martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo VIII






Cap. VIII

Il Pesce nel Cristianesimo
 e il Re Pescatore nel folclore indo-celtico




a)  Il culto del Pesce e del Pescatore
 nel Cristianesimo tardoantico ed in quello medievale

Il Papa cattolico funge da <pescatore di uomini> sulle orme di San Pietro, ed i vescovi sono pure investiti di tale funzione, dato che portano la mitria – il copricapo foggiato a bocca di pesce verso l’alto – in ricordo del Cristo-pesce.  Vedasi l’acronimo greco ΙΧΘΥΣ interpretato come ηςσος Χριστός Θεοῦ Υἱὀς Σωτήρ (Gesú Cristo Figlio di Dio Salvatore).  Presa a sé stante, codesta affermazione parrebbe escludere la Chiesa Cattolica e tutto il Cristianesimo in generale da tutta la vicenda biblica precedente, facendo dell’Incarnazione di Gesú il punto culminante di tutta la storia umana da Adamo in poi.  Ma esamineremo fra breve che le cose stanno cosí solo in apparenza, benché in effetti questo sia stato il punto di vista di certuni quali ad es. Sant’Agostino, i quali ovviamente hanno influenzato la dottrina cristiana nei secoli successivi; tuttavia il punto di vista del Cristianesimo primitivo, come vedremo, era assai piú lungimirante.  Si veda in particolare ciò che è asserito a chiare lettere nei Vangeli Apocrifi, peculiarmente nel Vangelo di Tommaso, il quale ci permetterà di scorgere quanto dichiarato dai Sinottici in una nuova luce.
Per molto tempo è stato annunciato ai credenti e non, su base dottrinale evangelica, che la nascita di Cristo era l’Avvento del Figlio Unigenito, ma è fin troppo evidente agli studiosi di Storia delle Religioni i quali non vogliano cadere nel proselitismo che tal punto si riferisce al rapporto ontologico del Redentore coll’Unità Divina, non ad un fatto storico.  Eppure, proprio a causa di tale enunciazione simbolica, Gesú è stato considerato fino a non molto tempo fa anche sul piano strettamente familiare un figlio unico nato da una vergine.  Vi è addirittura chi ha cercato di dimostrare, in dispregio nei confronti della dottrina avatarica indiana, che la partenogenesi in certe condizioni si verifica anche fra gli animali.  Simili assurde dimostrazioni, come quella delle proprietà scientifiche dell’argilla a presunta riprova che l’Uomo è stato davvero plasmato da questa sostanza materiale attraverso il Soffio Divino, lasciano il tempo che trovano.  Basterebbe studiare un po’ d’esoterismo per capire come le cose stiano veramente.  Invece, purtroppo, vi sono degli studiosi pur intellettualmente dotati che nonostante i loro interessi di questo tipo sembrano snobbarlo per partito preso.  Uno stesso atteggiamento sprezzante si nota, purtroppo, fra i rappresentanti ufficiali delle varie religioni.  Tanto che, se uno offre spiegazioni maggiormente approfondite, rischia nell’ambiente odierno (ma accadeva anche in passato) di passare per eretico.  Non siamo qui per fare dello storicismo a vanvera, quel che ci preme principalmente nel nostro discorso – a questo punto il lettore lo avrà sicuramente inteso – è capire a beneficio di chi legge e ovviamente pure nostro quel che unisce le religioni piuttosto che dividerle.  Se ci siamo applicati all’India e alla Grecia piú che ad altre terre è per il fatto che proprio là sono esistiti dei paradigmi culturali applicabili all’intera nostra umanità.
Abbiamo sottolineato che il nostro punto di vista è quello dell’esoterismo, non della teologia o dell’accademismo storico-religioso, pur tenendo conto nella nostra disamina di punti di vista vari: la vera accademia d’un tempo, del resto, sconfinava coll’esoterismo ed è questa eredità per cosí dire ‘platonica’ che è stata tradita o banalizzata in senso per cosí dire ‘aristotelico’.  Questa nostra ricerca invece, peculiarmente, intende collocarsi al di là di ogni confine del sapere.  Per questo abbiamo discusso di quando in quando in parallelo problemi di carattere storico, archeologico od antropologico, utilizzando sia i nostri molteplici studi accademici sia gli approfondimenti che di essi abbiamo fatto senza pregiudizio alcuno nelle fasi succesive della nostra vita privata, menzionando il punto di vista di valenti professori universitari, da noi spesso condiviso.  Un doppio percorso iniziatico a livello personale, l’uno di natura vishnuita e l’altro di natura mista (shaktico-shivaita)(1), ci ha permesso inoltre di conoscere direttamente gli elementi da impastare per ottenere un tutto omogeneo.  Di solito ci viene spiegato dagli esoteristi eruditi (2) che ciò che unisce le religioni varie è appunto l’esoterismo.  Non vogliamo metter in discussione questo assioma, certamente è cosí.  L’esoterismo è un raggio che parte dalla circonferenza ed arriva diretto al centro del cerchio.  Se passiamo tuttavia da una rappresentazione semplicemente grafica ad una dinamica, sostituendo al cerchio la ruota, non si potrà piú dire che nell’asse della medesima sia contenuta l’intera ruota, quantunque sia l’asse a determinarne il movimento.  A meno d’intendere il centro o l’asse alla maniera taoista cinese, quale immagine cioè non già del ‘Soffio Creatore’, bensí del ‘Grande Uno’; da non confondere coll’Uno, benché in effetti talora ciò succeda anche nei testi, laddove si riduca la funzione del Principio al solo aspetto creativo riducendo il Tai-i al semplice I.  Nell’asse, insomma, è contenuto unicamente il principio del movimento (3).  La rotazione nella sua complessità è un’immagine di ciò che i cristiani definiscono ‘Creazione’ e gl’indú ‘Manifestazione’ (Vyakti).  