è da esludere però che, accanto ai cruenti culti titanici, fosse già in auge un tipo di sacrificio di natura incruenta ovvero con valenze sacrificali meno arcaiche; secondo quel che lo Zeus Eliopolitano sembrerebbe suggerire (45), in accordo colle reali necessità dell’epoca di sviluppo di tali culti (l’Età del Bronzo), il simbolismo ciclico non essendo evidentemente esclusiva prerogativa della mitologia indoeuropea.  Al contrario di quello che si è voluto far credere a livello storico-religioso, quantunque ad attenuazione di codesto pregiudizio vada sottolineato il fatto che effettivamente nelle tradizioni di lingua indoeuropea il fattore ciclico sia divenuto preponderante.  Il Graves (46) argomentando attorno alle vicende delle Nove (47) Telchine (48), cinocefale e pinnipedi al modo di certi mostri marini pre-olimpici, asserisce difatti di una loro distruzione da parte di Zeus o dell’Apollo Licio (49) a causa dei malefici perpetrati da parte delle medesime.  Tralasciando il problema della trasposizione al femminile del simbolo, d’altronde assolutamente legittima allorquando ci si riferisca a tempi relativamente recenti (ossia posteriori al Diluvio di Deucalione e rientranti quindi nell’ancor mitica Età del Ferro), vale la pena di rammentare che il vocabolo designante siffatta stirpe, divina od umana che fosse, era spiegato dai grammatici greci nel senso di ‘Incantatori, Incantatrici’ (50).



f)  Il Tridente ed il Pesce
quali misterici emblemi della Regalità e del Sacerdozio

Il fatto che esista una storia indipendente riguardo l’origine culturale del Triódous è un’ulteriore prova, crediamo, che è la Folgore ad esser derivata dal Tridente; e non il contrario, come viene in genere sostenuto.  Ciò ci dà modo di capire perché mai il Tridente, alternativamente al Pesce, sia considerato presso certe civiltà (vedi Mesopotamia, ma suggeriamo di estendere il concetto da un lato all’area medio-orientale e dall’altro a quella egeo-anatolica) un attributo regale.  Ora però proviamo a trattare solamente l’aspetto pescino, da cui l’emblema del Tridente è sicuramente derivato, sia pur indirettamente.  In quanto, immaginando per il Tridente un’origine cheratomorfica, va da sé che siffatta genesi sia connessa inscindibilmente al concetto di Pesce Cornuto quale modello essenziale di assialità.
L’introduzione d’una simbolica ittiomorfica nella qualificazione di scene alludenti  al carattere sacro della regalità è riscontrabile precipuamente in Mesopotamia, ove si rinviene nella glittica arcaica di Ur la sagoma d’un pesce posta di fronte a determinate figure umane; sedute regalmente su un rozzo scanno di pietra, od un piú elaborato trono, nell’atto evidente di bere da un corno una pozione offerta da alcuni servi (51).  Con magnifica lungimiranza Padre Heras (52) illustrando la sua interpretazione dei sigilli sumeri sommariamente descritti si è chiesto se la perseveranza del determinativo di Min nella qualifica della regalità, che oggettivamente s’incontra in Egitto (si veda il Mīn di Her., Hist.- ii. 5, 2 fondatore della dinastia faraonica, ellenizzato in Menes da Manetone) e a Creta (osservando il titolo di Mínōs presso i re cretesi)(53) non ci autorizzi a trascrivere con min (‘illustre, splendente, luminoso’ ecc.) al modo del proto-indiano persino il segno in forma di pesce della glittica sumerica.  Tanto piú che Mīn, il dio egizio che abbiamo già antecedentemente (54) definito unicorne, itifallico ed unipede, è secondo il gesuita ispanico – appoggiantesi al Petrie – la trasposizione in terra faraonica da parte di un popolo venuto da chissadove (lui dice oriente) del Mīn paleo-indico (55).  In altre parole, si può legittimamente ipotizzare che l’accostamento del Pesce al Tridente quale si rinviene in area mesopotamica ed indiana (56) denoti l’unione del Sacerdozio (Pesce) alla Regalità (Tridente = Corona Tripuntata), insomma la presenza indiscutibile di un Rex-sacerdos.



g)  La simultanea identificazione rituale del Re Sacro
al Primo Uomo e del Sacerdote alla Prima Donna
offre le chiavi del mistero suaccennato

In tale logica è quindi da supporre, come ci suggerisce lo stesso Padre Heras, che il grande monarca incarnasse la divinità suprema; o meglio quella primaziale e paradisiaca, la quale era tutt’uno col Primo Uomo, al modo del Giano latino.  Non per nulla, signore del Lazio, vale a dire della ‘Terra Nascosta’ (dal lat. lateo).  Ovverosia, l’llavta (‘Terra Velata’), da v (‘velare, nascondere’).  E per tal motivo gli sarebbe stato appunto conferito l’emblema numinoso del quale quella divinità si fregiava, il Pesce Cornuto (in verità Monodono), di cui l’emblema in precedenza analizzato costituiva una tipica variante.  Pur tuttavia va ancora sottolineato che l’equivalenza supposta del sovrano, in senso sovracastale, col nume primevo (57) altro non è se non un’identificazione dell’autorità del Re Sacro (o Rex-sacerdos) a quella del Primo Uomo nell’accezione aurea; in altre parole corrisponde all’identità di Brahmā con Re Manu (58), per dirla all’indiana.  Ossia alla conformità di quello che nella Cabala è definito Ādām Qadmon (dotato di 4 Teste, al pari Giano), cioè l’Adamo Primigenio (od Universale), coll’<Antico dei Giorni> biblico (Dan.- vii. 9)(59) inteso quale alter-ego di Yahweh; se ci rifacciamo invece comparativamente alla tradizione biblica, il che è come dire caldaico-abramitica.  In realtà fra i due termini vi è uno iato, tipico del mondo ebraico e più in generale delle dottrine dvaparayughiche, il quale si estende ad un terzo termine trinitario; egualmente accade in India col Tripurua mahabharatiano-vishnuita, dove il Puruottama viene distinto sia dall’Akara-purua che dallo Kara-Purua (60).  Nella tradizione greca, purtroppo, manca in apparenza (a parte la figura di Prometeo) questa relazione d’identità fra il Primo Dio ed il Primo Uomo che troviamo viceversa altrove (61) e che costituiva in generale il binomio primordiale del culto di tutte le genti durante il I Grande Anno; o meglio, essa è celata dietro alla figura egeo-cretese di Minosse.  Il mito ellenico però ha finito per occultarla, sostituendole in cambio la serie generazionale Urano-Crono-Zeus-Apollo; che sono invero rispettivamente le deità supreme del II-III-IV-V G.A.  Vi è tuttavia qualcosa che rassomiglia allaTrinità cristiana e che ha quali termini specifici Zeus-Eracle-Ificle (62).
L’autorità del Re Sacro è l’autorità di colui che costituisce all’interno della mitologia hindu il Re Pescatore primigenio, avendo questi avuto dall’Aureo Mahāmatsya Ekaśṛṅga la Rivelazione della perfetta identità fra l’Uomo e la Divinità.  Altrove si è persa parzialmente questa relazione simbolica, ma non del tutto.  Nel caso della Regalità in senso meramente guerriero e tretayughico codesta identificazione è soltanto virtuale, non potendo di norma oltrepassare i confini ontologici del Paradiso Terrestre (63), o meglio del Satyayuga.   In codesta accezione, piú ristretta della precedente, il Princeps è semplicemente l’<Uomo Regale>  ovverosia l’<Uomo Reale> della tradizione cinese; il quale, si dice, “non conosce né vità né morte”.  Mentre nel caso del Sacerdozio, laddove si stabilisca  (Chēn-jēn) un’associazione simbolica di carattere ciclico tra esso e la seconda metà dell’Età Aurea (raffigurata iconologicamente dall’immagine della Prima Donna – Parśu (64) nella tradizione induista – per via d’un ancestrale shamanismo di tipo shaktico), l’identificazione può spingersi piú oltre, sino al limite supremo del Paradiso Celeste (il Satyaloka brahmanico).


