Cap.
VII
Il Pesce Cornuto, il Granchio
ed il Tridente – emblemi euroasiatici della Profezia, del Sacerdozio
e della Regalità
a) Riflessioni sulla simbologia della Folgore di
Zeus, dello Scettro di Ade e del Tridente di Poseidone
Ponendo quindi a confronto la
Folgore di Zeus, lo Scettro di Ade e il Tridente di Poseidone, cercheremo di
mettere in luce le differenze sostanziali fra gli strumenti sacri tenuti in
pugno dai 3 sommi dèi del Triregnum
ellenico; proprio ciò equivarrà indirettamente ad evidenziare la reale natura
dei medesimi, le paredre dei quali (Era, Persefone ed Anfitrite)(1) debbono esser valutate – secondo
quanto abbiamo prima asserito – alla stregua di personificazioni della loro divina
‘Potenza’; la Dýnamis, per rifarci ad
un concetto gnostico, ma comunque di derivazione greca.
Il Keraunós di Zeus, comparabile al Vajra del vedico Indra,
va in tal modo concepito nei termini di una saetta trifida (a volte raddoppiata
od anche ridotta ad un semplice dardo); con raggi piú o meno ondulati e pregna di significati gnoseologici e
sacerdotali, emblematicamente diremmo ‘aerei’.
Viceversa lo Skêptron regale di Ade, di cui abbiamo un
parallelo cretese nello Scettro di Minosse, è inequivocabilmente da intendersi
come un contrassegno nel contempo di prestigio e di dominio, in una parola
‘igneo’. Mentre il Triódous di Poseidone, una fiocina tridentata al dire di Eschilo
scagliata dal dio del mare onde colpire gli animali marini, possiede rebbi quasi
sempre diritti (benché leggermente divaricati verso l’esterno, diversamente
dalle punte della Folgore); a parte qualche eccezione, avendo cosí una
connotazione dal punto di vista elementale tipicamente ‘acquatica’, ciò che
sottintende sul piano delle corrispondenze simboliche un’influenza sottile sul
mondo commerciale e produttivo. La qual
cosa giustifica pienamente la spiegazione di Plutarco (2) riguardo il carattere ternario di cotesto strumento, il quale
sta in stretto rapporto col Mondo Terreno nello schema tripartito del
Trimundio, sopra di esso essendo collocati sia il Mondo Celeste che quello
Atmosferico. Il Mondo Marino, in
effetti, giace allo stesso livello di quello Terreno e quindi ne fa parte
inevitabilmente; oltretutto, esprime concettualmente meglio di quest’ultimo la fluidità mentale
ch’è propria della ‘Terza Casta’ ossia la classe sociale dedita ai commerci e
alla produzione. Esattamente come le
altre due armi, impugnate da Ade e da Zeus, ci rimandano vicendevolmente al
Mondo Intermedio (Atmosferico) ed a quello Celeste (Solare); l’uno e l’altro
sono corrispondenti difatti, nell’ambito della serie quaternaria degli
Elementi, al Fuoco e all’Aria. Ora,
viene da chiedersi, quali erano veramente le valenze originarie degli emblemi
descritti? Al di là della loro
caratterizzazione elementale, la quale deve esser ritenuta pur sempre
un’applicazione posteriore alla loro primigenia ideazione. Perché, inoltre, tutte e tre le armi
posseggono in certo senso una comune struttura tripartita? Anche se – è ovvio – vi sono notevoli eccezioni in questo, soprattutto in
relazione alla Folgore di Zeus; che appare a volte bifida, al pari delle saette
racchiuse nelle mani di alcune deità vicino orientali (3).
Potremmo rispondere alla
precedente domanda adducendo la ragione, ad imitazione di Plutarco, che tutte e
tre le divinità del Triregnum
appartengono nonostante la distinzione specifica di ruoli ad un’unica sfera
divina (4); legata a ciò che
l’autore definisce Trítē Chṓra e che il
Dumézil chiama, dal punto di vista giuridico corrispondente, ‘Terza
Funzione’. Ma il Dumézil per le sue
teorie trifunzionaliste ha preso spunto, anziché dalla tradizione greca, dalla
tradizione romana; che purtoppo distorceva a suo comodo, negando la
primazialità di Giano ed accusando di “primitivismo” coloro che la sostenevano
quale fondamento ideale della romanità medesima. Di qui ha esteso il concetto, con coerenza
sebbene col vizio di fondo che abbiamo segnalato, all’intero panorama delle
genti indoeuropee. È comunque scontato
che gli Dei del Triregno ellenico svolgessero funzioni analoghe, secondo una
prospettiva per cosí dire castale (5),
a quelle svolte dai corrispettivi numi latini.
Infatti è facile osservare come il ruolo eminentemente sacerdotale
tenuto presso i Greci da Zeús Patḗr sia espletato in parallelo da Iuppiter; mentre Háidēs
(6) equivale perfettamente a Mārs ed, altrettanto, può esser dichiarato a proposito di Poseídōn nei confronti di Quirīnus
(7).
Il Dumézil commette una grave negligenza assegnando tout court al primo componente di questa terna la funzione
sacerdotale ed al secondo quella regale, relegando soltanto al terzo il ruolo
produttivo (8). Ciò che gli contestiamo è precisamente il
fatto che la genesi di codeste trimorfie divine (9), le quali sarebbe scorretto denominare “triadi” (in base ad una
consueta e purtroppo abusata definizione), viene riportata dal mito ad un’epoca
ciclica, la terza, in cui predominava un’umanità caratterizzata a grandi linee
da tendenze psichiche affini a quelle della classe dei produttori (la Terza
Classe secondo Platone)(10). Onde siffatte trimorfie debbono esser
raffrontate, sul piano delle ‘Generazioni umane’ (11), a quella degli Eroi o Semidei; per i quali esse, secondo
l’insegnamento degli antichi, erano oggetto di venerazione in un lontano
passato. Insomma Zeus, Ade e Poseidone
sarebbero in tal prospettiva da reputare le principali divinità della fecondità
e della fertilità rivelatesi a quel genere d’umanità di cui la classe dei
produttori costituisce una proiezione sul piano sociale e gli Eroi (posti dallo stesso Platone in rapporto
all’Eros, da lui inteso in questo caso elementarmente come principio seminale
generatore d’abbondanza) sul piano ciclico.
Ecco allora che ci troviamo di fronte, volenti o nolenti, ad un fattore
importante e sicuramente decisivo per la risoluzione del nostro quesito. Se cotali ripartizioni delle armi simboliche
ci rimandano per un verso alle triplicità varie di carattere titanico-solare
già esaminate al Cap.II, delle quali sembrano risultare un parziale adattamento
posteriore (12), non è affattto
azzardato ipotizzare che pure a livello figurativo sia avvenuto un
trasferimento di tale simbolica primeva dagli uni agli altri numi.
b) Le tre armi suddette
cedute dai Ciclopi nella Titanomachia
L’affermazione che compare nel
titolo del paragrafio non è meramente congetturale, ma è basata anzi su un dato
reale; poiché si tramanda (13) siano
stati i Ciclopi a donare agli Dei in questione le loro rispettive armi (14), al fine di proteggerli dai Titani
nella lotta (Titanomachia) che li avrebbe condotti alla detronizzazione del
capo di costoro, cioè di Crono. Il
problema è che il gr. Krónos significa
letteralmente il ‘Cornuto’ ed i Ciclopi d’altro canto appaiono mitologicamente,
per nascita e natura, strettamente affini loro medesimi ai titani. Quindi il loro “dono” va preso cum grano salis, tanto piú che – come
vedremo tra poco – anch’essi debbono aver disposto in passato in qualche modo
di …corna. Ma procediamo con ordine.
Onde risolvere l’enigma è
necessario domandarsi da dove i Ciclopi abbiano preso quelle armi, se non dal
novero delle proprie tradizionali prerogative numinose. Supponiamo insomma, per dirla in breve, che
tali esseri – caratterizzati secondo Servio (15) da un aspetto ora monoculare ora bioculare o trioculare –
abbiano trasmesso ai piú recenti numi il loro equipaggiamento simbolico. Tuttavia, se fosse avvenuto in questa
semplice maniera dovremmo assistere secondo logica a delle raffigurazioni
anteriori, e qualchedun’altra persino coeva o posteriore, degli stessi
strumenti emblematici che appaiono nelle mani degli Dei del Triregnum; non solo quindi in mano ai
Ciclopi, ma anche addirittura ad altre divinità affini nella cerchia della loro
famiglia divina. Come difatti è avvenuto
col Triśūla indiano durante
il Medioevo, passato dalle mani di Śiva
a quelle dei figli di questi (Kumāra, Gaṇeśa),
nonché in dotazione ad altre deità femminili (Gaṅgā, Durgā) o maschili (Nandīśa,
varr. Nandīśvara
o Nandikeśvara)(16) della
famiglia shivaita. In effetti qualcosa
del genere è avvenuto in Grecia con Tritone, ma è troppo poco onde tenere per
buona quest’ipotesi.
Qualora invece sospettassimo che
la trioftalmia ciclopica faccia il paio con la triocularità di Apollo-Crono (17), visto che i Ciclopi appartengono
in fondo alla medesima categoria numinosa dei Titânes, allora si potrebbe ipotizzare che le armi cedute da tre
vetuste figure titanico-solari (o ciclopico-solari) a tre piú recenti e
secondarie figure eroico-solari, le quali vanno sotto il nome degli dèi del
sacro triregnum, siano appunto le
loro ‘Corone Triradiate’; o piú semplicemente le loro …’Corna’, aventi
ovviamente il medesimo valore. Tradotto
in immagini maggiormente confacenti alla nostra moderna sensibilità, vale a
dire in termini calendariali, l’eccezionale passaggio di consegne ora supposto
risulterebbe esser nient’altro che il solito avvicendamento ciclico, piú
addietro analizzato, tra i numi bimestrali (= stagionali) o planetari dell’Età
dell’Argento e le divinità mensili o zodiacali dell’Età del Bronzo. Giacché tradizionalmente parlando si deve
comprendere che allorquando vengono
tirati in ballo gli Dei, trattasi di guerre o di pacificazioni, sono sempre
immancabilmente dei mutamenti da parte degli uomini nei loro confronti durante
l’epoca mitica presa in considerazione che vengono adombrati metaforicamente.
c) La Corona Tripuntata di Ade, iconologicamente
connessa allo Scettro Tripartito di costui, svela l’enigma
della
primaria natura cheratomorfica di codeste armi
A riprova di ciò che abbiamo sin
qua sostenuto, sono rintracciabili delle immagini di Ade (o meglio di Plutone,
il doppione latino dello stesso), le quali mostrano codesto dio con in capo una
Corona a 3 Punte (18). Si consideri ad es. il ms.fr. 143 della
Bibl.Naz. di Parigi, intitolato Le livre
des échechs amoreux, ove troviamo il dio della morte troneggiante accanto a
Proserpina entro la Bocca spalancata di una mostruosa Civetta; con ai piedi
Cerbero Tricefalo, dunque alter-ego zoomorfico del nume, in una lugubre scena
di desolazione infernale (19). Anche Dante (20) per la verità descrive Lucifero, identificato dal Sommo Poeta
a Dite (epiteto dell’equivalente romano di Ade, giunto a Roma dalla Grecia per
via etrusca secondo il Morelli)(21),
con ben 3 Volti; i colori dei quali sono il Nero, il Bianco ed il Rosso. Cioè i tipici 3 colori che s’incontrano sia
in certi tripodi <apollinei> (22)
cretesi e micenei (vide supra), sia
nella tripartizione del corno dell’unicorno indiano (23). Sottolineiamo questo
particolare, di sapore alchemico, dal momento che avremo modo piú innanzi di tornarvi sopra. In un ms. veneziano del XVI sec. (24) troviamo un’illustrazione della
visione dantesca con un Lucifero visto trifrontalmente, ossia ritratto con 3
Volti. Ciò che è valido per Ade deve
necessariamente esser valido pure per Dioniso, se si tiene per vera la nozione
classica che i due fossero la stessa persona divina. Infatti Dioniso appare talvolta munito di
Cornucopia (25), segno evidente –
quantunque ormai disperso, o per lo meno velato, come si è osservato per altri
numi – della primaria natura tricheromorfica di codesta divinità. Anziché di dispersione d’un simbolo
occorrerebbe parlare piú correttamente, nel caso della Cornucopia, d’un
parziale occultamento di esso; siccome il Corno dell’Abbondanza costituisce di
per sé la traccia ineludibile del possesso segreto da parte d’una determinata
deità d’un corno del tutto speciale, di natura assiale anziché curvilinea. E non a caso certe volte – anche se non
sempre – viene raffigurato proprio cosí, centralmente; quasi fosse una presenza
astratta, quindi assolutamente distinto rispetto le altre 2 corna
laterali. Nel caso di Dioniso, si
confronti la suddetta Cornucopia col paio di Corna che di solito gli vengono
attribuite quando viene definito Βουγενές (‘Figlio di Bue’)(26).