Orbene, c’insegna l’India che la Vyakti può essere essa stessa divina siccome Potenza (Śakti) ed, intendendola nel suo aspetto supremo, (Ādiśakti)(4) può anche superare spiritualmente il Principio della Manifestazione (5).  Detto in parole lievemente diverse, la Ruota può essere concepita come superiore all’Asse.  Dunque, non si può pensare che il Cristianesimo nella sua dimensione originaria non arrivasse a tanto e che fosse solamente il messaggio spirituale contenuto nella teologia – pur valida nel proprio ambito – o peggio che equivalesse al ridimensionamento che di essa è stato fatto – seppur con buoni intenti – ad uso popolare od infantile nel catechismo.  È evidente che, se il Cristianesimo è stato almeno in origine una tradizione spirituale completa (e da parte nostra, dopo molti studi contradditori, non lo dubitiamo piú a differenza d’una volta), non poteva ignorare certi presupposti.  Perciò deve esserci un senso segreto interno al Nuovo Testamento che, nonostante sia stato messo in evidenza meritoriamente da parte di qualcuno da vari secoli e da parte di altri anche di recente, per i piú è rimasto lettera morta.  Naturalmente, non ci riferiamo a semplici esegeti dottrinali che sono andati oltre la lettera, ma che alla fine non son giunti a risultati concreti determinanti.  Qui non si tratta di mere allegorie, bensí di interpretazioni maggiormente elevate, da porre sul piano cosmologico od ontologico.  Frammenti di comprensione non letterale dei testi si trovano un po’ dappertutto, ma dove ci viene spiegato in profondità ad esempio il simbolismo ittico del Cristo?  Da nessuna parte, crediamo.  Eppure, vi sono stati grandi letterati e sapienti come Dante e M.Eckart, che ci hanno illustrato il Cristianesimo in varie sfaccettature; quantunque il mistero dei misteri, ossia la vera natura dell’ ΙΧΘΥΣ, non sia reperibile in nessuno scritto a quanto ne sappiamo.  Conosciamo poco purtroppo Gregorio Palamas, la figura piú fulgente dell’Ortodossia, altrimenti potremmo tentar di carpir qualcosa dai suoi scritti.  Forse, comunque, neanche quel grandissimo visionario ha riflettuto su codesto mistero.   Altri quali il Böhme del Mysterium Magnum hanno provato a raccontarci la storia dell’Antico Testamento in chiave cristiana (6), ma anche qui pur nell’ammirazione per tanta sapienza non troviamo pane per i nostri denti.  Lo stesso Meister Eckart, nonostante la sua indubbia elevazione di tipo shankariano (7), non ci pare abbia riflettuto opportunamente su questo sommo mistero.  A meno che qualcuno possa dimostrare il contrario, cosa che onestamente sarebbe senz’altro da accogliere.
Prima d’affrontare il problema di petto su quanto ci proponiamo di dimostrare, vogliamo continuare in breve il discorso già intrapreso all’inizio di codesto paragrafo sulla differenza fra gli aspetti dottrinali e quelli storici del Cristianesimo.  Com’è noto, nella Chiesa della Maddalena di Rennes-le-Château s’incontrano stranamente 2 Bambin Gesú anziché 1.  Giuseppe e Maria, infatti, tengono in mano un <Figliuolo> a testa.    La doppia Natività è stata interpretata da certuni (8) come la presenza di un <Gemello> (con allusione all’apostolo Tommaso, dall’ebr. tomā = ‘gemello’) accanto al Divino Figliuolo.  Segno che, in una diversa prospettiva, anche determinati fatti storici possono essere colti nella loro idealità.  Il che vale per Ka e Balarāma, per Eracle ed Ificle, nonché per Romolo e Remo; non vediamo perché ciò non possa valere per Gesú e Tommaso (9).  Tanto piú che Gesú era sacerdote secondo l’Ordine di Melchisedek (10), il fratello di Noè; ciò significava non solo che apparteneva alla Via Essena, cosmologicamente basata sul calendario solare noaico (11), anziché alla Via Cabalista (12) imperniata sul calendario lunare mosaico, ma che la via da lui praticata era affine a quella noaica anche se non esattamente la stessa.  E non a caso, come abbiamo cercato di dimostrare in vari nostri articoli (13), Noè è comparativamente identificabile nel ruolo mitico-leggendario a Krishna, Eracle e Romolo; cosí come Melchisedek equivale a Balarama, Ificle e Remo.  Si tratta di personaggi tutti legati, in qualche modo, al calendario solare duodenario; in altre parole, allo Zodiaco Solare.  Per questo presso di loro prevale la mistica del numero Dodici, cui si può accludere un tredicesimo personaggio, che ne è visibilmente la sintesi.  Ciò vale tanto per Eracle, quanto per Ka (i due venivano omologati anche nell’Antichità, non si trattava – come si suol dire superficialmente – di sincretismo, ma semmai di sincresi e cioè di perfetta equivalenza); tanto per Romolo, quanto per Cristo.  Anche nei Misteri Graalici, legati al Templarismo, vigeva il segreto del ‘Tredicesimo Seggio’ della Tavola Rotonda; un <seggio periglioso>, su cui solo Galahad era in grado di sedere a causa delle sue virtú interiori.  Nel Lancelot è infatti Galahad a realizzare appieno i ‘Misteri Maggiori’, quelli della’identificazione a Cristo; non per niente nel Castello di Corbenic indossa simbolicamente la Tunica Rossa, mentre Parsifal ha la Bianca.  La simbologia  alchemica tuttavia varia da un testo all’altro, giacché nel Parzifal è appunto Parzifal a fungere da ‘Cavaliere Rosso’, come è chiaramente raffigurato anche nell’iconografia.  Ed è Parzifal difatti che porta a termine la questua, ripristinando Amfortas nelle sue valenze naturali; queste potenzialità in Von Eschenbach non vanno interpretate semplicemente nel senso d’un rispristino dello stato paradisiaco, magari colla scusa che il simbolismo dei colori varia dal Bianco al Rosso e viceversa (14).  La ‘Grande Opera’ alchemica è immancabilmente l’<Opera al Rosso>, la Rubēdo; giammai l’<Opera al Bianco>, l’Albēdo.