Vi è comunque un legame diretto tra il Pesce Unicorne della letteratura vedico-puranica, dell’epica o dell’arte indiana (65), ed il Pescesega del folclore meridionale; un parallelo del quale si è dichiarato piú addetro esser stato il contrassegno dell’unicornia del Mīn egizio, cioè d’un ipostasi dell’Osiride paradisiaco (66).  Osiride, d’altra parte, era associato alla figura del Faraone in Egitto.  A conferma di ciò che abbiamo tentato di dimostrare in codesta nostra disamina, Padre Heras con estrema genialità ci ha messo a disposizione un ulteriore ritratto regale oltre a quelli già mezionati al paragrafo precedente, proveniente questa volta dalla Mesopotamia (Bismaya)(67); esso ci mostra un monarca – od un dignitario minore – avente sul capo un oggetto tricuspidato, che il gesuita afferma trattarsi d’un tridente (68), ma potrebbe essere invece una corona triradiata o qualcosa di molto simile.  Sempre Heras ipotizza che nell’antica Valle dell’Indo vi fosse diffuso un analogo concetto di regalità rispetto al Paese di Sumer nonché a Creta e all’Egitto, se è vero che la supposta definizione di Vēl (‘Tridente’)(69) – ripresa piú tardi nelle lingue dravidiche – è rimasta in uso quale epiteto onorifico dei re di Madurai, secondo quanto si rileva palesemente da certe iscrizioni di Epoca Pāṇḍya.  Di certo il titolo indicato aveva a che fare in principio col Triśūla, adornante il capo di Āṇ (il Proto-Shiva), il nume che compariva troneggiante sui sigilli di Mohenjōdaro; cosí come la Corona Tricuspidata, posta sulla testa dei sovrani mesopotamici, riproduceva sul loro capo la Triplice Ramificazione spuntante dalla nuca dell’An sumerico (70).  Il riferimento paradisiaco è garantito comunque, anche in tale occasione, tanto dalla ‘Bianca Montagna’ associata al culto dell’An mesopotamico; quanto dall’omologo Monte (seppur indistinto) su cui è appostato l’Āṇ degli antichi sigilli dell’Indo (71), nume designato non meno del proprio ‘Figlio’ quale possessore del Triśūla.



h)  Rapporti analogici fra il Pesce Cornuto, il Granchio
(od altri emblemi equipollenti) ed il Tridente

Per concludere circa il ruolo del Pesce, divenuto emblema del’Unità Divina indipendentemente dal fatto che esso fosse dotato di corno o meno, e la funzione appaiata del Tridente, relativamente ai quali esiste un analogo rapporto a quello che passa fra l’Unicorno ed il Tricorno (72), aggiungasi che a Mohenjodaro (antica Naṇḍūr, ossia la ‘Città del Granchio’) alternativamente ad una simbologia per cosí dire paleo-shivaica – connessa probabilmente al Solstizio d’Inverno, insomma al Makara (corrispettivo indiano del Capricorno) ed al Delphinus celesti – era nota una corrispondente simbologia paleo-shaktica; dal momento che nelle iscrizioni glittiche si faceva cenno ad un ‘Fattore del Granchio’ (73), titolo di evidente valore sacerdotale, ciò che viene cosí a confermare il carattere numinoso della monarchia in tutta l’area culturale presa in esame.  Il Granchio d’altro canto, c’insegna l’Astrologia, ha a che fare colla Morte e la simbologia lunare ciclico-annuale; e non sarà certo un caso che anche oggi il nome della citta, Mohenjodāro (74), significhi letteralmente ‘Collina dei Morti’.
In definitiva risulta facile considerare gli equivalenti lunari e femminei del Pesce Cornuto (Granchio, Gambero, Seppia, Polpo, Conchiglia ecc.), di contro al Pesce medesimo che è di natura chiaramente uranico-solare, una forma intermedia tra quest’ultimo ed il suddetto Tridente.  In tal caso il crostaceo, il mollusco od altre creature dalla consimile natura funge da ‘utero’ (gr. delphýs) anziché da ‘fallo’.  Primordialmente questo simbolo era rappresentato da animali quali foche o trichechi, oppure dalla tartaruga, un’eco dei quali è giunto sinanco in Grecia, visto che ve n’è traccia nella mitologia classica e poi perfino nell’arte paganeggiante dell’Epoca Cristiana.  Sebbene il Cristianesimo di per sé lo abbia sostituito colla cd. Vēsica Pīscis, emblema non per nulla della Madonna.
Ecco allora che – potremmo asserire ipoteticamente – i 3 emblemi del Pesce Cornuto, del Granchio e del Tridente debbono essere specificatamente reputati il contrassegno vicendevole della Profezia, del Sacerdozio e della Regalità (75).  Come siamo giunti a codesta deduzione è facile spiegarlo.  Visto che esiste una gerarchia numerica fra di essi, che va dall’1 al 3.  Ciascuno di siffatti emblemi ci rimanda infatti ad un determinato ciclo avatarico (76), precisamente ai primi tre (77).  Questo non significa ovviamente che la Profezia sia una prerogativa esclusiva del I Ciclo, il Sacerdozio del II e la Regalità del III; né che tali attitudini umane siano spuntate fuori nei rispettivi cicli ad esse emblematicamente associati.  Poiché sappiamo dalla letteratura dell’India antica, ma anche la Grecia pagana concorda sostanzialmente con essa per chi sa leggere la mitologia con spirito tradizionale, che ogni classe sociale (o casta che dir si voglia) presenta un periodo di nascita ben distinto (78), avente a che fare coi Mahayuga e non cogli Yuga.



i)  Ipotesi di un’identità mitica
fra le figure di Poseidone e Minosse,
alla luce del simbolismo messo in risalto

Orbene, poiché la civiltà cretese come c’insegnano Padre Heras et al. (79), non è che un ramo dell’intera cultura indomediterranea, ecco che Minosse ed il suo alter-ego Poseidone – mitico possessore del Tridente e, quindi, del dominio sul ‘Terzo Regno’ – ci appaiono adesso come coloro che per forza di cose debbono aver avuto nella loro protostoria iconologica un copricapo triradiato oppure foggiato in maniera molto simile; vale a dire tridentato, tricorne, triramificato o trilobato.
Riguardo Minosse, non conosciamo per la verità alcuna imagine capace di sostanziare il concetto da noi dianzi espresso; ma forse il senso della figura è racchiuso nel nome divino medesimo, che è in effetti un titolo regale.  Minosse, allorché è ritratto quale Giudice dei Morti (Hom., Od.- xi. 791-5), tiene in mano l’Aureo Scettro; il quale, stimando la base *Mīn- del nome cretese grecizzato Mín-ōs un residuo della sua originaria natura ittica (cfr. col Mīn-a tantrico), potrebbe alludere indirettamente – come nel caso della Verga-scettro del Re Giano latino – al Corno Pescino dell’unico Rex-Sacerdos primordiale (80).  Come è accaduto al Manu indiano, riadattato letterariamente nel Veda a tempi posteriori, al Μίνως egeo-cretese può essere capitata la medesima cosa.  In fondo, è lecito arguire che il Tridente costituisca uno sviluppo ternario – anche in India – della Verga-scettro (Daṇḍa) di Re Yama, corrispettivo hindu dello Iānus romano ed omologo di Re Manu (81).  Difatti, in una miniatura rinascimentale (82) osserviamo Re Minosse con Corona a 3 Punte nell’atto di condannare due reprobi quale Giudice dell’Inferno.  E guardacaso la stessa Corona compare in altra miniatura (83) sul capo della Regina Pasife (84), nella scena in cui costei s’invaghisce del Bianco Toro, ipostasi bovina di Poseidone.
Poseidone al contrario è dipinto nella leggenda del viaggio di Teseo alla volta di Creta, collo scopo di uccidere il Minotauro, nella veste di un dio marino che si può presumere avesse in testa un’Aurea Corona a mo’ di sovrano delle acque (85).  Questa corona essendo in possesso difatti della consorte Anfitrite (86), come avrebbe potuto non possederla il paredro?  Sarebbe incongruente, altrimenti.  Visto che in campo mitologico tutto ha un preciso significato, come potrebbe spiegarsi un’incongruenza del genere?  Per la verità una spiegazione la si può trovare: è plausibile che, da un punto di vista cosmologico, si parli d’una sola corona al fine di giustificare il mitologhema della Corona Borealis.  Ad ogni modo, anche in questo caso, troviamo un’ennesima immagine moderna (87) ritraente il nume marino con una cresta rassomigliante ad un corno e coda pescina trilobata alla maniera di Glauco.  La ‘Coda’ implica, perciò, che anche il capo possa esser immaginato tricuspidato o tridentato; come il Delfino greco-cristiano, od il Makara indo-buddhista (88).



l)  L’Aurea Corona di Anfitrite
donata a Teseo dalla dea marina nel ‘Fondo delle Acque’