d)
Supposizione d’uno sviluppo culturale parallelo, o quasi,
nell’eleborazione
culturale del Tridente
Sulla figura di Poseidone non
abbiamo dati a sufficienza onde dimostrare l’esistenza a livello iconologico
d’un parallelo processo culturale nella formazione del Tridente, ma
personalmente siamo portati a pensare che pure per tale divino attributo sia maturato
un analogo sviluppo a partire dalla forma animalesca o semianimalesca del dio,
benché siffatte forme non ci siano giunte storicamente attraverso le
raffigurazioni artistiche. Solamente sul
piano letterario si sa dell’aspetto ittiomorfico del dio (27), ma è chiaro che al modo del figlio Tritone, deve
necessariamente essere esistito un tempo (il dio è d’origine atlantidea secondo
Platone)(28), anche il sembiante
semi-ittiomorfico (29).
In India del resto vi sono state
in passato tribú come i Velāla della Valle
dell’Indo che ossequiavano il Triśūla
quale oggetto cerimoniale, retto con una mano (30). Risulta possibile,
insomma, che in principio esso fosse una mera trasposizione strumentale della
sacra corona d’un nume solare; costituita da 3 raggi o da altrettante corna di
egual valore simbolico, in base ai principali movimenti giornalieri ed annuali
del luminare diurno. Infatti ancor oggi
in India, è arcinoto, il Triśūla
funge da emblema del Trikāla (31).
Circa la provenienza storica effettiva del simbolo del Tridente siamo
perciò convinti che questo sia derivato piú in generale, come s’intravede a
sufficienza dai reperti archeologici di tutta l’area indomediterranea (32), da un’assunzione a scopo rituale
della Corona Tricorne (o Triradiata) collocata nelle icone preistoriche o
protostoriche sul capo di alcune figure divine; che poi corrispondentemente
hanno ereditato quell’emblema nel nuovo ambiente culturale venutosi a creare
durante i tempi storici, modificandolo in misura tale da doverlo tenere fra le
mani come arma propria ed insieme come contrassegno d’una simbologia solare
ormai inveterata, il cui rapporto col mondo animale (in senso agrario o
venatorio che fosse, non importa) era alfine caduto nell’oblio. Ciò spiegherebbe perché mai non esistano prototipi
preistorici in sé e per sé, rispettivamente del Tridente greco-romano (gr.Triódus, lat.Tridens)(33) né in
Europa né in Asia. Il Furlani (34), che al contrario del sottoscritto
parla invece di una “preistoria del Tridente”, si limita ahinoi ad esaminare la
protostoria del Vicino Oriente, vale a dire il mondo degli Ittiti e degli
Assiri. Benché in codesta area,
diversamente che nell’area dell’Indo, si rilevi in effetti l’impiego – seppur
assai modesto – di divinità equipaggiate di tridente impugnato verticalmente
già in epoca protostorica; per quanto si riferisce a tempi meno prossimi non
abbiamo a disposizione invece alcun caso, neppure singolo (cosí almeno ci
risulta), di rappresentazione figurativa del medesimo oggetto sacro. Dobbiamo aggiungere inoltre che Poseidone è
dotato, iconograficamente, di tratti parzialmente identici a quelli dello Śiva hindu. Tuttavia, deve esser chiaro che
l’assimilazione del primo alla categoria degli Dei Olimpici – si constati il
posto di costui nell’ambito del Triregnum
ellenico – è molto piú evidente nella tradizione greca della partecipazione di Śiva-Mahādeva,
nonostante sia stato concesso a questi l’appellativo apparente di
‘Grande Dio’, alla categoria parallela dei Deva
nell’induismo.
e) Testimonianza di un’origine indipendente del
Tridente nella leggenda del dono a Poseidone di tale arma
da
parte dei Telchíni
Una diversa tradizione (35), riguardo una fornitura
alternativa a Poseidone della principale arma ascritta al dio marino,
testimonia all’inverso un’origine indipendente del Tridente rispetto alle due
altre armi divine da noi prese in considerazione. Narrasi infatti che il Cronide durante la
propria fanciullezza abbia ricevuto in omaggio codesto trumento da parte dei
cd. Telchínes (36), i quali lo avevano amorosamente allevato ed avevano costruito
tale arma al fine di proteggerlo. I Telchini, dichiarati dalla tradizione figli
di Πόντος e di Γῆ (cioè del Mare e della Terra
= senza vera patria, in quanto spatriati da una terra evidentemente sprofondata
negli abissi)(37), erano ritenuti
sacerdoti pelasgici sopravvissuti al Diluvio (38) al dire di Strabone e di Diodoro Siculo; secondo taluni
appartenevano in principio all’isola di Creta, che avrebbe posseduto una
superficie piú estesa di quella attuale prima dell’ultima grande inondazione, e
si sarebbero poi spostati verso Cipro e Rodi.
Mitologicamente invece essi sono paragonabili ai Cabiri ed ai Cureti, ai
quali parzialmente s’identificano (39);
nonostante una loro maggior cattiva fama, che avrebbe spinto Padre Zeus a
sterminarli mediante le ‘Piogge’.
Ricordiamo a tal proposito che il Diluvio ha valenze cosmologiche
complesse, non è soltanto questione di semplice inondazione o di sconvolgimenti
geofisici; indica, oltre a questo, uno scatenamento inverosimile delle passioni
umane, cui fanno seguito delle influenze cosmogoniche restauratrici dell’Ordine
Cosmico. In tal senso è implicato il
Signore dello Zodiaco. In modo speciale
si parla di 3 Telchini, fungenti probabilmente da controparte solare e titanica
(40) di colei che viene definita dal
Graves ‘Triplice Dea’ lunare. La loro
sede originaria, se li vogliamo intendere piú in generale quale classe
sacerdotale, sembra in effetti sia stata sommersa dal Diluvio di Deucalione,
scatenato da Zeus; nel quale si narra sia perita gran parte della popolazione
pelasgica, dimorante sulle coste dell’Egeo, allorché dominava ancora colà il
ceppo pre-ellenico (41). Indi, parzialmente riemersa, la stessa sede
sarebbe stata di nuovo ripopolata con successivi spostamenti da un luogo
all’altro dell’Egeo. Certuni, occorre
rammentare, diversamente da quanto abbiamo dichiarato sopra fanno di Rodi (42) il centro primario di diffusione
dei Telchini (43). Costoro, anziché nei panni di sacerdoti
anellenici o dei loro rispettivi numi solari, possono essere viceversa intesi
come un insieme di tribú anarie caratterizzate da una cultura di tipo
magico-demonico; ovvero, magico-titanico (44). Al riguardo, si tramanda che tali genti siano
state le piú antiche ad esercitare la lavorazione dei metalli e che abbiano del
pari primeggiato nel foggiare i simulacri dei numi. Non è da esludere però che, accanto ai
cruenti culti titanici, fosse già in auge un tipo di sacrificio di natura incruenta
ovvero con valenze sacrificali meno arcaiche; secondo quel che lo Zeus
Eliopolitano sembrerebbe suggerire (45),
in accordo colle reali necessità dell’epoca di sviluppo di tali culti (l’Età
del Bronzo), il simbolismo ciclico non essendo evidentemente esclusiva
prerogativa della mitologia indoeuropea.
Al contrario di quello che si è voluto far credere a livello
storico-religioso, quantunque ad attenuazione di codesto pregiudizio vada
sottolineato il fatto che effettivamente nelle tradizioni di lingua indoeuropea
il fattore ciclico sia divenuto preponderante.
Il Graves (46) argomentando
attorno alle vicende delle Nove (47) Telchine
(48), cinocefale e pinnipedi al modo
di certi mostri marini pre-olimpici, asserisce difatti di una loro distruzione
da parte di Zeus o dell’Apollo Licio (49)
a causa dei malefici perpetrati da parte delle medesime. Tralasciando il problema della trasposizione
al femminile del simbolo, d’altronde assolutamente legittima allorquando ci si
riferisca a tempi relativamente recenti (ossia posteriori al Diluvio di Deucalione
e rientranti quindi nell’ancor mitica Età del Ferro), vale la pena di
rammentare che il vocabolo designante siffatta stirpe, divina od umana che
fosse, era spiegato dai grammatici greci nel senso di ‘Incantatori,
Incantatrici’ (50).
f) Il Tridente ed il Pesce
quali
misterici emblemi della Regalità e del Sacerdozio
Il fatto che esista una storia
indipendente riguardo l’origine culturale del Triódous è un’ulteriore prova, crediamo, che è la Folgore ad esser
derivata dal Tridente; e non il contrario, come viene in genere sostenuto. Ciò ci dà modo di capire perché mai il
Tridente, alternativamente al Pesce, sia considerato presso certe civiltà (vedi
Mesopotamia, ma suggeriamo di estendere il concetto da un lato all’area
medio-orientale e dall’altro a quella egeo-anatolica) un attributo regale. Ora però proviamo a trattare solamente
l’aspetto pescino, da cui l’emblema del Tridente è sicuramente derivato, sia
pur indirettamente. In quanto,
immaginando per il Tridente un’origine cheratomorfica, va da sé che siffatta
genesi sia connessa inscindibilmente al concetto di Pesce Cornuto quale modello
essenziale di assialità.
L’introduzione d’una simbolica
ittiomorfica nella qualificazione di scene alludenti al carattere sacro della regalità è
riscontrabile precipuamente in Mesopotamia, ove si rinviene nella glittica
arcaica di Ur la sagoma d’un pesce posta di fronte a determinate figure umane;
sedute regalmente su un rozzo scanno di pietra, od un piú elaborato trono,
nell’atto evidente di bere da un corno una pozione offerta da alcuni servi (51).