b)  Il <Pesce Grande> fra i piccoli nel Vangelo di Tommaso

I 114 lógia (‘aforismi, massime, sentenze’) del Vangelo di Tommaso s’inseriscono per il contenuto a giudizio di A.G.B. Higgins (15) fra gli Apocrifi dei Sinottici, non fra i testi propriamente gnostici; e in alcuni casi, per la loro probabile alta antichità, fra le ipsissima verba Christi.  Per G.W. Mc Rae, invece, si tratta dello sviluppo gnostico di fonti e compilatori non gnostici.  Di parere simile è K. Grobel, in base a quanto riporta l’Erbetta, cui ci rifacciamo per codesta breve disamina.  Mentre O. Cullmann ha evidenziato il valore di tale testo al fine della ricerca sui vangeli canonici (16).  H.C. Kee s’è dimostrato scettico, viceversa, riguardo la possibilità che si abbia a che fare con lógia autentici di Cristo.  W. Schrage parla addirittura di esegesi gnostica dei Sinottici ed è in effetti questo che appare di primo acchito.  Secondo A. Strobel alcuni lógia, come il lóg.86, mostrano la derivazione da una tradizione e dei testi siriaci precedenti.  Vi è poi chi definisce il vangelo in questione persino un’opera sincretista (ma sarebbe meglio dire, semmai, sincretica) gnostico-cristiana, sia pur in dipendenza dai Sinottici.  K.H. Rengstorf, piú moderatamente, allude ad un antico kḗrӯgma (‘sermone’) cristiano con esegesi gnostica in qualche lógion sparso qua e là.
La Patrologia Syriaca- 42 ss tramanda che l’apostolo Giuda Tommaso, non meno di Filippo e Matteo (vedi i Vangeli che sono loro attribuiti), fu incaricato dal Salvatore di metter per iscritto i suoi insegnamenti.  Cosa che non dissimilmente, sappiamo, deve esser successo con ogni altro profeta.  Il fatto che codesto vangelo sia stato uno dei 3 principali testi in uso presso i sodalizi gnostico-cristiani prova solamente che gli Gnostici preferivano affidarsi al messaggio autentico del Salvatore, non che siffatto vangelo fosse di scuola gnostica.  Parlare di Gnosi non significa essere gnostici, tutte le vie spirituali affrontano questo tema.  Tuttavia non si può negare che certi modi interpretativi ivi contenuti somiglino a quelli propriamente gnostici.  Non si tratta però d’interpolazioni a posteriori, ma semmai di tratti comuni alle due scuole, gnostica ed essena.  In fondo l’una è lontanamente derivata dall’altra (nel senso che si rifanno rispettivamente a Seth e a Noè), seppure la seconda abbia tratti etico-fideistici accentuati rispetto alla prima.  La vera scuola gnostica è maggiormente fredda ed intellettuale, al modo dello Shivaismo di Destra in India nei confronti del Vishnusimo.  Ivi non teniamo in considerazione la Gnosi libertina, che rammenta al contrario lo Shivaismo di Sinistra.  Torneremo sul precedente accostamento piú innanzi.  Poiché l’Evangelium Thomae è chiaramente un vangelo esseno, in particolare nazareo, come vuole il Gardner (17).  E se negativo fu al riguardo il parere di Origene ed Eusebio, di Sant’Ambrogio e del Venerabile Beda (18) rispetto al contenuto, è chiaro che tutti questi autori poco o nulla sapevano di esoterismo.  Oltre al fatto che il Nazarenismo, coll’acclusa Chiesa di Gerusalemme, fu messo da parte pian piano dalla Chiesa cristiana delle origini.  D’altronde è scritto chiaramente nel suddetto vangelo che Gesú affidava i Misteri solo a chi ne era degno (lóg.62), come ad es. al fratello-gemello Tommaso.  Non solo, ma che una volta (ll. 12-3) mentre Pietro lo lodava come “angelo giusto” e Matteo lo paragonava a “filosofo intelligente”, Tommaso si era rifiutato di definirlo in qualche modo ed allora Lui lo aveva preso da parte e gli aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio.  Avendo indi la curiosità degli altri due Apostoli prevalso circa le cose sussurrate al fratello dal Maestro, Tommaso rispose cosí: “Se vi dicessi una sola delle parole che mi ha dette, prendereste sassi e li scagliereste contro di me, dai sassi uscirebbe poi fuoco e vi brucerebbe” (19).  Il che significa, tradotto in un linguaggio non metaforico, che il messaggio di Cristo aveva un doppio aspetto, exoterico (per quelli come Pietro) ed esoterico (per quelli come Tommaso).  La Verità non può essere comunicata tutt’intiera alle menti deboli, perché altrimenti finisce per i malcapitati come con quel discepolo islamico di quella favola significativa; in cui, essendogli stata resa nota la formula per ottenere la Resurrezione che vinceva tutti i mali del mondo questi l’applicò in modo sbagliato e provò a far risorgere delle ossa che trovò per caso lungo la via, sennonché quelle erano le ossa d’un leone e la bestia in men che non si dica mangiò l’incauto viandante…  Affermazioni quali “la messe è davvero grande, ma gli operai sono pochi” (lóg.73), ci fa capire la differenza fra la comprensione reale della dottrina o la sua messa in pratica operativa e l’abulia quasi generale od il poco discernimento di fronte al messaggio spirituale emesso dal Maestro.  E ancora, in parallelo coll’Evangelium Philippi- lxvii si consideri il riferimento del lóg.83 alle immagini archetipali come veli della Luce occulta del Padre, donde provengono.  Al lg. 103 si aggiunge che “il Regno del Padre è sparso sulla terra”, sebbene gli uomini non lo scorgano.  Come a dire che il Paradiso Terrestre non è mai terminato per la Natura (piante e animali), ma è sparito inesorabilmente dal cuore dell’uomo.
Vi è testimonianza (Cirillo di Gerusalemme ecc.) del passaggio di siffatto Vangelo prima agli Gnostici ed in seguito ai Manichei, passaggio talora confuso colla paternità del testo.  Prima della scoperta della biblioteca di Nag Hammādi, quel che si sapeva del Vangelo di Tommaso si riduceva alla citazione che ne aveva fatto il teologo Ippolito di Roma (II-III sec.), ma non sembra ch’egli si riferisse allo stesso testo al completo che conosciamo ora in lingua copta (20).  Questo scritto – di cui si presume come per altri scritti del genere un originale in greco – è invece sicuramente collegato cogli Atti di Tommaso, che si crede sia stato composto appena dopo (inizio del III sec.), per diffondersi in seguito (fra la fine del III e l’inizio del IV) in ambiente encratita.  Gli Encratiti erano coloro che cercavano di padroneggiare istinti e passioni ad un fine etico.  La data di stesura è ritenuta essere c. il 150, il che non significa che sia stato composto a quell’epoca.  La Siria pare risultare il suo luogo di composizione (21).  In generale oggi il suddetto vangelo viene considerato frutto d’una tradizione indipendente rispetto ai Sinottici.  Per quanto chi scrive non simpatizzi molto per Cullman, occorre precisare che in questo caso il professore luterano strasburghese et al. sulla stessa lunghezza d’onda ci sembra abbiano capito bene il problema: ovvero, soltanto la redazione ultima può essere stata trasposta in chiave gnostica, ma la fonte deve essere stata un’altra.  Supponamo noi, sulla base del Gardner, che essa fosse quasi sicuramente nazarea; con una precisazione, tuttavia.  Se è vero che Gesú apparteneva all’Ordine di Melchisedek (22), bisogna ricordare che questi era il fratello di Noè e perciò rappresentava un diversificato culto rispetto a quello noaico.  Azzardiamo affermare, in proposito, l’ipotesi che Nazarenismo e Qumranismo non fossero altro che il rispettivo rimando ebraico vicendevolmente al culto melchisedekita e noaico.   Significativamente anche i Toltechi distinguevano, in rapporto ad epoca equivalente (la ‘loro ‘Terza Era’, al dire di R. Girard), una venerazione rivolta ad un Dio Verde di tipo sethita rispetto ad una dedicata ad un Dio Giallo di genere noaico.  Si faccia attenzione che Melchisedek non raffigura un alter-ego di Seth, se non per trasposizione superiore (cosa che a volte in effetti avviene, pur essendo interpretazione secondaria), ma piuttosto un riflesso di Seth – nel senso d’un continuità del culto – in epoca noaica (23).  Ed altrettanto vale per Sem, benché in questo caso la trasposizione sia inferiore.