Sarà bene, a questo punto, raccontare un po’ piú in dettaglio la vicenda; narrata principalmente dal lirico greco Bacchilide (VI-V sec.) nei Ditirambi, ovvero da Plutarco nelle Vite parallele e da altri autori in tempi diversi (89).
Si dice che gli Ateniesi dovessero mandare ogni anno a Creta come tributo per la morte di Androgeo (90), figlio di Minosse, una nave con sette giovani ed altrettante vergini; al fine di soddisfare le brame sacrificali del Minotauro, fratello taurocefalo di Androgeo rinchiuso a causa della propria deformità nel Labirinto di Cnosso, costruito alla scopo da Dedalo.  Teseo, figlioccio del Re Egeo (91), nel corso della navigazione verso l’isola – sorteggiato o meno che fosse tra i giovani da inviare quali vittime deignate al sacrificio (a seconda delle versioni egli svolge un ruolo attivo o passivo nella ribellione all’imposizione cretese) – rimprovera Minosse per la visibile brama che aveva preso il tiranno di violare una delle vergini; essendosi l’Eroe rivelato quindi nella sua vera identità ossia quale figlio del dio del mare, si scatena allora una disputa fra lui e il re cretese, che spinge ciascuno dei due contendenti a manifestare la rispettiva ascendenza divina.  Ragion per cui Minosse dopo aver dimostrato attraverso il balenío miracoloso del lampo ed il fragore improvviso del tuono di discendere dal padre Zeus, che aveva voluto cosí accogliere l’invocazione del figlio ad inviargli un segno della propria benevolenza, getta in mare un <Anello d’Oro> onde mettere alla prova il favore goduto da parte di Teseo nei confronti di Poseidone; quegli, tuffatosi pertanto in acqua col pretesto di andarlo a prendere, viene prima accompagnato dai Delfini – accoliti zoomorfici del dio – o da Tritone – fratello marino dell’Eroe – nel ‘Palazzo’ paterno, giacente sul ‘Fondo delle Acque’.  Accolto amorevolmente da Anfitrite in una luce accecante che brillava tutt’attorno, Teseo riceve in dono dalla consorte di Poseidone una <Aurea Corona> (92); e riemerge alfine dalle acque, fra la meraviglia generale, con in testa la Corona donatagli ed in mano l’Anello d’Oro (93) di cui il re cretese si era privato per saggiare il volere divino.
La leggenda dell’uccisione del Minotauro, com’è noto, prosegue in tal maniera (94).
Una volta che l’imbarcazione con a bordo le vittime da sacrificare è giunta a Creta Arianna, la bella figlia di Re Minosse, s’innamora di Teseo a prima vista; per cui ella decide di aiutarlo ad annientare il suo fratellastro, ricevendone in cambio una promessa di nozze.  Arianna offre allora all’Eroe ateniese – per la verità questi era di Trezene – il Celebre Filo Magico (95) che, assicurato ad uno stipite della porta d’ingresso del Labirinto (96), sgomitolandosi avrebbe condotto Teseo di fronte all’essere mostruoso addormentato al centro (97) di quella specie di prigione-santuario.  Secondo i patti con Creta, qualora qualche straniero fosse stato capace di uccidere colla sola forza delle mani il Minotauro, quegli avrebbe potuto liberare Atene dal tributo di sangue impostole da Minosse.  Cosí infatti avviene, dato che Teseo era esperto di lotta libera (98); anche se, a dire il vero, l’iconografia (99) ce lo mostra piú spesso nell’atto di colpire il Minotauro (100) con la Spada o la Clava (101).  Riemerso dal Labirinto colle vesti insanguinate, l’Eroe riabbraccia la sua improvvisata amante ed è indi ricondotto da costei al porto, donde era venuto.



m)  L’Aurea Corona di Anfitrite posta da Dioniso
sul capo di Arianna al momento delle nozze con costei.

Non stiamo ora a descrivere tutti gl’intoppi nella fuga di Teseo, premendoci invece di sottolineare che Arianna in lacrime per essere stata abbandonata dall’ingrato amante nell’isola di Dia (attuale Nasso) è piú tardi assistita da Dioniso; il quale era apparso in sogno all’Eroe, facendogli dimenticare le promesse verso la figlia di Minosse ed intimandogli oltretutto di andarsene e lasciare la giovane Arianna sul lido.  Al dire di Pausania, Catullo ed Igino Dioniso si sarebbe perciò unito in matrimonio ad Arianna posandole sul capo ritualmente l’Aurea Corona di Tetide (102), sposa di Peleo.  La medesima Corona sarebbe stata infine immortalata in cielo, cosí recita la storia, tramite l’asterismo della Corona Boreale (103); l’importanza di tale asterismo nella storia testé citata è ulteriormente esaltata dal fatto che essa si trova in cielo accanto a Bootes, nel cui nome andava identificato per i Greci Icario, amico di Dioniso e padre di Erigone.  Costoro non erano che allotropi, rispettivamente, di Dioniso ed Arianna.
Al bovaro Icario, chiamato anche Filomelo, è stata attribuita non meno che a Dioniso l’invenzione del vino; ma proprio tal fatto ha finito per decretare la sua morte da parte degli altri bovari che immaginavano d’essere stati avvelenati.  Questo personaggio è inoltre eroe culturale per un altro motivo: fu il primo a soggiogare i buoi al carro, e perciò veniva chiamato Βοώτης.  La stella Arctūrus, magnificata dai poeti per la sua luminosità, è la stella dominante di questo asterismo; in India è definita Nihya (‘Caos, Oscurità’), per ragioni in apparenza poco comprensibili ma sicuramente legate alla questione stagionale, e fa parte pure colà del Bhūteśa Maṇḍala (Gruppo del Boṓtēs).   Vi è chi (104) spiega siffatta connessione con il riferimento a Śiva Bhūteśa alias Pāśupati, poiché in effetti i Bhūta (gli ‘Elementi’) sono qui da intendere come le stelle e cioè tutti gli esseri universali, ai quali egli presiede in veste di guardiano stellare.  In Grecia Boṓtēs funge da pastore-guardiano dell’Orsa Maggiore (105), a propria volta da altri concepita in questa veste nei confronti di tutte le altre stelle (106), e da ciò si può dedurre che codesta funzione si sia trasmessa un tempo dall’asterismo polare a quello extra-zodiacale.
Tutta la vicenda vien pertanto a provare indirettamente che tanto Anfitrite quanto Poseidone parimenti a Pasife e Minosse, dei quali appaiono a loro volta sostanzialmente dei doppioni, erano in origine dotati necessariamente d’un copricapo; che, comunque lo si voglia intendere, dovremmo per lo meno definire tripartito (107).  Tale assunto concorda essenzialmente con quel che si era sopra stabilito, desumendolo da miti elaborati attraverso tradizioni parallele.



n)  Il culto cretese della Bipenne,
associato ad un antico dio tauromorfo e tricorne,
rivela l’esistenza d’una prefigurazione anellenica di Zeus

A ben vedere il mitologhema prima riportato sui Telchini è soltanto una replica sia pur limitata al dio del mare, cioè ad uno esclusivamente dei tre componenti del divino Triregno, della leggenda relativa al dono delle armi ai tre fratelli olimpici da parte dei Ciclopi (108).  Molto piú difficile che trarre lo Scettro Tripartito ed il Tridente dai (supposti) rispettivi Kérata di Ade e di Poseidone, è far derivare adesso da analoghe corna la Folgore Tricuspidata di Zeus.  Tuttavia  la tradizione dell’avvenuto dono delle armi ai 3 Cronidi, da parte dei Ciclopi, è assolutamente ineludibile.  Non potendo tralasciarla saremo costretti a prenderla in considerazione pure in questo caso, peraltro assi problematico.  Questa volta infatti non ci vengono in aiuto immagini tarde del dio, com’è accaduto con il corrispettivo latino di Ade; né sono pronte ad ispirarci regali corone trapuntate, come quella donata a Teseo da Anfitrite o ad Arianna da Dioniso (109).  Per cui sarà necessario ricorrere ad un altro tipo di valutazioni, concernenti l’Ascia da Fulmine piuttosto che la Saetta Trifida.  Ora è perfettamente noto che l’Ascia, uno dei piú sacri emblemi – tanto in Europa quanto in Asia – che l’Antichità abbia ereditato dai tempi preistorici, svolge dal punto di vista iconografico un ruolo del tutto parallelo a quello della Saetta; concepita figurativamente in forma di dardo con una, due o tre punte.  Ed, anzi, si deve riconoscere che la prima è sicuramente un simbolo maggiormente arcaico della seconda; onde non ci sarebbe da sbagliarsi qualora affermassimo, esplicitamente, che essa figura addirittura da contrassegno ancestrale della Folgore.  Sempre in codesta linea logica di giudizio, analizziamo adesso un’immagine assai strana apparentemente, ma che servirà ciononostante in modo soprprendente alla nostra causa.
Nei reperti archeologici cretesi di Età Minoica è stato rinvenuto un intaglio in agata con incisa una Testa Taurina (110), avente una Doppia Ascia (111) fra le Corna.  Il tema, come giustamente rileva il Cook, non è da intendere in senso puramente ornamentale;  poiché si richiama in modo evidente al culto dello “Zeus cretese”, di cui il toro costituiva secondo l’autore “l’animale teantropico” (112).  A nostro avviso, ipotizzare al riguardo la presenza di un antico culto di Zeus nell’isola di Creta (113) non è molto diverso dal credere in una versione indigena di questo dio.  Fra le due cose la differenza effettiva sarebbe minima, ciò valendo ovviamente anche per le altre divinità omologhe.  Ulteriori icone, colle Corna Taurine inframmezzate dalla Doppia Ascia, appartengono invece al periodo miceneo (114); anche se rispecchiano pure loro, è chiaro, il culto neolitico del Toro Celeste.  Ossia, il bimillennio in cui il Punto Vernale trovavasi in Taurus.
Che significava quindi l’Ascia nella posizione indicata?  Di certo, essa alludeva al sacrificio cosmogonico cui aveva adempiuto il Sole allorquando era venuto a trovarsi nella posizione astronomica descritta; dal momento che questa coincideva praticamente coll’inizio della Quarta Età ciclica, ogni inizio portando con sé qualcosa dei primordi o per meglio dire del principio del mondo.  Naturalmente le raffigurazioni testé menzionate implicavano per necessità di cose dei significati rituali, d’altronde sottintesi nell’interpretazione cosmologica del simbolo.  Dato che i riti – com’è risaputo – rappresentano dal punto di vista scenico nientemeno che delle imitazioni cerimoniali del cammino celeste degli astri, coll’adattamento a tal fine di tutto ciò che concerne la vita umana; la quale viene in tal modo scandita in una serie di sequenze cronologiche in apparenza distinte tra di loro, e persino contrapposte, ma invero segretamente collegate ad un ‘Principio Unico’ (la definizione è estremo orientale) che tutte le trascende.  Dunque, è lecito arguire che sul piano ontologico la Doppia Ascia simboleggiasse il potere di Vita e di Morte legato al sacrificio annuale del Sole; di cui il Toro, in ambiente cretese, costituiva l’emblema per antonomasia.
Che ad ogni modo fosse la cifra ternaria l’elemento prevalente di siffatte epitomi taurine (115) è provato dalla decorazione d’un cratere miceneo rinvenuto nell’isola di Cipro (piú precisamente a Sálamis); ove la Doppia Ascia è triplicata, sí da formare 3 Doppie Asce, 2 delle quali laterali sono collocate a mezzo tra le corna di 2 Bucrani.  Mentre quella centrale è posta assialmente su 2 Corna, stilizzate ad U, col manico che finisce in una specie di minuscolo Treppiede.  L’ulteriore documentazione della diffusione di cotesto tema iconografico offertoci dal Cook (116) riguarda vari Bucrani rinvenuti piú d’un secolo fa ad Olbia, in Sarmazia; e probabilmente affissi, rileva l’autore, a mo’ di ornamento a qualche superficie levigata, forse d’una bara di legno.   In luogo della solita Doppia ascia troviamo fra le corna dei crani bovini una protuberanza assiale di tipo cilindrico, rassomigliante ad un manico d’ascia mozzato.  Se si tratti anche in questo caso di vestigia della Doppia ascia, come vuole il N., oppure d’una protuberanza assiale generica, è difficile dire; resta il fatto però che cotale triassialità di tutte le teste ed i crani taurini analizzati ci rimanda necessariamente alla triplicità simbolica degli emblemi tridentati, o variamente tricuspidati, che fungevano da copricapo regale delle divinità in precedenza delineate.  Per cui, avvalendoci del prezioso contributo del Cook, interpretiamo senza mezzi termini la Doppia Ascia emergente dalle Corna rituali cretesi alla stregua di una raffigurazione semiteriomorfica del locale Signore della Folgore.