Con magnifica lungimiranza Padre Heras (52) illustrando la sua interpretazione dei sigilli sumeri
sommariamente descritti si è chiesto se la perseveranza del determinativo di Min nella qualifica della regalità, che
oggettivamente s’incontra in Egitto (si veda il Mīn
di Her., Hist.- ii. 5, 2 fondatore
della dinastia faraonica, ellenizzato in Menes da Manetone) e a Creta (osservando
il titolo di Mínōs presso i re cretesi)(53) non ci autorizzi a trascrivere con
min (‘illustre, splendente, luminoso’
ecc.) al modo del proto-indiano persino il segno in forma di pesce della
glittica sumerica. Tanto piú che Mīn, il dio egizio che abbiamo già antecedentemente (54) definito unicorne, itifallico ed
unipede, è secondo il gesuita ispanico – appoggiantesi al Petrie – la
trasposizione in terra faraonica da parte di un popolo venuto da chissadove
(lui dice oriente) del Mīn paleo-indico (55). In altre parole, si può legittimamente
ipotizzare che l’accostamento del Pesce al Tridente quale si rinviene in area
mesopotamica ed indiana (56) denoti
l’unione del Sacerdozio (Pesce) alla Regalità (Tridente = Corona Tripuntata),
insomma la presenza indiscutibile di un Rex-sacerdos.
g) La simultanea identificazione rituale del Re
Sacro
al
Primo Uomo e del Sacerdote alla Prima Donna
offre
le chiavi del mistero suaccennato
In tale logica è quindi da
supporre, come ci suggerisce lo stesso Padre Heras, che il grande monarca
incarnasse la divinità suprema; o meglio quella primaziale e paradisiaca, la
quale era tutt’uno col Primo Uomo, al modo del Giano latino. Non per nulla, signore del Lazio, vale a dire
della ‘Terra Nascosta’ (dal lat. lateo). Ovverosia, l’llavṛta
(‘Terra Velata’), da vṛ (‘velare, nascondere’).
E per tal motivo gli sarebbe stato appunto conferito l’emblema numinoso
del quale quella divinità si fregiava, il Pesce Cornuto (in verità Monodono),
di cui l’emblema in precedenza analizzato costituiva una tipica variante. Pur tuttavia va ancora sottolineato che
l’equivalenza supposta del sovrano, in senso sovracastale, col nume primevo (57) altro non è se non
un’identificazione dell’autorità del Re Sacro (o Rex-sacerdos) a quella del Primo Uomo nell’accezione aurea; in
altre parole corrisponde all’identità di Brahmā con Re Manu (58), per dirla all’indiana.
Ossia alla conformità di quello che nella Cabala è definito ᾽Ādām Qadmon (dotato di 4 Teste, al pari Giano), cioè
l’Adamo Primigenio (od Universale), coll’<Antico dei Giorni> biblico (Dan.- vii. 9)(59) inteso quale
alter-ego di Yahweh; se ci rifacciamo
invece comparativamente alla tradizione biblica, il che è come dire caldaico-abramitica. In realtà fra i due termini vi è uno iato,
tipico del mondo ebraico e più in generale delle dottrine dvaparayughiche, il
quale si estende ad un terzo termine trinitario; egualmente accade in India col
Tripuruṣa mahabharatiano-vishnuita, dove il Puruṣottama viene
distinto sia dall’Akṣara-puruṣa che dallo Kṣara-Puruṣa (60). Nella tradizione greca, purtroppo, manca in
apparenza (a parte la figura di Prometeo) questa relazione d’identità fra il
Primo Dio ed il Primo Uomo che troviamo viceversa altrove (61) e che costituiva in generale il binomio primordiale del culto
di tutte le genti durante il I Grande Anno; o meglio, essa è celata dietro alla
figura egeo-cretese di Minosse. Il mito
ellenico però ha finito per occultarla, sostituendole in cambio la serie
generazionale Urano-Crono-Zeus-Apollo; che sono invero rispettivamente le deità
supreme del II-III-IV-V G.A. Vi è
tuttavia qualcosa che rassomiglia allaTrinità cristiana e che ha quali termini
specifici Zeus-Eracle-Ificle (62).
L’autorità del Re Sacro è
l’autorità di colui che costituisce all’interno della mitologia hindu il Re
Pescatore primigenio, avendo questi avuto dall’Aureo Mahāmatsya
Ekaśṛṅga la Rivelazione della perfetta
identità fra l’Uomo e la Divinità.
Altrove si è persa parzialmente questa relazione simbolica, ma non del
tutto. Nel caso della Regalità in senso
meramente guerriero e tretayughico codesta identificazione è soltanto virtuale,
non potendo di norma oltrepassare i confini ontologici del Paradiso Terrestre (63), o meglio del Satyayuga. In codesta
accezione, piú ristretta della precedente, il Princeps è semplicemente l’<Uomo Regale> ovverosia l’<Uomo Reale> della
tradizione cinese; il quale, si dice, “non conosce né vità né morte”. Mentre nel caso del Sacerdozio, laddove si
stabilisca (Chēn-jēn)
un’associazione simbolica di carattere ciclico tra esso e la seconda metà
dell’Età Aurea (raffigurata iconologicamente dall’immagine della Prima Donna – Parśu
(64) nella tradizione induista – per
via d’un ancestrale shamanismo di tipo shaktico), l’identificazione può
spingersi piú oltre, sino al limite supremo del Paradiso Celeste (il Satyaloka brahmanico).
Vi è comunque un legame diretto
tra il Pesce Unicorne della letteratura vedico-puranica, dell’epica o dell’arte
indiana (65), ed il Pescesega del
folclore meridionale; un parallelo del quale si è dichiarato piú addetro esser
stato il contrassegno dell’unicornia del Mīn egizio, cioè
d’un ipostasi dell’Osiride paradisiaco (66). Osiride, d’altra parte, era associato alla
figura del Faraone in Egitto. A conferma
di ciò che abbiamo tentato di dimostrare in codesta nostra disamina, Padre
Heras con estrema genialità ci ha messo a disposizione un ulteriore ritratto
regale oltre a quelli già mezionati al paragrafo precedente, proveniente questa
volta dalla Mesopotamia (Bismaya)(67);
esso ci mostra un monarca – od un dignitario minore – avente sul capo un
oggetto tricuspidato, che il gesuita afferma trattarsi d’un tridente (68), ma potrebbe essere invece una
corona triradiata o qualcosa di molto simile.
Sempre Heras ipotizza che nell’antica Valle dell’Indo vi fosse diffuso
un analogo concetto di regalità rispetto al Paese di Sumer nonché a Creta e
all’Egitto, se è vero che la supposta definizione di Vēl
(‘Tridente’)(69) – ripresa piú tardi
nelle lingue dravidiche – è rimasta in uso quale epiteto onorifico dei re di Madurai, secondo quanto si rileva
palesemente da certe iscrizioni di Epoca Pāṇḍya. Di certo il titolo indicato aveva a che fare
in principio col Triśūla,
adornante il capo di Āṇ (il
Proto-Shiva), il nume che compariva troneggiante sui sigilli di Mohenjōdaro; cosí come la Corona Tricuspidata,
posta sulla testa dei sovrani mesopotamici, riproduceva sul loro capo la Triplice
Ramificazione spuntante dalla nuca dell’An
sumerico (70). Il riferimento paradisiaco è garantito
comunque, anche in tale occasione, tanto dalla ‘Bianca Montagna’ associata al
culto dell’An mesopotamico; quanto dall’omologo Monte (seppur indistinto) su
cui è appostato l’Āṇ degli antichi
sigilli dell’Indo (71), nume
designato non meno del proprio ‘Figlio’ quale possessore del Triśūla.
h) Rapporti
analogici fra il Pesce Cornuto, il Granchio
(od
altri emblemi equipollenti) ed il Tridente
Per concludere circa il ruolo del
Pesce, divenuto emblema del’Unità Divina indipendentemente dal fatto che esso
fosse dotato di corno o meno, e la funzione appaiata del Tridente,
relativamente ai quali esiste un analogo rapporto a quello che passa fra l’Unicorno
ed il Tricorno (72), aggiungasi che
a Mohenjodaro (antica Naṇḍūr, ossia la ‘Città del Granchio’) alternativamente ad una
simbologia per cosí dire paleo-shivaica – connessa probabilmente al Solstizio
d’Inverno, insomma al Makara
(corrispettivo indiano del Capricorno) ed al Delphinus celesti – era nota una corrispondente simbologia
paleo-shaktica; dal momento che nelle iscrizioni glittiche si faceva cenno ad
un ‘Fattore del Granchio’ (73),
titolo di evidente valore sacerdotale, ciò che viene cosí a confermare il
carattere numinoso della monarchia in tutta l’area culturale presa in
esame. Il Granchio d’altro canto,
c’insegna l’Astrologia, ha a che fare colla Morte e la simbologia lunare
ciclico-annuale; e non sarà certo un caso che anche oggi il nome della citta, Mohenjodāro (74),
significhi letteralmente ‘Collina dei Morti’.
In definitiva risulta facile
considerare gli equivalenti lunari e femminei del Pesce Cornuto (Granchio,
Gambero, Seppia, Polpo, Conchiglia ecc.), di contro al Pesce medesimo che è di
natura chiaramente uranico-solare, una forma intermedia tra quest’ultimo ed il
suddetto Tridente. In tal caso il
crostaceo, il mollusco od altre creature dalla consimile natura funge da
‘utero’ (gr. delphýs) anziché da ‘fallo’. Primordialmente questo simbolo era
rappresentato da animali quali foche o trichechi, oppure dalla tartaruga,
un’eco dei quali è giunto sinanco in Grecia, visto che ve n’è traccia nella
mitologia classica e poi perfino nell’arte paganeggiante dell’Epoca Cristiana. Sebbene il Cristianesimo di per sé lo abbia
sostituito colla cd. Vēsica Pīscis, emblema
non per nulla della Madonna.
Ecco allora che – potremmo
asserire ipoteticamente – i 3 emblemi del Pesce Cornuto, del Granchio e del
Tridente debbono essere specificatamente reputati il contrassegno vicendevole
della Profezia, del Sacerdozio e della Regalità (75). Come siamo giunti a
codesta deduzione è facile spiegarlo.
Visto che esiste una gerarchia numerica fra di essi, che va dall’1 al
3. Ciascuno di siffatti emblemi ci
rimanda infatti ad un determinato ciclo avatarico (76), precisamente ai primi tre (77). Questo non significa
ovviamente che la Profezia sia una prerogativa esclusiva del I Ciclo, il
Sacerdozio del II e la Regalità del III; né che tali attitudini umane siano
spuntate fuori nei rispettivi cicli ad esse emblematicamente associati. Poiché sappiamo dalla letteratura dell’India
antica, ma anche la Grecia pagana concorda sostanzialmente con essa per chi sa
leggere la mitologia con spirito tradizionale, che ogni classe sociale (o casta
che dir si voglia) presenta un periodo di nascita ben distinto (78), avente a che fare coi Mahayuga e non cogli Yuga.
i) Ipotesi di un’identità mitica
fra
le figure di Poseidone e Minosse,
alla
luce del simbolismo messo in risalto
Orbene, poiché la civiltà cretese
come c’insegnano Padre Heras et al. (79), non è che un ramo dell’intera
cultura indomediterranea, ecco che Minosse ed il suo alter-ego Poseidone –
mitico possessore del Tridente e, quindi, del dominio sul ‘Terzo Regno’ – ci
appaiono adesso come coloro che per forza di cose debbono aver avuto nella loro
protostoria iconologica un copricapo triradiato oppure foggiato in maniera
molto simile; vale a dire tridentato, tricorne, triramificato o trilobato.
Riguardo Minosse, non conosciamo
per la verità alcuna imagine capace di sostanziare il concetto da noi dianzi
espresso; ma forse il senso della figura è racchiuso nel nome divino medesimo,
che è in effetti un titolo regale.