Scrive l’Erbetta: ”…questo Tommaso, considerato piú da vicino, mostra di essere lontano dal cristianesimo apostolico.   L’aspro dualismo fra il mondo passeggero e lo spirito eterno, presente qua e là nel mondo, l’unico valore esistente, suggerisce subito che il nostro Tommaso è con ogni probabilità uno gnostico.”  Aggiunge inoltre che non si tratta d‘un libertino e che mai egli si rivolge a Gesú come ‘Cristo’ o ‘Messia’, mentre Dio lo chiama ‘Padre’.  Sottolinea, come la circoncisione sia da Tommaso giudicata inutile (lóg.53), poiché innaturale; e, parimenti, non vi sia in tale vangelo alcun cenno alla Legge o al Tempio allora distrutto.  Il mondo, alla maniera gnostica, viene diviso dualmente (non dualisticamente, come dice il N., ché sarebbe eresia luciferina) fra Luce e Tenebre.  Sebbene secondo l’Erbetta codesto Tommaso sappia della morte violenta di Gesú (cita in proposito la parabola dei vignaioli del lóg.65), non si trova passo in cui sia magnificata la sua opera di redenzione, né si trova cenno al suo ritorno alla ‘Fine dei Tempi’.  E, per concludere, l’autore fa notare che da questo punto di vista soltanto gli eletti sono eterni (24).
Ovviamente le osservazioni dell’Erbetta sono oltremodo pertinenti, abbiamo sicuramente a che fare con un grande studioso.  Però sono osservazioni che valgono quel che valgono, ossia solamente da un punto di vista strettamente exoterico.  Da un punto esoterico è diverso, anzi l’opposto.  Non si deve dimenticare che nelle frasi introduttive al testo è scritto a chiare lettere: “Son queste le parole segrete che Gesú, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha messo per iscritto.”  Quindi, come si fa a dubitare d’una Scrittura?  Dovremmo approvare i Sinottici acriticamente e respingere gli Apocrifi come eretici.  Ciò sarebbe cadere nell’errore dei Protestanti, che interpretano la parola ‘apocrifo’ in maniera distorta.  Il concetto e l’etimologia greca implicano, al contrario, che abbiamo a che fare con una sapienza segreta.  Qual è la sapienza segreta: la Redenzione?  Che bisogno ci sarebbe dunque di suddividere l’exoterismo dall’esoterismo?  L’idea che tutti possano salire al Paradiso Supremo ed ottenere la Perfezione Assoluta tramite la semplice Redenzione sarebbe ridicola.  Non stiamo ad argomentare contro, è superfluo.  In quanto alla Legge, è chiaro che non è compito di chi è addetto ai segreti sostenerla.  L’ironia sulla circoncisione, che sarebbe stata concessa direttamente dal Padre se fosse stata necessaria, mostra una visione della naturalità e della sua sacrità che è apparentabile a certe pericopi del ‘Discorso della Montagna’ in Matteo (v.1-vii.28) (25); come quella sulle vesti degli uomini, che non potrebbero mai eguagliare in splendore la bellezza dei gigli dei campi, che “non lavorano e non filano” (ibid., vi. 28).  Per certi lati,  a nostro parere, questo aspetto di Gesú riecheggia persino il pensiero taoista; anche se quest’ultimo invero ha spinto all’estremo tale principio di stretta aderenza alla Natura, pur accreditandolo alla <Madre> anziché al <Padre>.  In generale si può dire che gli Apocrifi del N.T. non vanno contrapposti ai Sinottici, ai quali sono semmai complementari.  Sulla questione  della morte violenta di Gesú non è questo il libro per affrontare l’argomento.  Non vogliamo che la nostra opinione al riguardo influenzi la lettura del libro.  Per cui preferiamo tacere (26).  Diremo soltanto che la parabola dei vignaiuoli cattivi non ci pare alluda alla Morte sulla Croce, come vorrebbe l’Erbetta; ma, di certo, alla Passione e alla Crocifissione.  Infatti la ritroviamo in Mt.-xxi. 33-45 proprio con tale significato, per via del cattivo animo verso il Redentore da parte di farisei e sommi sacerdoti, che per questo volevano catturarLo (27).  Sarebbe altrimenti troppo superficiale e scorretto ridurre il tema ad una semplice parabola.  Il problema vero è che l’apostolo Tommaso non parla di ciò se non in previsione d’una terribile incomprensione, forse perché la tradizione che lo concerne (non si può negarla, altrimenti, si nega al testo il valore di scrittura cristiana) precede l’evento; o forse perché le cose stanno molto diversamente dal quadro presentato dai Sinottici, che necessariamente si occupano del livello metaforico e non vanno oltre (28).  In ogni caso non è giusto contrapporre questi vangeli agli altri, né per sottovalutarli né per sminuire i segreti  custoditi nei Sinottici.  Dopo tale premessa, entriamo nel dettaglio.
Ciò che caratterizza piú d’ogni altra cosa il Vangelo di Tommaso dal nostro punto di vista è la presenza del lóg.7, nel quale il Salvatore viene additato come il <Grosso Pesce> fra i piccoli.  L’immagine trova un perfetto parallelo nella tradizione indiana (specie nepalese), ove egualmente il Matsyāvatāra è stato talora raffigurato negli stessi panni.  Cfr. in particolare la miniatura sulla copertina d’un ms. vishnuita dell’XI sec., ora a Londra nel Mus.Britannico (29).  Una variante presente su una serie di copertine dello stesso tenore custodita a Los Angeles mostra il Matsya tenuto per la coda da Manu-rāja (30).  Il lógion a differenza della miniatura londinese parla anche del <pescatore intelligente>, che getta via dalla rete i piccoli pesci e tiene il grosso.  Lungi dal rappresentare una scena di pesca reale, come dimostra il seguente passo che ritrae una scena di seminagione praticamente inverosimile, questo lógion allude al discepolo in gamba che mette da parte i maestri di minor portata e va a segno seguendo gl’insegnamenti d’un grande maestro.  Ora è chiaro in maggioranza i lettori, indipendentemente dalla loro cultura, hanno mire di carattere fideistico, etico, dottrinale.  E quindi hanno a noia il sentir discutere di allievi con particolari meriti, di scelte antipopolari e di realizzazioni spirituali individuali; onde prediligono i discorsi ad ampio respiro, quali il sermone della Montagna, facente riferimento al Tabor di Galilea evidentemente.  Quel Tabor ove Gesú è trasfigurato in Cielo e la Voce del Verbo lo pone all’unisono con Mosé ed Elia (Marco.- ix. 2-13).  Il grande arcivescovo ortodosso Gregorio Palamas ha trattato questo tema, del Tabor e della Luce tramessa agli uomini del tempo da Nostro Signore e attraverso di loro a tutti gli altri, ma purtroppo nell’Europa Occidentale ciò o è ignoto oppure è diventato tabú (31).  Per cui è rimasto unicamente il tratteggio generale, giustamente inteso da grandi uomini del calibro di L.Tolstoj, di Hegel o del Mahatma Gandhi come un condensato particolarmente appetitoso del Cristianesimo stesso.  Tuttavia l’esoterismo è altra cosa, il Vangelo di Tommaso tratta di cose segrete, non comprensibili a tutti.  E non c’è asssolutamente da rammaricarsene, come sembra fare l’Erbetta.  L’etichetta di gnosticismo è spesso una scusa da parte dei critici, onde relegare certi scritti scomodi per la fede ufficiale nel mondo dei dimenticati dalla storia.  Un tempo era la Chiesa medesima a porli in tale condizione, ora sono talvolta i professori universitari col loro querulo e sterile cavillare.  L’esoterismo segue un’altra via, quella della comprensione interiore e non bada a nient’altro, se correttamente inteso.