o)  Tratti titanici ereditati dallo Zeus ellenico

Tale soggetto, bisogna ragionevolmente riconoscerlo, testimonia la diffusione nell’isola di Creta d’un arcaico culto indigeno relativo ad un dio taurocefalo e tricorne.  Questi non poteva esser altri che Crono, in base all’indicazione intrinseca del nome con cui questa divinità è stata designata (117).  L’Ascia oltretutto, ad esser precisi, era una volta un attributo di tale divinità; nel tempo lontano in cui l’anziano consorte di Rhea svolgeva la parte d’un nume agrario (o meglio orticolo), in seguito ereditata dal figlio Zeus (118).
Che Zeus possa aver ereditato iconograficamente certi attributi di Crono, nel trasferimento che di essi è avvenuto a vantaggio degli dèi atmosferici dopo il venir meno dei culti a carattere titanico, è provato ulteriormente da una citazione di Pausania (Paus., Per., ii. 24, 5).  Veniamo in tal modo informati dell’esistenza ad Argo di uno Zeus Trioculo, che faceva anticamente il paio coll’analogo Apollo Trioculo accreditato ai Dori da parte di Erodoto (119).  Dato che Apollo costituisce il volto solare di Crono è conseguente dedurre dall’accostamento indicato che il tricheromorfismo delle teste taurine, con la ‘Doppia Ascia’ nel mezzo poc’anzi esaminato, alludesse alla tricornía originaria trasmessa dal Crono pelasgico allo Zeus cretese.  Sul piano storico sarebbe meglio comunque, nonostante l’obiezione sopra formulata, parlare di Astérios (od Asteríon) anziché di Zeus; benché si abbia notizia, ad esser sinceri, della venerazione sincretica di uno Zeús Astérios (120).  Parimenti a Dioniso, il Padre degli Dei ha ricavato in dotazione tra i suoi emblemi la Cornucopia (121); perciò, quel che vale per l’uno deve valere anche per l’altro.



p)  Il presumibile tricheromorfismo di Europa
appaiabile simbolicamente a quello di Zeús Astérios

La stessa cosa dicasi inoltre dell’Oceanina Europa (122), amante di Zeus e consorte di poi del sunnominato Asterio.  Tutti costoro, di conseguenza, sono da concepire come delle figure divine tricorni (123); sebbene valga la pena non dimenticare mai che il Corno dell’Abbondanza (124), similmente ad ogni altro fattore simbolico equivalente (Vaso, Coppa, Ascia, Verga ecc.)(125) rappresenta, in quanto contrassegno paradisiaco (126), un doppione del Pesce.  E qualora si abbia a che fare con il Pesce Unicorne, cotale dispaiato corno (127) è identificabile allora al corno egualmente impari di siffatta leggendaria creatura acquatica.

Ma dobbiamo adesso analizzare, piú in dettaglio, il tricheromorfismo presunto di Europa.  Dopo averla rapita da una spiaggia fenicia ed averla trasportata magicamente sulla propria groppa, attraverso il mare, fino ad un antro dell’isola di Creta – secondo una variante (128) alla volta della Beozia (lett. ‘Terra del Bove’) – Zeus in aspetto taurino (129) si congiunge in amplesso con la figlia di Teti e di Oceano, generando in lei 3 <Figli>: Sarpedonte, Minosse e Radamante, in seguito adottati da parte di Asterio.  Vide supra.  Nell’iconografia Europa tiene in mano il Pesce  (130), che ne suggella la primaria natura di dea marina, o addirittura oceanica (131); talvolta invece ella regge il Fiore, che presumiamo essere del medesimo tipo di quelli raccolti dalla oceanina in riva al mare nel momento in cui le si appressa il Toro Divino.  Il particolare maggiormente interessante di tutta la vicenda consiste, ad ogni modo, nel fatto che al protagonista taurino del mito narrato in certi antichi dipinti (132) venivano assegnati 3 simbolici Colori.  Torneremo su questo importante punto fra breve.  Per il momento ci preme di raffrontare la storia appena raccontata con quella di Io, la Vacca Lunare Vagante; la quale ha una volta di piú come controparte maschile, e sposo divino, il già citato Zeus (133).  Io, figlia del dio fluviale Inaco, è trasformata da Era, gelosa di Io per l’amore nutrito dal ‘Padre degli Dei’ verso costei, in una vacca; custodita da Argo, dai ‘Mille Occhi’ (134).  Avendola però Zeus amata in sembiante di toro, la paredra del dio fa sí che un tafano insegua Io, sotto forma di vacca, fino in Egitto.  Colà, dopo aver vagato assai, la tormentata amante partorisce alfine Epafo.  La triade cosí formata – vale a dire del Dio-toro (Zeus), della Dea-vacca (Io) e del Dio-vitello (Epafo) – è stata dai Greci equiparata, tradizionalmente, alla triade classica egizia; ovvero Osiride, Iside ed Api, pure loro oggetto in Egitto d’una non dissimile metamorfosi bovina.  Rimangono adesso da evidenziare le ragioni per le quali abbiamo poco fa sostenuto la perfetta omogeneità tra υρώπη ed ώ, le due celebri amanti del Signore dell’Olimpo.  Riguardo tuttavia ad Era bisogna ancora sottolineare che la Regina degli Dei costuisce lei stessa un doppione della Vacca Lunare.  Non dobbiamo, d’altronde, lasciarci ingannare dall’apparente antinomia fra la dea e la doppia rivale.  Secondo ciò che ci è già capitato di osservare in analoghe circostanze, dei conflitti apparenti nascondono per lo piú una sostanziale identità di natura tra i due o le due contendendenti, quantunque essa venga travestita quasi sempre da alterità, a scopo rituale.  Al fine di provare la veridicità della nostra asserzione facciamo presente, traendo appoggio dal Cook (135), che Ἥρα portava effettivamente in alcune inconsuete immagini se non una maschera vaccina vera e propria almeno corna vaccine.  Si veda, a tal proposito, il regale copricapo tricorne – in verità un corno centrale diramantesi in un paio di corna laterali – indossato dalla Regina del Cielo in certe raffigurazioni numismatiche d’epoca imperiale riportate dal succitato autore (136).  Ciò dimostra, chiaramente, che Io ed Era sono da intendere quali doppioni l’una dell’altra; inoltre, siccome abbiamo prima sostenuto essere Io una veste allomorfica di Europa, per coerenza adesso dovremo considerare quest’ultima una controfigura di Era.  Onde, è del tutto legittimo ritenere che anche Europa abbia portato una volta sul suo capo qualche segno distintivo della propria celeste regalità (137).