Minosse, allorché è ritratto quale Giudice dei Morti (Hom., Od.- xi. 791-5), tiene in mano l’Aureo
Scettro; il quale, stimando la base *Mīn- del nome
cretese grecizzato Mín-ōs un residuo
della sua originaria natura ittica (cfr. col Mīn-a
tantrico), potrebbe alludere indirettamente – come nel caso della Verga-scettro
del Re Giano latino – al Corno Pescino dell’unico Rex-Sacerdos primordiale (80). Come è accaduto al Manu indiano, riadattato letterariamente nel Veda a tempi
posteriori, al Μίνως egeo-cretese può essere capitata
la medesima cosa. In fondo, è lecito
arguire che il Tridente costituisca uno sviluppo ternario – anche in India –
della Verga-scettro (Daṇḍa) di Re Yama, corrispettivo hindu dello Iānus romano ed omologo di Re Manu (81). Difatti, in una miniatura rinascimentale (82) osserviamo Re Minosse con Corona a
3 Punte nell’atto di condannare due reprobi quale Giudice dell’Inferno. E guardacaso la stessa Corona compare in
altra miniatura (83) sul capo della
Regina Pasife (84), nella scena in
cui costei s’invaghisce del Bianco Toro, ipostasi bovina di Poseidone.
Poseidone al contrario è dipinto
nella leggenda del viaggio di Teseo alla volta di Creta, collo scopo di
uccidere il Minotauro, nella veste di un dio marino che si può presumere avesse
in testa un’Aurea Corona a mo’ di sovrano delle acque (85). Questa corona essendo
in possesso difatti della consorte Anfitrite (86), come avrebbe potuto non possederla il paredro? Sarebbe incongruente, altrimenti. Visto che in campo mitologico tutto ha un
preciso significato, come potrebbe spiegarsi un’incongruenza del genere? Per la verità una spiegazione la si può
trovare: è plausibile che, da un punto di vista cosmologico, si parli d’una
sola corona al fine di giustificare il mitologhema della Corona Borealis. Ad ogni
modo, anche in questo caso, troviamo un’ennesima immagine moderna (87) ritraente il nume marino con una
cresta rassomigliante ad un corno e coda pescina trilobata alla maniera di
Glauco. La ‘Coda’ implica, perciò, che
anche il capo possa esser immaginato tricuspidato o tridentato; come il Delfino
greco-cristiano, od il Makara
indo-buddhista (88).
l) L’Aurea
Corona di Anfitrite
donata
a Teseo dalla dea marina nel ‘Fondo delle Acque’
Sarà bene, a questo punto,
raccontare un po’ piú in dettaglio la
vicenda; narrata principalmente dal lirico greco Bacchilide (VI-V sec.) nei Ditirambi, ovvero da Plutarco nelle Vite parallele e da altri autori in
tempi diversi (89).
Si dice che gli Ateniesi
dovessero mandare ogni anno a Creta come tributo per la morte di Androgeo (90), figlio di Minosse, una nave con
sette giovani ed altrettante vergini; al fine di soddisfare le brame
sacrificali del Minotauro, fratello taurocefalo di Androgeo rinchiuso a causa
della propria deformità nel Labirinto di Cnosso, costruito alla scopo da
Dedalo. Teseo, figlioccio del Re Egeo (91), nel corso della navigazione verso
l’isola – sorteggiato o meno che fosse tra i giovani da inviare quali vittime
deignate al sacrificio (a seconda delle versioni egli svolge un ruolo attivo o
passivo nella ribellione all’imposizione cretese) – rimprovera Minosse per la
visibile brama che aveva preso il tiranno di violare una delle vergini;
essendosi l’Eroe rivelato quindi nella sua vera identità ossia quale figlio del
dio del mare, si scatena allora una disputa fra lui e il re cretese, che spinge
ciascuno dei due contendenti a manifestare la rispettiva ascendenza
divina. Ragion per cui Minosse dopo aver
dimostrato attraverso il balenío miracoloso del lampo ed il fragore improvviso
del tuono di discendere dal padre Zeus, che aveva voluto cosí accogliere
l’invocazione del figlio ad inviargli un segno della propria benevolenza, getta
in mare un <Anello d’Oro> onde mettere alla prova il favore goduto da
parte di Teseo nei confronti di Poseidone; quegli, tuffatosi pertanto in acqua
col pretesto di andarlo a prendere, viene prima accompagnato dai Delfini – accoliti
zoomorfici del dio – o da Tritone – fratello marino dell’Eroe – nel ‘Palazzo’
paterno, giacente sul ‘Fondo delle Acque’.
Accolto amorevolmente da Anfitrite in una luce accecante che brillava
tutt’attorno, Teseo riceve in dono dalla consorte di Poseidone una <Aurea
Corona> (92); e riemerge alfine
dalle acque, fra la meraviglia generale, con in testa la Corona donatagli ed in
mano l’Anello d’Oro (93) di cui il
re cretese si era privato per saggiare il volere divino.
La leggenda dell’uccisione del
Minotauro, com’è noto, prosegue in tal maniera (94).
Una volta che l’imbarcazione con
a bordo le vittime da sacrificare è giunta a Creta Arianna, la bella figlia di
Re Minosse, s’innamora di Teseo a prima vista; per cui ella decide di aiutarlo
ad annientare il suo fratellastro, ricevendone in cambio una promessa di
nozze. Arianna offre allora all’Eroe
ateniese – per la verità questi era di Trezene – il Celebre Filo Magico (95) che, assicurato ad uno stipite
della porta d’ingresso del Labirinto (96),
sgomitolandosi avrebbe condotto Teseo di fronte all’essere mostruoso
addormentato al centro (97) di
quella specie di prigione-santuario.
Secondo i patti con Creta, qualora qualche straniero fosse stato capace
di uccidere colla sola forza delle mani il Minotauro, quegli avrebbe potuto
liberare Atene dal tributo di sangue impostole da Minosse. Cosí infatti avviene, dato che Teseo era
esperto di lotta libera (98); anche
se, a dire il vero, l’iconografia (99)
ce lo mostra piú spesso nell’atto di colpire il Minotauro (100) con la Spada o la Clava (101). Riemerso dal Labirinto colle vesti
insanguinate, l’Eroe riabbraccia la sua improvvisata amante ed è indi
ricondotto da costei al porto, donde era venuto.
m) L’Aurea Corona di Anfitrite posta da Dioniso
sul
capo di Arianna al momento delle nozze con costei.
Non stiamo ora a descrivere tutti
gl’intoppi nella fuga di Teseo, premendoci invece di sottolineare che Arianna
in lacrime per essere stata abbandonata dall’ingrato amante nell’isola di Dia
(attuale Nasso) è piú tardi assistita da Dioniso; il quale era apparso in sogno
all’Eroe, facendogli dimenticare le promesse verso la figlia di Minosse ed
intimandogli oltretutto di andarsene e lasciare la giovane Arianna sul
lido. Al dire di Pausania, Catullo ed
Igino Dioniso si sarebbe perciò unito in matrimonio ad Arianna posandole sul
capo ritualmente l’Aurea Corona di Tetide (102),
sposa di Peleo. La medesima Corona
sarebbe stata infine immortalata in cielo, cosí recita la storia, tramite
l’asterismo della Corona Boreale (103);
l’importanza di tale asterismo nella storia testé citata è ulteriormente
esaltata dal fatto che essa si trova in cielo accanto a Bootes, nel cui nome andava identificato per i Greci Icario, amico
di Dioniso e padre di Erigone. Costoro
non erano che allotropi, rispettivamente, di Dioniso ed Arianna.
Al bovaro Icario, chiamato anche
Filomelo, è stata attribuita non meno che a Dioniso l’invenzione del vino; ma
proprio tal fatto ha finito per decretare la sua morte da parte degli altri
bovari che immaginavano d’essere stati avvelenati. Questo personaggio è inoltre eroe culturale
per un altro motivo: fu il primo a soggiogare i buoi al carro, e perciò veniva
chiamato Βοώτης.
La stella Arctūrus,
magnificata dai poeti per la sua luminosità, è la stella dominante di questo
asterismo; in India è definita Niṣṭhya
(‘Caos, Oscurità’), per ragioni in apparenza poco comprensibili ma sicuramente
legate alla questione stagionale, e fa parte pure colà del Bhūteśa Maṇḍala (Gruppo del Boṓtēs). Vi è chi (104) spiega siffatta connessione con il riferimento a Śiva Bhūteśa
alias Pāśupati, poiché in effetti i Bhūta (gli ‘Elementi’) sono qui da intendere come le stelle e
cioè tutti gli esseri universali, ai quali egli presiede in veste di guardiano
stellare. In Grecia Boṓtēs
funge da pastore-guardiano dell’Orsa Maggiore (105), a propria volta da altri concepita in questa veste nei
confronti di tutte le altre stelle (106), e da ciò si può dedurre che codesta
funzione si sia trasmessa un tempo dall’asterismo polare a quello
extra-zodiacale.
Tutta la vicenda vien pertanto a
provare indirettamente che tanto Anfitrite quanto Poseidone parimenti a Pasife
e Minosse, dei quali appaiono a loro volta sostanzialmente dei doppioni, erano
in origine dotati necessariamente d’un copricapo; che, comunque lo si voglia
intendere, dovremmo per lo meno definire tripartito (107). Tale assunto concorda
essenzialmente con quel che si era sopra stabilito, desumendolo da miti
elaborati attraverso tradizioni parallele.
n) Il culto cretese della Bipenne,
associato
ad un antico dio tauromorfo e tricorne,
rivela
l’esistenza d’una prefigurazione anellenica di Zeus
A ben vedere il mitologhema prima
riportato sui Telchini è soltanto una replica sia pur limitata al dio del mare,
cioè ad uno esclusivamente dei tre componenti del divino Triregno, della
leggenda relativa al dono delle armi ai tre fratelli olimpici da parte dei
Ciclopi (108). Molto piú difficile che trarre lo Scettro
Tripartito ed il Tridente dai (supposti) rispettivi Kérata di Ade e di Poseidone, è far derivare adesso da analoghe
corna la Folgore Tricuspidata di Zeus.
Tuttavia la tradizione
dell’avvenuto dono delle armi ai 3 Cronidi, da parte dei Ciclopi, è
assolutamente ineludibile. Non potendo
tralasciarla saremo costretti a prenderla in considerazione pure in questo
caso, peraltro assi problematico. Questa
volta infatti non ci vengono in aiuto immagini tarde del dio, com’è accaduto
con il corrispettivo latino di Ade; né sono pronte ad ispirarci regali corone
trapuntate, come quella donata a Teseo da Anfitrite o ad Arianna da Dioniso (109).
Per cui sarà necessario ricorrere ad un altro tipo di valutazioni,
concernenti l’Ascia da Fulmine piuttosto che la Saetta Trifida. Ora è perfettamente noto che l’Ascia, uno dei
piú sacri emblemi – tanto in Europa quanto in Asia – che l’Antichità abbia
ereditato dai tempi preistorici, svolge dal punto di vista iconografico un
ruolo del tutto parallelo a quello della Saetta; concepita figurativamente in
forma di dardo con una, due o tre punte.
Ed, anzi, si deve riconoscere che la prima è sicuramente un simbolo
maggiormente arcaico della seconda; onde non ci sarebbe da sbagliarsi qualora
affermassimo, esplicitamente, che essa figura addirittura da contrassegno
ancestrale della Folgore. Sempre in
codesta linea logica di giudizio, analizziamo adesso un’immagine assai strana
apparentemente, ma che servirà ciononostante in modo soprprendente alla nostra
causa.
Nei reperti archeologici cretesi
di Età Minoica è stato rinvenuto un intaglio in agata con incisa una Testa
Taurina (110), avente una Doppia
Ascia (111) fra le Corna. Il tema, come giustamente rileva il Cook, non
è da intendere in senso puramente ornamentale;
poiché si richiama in modo evidente al culto dello “Zeus cretese”, di
cui il toro costituiva secondo l’autore “l’animale teantropico” (112).