c)  Il <Grande Pesce> nei Misteri Graalici

L’espressione ‘Misteri Graalici’ (32) apparirà un po’ forzata a chi di solito frequenta l’epica tardo-medievale europea leggendo i testi concernenti la saga graaliana.  Eppure non si tratta in tali testi della celebrazione rituale nel Castello del Graal di determinati Misteri concernenti la Crocifissione, Passione e Morte di Gesú Cristo?  Per la verità, la Morte sulla Croce pare ultimamente non essere stata un fatto storico, il Gardner ha cercato di dimostrarlo (33), rifacendosi agli studi cristologici di B. Thiering (34).  Del resto, i romanzi graaliani pur accettando nella forma la verità ufficiale testimoniata dai Sinottici ci ricamano attorno, svelando certi particolari attorno al ruolo di Giuseppe d’Arimatea – sempre secondo Gardner una figura di “cugino” coincidente in realtà col fratello maggiore del Risorto, ossia Giacomo, vescovo-capo della Chiesa di Gerusalemme – che potrebbero essere benissimo applicati a Gesú stesso.  La Crocifissione e la Passione sono invece anche dei dati storici, a parte il loro rilievo in sede teologico-religiosa, i quali ovviamente possono essere interpretati come tutte le altre tradizioni sacrali sia sul piano exoterico che esoterico.  Qualcuno obietterà forse che il piano esoterico nel cristianesimo non è materia ecclesiastica.  Di certo, no,  Il che non esclude che un esoterismo all’interno del Cristianesimo sia esistito nelle prime fasi di questa fede, quantunque sia lecito ritenere che esso si sia disperso in epoca conciliare (IV sec.)(35).
Ciò significa che la Morte dell’Unto è stata assunta per render plausibile la dottrina della Resurrezione, cosí come la s’intende sul piano esclusivamente fideistico.  Usciamo dalla questione, che ivi non c’interessa trattare; poiché per farlo bisognerebbe concentrarsi sull’incontro del Cristo Risorto con Maddalena, sul vero ruolo di costei e sul tema assai delicato del Noli me tangere.  Tutti problemi che, per il momento, esulano dal nostro discorso, almeno in questo saggio, e che affronteremo pertanto in un articolo a sé stante in un prossimo futuro.
Quel che è interessante in tali romanzi è che oltre al motivo del Sacro Calice e a quello del Re Pescatore compare, seppur defilato, il motivo del Pesce; persino, del Grande Pesce.  E, per giunta, siffatto argomento vien posto – fatto assolutamente unico nell’ambito di tutti i testi cristiani compreso l’Evangelium Thomae – in relazione alla Parabola dei Pani e dei Pesci (36).  Sia pur in maniera indiretta.   Il Pesce come tale è rintracciabile già in Robert de Boron (inizio del XIII sec.), precisamente nel Cap.XI del Racconto del Graal (37).  Ivi la Voce di Gesú invita Giuseppe d’Arimatea ad apparecchiare una Tavola al modo dell’Ultima Cena, dopodiché dovrà chiamare il cognato Hebron spingendolo a scendere al fiume per pescare un pesce e portarlo direttamente a lui.  In mezzo alla Tavola dovrà essere posta la Coppa col Suo Sangue e il Pesce collocato davanti ad essa.  Solamente in tal modo Giuseppe conoscerà il male di cui soffre la sua gente.  Piú avanti, nel Cap.XVI (quello finale)(38), si associa tale Pesce ai riti segreti graalici.  Il capo, detentore e trasmettitore della Coppa, verrà chiamato Ricco Pescatore e questa funzione passerà da Giuseppe ad Hebron.
Nel Cap.V del Perceval il Gallese o Il racconto del Graal, il suo quinto romanzo (39), il romanziere francese Chrétien de Troyes (seconda metà del XII sec.) affrontava per la prima volta il tema del Re Pescatore, in modo assai meno scrupoloso rispetto all’insegnamento successivo di De Boron (prima metà del XIII sec.).  Oltretutto il Pesce non compariva ancora.
Raggiunto un fiume, che vorrebbe oltrepassare alla ricerca della madre, Perceval è costrettto a fermarsi col cavallo.  Vedendo giungere una barca con sopra due uomini, che la ancorano nel mezzo per pescare colla lenza, domanda loro se vi sia un guado o un ponte, ma ottiene risposta negativa.  Anche la barca non è in grado di trasportare lui e la bestia.  Allora chiede d’indicargli un posto per passare la notte, ma il pescatore l’invita a rimanere presso di lui, in un luogo oltre la collina.  Perceval cerca quindi di raggiungerlo, ma non trova nulla.  Alfine scorge una torre, presso cui cerca riparo.  Entrato per un ponte levatoio abbassato dei valletti lo accolgono e gli offrono un mantello scarlatto.  Indi è accolto dal signore del castello, vestito di porpora, e mentre dialoga con costui viene introdotto al Graal, ma se ne sta zitto per non importunare.   Il mattino dopo non trova piú nessuno. Tutte le porte sono chiuse e, prese le sue armi, se ne va per il ponte levatoio, di nuivo abbassato  Solamente una donzella piangente, col cadavere d’un uomo decapitato fra le braccia, interrogata dal cavaliere gli spiegherà che l’uomo del castello è un re il quale ha perso l’uso delle gambe per una ferita di giavellotto ai fianchi.  Per distrarsi il re va a pescare su una barca, per questo viene chiamato Re Pescatore.  Indi Perceval viene a sapere che la donna incontrata è sua cugina germana e che la madre è morta di dolore.  Inoltre, che ha fatto male a non domandare a che servisse il Graal.  Ciononostante ha ricevuto in dono una spada, che però è da temere voli in pezzi in battaglia secondo la donna.  Verra alfine a sapere che solo parlando guarirebbe la ferita del Re Pescatore.