q)  L’interpretazione tauromorfica
nella simbologia dei 3 Colori alchemici

La tricornicità (138) delle omologhe figure di dee ora esaminate si confà pienamente a quanto abbiamo in precedenza rilevato riguardo Pasife ed Arianna (139).  Donde, ormai, possiamo dare il dato praticamente per scontato da qui in poi.  Ciononostante, ci soffermeremo ancora un po’ sulla comparazione delle due storie parallele appena analizzate.
Giacché vi è un fattore ternario indipendente nei due soggetti similari or ora esaminati che, oltre a comprovare ulteriormente la risoluzione da noi escogitata per il problema delle Corna, introduce un nuovo argomento; il quale indirettamente ci permetterà di portare a conclusione la nostra lunga disamina critica nei confronti del tema del Delfino Monocero cretese, intendendolo insomma come variante tipicamente mediterranea del motivo primordiale del Grande Pesce Unicorne.
Il secondo fattore ternario (oltre a quello delle Corna già delineato), cui si è fatto poco fa allusione, è dato dai 3 Colori (Nero, Bianco ed Oro) (140) attribuiti ad Io dopo la trasformazione della sacerdotessa in ‘Vacca Vagante’ (141); codesti ‘Colori’, peraltro equivalenti a quelli del Toro di Europa (142), sono inequivocabilmente al di là delle varianti occasionali (ad es. il Violetto al posto del Nero od il Rosso al posto dell’Oro, oppure il Violetto in luogo del Rosso)(143) i colori tipici della tradizione alchemica.  È vero che la leggenda di Io concerne un cambio di colore, piuttosto che una variegatura dei medesimi; inoltre nella prima storia è Zeus a subire la metamorfosi, mentre nella seconda è la paredra sacerdotale di costui.  Ma ciò poco importa,  dato che la sostanza della vicenda rimane fondamentalmente identica.  Se proprio vogliamo stabilire una differenza fra le due storie, dobbiamo in un caso intendere Zeus in prospettiva prevalentemente solare; e, nell’altro, Io in prospettiva eminentemente lunare.     In entrambi i racconti mitici vi è però ancora una volta un riferimento cronologico ben preciso, che ci rimanda inevitabilmente al principio della Quarta Epoca ciclica. Ulteriori Bovidi sembrano possedere, ad ogni modo, le medesime caratteristiche alchemiche di quelli considerati.  Il fatto è giustamente messo in rilievo dal Graves (144), che paragona gli episodi del Taúros di Europa e di Io quale Vacca Vagante alle storie altrettanto strabilianti della Vitella di Minosse e degli Armenti di Augia; nonché alla vicenda simbolica, per qualche aspetto analoga, dell’Unicorno.  Cercheremo pertanto di analizzare una per una tutte queste comparazioni, dimostrandone l’assoluta attendibilità; e traendone spunto d’altronde per concludere il nostro discorso sull’identità reale delle varie coppie di numi tricorni o triradaiti, et similia, della tradizione egea.  Infine rimarrà da chiarire definitivamente la delicata problematica della connessione tra codesti numi tricheromorfici ed Apollo Delfinio, vale a dire la divinità monocera da cui ha preso avvio tutta la nostra discussione sui Tricorni.
Esaminiamo adesso per sommi capi le tre narrazioni mitiche appena enumerate, le quali portano alla ribalta una simbologia tauromorfica dei 3 Colori alchemici che risulta assai affine a quella delle due storie in precedenza analizzate di Europa ed Io.  La prima di esse, relativa alla Triplice Colorazione della Vitella di Minosse, si presenta cosí (145).
Un giorno Glauco (146), figlio di Pasife e di Minosse (147), mentre è ancora fanciullo gioca a palla gioiosamente (od insegue un topo, secondo una diversa versione), ma il dastino vuole che finisca in un <Vaso di Miele> (Imum Coeli), insomma gl’Inferi (148), entro il quale il poveretto affoga miseramente (149).  Non sapendo alcuno dove sia finito i genitori lo cercano invano e decidono, pertanto, di consultatre l’oracolo di Delfi.  Il responso dichiarava che chiunque fosse in grado di stabilire una similitudine riguardo una nascita prodigiosa, avvenuta in Creta negli ultimi tempi, sarebbe stato parimenti capace di risolvere l’enigma della scomparsa del figlio del sovrano cretese.  Avendo allora Minosse svolto delle indagini attorno al quesito posto dall’oracolo, quegli viene a sapere della nascita d’un portentosa Vitella (o Vitello); la quale era dotata della facoltà di mutare colore 3 volte al giorno, passando dal Bianco al Rosso e poi al Nero (150).  Dapprima nessuno è capace di escogitare una similitudine che rispecchi lo straordinario avvenimento, ma in seguito l’argivo Poliído (‘Colui che-molto-sa’) riesce nel tentativo suggerendo l’immagine d’una mora di rovo o di gelso.  Dopodiché gli è ingiunto da parte di Minosse di andare in cerca di Glauco.  Ed ecco che Poliído  secondo l’esatta previsione dell’oracolo, essendo rimasto incuriosito da un gufo o da una civetta che inseguiva uno sciame d’api all’ingresso d’una cantina di vini, viene attratto colà e trova Glauco immerso nella giara di miele a testa in giú.  Avendo indi ricevuto l’ordine dal sovrano di resuscitare il fanciullo, ma non potendo purtroppo adempiere a tal compito, viene rinchiuso in una tomba assieme al figlio del re; quando però nel buio della tomba una Serpe s’avvicina al cadavere del fanciullo l’indovino acheo, spaventato, la uccide.  A questo punto s’appressa un secondo Serpente, il quale avvistando la carcassa immobile del compagno morto si ritira subitamente; ma torna di lí a poco con un’Erba (151), che strofina amorevolmente sul corpo dell’altra Serpe resuscitandola.  Poliído, stupefatto, decide dunque d’imitare il gesto dello strano rettile, passando quella medesima Erba sul corpo del cadavere del povero Glauco, ottenendo cosí di far ritornare in vita il fanciullo.  Avendo presto invocato aiuto, i due vengono finalmente liberati; e l’apollineo indovino, che è forse da ritenere un doppione di Asclepio, è alfine ricompensato da Minosse a causa dell’eccezionale impresa compiuta, mediante cui aveva miracolosamente resuscitato Glauco dalla morte.



r)  Una variante caprina del tema
insita nella tipologia tricolore della Chimera greca
e del corrispettivo hindu di siffatto mostro