A nostro avviso, ipotizzare al riguardo la presenza di un antico culto
di Zeus nell’isola di Creta (113)
non è molto diverso dal credere in una versione indigena di questo dio. Fra le due cose la differenza effettiva
sarebbe minima, ciò valendo ovviamente anche per le altre divinità
omologhe. Ulteriori icone, colle Corna
Taurine inframmezzate dalla Doppia Ascia, appartengono invece al periodo
miceneo (114); anche se rispecchiano
pure loro, è chiaro, il culto neolitico del Toro Celeste. Ossia, il bimillennio in cui il Punto Vernale
trovavasi in Taurus.
Che significava quindi l’Ascia
nella posizione indicata? Di certo, essa
alludeva al sacrificio cosmogonico cui aveva adempiuto il Sole allorquando era
venuto a trovarsi nella posizione astronomica descritta; dal momento che questa
coincideva praticamente coll’inizio della Quarta Età ciclica, ogni inizio
portando con sé qualcosa dei primordi o per meglio dire del principio del
mondo. Naturalmente le raffigurazioni testé
menzionate implicavano per necessità di cose dei significati rituali,
d’altronde sottintesi nell’interpretazione cosmologica del simbolo. Dato che i riti – com’è risaputo –
rappresentano dal punto di vista scenico nientemeno che delle imitazioni cerimoniali
del cammino celeste degli astri, coll’adattamento a tal fine di tutto ciò che
concerne la vita umana; la quale viene in tal modo scandita in una serie di
sequenze cronologiche in apparenza distinte tra di loro, e persino
contrapposte, ma invero segretamente collegate ad un ‘Principio Unico’ (la
definizione è estremo orientale) che tutte le trascende. Dunque, è lecito arguire che sul piano
ontologico la Doppia Ascia simboleggiasse il potere di Vita e di Morte legato
al sacrificio annuale del Sole; di cui il Toro, in ambiente cretese, costituiva
l’emblema per antonomasia.
Che ad ogni modo fosse la cifra
ternaria l’elemento prevalente di siffatte epitomi taurine (115) è provato dalla decorazione d’un cratere miceneo rinvenuto
nell’isola di Cipro (piú precisamente a Sálamis);
ove la Doppia Ascia è triplicata, sí da formare 3 Doppie Asce, 2 delle quali
laterali sono collocate a mezzo tra le corna di 2 Bucrani. Mentre quella centrale è posta assialmente su
2 Corna, stilizzate ad U, col manico che finisce in una specie di minuscolo
Treppiede. L’ulteriore documentazione
della diffusione di cotesto tema iconografico offertoci dal Cook (116) riguarda vari Bucrani rinvenuti
piú d’un secolo fa ad Olbia, in Sarmazia; e probabilmente affissi, rileva
l’autore, a mo’ di ornamento a qualche superficie levigata, forse d’una bara di
legno. In luogo della solita Doppia
ascia troviamo fra le corna dei crani bovini una protuberanza assiale di tipo
cilindrico, rassomigliante ad un manico d’ascia mozzato. Se si tratti anche in questo caso di vestigia
della Doppia ascia, come vuole il N., oppure d’una protuberanza assiale
generica, è difficile dire; resta il fatto però che cotale triassialità di
tutte le teste ed i crani taurini analizzati ci rimanda necessariamente alla
triplicità simbolica degli emblemi tridentati, o variamente tricuspidati, che
fungevano da copricapo regale delle divinità in precedenza delineate. Per cui, avvalendoci del prezioso contributo
del Cook, interpretiamo senza mezzi termini la Doppia Ascia emergente dalle
Corna rituali cretesi alla stregua di una raffigurazione semiteriomorfica del
locale Signore della Folgore.
o)
Tratti titanici ereditati dallo
Zeus ellenico
Tale soggetto, bisogna
ragionevolmente riconoscerlo, testimonia la diffusione nell’isola di Creta d’un
arcaico culto indigeno relativo ad un dio taurocefalo e tricorne. Questi non poteva esser altri che Crono, in
base all’indicazione intrinseca del nome con cui questa divinità è stata
designata (117). L’Ascia oltretutto, ad esser precisi, era una
volta un attributo di tale divinità; nel tempo lontano in cui l’anziano
consorte di Rhea svolgeva la parte d’un nume agrario (o meglio orticolo), in
seguito ereditata dal figlio Zeus (118).
Che Zeus possa aver ereditato
iconograficamente certi attributi di Crono, nel trasferimento che di essi è
avvenuto a vantaggio degli dèi atmosferici dopo il venir meno dei culti a
carattere titanico, è provato ulteriormente da una citazione di Pausania (Paus.,
Per., ii. 24, 5). Veniamo in tal modo informati dell’esistenza
ad Argo di uno Zeus Trioculo, che faceva anticamente il paio coll’analogo
Apollo Trioculo accreditato ai Dori da parte di Erodoto (119). Dato che Apollo costituisce
il volto solare di Crono è conseguente dedurre dall’accostamento indicato che
il tricheromorfismo delle teste taurine, con la ‘Doppia Ascia’ nel mezzo
poc’anzi esaminato, alludesse alla tricornía originaria trasmessa dal Crono
pelasgico allo Zeus cretese. Sul piano
storico sarebbe meglio comunque, nonostante l’obiezione sopra formulata,
parlare di Astérios (od Asteríon) anziché di Zeus; benché si
abbia notizia, ad esser sinceri, della venerazione sincretica di uno Zeús Astérios
(120). Parimenti a Dioniso, il Padre degli Dei ha
ricavato in dotazione tra i suoi emblemi la Cornucopia
(121); perciò, quel che vale per
l’uno deve valere anche per l’altro.
p) Il
presumibile tricheromorfismo di Europa
appaiabile simbolicamente a quello di Zeús Astérios
La stessa cosa dicasi inoltre
dell’Oceanina Europa (122), amante
di Zeus e consorte di poi del sunnominato Asterio. Tutti costoro, di conseguenza, sono da
concepire come delle figure divine tricorni (123); sebbene valga la pena non dimenticare mai che il Corno
dell’Abbondanza (124), similmente ad
ogni altro fattore simbolico equivalente (Vaso, Coppa, Ascia, Verga ecc.)(125) rappresenta, in quanto
contrassegno paradisiaco (126), un
doppione del Pesce. E qualora si abbia a
che fare con il Pesce Unicorne, cotale dispaiato corno (127) è identificabile allora al corno egualmente impari di
siffatta leggendaria creatura acquatica.
Ma dobbiamo adesso analizzare,
piú in dettaglio, il tricheromorfismo presunto di Europa. Dopo averla rapita da una spiaggia fenicia ed
averla trasportata magicamente sulla propria groppa, attraverso il mare, fino
ad un antro dell’isola di Creta – secondo una variante (128) alla volta della Beozia (lett. ‘Terra del Bove’) – Zeus in
aspetto taurino (129) si congiunge
in amplesso con la figlia di Teti e di Oceano, generando in lei 3
<Figli>: Sarpedonte, Minosse e Radamante, in seguito adottati da parte di
Asterio. Vide supra. Nell’iconografia
Europa tiene in mano il Pesce (130), che ne suggella la primaria
natura di dea marina, o addirittura oceanica (131); talvolta invece ella regge il Fiore, che presumiamo essere
del medesimo tipo di quelli raccolti dalla oceanina in riva al mare nel momento
in cui le si appressa il Toro Divino. Il
particolare maggiormente interessante di tutta la vicenda consiste, ad ogni
modo, nel fatto che al protagonista taurino del mito narrato in certi antichi
dipinti (132) venivano assegnati 3
simbolici Colori. Torneremo su questo
importante punto fra breve. Per il
momento ci preme di raffrontare la storia appena raccontata con quella di Io,
la Vacca Lunare Vagante; la quale ha una volta di piú come controparte
maschile, e sposo divino, il già citato Zeus (133). Io, figlia del dio
fluviale Inaco, è trasformata da Era, gelosa di Io per l’amore nutrito dal
‘Padre degli Dei’ verso costei, in una vacca; custodita da Argo, dai ‘Mille
Occhi’ (134). Avendola però Zeus amata in sembiante di
toro, la paredra del dio fa sí che un tafano insegua Io, sotto forma di vacca, fino
in Egitto. Colà, dopo aver vagato assai,
la tormentata amante partorisce alfine Epafo.
La triade cosí formata – vale a dire del Dio-toro (Zeus), della
Dea-vacca (Io) e del Dio-vitello (Epafo) – è stata dai Greci equiparata,
tradizionalmente, alla triade classica egizia; ovvero Osiride, Iside ed Api,
pure loro oggetto in Egitto d’una non dissimile metamorfosi bovina. Rimangono adesso da evidenziare le ragioni
per le quali abbiamo poco fa sostenuto la perfetta omogeneità tra Έυρώπη ed Ἰώ, le due celebri amanti del
Signore dell’Olimpo. Riguardo tuttavia
ad Era bisogna ancora sottolineare che la Regina degli Dei costuisce lei stessa
un doppione della Vacca Lunare. Non
dobbiamo, d’altronde, lasciarci ingannare dall’apparente antinomia fra la dea e
la doppia rivale. Secondo ciò che ci è
già capitato di osservare in analoghe circostanze, dei conflitti apparenti
nascondono per lo piú una sostanziale
identità di natura tra i due o le due contendendenti, quantunque essa venga
travestita quasi sempre da alterità, a scopo rituale. Al fine di provare la veridicità della nostra
asserzione facciamo presente, traendo appoggio dal Cook (135), che Ἥρα portava effettivamente in alcune inconsuete immagini se non una
maschera vaccina vera e propria almeno corna vaccine. Si veda, a tal proposito, il regale copricapo
tricorne – in verità un corno centrale diramantesi in un paio di corna laterali
– indossato dalla Regina del Cielo in certe raffigurazioni numismatiche d’epoca
imperiale riportate dal succitato autore (136). Ciò dimostra, chiaramente, che Io ed Era sono
da intendere quali doppioni l’una dell’altra; inoltre, siccome abbiamo prima
sostenuto essere Io una veste allomorfica di Europa, per coerenza adesso
dovremo considerare quest’ultima una controfigura di Era. Onde, è del tutto legittimo ritenere che anche
Europa abbia portato una volta sul suo capo qualche segno distintivo della
propria celeste regalità (137).
q)
L’interpretazione tauromorfica
nella simbologia dei 3 Colori alchemici
La tricornicità (138) delle omologhe figure di dee ora
esaminate si confà pienamente a quanto abbiamo in precedenza rilevato riguardo
Pasife ed Arianna (139). Donde, ormai, possiamo dare il dato
praticamente per scontato da qui in poi.
Ciononostante, ci soffermeremo ancora un po’ sulla comparazione delle
due storie parallele appena analizzate.
Giacché vi è un fattore ternario
indipendente nei due soggetti similari or ora esaminati che, oltre a comprovare
ulteriormente la risoluzione da noi escogitata per il problema delle Corna,
introduce un nuovo argomento; il quale indirettamente ci permetterà di portare
a conclusione la nostra lunga disamina critica nei confronti del tema del
Delfino Monocero cretese, intendendolo insomma come variante tipicamente
mediterranea del motivo primordiale del Grande Pesce Unicorne.
Il secondo fattore ternario
(oltre a quello delle Corna già delineato), cui si è fatto poco fa allusione, è
dato dai 3 Colori (Nero, Bianco ed Oro)
(140) attribuiti ad Io dopo la trasformazione della sacerdotessa in ‘Vacca
Vagante’ (141); codesti ‘Colori’,
peraltro equivalenti a quelli del Toro di Europa (142), sono inequivocabilmente al di là delle varianti occasionali
(ad es. il Violetto al posto del Nero od il Rosso al posto dell’Oro, oppure il
Violetto in luogo del Rosso)(143) i
colori tipici della tradizione alchemica.