Tale riscatto del personaggio non avviene però nel Perceval di Chrétien (40), avverrà solamente nel Parzival (c.1210 ) di Wolfram von Eschenbach.  In questo poema il Puro Cavaliere, dapprima “angelo senza ali fiorito dalla terra” (vi. 308)(41), guarirà alfine il fatidico male con il suo interessamento personale alla vicenda di Amfortas (42).
Per quanto riguarda il Lancelot, vi è da dire che – come ha sottolineato il Terenzoni (43) – coll’avvento di Innocenzo III e la ripresa delle enunciazioni di Gregorio VII sulla funzione del Papato nell’ecumene cristiana non rimane molto posto per l’esoterismo boroniano.  Di qui si spiega il cambiamento di prospettiva in senso religioso di quello  che pure dovrebbe essere il séguito delle opere di De Boron.  Tuttavia a chi sa leggere fra le righe non rimane oscuro il significato di certi misteri, seppur celati dietro un velo d’impersrutabilitù per i profani.  Basta vedere il colore delle tuniche  dei 3 candidati a rappresentare gli aspetti determinanti dell’iniziazione alchemica: il Verde (Bohor), il Bianco (Perceval) e il Rosso (Galaad).   Nel Cap. III della Storia del Santo Graal, concernente la cristianizzazione del mondo celtico insulare, si racconta ad ogni modo un episodio analogo a quello narrato dal De Boron e avente per protagonisti Giuseppe d’Arimatea e Hebron; cambiano soltanto i particolari ed un riferimento indiretto alla parabola dei Pani e dei Pesci, quale è raccontata dai Sinottici (44).


Gioseppo (nel testo Josepho) viene a colloquio con i 12 figli di Hebron e tra costoro uno viene scelto quale custode del Graal: il suo nome è Alano (Alain) il Grosso.  A costui, che sarebbe stato uno dei migliori discendenti della sua stirpe, Gioseppo ingiunge di pigliare l’imbarcazione che si trova a riva d’uno stagno accanto ad una rete da pesca, di portarsi al centro dello stagno e di gettare la rete.  Il giovane Alano esegue l’ordine e tra le maglie si ritrova un solo grosso pesce.  Gli altri fratelli gli gridano di gettare di nuovo la rete, ma Gioseppo lo ferma e gli chiede di venire a riva, poi di cuocere il pesce.  Una volta cotto, lo fa dividere in tre parti, in modo che una parte vada al centro e le altre due ai lati della tavola.  Dopodiché, per sfamare gli astanti, i pezzi di pesce vengono miracolosamente moltiplicati.  In base a questo episodio, Alano verrà chiamato il Ricco Pescatore.
Nel precedente capitolo, dedicato alla Gran Bretagna come nuova terra promessa, si e parlato di un’analoga moltilicazione dei Pani.  Quindi è evidente il riferimento ai Vangeli.  Dal suo canto il Boulenger riassume l’episodio in un altro modo: “Allora Nostro Signore fece un grande miracolo, che il pesce crebbe di modo che tutti coloro che avevano fame poterono saziarsi come se avessero avuto davanti a sé le migliori carni del mondo (45).”   Sempre nel Boulenger (§§ xvii-viii de Il Castello Avventuroso) troviamo un episodio riguardante Lancillotto al Castello Avventuroso, ove tra l’altro concepisce Galaad, ma andiamo per ordine.  Lancillotto vi giunge accompagnato da Lionello e dalla vecchia dal cerchio d’oro.  Quivi i due prendono congedo dal cavaliere.  Nel maniero viene accolto da Re Pelles, il Ricco Pescatore, discendente di Alano.  Il prode si presenta come cavaliere dell Tavola di  Re Artú e palesa il suo nome.  Con uno stratagemma (un filtro magico che gli fa credere di essere con Ginevra) la bellissima figlia di Pelles rimane gravida di Lancillotto ed il testo ci fa capire che non lo ha fatto “a causa della sua beltà né per l’ardore della carne, ma per ricevere il frutto per mezzo del quale dovevano essere adempiute le avventure di Bretagna, come aveva predetto Merlino l’Incantatore (46).“  Nei §§ xvii-ix della Questuauestua del Santo Graal, i tre cavalieri che portano a compimento la Cerca (Galaad, Perceval e Bohor) si ritrovano prima di entrare al Castello Avventuroso, come erano avvenuto nel momento di lasciarsi alla volta di varie avventure.  Galaad in una sala riunisce la ‘Spada Spezzata’ che aveva ferito alla coscia Giuseppe d’Arimatea, padre di Gioseppo, il primo vescovo cristiano.  E lo fa in maniera che sembri i pezzi non siano mai stati divisi.  Indi guarisce il Re Magnagnato e, dopo aver recato il Graal a Sarraz muore insieme agli altri due cavalieri, lasciando questo mondo.  Il Graal da quel momento in poi sparisce, “rapito in cielo da una mano senza corpo” (47).
Riguardo la ripresa del tema piscatorio nel Mallory, anche per la scarsezza di dati in proposito, già ci siamo espressi a sufficienza in precedenza (48).