Il personaggio di Poliído ricorre pure nella storia parallela dell’uccisione della Chimera (152) – il Mostro dalla Testa di Leone, Corpo di Capra e Coda di Serpente; ovvero dalla Testa di Capra e Corpo di Leone – da parte di Bellerofonte.  Costui (lett. ‘Uccisore di Bellero’ oppure – in diversa congettura – ‘Colui che appare nello splendore’) sembra fosse chiamato primariamente Crisàore (lett. ‘dall’Aurea Spada’), nome che evidenzia in lui assopiti caratteri apollineo-solari.  Poiché egli era figlio di Glauco il ‘Vecchio’ (ossia il Glauco corinzio-tebano) nonché nonno di Glauco il ‘Giovane’, è perfettamente comprensibile come mai in certe pitture vascolari (153) il personaggio tenesse in mano Tridente e Lancia, trattandosi insomma anche in tal caso di un’antica divinità del mare.
È  interessante notare inoltre, per lo scopo che al momento ci prefiggiamo, che cotal Bellerofóntēs – il fratello mortale di Pegaso e l’immortale cavallo alato sono entrambi figli di Poseidone e di Medusa, dal cui capo fuoriescono allorché la Gorgone è decapitata da Perseo – era stato inviato da parte di Preto (re di Tirinto, ove egli si recato dopo l’abbandono di Corinto) alla volta della Licia; colà il re Iobàte, suocero di Preto, aveva da questi ricevuto delle tavolette sigillate attraverso le quali il genero gli domandava di mandare a morte l’eroe corinzio, a motivo di un preteso tentato adescamento compiuto da costui nei confronti della sua consorte.  Le cose erano andate in realtà diversamente da quanto sosteneva purtroppo Preto, irretito dalla moglie, la quale si era in verità invaghita di Bellerofonte.  Il Re di Licia però, credendo alle parole del genero, decide di affidare all’ospite il gravoso compito di annientare la Chimera (gr. Chímaira = ‘Di un anno’ oppure ‘Capra’), la strana bestia nata nell’armento del Re di Caria (154).  Bellerofonte riesce, naturalmente, ad assolvere l’incarico affidatogli. Nel seguito del racconto c’imbattiamo in un doppione maschile della Chimera, cioè nel personaggio di Chimarro, il cui etimo ci rimanda alla voce Chímairos (‘Becco’).  L’imbarcazione di costui aveva la prora adorna delle immagini del Leone e della Serpe (155).
A nostro avviso, le interpretazioni riguardanti la natura della Chimera sono in genere inattendibili, un po’ come accade per la Sfinge.  Ad essere siceri, il Graves (156) arriva molto vicino a quella che, da parte nostra, riteniamo essere la soluzione vera del problema; allorquando ingegnosamente suppone che la misteriosa figlia di Tifone ed Echidna – coniugi parzialmente ofidiomorfici – abbia relazione nelle proprie componenti simboliche con le posizioni solstiziali ed equinoziali di determinati Segni Zodiacali di un tempo trascorso, ch’egli tuttavia non definisce chiaramente.  E neppure i confronti con le metamorfosi stagionali di Dioniso, la tetracefalia di Fanete, la quadruplice natura della Sfinge od il Tetramorfo della visione di Ezechiele appaiono completamente azzeccati.  La spiegazione piú convincente ce la offre però altrove (157) lo stesso autore irlandese, descrivendo una vetusta icona di Nereo; ossia di un nume che, come si è già rilevato, rappresenta una delle molteplici versioni del cd. ‘Vecchio del Mare’.  In tale dipinto vascolare Nereo viene ritratto con Coda di Pesce e dal corpo senile di tale figura emanano, sorprendentemente, 3 emblematici animali: un Leone, un Cervo ed una Vipera.
È nostra personale opinione quindi che, tanto nel caso della Chímaira (secondo una variante essa è reputata un ‘Mostro’ licio piuttosto che cario) quanto in quello dell’Oceanide Nēreús, si abbia a che fare con 3 momenti stagionali ben precisi; individuabili solo a patto di considerare la Capra al pari d’ogni altro antilocapride un alter-ego simbolicamente del Cervo, che è a sua volta un doppione orionico-lunare del Toro Solare (158).  Onde dedurremo in base a tale presupposto che le componenti rispettivamente serpentine, antilocaprine (oppure cervine) e leonine delle due figure  esaminate concernono esattamente i seguenti punti dell’anno ed i relativi Segni dello Zodiaco (in riferimento al principio della Quarta Epoca): 1) l’Equinozio Autunnale (Serpe > Scorpione), 2) l’Equinozio Primaverile (Capra o Cervo > Toro), 3) il Solstizio Estivo (Leone).
Ebbene, che cosa significa questo?  Significa che tutti i miti riguardanti siffatte manifestazioni teriomorfiche si rifanno alla simbologia alchemica dei 3 Colori, dato che il Nero equivale all’Autunno e allo Scorpione, il Bianco alla Primavera ed al Toro, il Rosso (o l’Oro) all’Estate ed al Leone.  Ad effettiva dimostrazione della pertinenza della nostra spiegazione, rimandiamo ad un celebre passo delle Upaniad (Śv.U.- iv. 5), la quale dichiara (159):
La Capra Bianco-rosso-nera, la quale ha generato molte altre creature (prajā) a lei simili, un Capro la monta godendo; l’altro Capro l’abbandona, poiché di lei ha già goduto.
Accortamente il prof. Filippani Ronconi (160) interpreta il Capro (Aja) che s’accoppia colla Femmina (Prakti) come il Purua (l’Essenza); e quello inagente come il Sat (l’Essere), per cui il triplice colore non può esser altro che il Trigua.  Benché codesto modo d’intendere sia assolutamente appropriato, è lecito anche valutare in maniera per cosí dire tecnica il contenuto del testo.  Infatti, se è vero che le creature sono definite prajā, il loro Creatore è chiamato per l’appunto Prajāpati.  Ma, dal momento che Prajāpati viene identificato allo Yajña (l’Anno Sacrificale), quale suo precipuo nome divino, è chiaro che un’interpretazione del passo in rapporto alchemico colle principali stazioni solari annuali non è certamente da respingere.  Tanto piú, se si tien conto che l’epiteto di Chímaira in greco – già s’è detto – significa propriamente ‘Capra (161).  Per le quadruplici manifestazioni riportate dal Graves, che abbiamo prima elencato, deve invece valere a titolo esemplificativo quel che si era asserito a proposito di Zagreo (162); giacché è ad esse inerente un riferimento al solstizio Invernale (cioè all’Aquario), a volte contrassegnato dal color Verde.  Queste ultime dunque sono da interpretare diversamente dalle altre, di tipo manifestamente alchemico.  Ossia in senso piú strettamente cosmologico, quali vaghi emblemi delle permutazioni della Ruota Celeste; sempre in relazione tuttavia, palese od occulta non importa, ad un ‘Quinto Fattore’ che invero le determina.



s)  I ‘Tre Colori’ dell’Unicorno indiano, menzionati da Ctesia, in corrispondenza alle ‘Tre Porzioni’
dell’Aureo Corno di uno Mga Ekaśṛṅga puranico

Circa le mitiche <Mandrie> del Re dell’Elide, di cui Eracle è costretto a pulire le ‘Stalle’ è presto detto; dato che Augeías, il figlio di Elio, disponeva di 300 Tori Neri, 200 Stalloni Fulvi e 12 Tori Bianco-argentei (163).  Siccome il Fulvo corrisponde all’Oro, od al Rosso, ecco che pure in tale aneddoto ci troviamo di fronte alla solita problematica di carattere alchemico.  Piú difficile da comprendere è invece il significato recondito della cifra misterica 512, determinata dalla somma del numero degli animali (164).
Pure l’Unicorno indiano, secondo le Indiká dello storiografo Ctesia (di Cnido), era caratterizzato da una Triplice Colorazione; come in tutti gli altri esempi ivi riportati ricorrevano presso tale figurazione il Nero, il Bianco e il Rosso.  Non è necessario tuttavia fare affidamento sui postulati dello scrittore ionico, biograficamente e metodologicamente successore di Erodoto (V sec. a.C.) nonché immediato predecessore di Tucidide (V-IV sec.), per ottenere il dato; dal momento che esso è piú chiaramente e comodamente ricavabile consultando il Varāha Purāṇa.  Nel testo puranico ci troviamo di fronte in ogni caso ad un ‘Corno Tripartito’ vero e proprio, le ‘Tre Porzioni’ dell’Aureo Corno coincidendo con i ‘Tre Colori’ (165).  Sarà d’uopo perciò tenere a mente quel che avevamo sostenuto piú addietro (166) nei confronti della Tricornía, intendendola quale espressione iconografica d’una Bicornía avente un’Asse Centrale di vario tipo.  Il concetto, ovviamente, è da estendere a tutte le suddivisioni ternarie analoghe che fanno da copricapi alle figure numinose.  Abbiamo anche visto che, talora, la Tripodia di Apollo si confonde con siffatta complessa simbologia delle Corna.  La cosa ci porta esplicitamente a ritenere che, si tratti di Piedi o di corna o di Protuberanze similari di molteplice natura, l’applicazione del simbolismo rimane assolutamente invariata, associando i tre supposti elementi cosí differenziati alla serie di colori piú volte presi in considerazione.  Questo schema ternario di colorazione ricorre talmente di frequente in tutta l’area indomediterranea, da esser costretti a ritenere che – fatte salve le debite specificità locali, le quali non vanno mai trascurate – ogniqualvolta ci s’imbatta in esso, sia sottintesa una tematica affine a quella dei Tricorni.  Non è difficile allora sospettare che persino nelle storie convergenti di Europa e di Io, nonché nelle altre menzionate, si avessero una volta a disposizione i medesimi tratti simbolici permeanti la vicenda mitica dell’Unicorno indiano (167).



t)  I personaggi di Asterio, Minosse e il Minotauro
vicendevoli doppioni di Zeus, Poseidone e Dioniso

In conclusione, è lecito credere che ciascuna delle manifestazioni zoomorfiche inserite nelle storie cretesi di Asterio (168), di Minosse e del Minotauro – ovvero le forme taurine di Zeus, Poseidone e Dioniso – sia assimilabile all’immagine unicorne del Minotauro, da noi commentata analizzando le varianti taurine  (169) dell’Unicorno pescino.  In altre parole siamo del parere che il discorso in precedenza affrontato sulla Tricornía vada esteso dagli aspetti antropomorfici della doppia serie divina esaminata (170), incluse le relative paredre ed i loro doppioni funzionali, agli aspetti teriomorfici assunti dagli stessi numi.  Poiché lo ribadiamo, a titolo definitivo, Unicornía e Tricornía vanno sempre di pari passo (171), a meno che non si contrappongano; cosa che succede solo nel caso l’una sia funzionalmente comparabile al ruolo giocato dal ‘Grande Pesce’, e l’altra a quello sostenuto dal Tridente.  In ultimo, è necessario ancora rilevare che Teseo (da noi ritenuto senza mezzi termini un’ipostasi solare del dio Febo, visto che egli assolve un compito chiaramente demiurgico nel racconto del Minotauro) allorquando sopprime il demonico toro cretese (condotto ad Argo da Eracle durante il proprio Septimus Labor e di poi liberato nella pianura di Maratona) decide significativamente di sacrificarlo ad Apollo Delfinio (172).  Rammentiamo oltretutto che il Toro in questione costituisce un allotipo interamente animalesco del fratellastro semiteriomorfico di Arianna (173) oppure di Taúros, il capo in forma umana delle truppe di Minosse.  Tauro si configura altrimenti quale bianco toro inviato dal dio del mare e padre – od alter-ego  – di Asterio, qualora s’identichi per un verso l’animale suddetto al binomio divino-umano Poseidone-Minosse e per un altro al Minotauro.  Comprendiamo dunque il senso segreto del mistero avvolgente la “scandalosa” progenie taurocefala di Pasife; unicorne, bicorne o tricorne che fosse.