È vero che la leggenda di Io concerne un cambio di colore, piuttosto che
una variegatura dei medesimi; inoltre nella prima storia è Zeus a subire la
metamorfosi, mentre nella seconda è la paredra sacerdotale di costui. Ma ciò poco importa, dato che la sostanza della vicenda rimane
fondamentalmente identica. Se proprio
vogliamo stabilire una differenza fra le due storie, dobbiamo in un caso
intendere Zeus in prospettiva prevalentemente solare; e, nell’altro, Io in
prospettiva eminentemente lunare. In
entrambi i racconti mitici vi è però ancora una volta un riferimento
cronologico ben preciso, che ci rimanda inevitabilmente al principio della
Quarta Epoca ciclica. Ulteriori Bovidi sembrano possedere, ad ogni modo, le
medesime caratteristiche alchemiche di quelli considerati. Il fatto è giustamente messo in rilievo dal
Graves (144), che paragona gli
episodi del Taúros di Europa e di Io quale Vacca Vagante alle storie
altrettanto strabilianti della Vitella di Minosse e degli Armenti di Augia;
nonché alla vicenda simbolica, per qualche aspetto analoga, dell’Unicorno. Cercheremo pertanto di analizzare una per una
tutte queste comparazioni, dimostrandone l’assoluta attendibilità; e traendone
spunto d’altronde per concludere il nostro discorso sull’identità reale delle
varie coppie di numi tricorni o triradaiti, et
similia, della tradizione egea.
Infine rimarrà da chiarire definitivamente la delicata problematica
della connessione tra codesti numi tricheromorfici ed Apollo Delfinio, vale a
dire la divinità monocera da cui ha preso avvio tutta la nostra discussione sui
Tricorni.
Esaminiamo adesso per sommi capi
le tre narrazioni mitiche appena enumerate, le quali portano alla ribalta una
simbologia tauromorfica dei 3 Colori alchemici che risulta assai affine a
quella delle due storie in precedenza analizzate di Europa ed Io. La prima di esse, relativa alla Triplice
Colorazione della Vitella di Minosse, si presenta cosí (145).
Un giorno
Glauco (146), figlio di Pasife e di
Minosse (147), mentre è ancora
fanciullo gioca a palla gioiosamente (od insegue un topo, secondo una diversa
versione), ma il dastino vuole che finisca in un <Vaso di Miele> (Imum Coeli), insomma gl’Inferi (148), entro il quale il poveretto
affoga miseramente (149). Non sapendo alcuno dove sia finito i genitori
lo cercano invano e decidono, pertanto, di consultatre l’oracolo di Delfi. Il responso dichiarava che chiunque fosse in
grado di stabilire una similitudine riguardo una nascita prodigiosa, avvenuta
in Creta negli ultimi tempi, sarebbe stato parimenti capace di risolvere
l’enigma della scomparsa del figlio del sovrano cretese. Avendo allora Minosse svolto delle indagini
attorno al quesito posto dall’oracolo, quegli viene a sapere della nascita d’un
portentosa Vitella (o Vitello); la quale era dotata della facoltà di mutare
colore 3 volte al giorno, passando dal Bianco al Rosso e poi al Nero (150).
Dapprima nessuno è capace di escogitare una similitudine che rispecchi
lo straordinario avvenimento, ma in seguito l’argivo Poliído (‘Colui
che-molto-sa’) riesce nel tentativo suggerendo l’immagine d’una mora di rovo o
di gelso. Dopodiché gli è ingiunto da parte
di Minosse di andare in cerca di Glauco.
Ed ecco che Poliído secondo
l’esatta previsione dell’oracolo, essendo rimasto incuriosito da un gufo o da
una civetta che inseguiva uno sciame d’api all’ingresso d’una cantina di vini,
viene attratto colà e trova Glauco immerso nella giara di miele a testa in
giú. Avendo indi ricevuto l’ordine dal
sovrano di resuscitare il fanciullo, ma non potendo purtroppo adempiere a tal
compito, viene rinchiuso in una tomba assieme al figlio del re; quando però nel
buio della tomba una Serpe s’avvicina al cadavere del fanciullo l’indovino
acheo, spaventato, la uccide. A questo
punto s’appressa un secondo Serpente, il quale avvistando la carcassa immobile
del compagno morto si ritira subitamente; ma torna di lí a poco con un’Erba (151), che strofina amorevolmente sul
corpo dell’altra Serpe resuscitandola.
Poliído, stupefatto, decide dunque d’imitare il gesto dello strano
rettile, passando quella medesima Erba sul corpo del cadavere del povero
Glauco, ottenendo cosí di far ritornare in vita il fanciullo. Avendo presto invocato aiuto, i due vengono
finalmente liberati; e l’apollineo indovino, che è forse da ritenere un
doppione di Asclepio, è alfine ricompensato da Minosse a causa dell’eccezionale
impresa compiuta, mediante cui aveva miracolosamente resuscitato Glauco dalla
morte.
r) Una variante caprina del tema
insita nella tipologia tricolore della Chimera
greca
e del corrispettivo hindu di siffatto mostro
Il personaggio di Poliído ricorre
pure nella storia parallela dell’uccisione della Chimera (152) – il Mostro dalla Testa di Leone, Corpo di Capra e Coda di
Serpente; ovvero dalla Testa di Capra e Corpo di Leone – da parte di
Bellerofonte. Costui (lett. ‘Uccisore di
Bellero’ oppure – in diversa congettura – ‘Colui che appare nello splendore’)
sembra fosse chiamato primariamente Crisàore (lett. ‘dall’Aurea Spada’), nome
che evidenzia in lui assopiti caratteri apollineo-solari. Poiché egli era figlio di Glauco il ‘Vecchio’
(ossia il Glauco corinzio-tebano) nonché nonno di Glauco il ‘Giovane’, è
perfettamente comprensibile come mai in certe pitture vascolari (153) il personaggio tenesse in mano
Tridente e Lancia, trattandosi insomma anche in tal caso di un’antica divinità
del mare.
È
interessante notare inoltre, per lo scopo che al momento ci prefiggiamo,
che cotal Bellerofóntēs – il fratello
mortale di Pegaso e l’immortale cavallo alato sono entrambi figli di Poseidone
e di Medusa, dal cui capo fuoriescono allorché la Gorgone è decapitata da
Perseo – era stato inviato da parte di Preto (re di Tirinto, ove egli si recato
dopo l’abbandono di Corinto) alla volta della Licia; colà il re Iobàte, suocero
di Preto, aveva da questi ricevuto delle tavolette sigillate attraverso le
quali il genero gli domandava di mandare a morte l’eroe corinzio, a motivo di
un preteso tentato adescamento compiuto da costui nei confronti della sua
consorte. Le cose erano andate in realtà
diversamente da quanto sosteneva purtroppo Preto, irretito dalla moglie, la
quale si era in verità invaghita di Bellerofonte. Il Re di Licia però, credendo alle parole del
genero, decide di affidare all’ospite il gravoso compito di annientare la
Chimera (gr. Chímaira = ‘Di un anno’
oppure ‘Capra’), la strana bestia nata nell’armento del Re di Caria (154).
Bellerofonte riesce, naturalmente, ad assolvere l’incarico affidatogli.
Nel seguito del racconto c’imbattiamo in un doppione maschile della Chimera,
cioè nel personaggio di Chimarro, il cui etimo ci rimanda alla voce Chímairos (‘Becco’). L’imbarcazione di costui aveva la prora
adorna delle immagini del Leone e della Serpe (155).
A nostro avviso, le
interpretazioni riguardanti la natura della Chimera sono in genere
inattendibili, un po’ come accade per la Sfinge. Ad essere siceri, il Graves (156) arriva molto vicino a quella che,
da parte nostra, riteniamo essere la soluzione vera del problema; allorquando
ingegnosamente suppone che la misteriosa figlia di Tifone ed Echidna – coniugi
parzialmente ofidiomorfici – abbia relazione nelle proprie componenti
simboliche con le posizioni solstiziali ed equinoziali di determinati Segni
Zodiacali di un tempo trascorso, ch’egli tuttavia non definisce
chiaramente. E neppure i confronti con
le metamorfosi stagionali di Dioniso, la tetracefalia di Fanete, la quadruplice
natura della Sfinge od il Tetramorfo della visione di Ezechiele appaiono
completamente azzeccati. La spiegazione
piú convincente ce la offre però altrove (157)
lo stesso autore irlandese, descrivendo una vetusta icona di Nereo; ossia
di un nume che, come si è già rilevato, rappresenta una delle molteplici
versioni del cd. ‘Vecchio del Mare’. In
tale dipinto vascolare Nereo viene ritratto con Coda di Pesce e dal corpo
senile di tale figura emanano, sorprendentemente, 3 emblematici animali: un
Leone, un Cervo ed una Vipera.
È nostra personale opinione
quindi che, tanto nel caso della Chímaira
(secondo una variante essa è reputata un ‘Mostro’ licio piuttosto che cario)
quanto in quello dell’Oceanide Nēreús, si abbia
a che fare con 3 momenti stagionali ben precisi; individuabili solo a patto di
considerare la Capra al pari d’ogni altro antilocapride un alter-ego
simbolicamente del Cervo, che è a sua volta un doppione orionico-lunare del
Toro Solare (158). Onde dedurremo in base a tale presupposto che
le componenti rispettivamente serpentine, antilocaprine (oppure cervine) e
leonine delle due figure esaminate
concernono esattamente i seguenti punti dell’anno ed i relativi Segni dello
Zodiaco (in riferimento al principio della Quarta Epoca): 1) l’Equinozio
Autunnale (Serpe > Scorpione), 2) l’Equinozio Primaverile (Capra o Cervo
> Toro), 3) il Solstizio Estivo (Leone).
Ebbene, che cosa significa
questo? Significa che tutti i miti
riguardanti siffatte manifestazioni teriomorfiche si rifanno alla simbologia
alchemica dei 3 Colori, dato che il Nero equivale all’Autunno e allo Scorpione,
il Bianco alla Primavera ed al Toro, il Rosso (o l’Oro) all’Estate ed al
Leone. Ad effettiva dimostrazione della
pertinenza della nostra spiegazione, rimandiamo ad un celebre passo delle Upaniṣad
(Śv.U.- iv. 5), la quale
dichiara (159):
La Capra
Bianco-rosso-nera, la quale ha generato molte altre creature (prajā) a lei simili, un Capro la monta
godendo; l’altro Capro l’abbandona, poiché di lei ha già goduto.
Accortamente il prof. Filippani
Ronconi (160) interpreta il Capro (Aja) che s’accoppia colla Femmina (Prakṛti) come il Puruṣa (l’Essenza);
e quello inagente come il Sat
(l’Essere), per cui il triplice colore non può esser altro che il Triguṇa.
Benché codesto modo d’intendere sia assolutamente appropriato, è lecito
anche valutare in maniera per cosí dire tecnica il contenuto del testo. Infatti, se è vero che le creature sono
definite prajā, il loro Creatore è chiamato per
l’appunto Prajāpati. Ma, dal momento che Prajāpati
viene identificato allo Yajña (l’Anno
Sacrificale), quale suo precipuo nome divino, è chiaro che un’interpretazione
del passo in rapporto alchemico colle principali stazioni solari annuali non è
certamente da respingere. Tanto piú, se
si tien conto che l’epiteto di Chímaira
in greco – già s’è detto – significa propriamente ‘Capra (161). Per le quadruplici
manifestazioni riportate dal Graves, che abbiamo prima elencato, deve invece
valere a titolo esemplificativo quel che si era asserito a proposito di Zagreo (162); giacché è ad esse inerente un
riferimento al solstizio Invernale (cioè all’Aquario), a volte contrassegnato
dal color Verde. Queste ultime dunque
sono da interpretare diversamente dalle altre, di tipo manifestamente
alchemico. Ossia in senso piú
strettamente cosmologico, quali vaghi emblemi delle permutazioni della Ruota
Celeste; sempre in relazione tuttavia, palese od occulta non importa, ad un
‘Quinto Fattore’ che invero le determina.
s) I ‘Tre Colori’ dell’Unicorno indiano,
menzionati da Ctesia, in corrispondenza alle ‘Tre Porzioni’
dell’Aureo
Corno di uno Mṛga Ekaśṛṅga puranico
Circa le mitiche <Mandrie>
del Re dell’Elide, di cui Eracle è costretto a pulire le ‘Stalle’ è presto
detto; dato che Augeías, il figlio di Elio, disponeva di 300
Tori Neri, 200 Stalloni Fulvi e 12 Tori Bianco-argentei (163). Siccome il Fulvo
corrisponde all’Oro, od al Rosso, ecco che pure in tale aneddoto ci troviamo di
fronte alla solita problematica di carattere alchemico. Piú difficile da comprendere è invece il
significato recondito della cifra misterica 512, determinata dalla somma del
numero degli animali (164).