d)  Cenni evangelici sulla celebrazione di riti essenici
in tempi pre-cristiani

Stando cosí le cose è chiaro che si debba cercare nuove soluzioni alla comprensione della Parabola dei Pani e dei Pesci.  Una spiegazione esauriente non è mai stata offerta, soprattutto se inquadrata nella simbologia ittica da noi descritta in sintesi.  Tuttavia il Gardner (49) ancora una volta ha fornito una documentazione plausibile, che personalmente accettiamo e consideriamo valida, seppure l’autore sia stato preso di mira da certa stampa on line al fine di screditarlo come occultista specie dopo la sua morte prematura; ma si trattava d’un iniziato appartenente all’Ordine del Drago, che disgraziatamente non ha potuto difendersi.  I libri che ha scritto, comunque, testimoniano per lui.
Egli dichiara che “i sacerdoti che in epoca evangelica officiavano i riti battesimali erano descritti come «pescatori», sottintendendo che l’espressione “pescatori di uomini” ricorrente in Mt.- iv. 18-9 si riferisce proprio a ciò, in quanto “la pesca simbolica faceva tradizionlmente parte del rituale del battesimo” (50).  Rifacendosi sempre alla Thiering, Gardner deduce che in tali riti si ponevano distinzioni fra ebrei e gentili, agli uni essendo riservato il battesimo in acqua, agli altri un cerimoniale d’issamento sulle barche dentro le reti da pesca come fossero stati dei <pesci> e questa era infatti la loro denominazione rituale.  Mentre i sacerdoti officianti eran chiamati <pescatori>.  Oltretutto vi era una differenza fra coloro che partecipavano ai battesimi di massa, in mare, e quelli che invece venivano battezzati individualmente nel Giordano.  Sicché passi come quello di Luca- v. 1-10 e Joh.- xxi. 1-11 vanno interpretati metaforicamente come una conversione di massa attraverso gli ammeastramenti di Gesú, il quale dirigeva la cerimonia da una barca, non in senso strettamente piscatorio.  Altri, come Mar.- vi. 34-44 sono viceversa da intendere nel senso che il Maestro tendeva al concreto, sorvolando le formalità.  Ossia aveva aperto pure ai non-ebrei la possibilità di diventare ministri del culto.  Anche la denominazione di <pani> era simbolica, spettando solamente ai Leviti.  Poiché, in base alle regole della comunità essenica, unicamente degli ebrei potevano divenire tali.   La stessa regola dei 12 Apostoli delegati dal Messia era una regola qumranita, enunciata nel Manuale di disciplina ritrovato a Qumrān nei Testi del Mar Morto.   Aveva lo scopo di preservare nel Paese la fede (51).    È chiaro, però, che non rispettando fino in fondo le regole della tradizione ci si avvia verso l’istituzione d’un nuovo culto, che è poi quanto si prefiggono in genere i profeti, i quali vanno oltre il formalismo sacerdotale proprio degli aderenti alla Tradizione.  La differenza fra Tradizione e Rivelazione è tutta qui: nel primo caso si ha un approccio mediato al sacro, nel secondo (ma il discorso andrebbe invertito, per onestà) un approccio diretto.  Probabilmente il pretesto che divise il Qumranismo dal Nazarenismo nell’ambito dell’Essenismo fu la non-formalità di Gesú, non ancora evidentemente considerato il <Cristo>.