u)  Il posto del Toro all’interno della mitologia egea conforme a quello del Pesce
nell’indicare emblematicamente la rinascita spirituale  od, alternativamente, l’unione suprema colla Divinità

È quindi assolutamente palese ormai come il Toro (o Tauro) nella sua triplice manifestazione all’interno della tradizione egeo-cretese (174), ed in perfetta conformità al ruolo assegnato a cotesto animale nell’ambito della tradizione induista, rivesta un compito interamente subordinato all’idea della trasmissione della Rivelazione Primordiale; Rivelazione che è contrassegnata però, in riferimento alla sua piú alta antichità, dall’emblema ittiomorfico del Delfino, qualsivoglia sia la forma divina assunta – monocera o meno, oppure di eccedenti, minuscole o naturali proporzioni – dal cetaceo uranico-solare.
Di nuovo bisogna rammentare che siffatte equivalenze non sono concepibili se non alla luce di segreti insegnamenti cosmogonici.  Tali insegnamenti testimoniano del passaggio della costellazione del Toro al P.V., all’epoca cui fanno capo le figure taurine delle varie narrazioni consimili delle quali si è fatta menzione; vale a dire l’inizio dell’Età del Ferro (175), ossia del Kaliyuga in termini indiani.  Il concetto latino di Ver Sacrum, con un similare culto del Toro rispetto a quanto è accaduto in altre parti del Mediterraneo, è da addebitare immancabilmente alla medesima dottrina cosmologica, diffusa embrionalmente anche in ambiente italico.
Tuttavia, ciò premesso, siamo convinti che le 3 figure regali cretesi (Asterio, Minosse, Dioniso) e le loro raffigurazioni taurine non meno degli dèi del Triregnum ellenico (Zeus, Ade, Poseidone) debbano essere intese non solo in senso castale; ma altresí quali simultanei rimandi a 3 distinte generazioni divine, quelle facenti capo nell’Ellade classica a Crono, Zeus ed Apollo.   Però ci sono delle differenze fra le prime due terne raffrontate.  Lo dimostra il diverso ruolo assunto nella seconda di esse da parte di Ade, parificato a Dioniso (il che è come dire all’El.Terra)(176) nella serie regale cretese rispetto a quella ellenica (di per sé maggiormente arcaica, sebbene piú recente in Grecia cronologicamente); in cui il dio infero assume un ruolo intermedio (cioè proprio del Mondo Intermedio anziché di quello Subterreno), attinente all’El.Fuoco.  In altre parole, la terna Crono-Zeus-Apollo cosiccome la terna Asterio-Minosse-Dioniso individua la ‘Triplice Via’, nella quale si suddivide la Rivelazione una volta trasformatasi in Tradizione (177).  Quella, insomma, che l’induismo definisce nei testi sacri ‘Triplice Via del Sacrificio’.



v)  Gli studi riduzionistici del Restelli sull’Unicorno
hanno stabilito immotivate distinzioni
fra il Matsya ed il Mga Ekaśṛṅga,
negando un valore astrale ed ontologico ai medesimi:
nostre obiezioni al riguardo

Circa il motivo dell’Unicorno piú in generale dobbiamo tuttavia annotare che un nostro collega di studi, in un suo pur ottimo saggio sull’argomento (stando almeno all’accurata documentazione reperita sul soggetto ed alla capacità di analisi ivi dimostrata, ancorché il testo da lui compilato risulti di stampo accademico ed assolutamente antitradizionale, per il fine ch’egli si è proposto dichiaratamente di deastralizzare e ridurre a pura allegoria etica l’intera vicenda del mitico animale), ha posto una distinzione – a nostro avviso piuttosto fittizia – fra il motivo dei “falsi unicorni” e quello a proprio giudizio effettivo del “vero Unicorno”, accreditando solo a quest’ultimo una tematica complessa e ben definita.  Nella prima categoria egli ha relegato invece il Matsya Ekaśṛṅga, attribuendo per giunta alla Zanna del Narvalo – che ha di sicuro fatto da modello biologico in principio al simbolo – un semplice valore folclorico (in senso apotropaico) e commerciale (178).  Certamente, è doveroso riconoscerlo, il Restelli ha ciononostante una buona parte di ragione; soprattutto laddove offre testimonianza iconografica  (179) della deleteria confusione insita nella mente dei naturalisti moderni, sospesi com’erano fra l’acquisizione pioneristica di un nuovo apparato di conoscenze e la conservazione ereditaria  della cultura classica e medievale.  A tal punto che essi mettevano lo zoomorfismo mitico quasi alla stregua delle forme biologiche, mostrando indubitabili lacune rispetto alla propria consapevolezza della reale natura degli esseri da loro descritti e raffigurati.  Cosí da finire per appaiare, ad es., il Narvalo in carne ed ossa ad un fantastico “Unicorno del Mare” con ampio Corno Spiralico e Testa Equina.  Ciò tanto piú che, un effettivo culto polare del Narvalo non è mai stato sino a tutt’oggi bene documentato e commentato in tutte le sue possibili valenze simboliche, a parte un nostro articolo di oltre un decennio fa (180); onde ci proponiamo, se ci sarà concessa di seguito a questa opportunità una nuova possibilità editoriale, di farlo colla stessa casa editrice in un secondo saggio di stampo viceversa cosmologico ed iconologico (181), a completamento del presente.
Ma prima vorremmo aggiungere una premessa metodologica di carattere generale, in funzione di commento critico alla tesi del Restelli; che siamo costretti a respingere nettamente nel contenuto, se ci poniamo da un punto di vista non accademico, malgrado la bontà innegabile dello stile adottato dal nostro collega di studi e la ricchezza lodevole delle sue citazioni.  Avendo intenzione da parte nostra di trattare in dettaglio la mitografia del Cervide Unicorne in un altro saggio futuro (182), avvertiamo il lettore che vorremmo riprendere in breve lo stesso soggetto ivi affrontato del Pesce Unicorne per ribadire – al contrario di ciò che è stato sostenuto dal nostro collega di studi – il parallelismo indubbio tra le due tematiche considerate; parallelismo ch’è determinato non solo dalla questione del Corno in sé (183), ma pure dalla comune connessione delle due tematiche menzionate col motivo dell’Arca Celeste, a propria volta correlato al costante intervento sulla scena del mito d’una sorta di Dāśarāja.  Circa la supposta astralizzazione del mito dell’Unicorno immaginata dal N. (184), va chiarito innanzitutto che ogni mitologhema si fonda immancabilmente su una base astrale, che gli fa da supporto naturale in funzione ontologica, ovvero per richiamare una verità su un piano maggiormente elevato.


La simbologia comprende infatti di per sé piú piani interpretativi, che vanno di pari passo colle suddivisioni molteplici del Verbo.  Non si tratta perciò di una semplice e generica polivalenza del simbolo, ma di livelli esegetici del tutto definiti.  Come abbiamo già avuto modo di accennare piú addietro parlando  dei ‘Quattro Passi’ di Trivikrama, il gveda c’insegna – per esser maggiormente precisi – che la Parola Divina è quadruplice nella sua natura (185), sfumature di significato a parte; e ciò si spiega col fatto che quattro sono i Mondi, quantunque si possano tratteggiare ulteriori ripartizioni interne per ciascuno di essi.  Quattro sono d’altra parte anche i Grandi Elementi (scr. Mahābhūta), se si esclude la Quintessenza, che è il loro comune Principio donde essi provengono e dipendono;  quattro sono, di conseguenza, anche le ‘Stirpi’ umane e le ‘Generazioni divine’.  Di nuovo, quattro risultano essere le ‘Caste’ e non solo in ambito iaphetico, od indoeuropeo che dir si voglia (186).  È a queste categorie, difatti, che sono indirizzati i ‘Quattro Quarti’ della Parola; codesti ‘Quarti, concepiti iconologicamente a volte come ‘Corna’ o ‘Gambe’ (187), hanno peraltro un aspetto contemporaneamente epocale, annuale, mensile e giornaliero. Ciò spiega l’uso di determinate formule rituali appropriate, in rapporto all’epoca, al momento stagionale, alla fase lunare ed all’ora del giorno.  In definitiva bisogna pensare ai simboli, le pietre miliari dei miti, come a segni i quali si dimostrano intrinsecamente in grado di rivelare al nostro intelletto i vari gradi di estensione della Manifestazione.  Quindi, si debbono intendere in ogni mitema 4 principali e diversificate linee interpretative: 1) una prima strettamente letterale ovvero poetica e letteraria, capace di descrivere storicamente e culturalmente gli eventi narrati; una seconda etico-allegorica, tesa a coglierne i lati morali e religiosi, o teologici se preferiamo; 3) una terza, specificatamente cosmologica, applicantesi appunto – come suggerivasi sopra – in ambito astrale o cosmografico; 4) una quarta alfine prettamente metafisica, vale a dire direttamente tesa verso una prospettiva oltremondana.