Pure l’Unicorno indiano, secondo
le Indiká dello storiografo Ctesia
(di Cnido), era caratterizzato da una Triplice Colorazione; come in tutti gli
altri esempi ivi riportati ricorrevano presso tale figurazione il Nero, il
Bianco e il Rosso. Non è necessario
tuttavia fare affidamento sui postulati dello scrittore ionico, biograficamente
e metodologicamente successore di Erodoto (V sec. a.C.) nonché immediato
predecessore di Tucidide (V-IV sec.), per ottenere il dato; dal momento che
esso è piú chiaramente e comodamente ricavabile consultando il Varāha Purāṇa. Nel testo puranico ci troviamo di fronte in
ogni caso ad un ‘Corno Tripartito’ vero e proprio, le ‘Tre Porzioni’ dell’Aureo
Corno coincidendo con i ‘Tre Colori’ (165). Sarà d’uopo perciò tenere a mente quel che
avevamo sostenuto piú addietro (166) nei
confronti della Tricornía, intendendola quale espressione iconografica d’una
Bicornía avente un’Asse Centrale di vario tipo.
Il concetto, ovviamente, è da estendere a tutte le suddivisioni ternarie
analoghe che fanno da copricapi alle figure numinose. Abbiamo anche visto che, talora, la Tripodia
di Apollo si confonde con siffatta complessa simbologia delle Corna. La cosa ci porta esplicitamente a ritenere
che, si tratti di Piedi o di corna o di Protuberanze similari di molteplice
natura, l’applicazione del simbolismo rimane assolutamente invariata,
associando i tre supposti elementi cosí differenziati alla serie di colori piú
volte presi in considerazione. Questo
schema ternario di colorazione ricorre talmente di frequente in tutta l’area
indomediterranea, da esser costretti a ritenere che – fatte salve le debite
specificità locali, le quali non vanno mai trascurate – ogniqualvolta ci
s’imbatta in esso, sia sottintesa una tematica affine a quella dei
Tricorni. Non è difficile allora
sospettare che persino nelle storie convergenti di Europa e di Io, nonché nelle
altre menzionate, si avessero una volta a disposizione i medesimi tratti
simbolici permeanti la vicenda mitica dell’Unicorno indiano (167).
t) I personaggi di Asterio, Minosse e il Minotauro
vicendevoli
doppioni di Zeus, Poseidone e Dioniso
In conclusione, è lecito credere
che ciascuna delle manifestazioni zoomorfiche inserite nelle storie cretesi di
Asterio (168), di Minosse e del
Minotauro – ovvero le forme taurine di Zeus, Poseidone e Dioniso – sia
assimilabile all’immagine unicorne del Minotauro, da noi commentata analizzando
le varianti taurine (169) dell’Unicorno pescino.
In altre parole siamo del parere che il discorso in precedenza
affrontato sulla Tricornía vada esteso dagli aspetti antropomorfici della
doppia serie divina esaminata (170),
incluse le relative paredre ed i loro doppioni funzionali, agli aspetti
teriomorfici assunti dagli stessi numi.
Poiché lo ribadiamo, a titolo definitivo, Unicornía e Tricornía vanno
sempre di pari passo (171), a meno
che non si contrappongano; cosa che succede solo nel caso l’una sia
funzionalmente comparabile al ruolo giocato dal ‘Grande Pesce’, e l’altra a
quello sostenuto dal Tridente. In
ultimo, è necessario ancora rilevare che Teseo (da noi ritenuto senza mezzi
termini un’ipostasi solare del dio Febo, visto che egli assolve un compito
chiaramente demiurgico nel racconto del Minotauro) allorquando sopprime il
demonico toro cretese (condotto ad Argo da Eracle durante il proprio Septimus Labor e di poi liberato nella
pianura di Maratona) decide significativamente di sacrificarlo ad Apollo
Delfinio (172). Rammentiamo oltretutto che il Toro in
questione costituisce un allotipo interamente animalesco del fratellastro
semiteriomorfico di Arianna (173)
oppure di Taúros, il capo in forma
umana delle truppe di Minosse. Tauro si
configura altrimenti quale bianco toro inviato dal dio del mare e padre – od
alter-ego – di Asterio, qualora
s’identichi per un verso l’animale suddetto al binomio divino-umano
Poseidone-Minosse e per un altro al Minotauro.
Comprendiamo dunque il senso segreto del mistero avvolgente la
“scandalosa” progenie taurocefala di Pasife; unicorne, bicorne o tricorne che
fosse.
u) Il posto del Toro all’interno della mitologia
egea conforme a quello del Pesce
nell’indicare
emblematicamente la rinascita spirituale
od, alternativamente, l’unione suprema colla Divinità
È quindi assolutamente palese
ormai come il Toro (o Tauro) nella sua triplice manifestazione all’interno
della tradizione egeo-cretese (174),
ed in perfetta conformità al ruolo assegnato a cotesto animale nell’ambito
della tradizione induista, rivesta un compito interamente subordinato all’idea
della trasmissione della Rivelazione Primordiale; Rivelazione che è
contrassegnata però, in riferimento alla sua piú alta antichità, dall’emblema
ittiomorfico del Delfino, qualsivoglia sia la forma divina assunta – monocera o
meno, oppure di eccedenti, minuscole o naturali proporzioni – dal cetaceo
uranico-solare.
Di nuovo bisogna rammentare che
siffatte equivalenze non sono concepibili se non alla luce di segreti
insegnamenti cosmogonici. Tali
insegnamenti testimoniano del passaggio della costellazione del Toro al P.V.,
all’epoca cui fanno capo le figure taurine delle varie narrazioni consimili
delle quali si è fatta menzione; vale a dire l’inizio dell’Età del Ferro (175), ossia del Kaliyuga in termini indiani.
Il concetto latino di Ver Sacrum,
con un similare culto del Toro rispetto a quanto è accaduto in altre parti del
Mediterraneo, è da addebitare immancabilmente alla medesima dottrina
cosmologica, diffusa embrionalmente anche in ambiente italico.
Tuttavia, ciò premesso, siamo
convinti che le 3 figure regali cretesi (Asterio, Minosse, Dioniso) e le loro
raffigurazioni taurine non meno degli dèi del Triregnum ellenico (Zeus, Ade, Poseidone) debbano essere intese non
solo in senso castale; ma altresí quali simultanei rimandi a 3 distinte
generazioni divine, quelle facenti capo nell’Ellade classica a Crono, Zeus ed
Apollo. Però ci sono delle differenze
fra le prime due terne raffrontate. Lo
dimostra il diverso ruolo assunto nella seconda di esse da parte di Ade, parificato
a Dioniso (il che è come dire all’El.Terra)(176)
nella serie regale cretese rispetto a quella ellenica (di per sé maggiormente
arcaica, sebbene piú recente in Grecia cronologicamente); in cui il dio infero
assume un ruolo intermedio (cioè proprio del Mondo Intermedio anziché di quello
Subterreno), attinente all’El.Fuoco. In
altre parole, la terna Crono-Zeus-Apollo cosiccome la terna
Asterio-Minosse-Dioniso individua la ‘Triplice Via’, nella quale si suddivide
la Rivelazione una volta trasformatasi in Tradizione (177). Quella, insomma, che
l’induismo definisce nei testi sacri ‘Triplice Via del Sacrificio’.
v) Gli studi riduzionistici del Restelli
sull’Unicorno
hanno stabilito immotivate distinzioni
fra il Matsya
ed il Mṛga Ekaśṛṅga,
negando un valore astrale ed ontologico ai
medesimi:
nostre obiezioni al riguardo
Circa il motivo dell’Unicorno piú
in generale dobbiamo tuttavia annotare che un nostro collega di studi, in un
suo pur ottimo saggio sull’argomento (stando almeno all’accurata documentazione
reperita sul soggetto ed alla capacità di analisi ivi dimostrata, ancorché il
testo da lui compilato risulti di stampo accademico ed assolutamente
antitradizionale, per il fine ch’egli si è proposto dichiaratamente di
deastralizzare e ridurre a pura allegoria etica l’intera vicenda del mitico
animale), ha posto una distinzione – a nostro avviso piuttosto fittizia – fra
il motivo dei “falsi unicorni” e quello a proprio giudizio effettivo del “vero
Unicorno”, accreditando solo a quest’ultimo una tematica complessa e ben
definita. Nella prima categoria egli ha
relegato invece il Matsya Ekaśṛṅga,
attribuendo per giunta alla Zanna del Narvalo – che ha di sicuro fatto da
modello biologico in principio al simbolo – un semplice valore folclorico (in
senso apotropaico) e commerciale (178). Certamente, è doveroso riconoscerlo, il
Restelli ha ciononostante una buona parte di ragione; soprattutto laddove offre
testimonianza iconografica (179) della deleteria confusione insita
nella mente dei naturalisti moderni, sospesi com’erano fra l’acquisizione
pioneristica di un nuovo apparato di conoscenze e la conservazione
ereditaria della cultura classica e
medievale. A tal punto che essi
mettevano lo zoomorfismo mitico quasi alla stregua delle forme biologiche,
mostrando indubitabili lacune rispetto alla propria consapevolezza della reale
natura degli esseri da loro descritti e raffigurati. Cosí da finire per appaiare, ad es., il
Narvalo in carne ed ossa ad un fantastico “Unicorno del Mare” con ampio Corno
Spiralico e Testa Equina. Ciò tanto piú
che, un effettivo culto polare del Narvalo non è mai stato sino a tutt’oggi
bene documentato e commentato in tutte le sue possibili valenze simboliche, a
parte un nostro articolo di oltre un decennio fa (180); onde ci proponiamo, se ci sarà concessa di seguito a questa
opportunità una nuova possibilità editoriale, di farlo colla stessa casa
editrice in un secondo saggio di stampo viceversa cosmologico ed iconologico (181), a completamento del presente.
Ma prima vorremmo aggiungere una
premessa metodologica di carattere generale, in funzione di commento critico
alla tesi del Restelli; che siamo costretti a respingere nettamente nel
contenuto, se ci poniamo da un punto di vista non accademico, malgrado la bontà
innegabile dello stile adottato dal nostro collega di studi e la ricchezza
lodevole delle sue citazioni. Avendo
intenzione da parte nostra di trattare in dettaglio la mitografia del Cervide
Unicorne in un altro saggio futuro (182),
avvertiamo il lettore che vorremmo riprendere in breve lo stesso soggetto ivi
affrontato del Pesce Unicorne per ribadire – al contrario di ciò che è stato
sostenuto dal nostro collega di studi – il parallelismo indubbio tra le due
tematiche considerate; parallelismo ch’è determinato non solo dalla questione
del Corno in sé (183), ma pure dalla
comune connessione delle due tematiche menzionate col motivo dell’Arca Celeste,
a propria volta correlato al costante intervento sulla scena del mito d’una
sorta di Dāśarāja. Circa la supposta astralizzazione del mito
dell’Unicorno immaginata dal N. (184),
va chiarito innanzitutto che ogni mitologhema si fonda immancabilmente su una
base astrale, che gli fa da supporto naturale in funzione ontologica, ovvero
per richiamare una verità su un piano maggiormente elevato.
La simbologia comprende infatti
di per sé piú piani interpretativi, che vanno di pari passo colle suddivisioni
molteplici del Verbo. Non si tratta
perciò di una semplice e generica polivalenza del simbolo, ma di livelli
esegetici del tutto definiti. Come abbiamo
già avuto modo di accennare piú addietro parlando dei ‘Quattro Passi’ di Trivikrama, il Ṛgveda c’insegna – per esser maggiormente
precisi – che la Parola Divina è quadruplice nella sua natura (185), sfumature di significato a
parte; e ciò si spiega col fatto che quattro sono i Mondi, quantunque si
possano tratteggiare ulteriori ripartizioni interne per ciascuno di essi. Quattro sono d’altra parte anche i Grandi
Elementi (scr. Mahābhūta), se si esclude la Quintessenza, che
è il loro comune Principio donde essi provengono e dipendono; quattro sono, di conseguenza, anche le ‘Stirpi’
umane e le ‘Generazioni divine’. Di
nuovo, quattro risultano essere le ‘Caste’ e non solo in ambito iaphetico, od
indoeuropeo che dir si voglia (186). È a queste categorie, difatti, che sono
indirizzati i ‘Quattro Quarti’ della Parola; codesti ‘Quarti, concepiti
iconologicamente a volte come ‘Corna’ o ‘Gambe’ (187), hanno peraltro un aspetto contemporaneamente epocale,
annuale, mensile e giornaliero. Ciò spiega l’uso di determinate formule rituali
appropriate, in rapporto all’epoca, al momento stagionale, alla fase lunare ed
all’ora del giorno. In definitiva
bisogna pensare ai simboli, le pietre miliari dei miti, come a segni i quali si
dimostrano intrinsecamente in grado di rivelare al nostro intelletto i vari gradi
di estensione della Manifestazione.
Quindi, si debbono intendere in ogni mitema 4 principali e diversificate
linee interpretative: 1) una prima strettamente letterale ovvero poetica e
letteraria, capace di descrivere storicamente e culturalmente gli eventi
narrati; una seconda etico-allegorica, tesa a coglierne i lati morali e
religiosi, o teologici se preferiamo; 3) una terza, specificatamente
cosmologica, applicantesi appunto – come suggerivasi sopra – in ambito astrale
o cosmografico; 4) una quarta alfine prettamente metafisica, vale a dire
direttamente tesa verso una prospettiva oltremondana.
z) Distinzione effettiva fra il Matsya ef il Mṛga
Ekaśṛṅga
Quel che fondamentalmente
distingue le due vicende, del Matsyāvatāra e del Ṛṣyaśṛṅga,
è il carattere acqueo-oceanico del Pesce Avatarico brahmano-vishnuita di contro
a quello acqueo-pluviale del ṛṣi shivaita (188). Ṛṣyaśṛṅga
dovrebbe avere letteralmente un corno di cervo, o di daino, essendo figlio
d’una cerva o d’una daina (189): in
questa maniera era rappresentato effettivamente nell’iconografia antica, ma
quella posteriore gli ha attribuito un’escrescenza che assomiglia alle
protuberanze cornee dell’antilope o della gazzella (190). La sua paredra è Śāntā, con cui è
talora raffigurato in amplesso (mithuna)(191).
Al Matsya e al Mṛga Ekaśṛṅga
fanno pendant in area egeo-cretese il
Delfino Monocero, presumibilmente apollineo,
del sigillo di Cnosso ed Illo, il figlio unicorne di Eracle,
caratterizzato da un semizoomorfismo di tipo cervino alla maniera del giovane ṛṣi hindu.
Vi sono però nella tradizione
ellenica altre forme monocere, come abbiamo visto in precedenza: Amaltea, il
Minotauro ed il Cervo dal nome ignoto il cui corno viene impugnato da Artemide
(divenuta la ‘Donna Selvaggia’ del Tardo Medioevo)(192) ecc. Una di queste,
dai tratti decisamente piú ambigui è Acheloo; il quale appare per certi tratti
un nume oceanico-fluviale, legato alle acque correnti o perenni. Seppure certi altri tratti – si analizzi la
sua duplice fisionomia tauro-ofidica – lo denotino quale deità
atmosferico-pluviale, associabile ai Segni zodiacali del Toro e dello
Scorpione, fungenti a vicenda da contrassegni degli equinozi attorno alla
seconda metà del V mill. a.C. Se il
Cervo Unicorne di Artemide e le sue controparti in forma di gazzella od antilope, nonché Illo, vanno paragonati nel loro insieme alle varie
forme iconologiche di Rṣyaśṛṅga, volendo invece
allineare il suddetto Acheloo ad un corrispettivo indiano non ci rimarrebbe che
rivolgerci al Makara. Questo terribile Mostro, incarnazione secondo
Coomaraswamy dell’Essenza delle Acque, è ritratto spesso bicorne (193); o forse con 2 Zanne rivolte
verso l’alto contrastanti in maniera innaturale con il Corpo di Coccodrillo e
la Coda Pescina, oltreché in possesso d’una Proboscide Elefantina. Abbiamo già spiegato, piú addietro, la
correlazione esistente tra siffatta proboscide e il corno aureo del Pesce
Avatarico; tanto piú che, come s’è visto in altra occasione, un demone cosí
effigiato in un testo puranico adempie da controparte asurica del Matsya.
In effetti, sono ben evidenti gli elementi comuni all’Achelôos
greco e al Makara indiano, specie
rammentandoci di quel che abbiamo già stabilito riguardo i tratti del dio
fluviale (194). Ossia, le Corna taurine dell’uno fanno il
paio colle Zanne Elefantine dell’altro; proprio come il ‘Corno Divelto’ del
primo, investito del ruolo specifico di Conucopia, equivale senza dubbio alla
Proboscite del secondo – qualora s’intenda assumere il suddetto corno in funzione
assiale. Osserviamo inoltre che il Soma
Ofidico di Acheloo non è troppo diversificato da un punto di vista comparativo
rispetto al corpo, altrettanto di rettile, dell’analogo mostro hindu; la Coda
Pescina costituisce inoltre un particolare comune ad entrambi, assolutamente da
non sottovalutare. Del resto la Coda Ittiomorfica del Makara ricopre in India, per via della sua unicità, la medesima
parte simbolica dell’Unico Piede Caprino dell’Ajaikapāda.
Benché, invero, c’imbattiamo in una Zampa di Elefante nella maggiore
rappresentazione figurativa a nostra disposizione (195). Ecco allora che il Pūrṇakumbha
di costui (Nidhiśṛṅga) si può
facilmente ricondurre alla Proboscide del cd. ’Mostro delle Acque’. Il Makara,
ovviamente. Cfr. in Grecia sia la
stretta affinità fra la Cauda Piscis
di Acheloo e l’Aigípous (196) di Egipan, sia l’associazione
delle due divinità ricordate colla Cornucopia. E come Ajaikapāda ovvero il Makara è una variante morfologica – se
preferiamo, una manifestazione – di Ahir
Budhnya, del pari Egipan (var. Aíx, in
forma titanica) ossia Acheloo lo è di Pitone.
Dunque, tenendo conto che il Makara-rāśi corrisponde zodiacalmente all’Aigókeros dell’astrologia ellenica,
dominato da Crono, sarà possibile a questo punto scovare una parentela
filologica fra il gr. A-chel-ó-os ed
il scr. A-kāl-a; la quale è dovuta al fatto che il
pref. a- possiede nelle due voci
riportate un esclusivo valore privativo, la base *kāl/kel-
essendo il vero tema radicale di entrambe.
In sanscrito, precisamente nella letteratura upanishadica (Mai.U.- vi. 15), scorgiamo che il
concetto di Akāla (il ‘Non-tempo’) si fonda
sull’idea rigorosamente affine di Avyakta
(il ‘Non Manifestato’). Ma relativamente
ad esso non si’incontra alcunché a semplice livello figurativo, anche se è del
tutto ragionevole ritenere che pure il ‘Corno Unico’ di Acheloo possa riferirsi
all’Axis Mundi, su cui s’impernia il
movimento della Ruota Celeste, che gl’Indiani chiamano Kāla-cakra. Se il nostro ragionamento risulta corretto
allora è chiaro che Eracle, l’inesorabile avversario dell’Oceanide, svolge il
compito di Eroe solare che sprona il Cielo sotto forma di Serpente Unicorne (in
altre parole nella veste tanto temporale quanto atemporale) a creare. Si esamini in parallelo l’iranico Zurvān, pure lui ritratto unicorne in una
celebre effigie (197); questi,
mediante l’appellativo Akarana
(‘Infinito’), potrebbe rientrare a pieno titolo nel quadro delle celesti deità
monocere dal profilo saturnino poc’anzi delineate.
Il Corno Singolo od Intermedio
che sia, si è sottolineato in precedenza, è simbolicamente correlato al Fallo
oltreché alla Gamba Unica. Una volta di
piú il rapporto di reciprocità è dimostrato dal fatto che Rsyaśṛṅga, il celebre asceta unicorne del Rāmāyana,
secondo una tradizione diffusa presso la località indiana di Śṛṅgeri
(198) sarebbe stato alfine
riassorbito dal linga del tempio di Śṛṅgeśvara;
ove, secondo un’informazione del Vr.P.-
ccxvi. 5 (ma il dato parrebbe non sia venuto a conoscenza del Restelli in
occasione della stesura della sua tesi e del suo libro, né di altri studiosi
dopo di lui)(199) sarebbe stata
installata la base del Corno Tripartito di Śiva apparso a Gokarṇa sotto aspetto
di Aureo Mṛga e per l’appunto denominato Gokarṇeśvara. Codesto corno, cui abbiamo fatto cenno piú
addietro (200), era di per sé
assimilato al liṅga chiamato Kirāteśvara, dedicato al signore della
caccia himalayano. Donde si comprende
come mai nella raffigurazione pentacefala della divinità suprema dell’induismo
(in origine Brahmā ed in seguito, per riemersione
della precedente influenza dravidica, Śiva), qualora s’intenda rappresentare non già l’Anno Sacrificale
bensí i 5 Elementi, compaiano specialmente dall’Epoca Gupta in poi i cd. Caturmukhaliṅga; cioè delle
icone falliche di carattere śaiva
che secondo la dottrina pāśupata (201) erano consacrate a Mahādeva in funzione
di Bhūtāpati (lett. ‘Signore degli Elementi’), vale a dire di
signore dell’intero universo. I ‘Quattro
Volti’ (Caturmukha) frontali,
equivalenti alle ‘Quattro Corna’ dello Yajña,
individuerebbero degli altrettanto fondamentali aspetti del nume; noti coi nomi
di Aghora, Tatpuruṣa, Sadyojāta e Vāmadeva. Invece la struttura centrale del fallo vero e
proprio alluderebbe alla natura quintessenziale ed eterica della mūrti definita Īśāna. L’aspetto totalmente trascendente e
sempiterno del dio è colto altrimenti nell’arte hindu mediante la realizzazione
iconografica d’una figura divina con una testa rivolta all’insú, sormontante
verticalmente le altre 4 situate frontalmente; o comunque disposta centralmente
rispetto a queste (Sadāśivamūrti o Pañcanana), che viceversa sono rivolte in direzione dei Punti
Cardinali oppure sono poste di fianco alla quinta, collocata in posizione
intermedia ed a volte anche sovrastante le medesime.
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