z)  Distinzione effettiva fra il Matsya ef il Mga Ekaśṛṅga

Quel che fondamentalmente distingue le due vicende, del Matsyāvatāra e del yaśṛṅga, è il carattere acqueo-oceanico del Pesce Avatarico brahmano-vishnuita di contro a quello acqueo-pluviale del i shivaita (188).  yaśṛṅga dovrebbe avere letteralmente un corno di cervo, o di daino, essendo figlio d’una cerva o d’una daina (189): in questa maniera era rappresentato effettivamente nell’iconografia antica, ma quella posteriore gli ha attribuito un’escrescenza che assomiglia alle protuberanze cornee dell’antilope o della gazzella (190).  La sua paredra è Śāntā, con cui è talora raffigurato in amplesso (mithuna)(191).  Al Matsya e al Mga Ekaśṛṅga fanno pendant in area egeo-cretese il Delfino Monocero, presumibilmente apollineo,  del sigillo di Cnosso ed Illo, il figlio unicorne di Eracle, caratterizzato da un semizoomorfismo di tipo cervino alla maniera del giovane i hindu.
Vi sono però nella tradizione ellenica altre forme monocere, come abbiamo visto in precedenza: Amaltea, il Minotauro ed il Cervo dal nome ignoto il cui corno viene impugnato da Artemide (divenuta la ‘Donna Selvaggia’ del Tardo Medioevo)(192) ecc.  Una di queste, dai tratti decisamente piú ambigui è Acheloo; il quale appare per certi tratti un nume oceanico-fluviale, legato alle acque correnti o perenni.  Seppure certi altri tratti – si analizzi la sua duplice fisionomia tauro-ofidica – lo denotino quale deità atmosferico-pluviale, associabile ai Segni zodiacali del Toro e dello Scorpione, fungenti a vicenda da contrassegni degli equinozi attorno alla seconda metà del V mill. a.C.  Se il Cervo Unicorne di Artemide e le sue controparti in forma di  gazzella od antilope, nonché Illo,  vanno paragonati nel loro insieme alle varie forme iconologiche di Ryaśṛṅga, volendo invece allineare il suddetto Acheloo ad un corrispettivo indiano non ci rimarrebbe che rivolgerci al Makara.  Questo terribile Mostro, incarnazione secondo Coomaraswamy dell’Essenza delle Acque, è ritratto spesso bicorne (193); o forse con 2 Zanne rivolte verso l’alto contrastanti in maniera innaturale con il Corpo di Coccodrillo e la Coda Pescina, oltreché in possesso d’una Proboscide Elefantina.  Abbiamo già spiegato, piú addietro, la correlazione esistente tra siffatta proboscide e il corno aureo del Pesce Avatarico; tanto piú che, come s’è visto in altra occasione, un demone cosí effigiato in un testo puranico adempie da controparte asurica del Matsya.  In effetti, sono ben evidenti gli elementi comuni all’Achelôos greco e al Makara indiano, specie rammentandoci di quel che abbiamo già stabilito riguardo i tratti del dio fluviale (194).  Ossia, le Corna taurine dell’uno fanno il paio colle Zanne Elefantine dell’altro; proprio come il ‘Corno Divelto’ del primo, investito del ruolo specifico di Conucopia, equivale senza dubbio alla Proboscite del secondo – qualora s’intenda assumere il suddetto corno in funzione assiale.  Osserviamo inoltre che il Soma Ofidico di Acheloo non è troppo diversificato da un punto di vista comparativo rispetto al corpo, altrettanto di rettile, dell’analogo mostro hindu; la Coda Pescina costituisce inoltre un particolare comune ad entrambi, assolutamente da non sottovalutare.  Del resto  la Coda Ittiomorfica del Makara ricopre in India, per via della sua unicità, la medesima parte simbolica dell’Unico Piede Caprino dell’Ajaikapāda. Benché, invero, c’imbattiamo in una Zampa di Elefante nella maggiore rappresentazione figurativa a nostra disposizione (195).  Ecco allora che il Pūrakumbha di costui (Nidhiśṛṅga) si può facilmente ricondurre alla Proboscide del cd. ’Mostro delle Acque’.  Il Makara, ovviamente.  Cfr. in Grecia sia la stretta affinità fra la Cauda Piscis di Acheloo e l’Aigípous (196) di Egipan, sia l’associazione delle due divinità ricordate colla Cornucopia.  E come Ajaikapāda ovvero il Makara è una variante morfologica – se preferiamo, una manifestazione – di Ahir Budhnya, del pari Egipan (var. Aíx, in forma titanica) ossia Acheloo lo è di Pitone.  Dunque, tenendo conto che il Makara-rāśi corrisponde zodiacalmente all’Aigókeros dell’astrologia ellenica, dominato da Crono, sarà possibile a questo punto scovare una parentela filologica fra il gr. A-chel-ó-os ed il scr. A-kāl-a; la quale è dovuta al fatto che il pref. a- possiede nelle due voci riportate un esclusivo valore privativo, la base *kāl/kel- essendo il vero tema radicale di entrambe.  In sanscrito, precisamente nella letteratura upanishadica (Mai.U.- vi. 15), scorgiamo che il concetto di Akāla (il ‘Non-tempo’) si fonda sull’idea rigorosamente affine di Avyakta (il ‘Non Manifestato’).  Ma relativamente ad esso non si’incontra alcunché a semplice livello figurativo, anche se è del tutto ragionevole ritenere che pure il ‘Corno Unico’ di Acheloo possa riferirsi all’Axis Mundi, su cui s’impernia il movimento della Ruota Celeste, che gl’Indiani chiamano Kāla-cakra.  Se il nostro ragionamento risulta corretto allora è chiaro che Eracle, l’inesorabile avversario dell’Oceanide, svolge il compito di Eroe solare che sprona il Cielo sotto forma di Serpente Unicorne (in altre parole nella veste tanto temporale quanto atemporale) a creare.  Si esamini in parallelo l’iranico Zurvān, pure lui ritratto unicorne in una celebre effigie (197); questi, mediante l’appellativo Akarana (‘Infinito’), potrebbe rientrare a pieno titolo nel quadro delle celesti deità monocere dal profilo saturnino poc’anzi delineate.


Il Corno Singolo od Intermedio che sia, si è sottolineato in precedenza, è simbolicamente correlato al Fallo oltreché alla Gamba Unica.  Una volta di piú il rapporto di reciprocità è dimostrato dal fatto che Rsyaśṛṅga, il celebre asceta unicorne del Rāmāyana, secondo una tradizione diffusa presso la località indiana di Śṛṅgeri (198) sarebbe stato alfine riassorbito dal linga del tempio di Śṛṅgeśvara; ove, secondo un’informazione del Vr.P.- ccxvi. 5 (ma il dato parrebbe non sia venuto a conoscenza del Restelli in occasione della stesura della sua tesi e del suo libro, né di altri studiosi dopo di lui)(199) sarebbe stata installata la base del Corno Tripartito di Śiva apparso a Gokara sotto aspetto di Aureo Mga e per l’appunto denominato Gokareśvara.  Codesto corno, cui abbiamo fatto cenno piú addietro (200), era di per sé assimilato al liga chiamato Kirāteśvara, dedicato al signore della caccia himalayano.  Donde si comprende come mai nella raffigurazione pentacefala della divinità suprema dell’induismo (in origine Brahmā ed in seguito, per riemersione della precedente influenza dravidica, Śiva), qualora s’intenda rappresentare non già l’Anno Sacrificale bensí i 5 Elementi, compaiano specialmente dall’Epoca Gupta in poi i cd. Caturmukhaliga; cioè delle icone falliche di carattere śaiva che secondo la dottrina pāśupata (201) erano consacrate a Mahādeva in funzione di Bhūtāpati (lett. ‘Signore degli Elementi’), vale a dire di signore dell’intero universo.  I ‘Quattro Volti’ (Caturmukha) frontali, equivalenti alle ‘Quattro Corna’ dello Yajña, individuerebbero degli altrettanto fondamentali aspetti del nume; noti coi nomi di Aghora, Tatpurua, Sadyojāta e Vāmadeva.  Invece la struttura centrale del fallo vero e proprio alluderebbe alla natura quintessenziale ed eterica della mūrti definita Īśāna.  L’aspetto totalmente trascendente e sempiterno del dio è colto altrimenti nell’arte hindu mediante la realizzazione iconografica d’una figura divina con una testa rivolta all’insú, sormontante verticalmente le altre 4 situate frontalmente; o comunque disposta centralmente rispetto a queste (Sadāśivamūrti o Pañcanana), che viceversa sono rivolte in direzione dei Punti Cardinali oppure sono poste di fianco alla quinta, collocata in posizione intermedia ed a volte anche sovrastante le medesime.

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