e)  L’ ΙΧΘΥΣ nelle catacombe

I motivi iconografici dominanti delle catacombe sono i temi floreali, le viti, come nel dionisismo.  E poi pesci, uccelli, in  particolare colombi (52).   In altre parole, il motivo della fertilità e quello fecondità.  In ciò il primo cristianesimo non si discosta affatto dalla paganitas vicino orientale.   Vedi ad es. il simbolismo di Atargatis.  La prima arte figurativa cristiana non tratta i temi divenuti cari nel Tardo Medioevo alla comunità ecclesiastica (la Natività, l’Adorazione del Magi, la Crocifissione, la Gloria del Risorto, la Madonna o la celebrazione dei vari Santi); semmai tende verso raffigurazioni di scene bibliche, specialmente la vicenda di Giona colla Balena.  E la scultura non è da meno, specializzandosi nel ritratto del Buon Pastore.
All’indomani della fondazione della Chiesa Cristiana infatti gli Apostoli medesimi in mancanza ancora d’un Nuovo Testamento applicarono alla figura cristica i passi biblici piú importanti.  Nella Lettera agli Efesini, in tal modo, S. Paolo paragona l’Unione di Cristo e della Santa Chiesa a quello dell’uomo della donna perfetti, in ciò essendo celato un grande mistero (53).  Partendo da questa constatazione di principio, ecco che viene ripreso quel vecchio emblema di fecondità che era anticamente il Pesce (54).  Cosí ritroviamo l’affresco d’un Cristo-Delfino immolato su un palo in una catacomba romana sulla Via Ardeatina (55).  Di poi verrà aggiunto il Tridente a significare le Tre Vie, che già la parabola dei Due Ladroni testimoniava nell’Evangelo.  L’idea del “crescete e moltiplicatevi” valeva, necessariamente, per gli stessi cristiani.  In tale logica si analizzi una moneta greca provenente da Salamina di Cipro (56), ove un pesce maschio feconda le uova della femmina collo sperma.  Il Pesce in qualità di Salvatore del Mondo, o di Redentore, era un simbolo “caldeo-siriaco” a giudizio di Charboonneau-Lessay (57).  La venerazione del Pesce-Cristo era assai fervente presso al giovane Chiesa, ne è testimone una seconda moneta, ove la Testa (imberbe) di Cristo sovrasta il Pesce (58).  Clemente Alessandrino raccomandava d’incidere siffatto emblema  dappertutto: nei gioielli, negli anelli, nei sigilli, sulle tombe (59).  Sicché s’intravede il Pesce caratterizzato dalle iniziali maiuscole Iota (I) Chi (X) un po’ dovunque, oppure il Delfino pendente all’Ancora ecc.  Si recupera a tal scopo persino la veste ittica di Oannēs (60).  Un pesce di cristallo di roccia rinvenuto in una catacomba (61) si ritiene fosse una tessera battesimale.  Un pesce d’avorio, colle iniziali I X, proviene da Cartagine (62), un altro del genere da Roma (63).  Molti scrittori sacri fanno menzione di pesci simbolici utilizzati nei primi secoli dell’Era Cristiana.  Tra costoro, oltre al succitato Clemente Alessandrino, anche Tertulliano, Origene, Sant’Agostino.  Si fa cenno inoltre in tali passi alla divina acqua battesimale o al nutrimento eucaristico.



f)  L’ ΙΧΘΥΣ in ambito eucaristico

Nei culti pre-cristiani, è quasi inutile osservarlo, si constata una prefigurazione dei culti cristiani, a dimostrazione che la storia umana non meno della Natura non facit saltus.  Ciò riguarda tanto le credenze, quanto i rituali e le forme artististiche a questi correlati.  Quasi che la venuta di Cristo abbia rappresentato l’adunanza di tutti i giusti sulla Terra, ma prima vi sia stata evidentemente una preparazione provvidenziale all’Avvento.
  I culti asiatici, prima della formulazione dei Misteri Eucaristici relativi al Cristianesimo, celebravano dei propri sacrifici secondo quanto attestato dai monumenti vicino orientali (siriaci, assiro-babilonesi).  Un bassorilievo di Nimrud, classsificato come assiro, testimonia la presenza dell’emblema del dio atmosferico-lunare Ilu – antico nome di Enlil – accanto alla Stella d’Ištar e al Crescente Lunare, cui viene sacrificato il Pesce, anche se l’oggetto del sacrificio è al momento ancora a terra (64).  Sulla scena compaiono anche due engmatici personaggi, uno in veste alata e l’altro in veste pescina.  Il primo potrebbe essere Ilu medesimo, segnalato dal proprio emblema, e il secondo tipicamente Oannēs.  E su una pietra finemente incisa, ora al Mus. Britannico (65), a scanso d’equivoci il Pesce è direttamente depositato sul Vaso Sacrificale.  Lo sormonta questa volta la Stella, oltre al Crescente, a significare probabilmente la precessione equinoziale cui è inerente il sacrificio medesimo, segnando una data epoca; che era naturalmente quella dei Pesci, sorta  in periodo immediatamente precedente all’avvio dell’Evo Cristiano.  Anche questa volta una figura maschile a lato è connessa coll’emblema di Ilu e potrebbe dunque essere interpretata alla stessa maniera.  Mentre una figura femminile, sul lato opposto, regge in alto un calice piatto.  Da notare che nella prima delle due scene descritte la figura alata ha dietro il capo 7 corpi celesti, che si può intendere in senso planetario.  A conferma che possa trattarsi davvero di Enlil, il Signore dei 7 Pianeti, al modo di Crono (66).
Il Pesce sul Piatto del Sacrificio, accanto all’Agnello arrostito o qualcosa del genere compare anche nella catacomba romana di Pretestato (II-III sec.), in scene dedicate ai banchetti rituali di tipo frigio in onore di Sabazio.  Tale catacomba trovasi sull’antica Via Appia.  Dal IV sec. in poi ha avuto ampio sviluppo, sino a diventare un santuario.  Già comunque in tempi pre-cristiani era luogo cimiteriale a disposizione dell’aristocrazia romana.  Pratiche analoghe, col pasto pescino quale atto sacro saliente, sono rintracciabili nella coeva Asia Minore e a Cipro, nonché in Egitto.  Ciò fungeva da simbolo dell’Unione fra l’uomo purificato e la divinità.  Ciò naturalmente non significa, si badi bene, ridurre il Cristianesimo al culto folclorico del Pesce, cosa che vale peraltro anche nei confronti del culto dell’Agnello o della Colomba.
Fin dal III sec. il Pesce ebbe per la Chiesa un significato eucaristico molto profondo.  Per questo gli artisti cristiani lo raffiguravano in una molteplicità di composizioni in connessione col Vaso Eucaristico (67).  Vedi ad es. l’affresco della Catacomba di Lucilla (Roma, III sec.)(68), ove sul dorso d’un pesce è collocato un calice pieno di pani consacrati.  Anche qui torna la simbolica del Pane e del Pesce, insomma la Cena Santa degli Eletti, alla quale partecipavano i fedeli insieme colle loro amicizie.  Le scene dei banchetti celesti (agapi) sono numerose nei dipinti delle catacombe romane.  Pane, vino e pesce risultano sempre elementi fondamentali delle composizioni, vertenti su una tavola centrale imbandita.  Con allusione alla pesca evangelica sul Lago Tiberiade, il tutto esssendo accompagnato dalla recita d’appositi versetti.  Due Pesci appaiono al centro della tavola pure in un mosaico del VI sec. , nella Basilica di S.Apollinare Nuovo a Ravenna (69).  Viene considerata la piú antica raffigurazione dell’Ultima Cena nell’arte occidentale.  A lato Gesú e i 12 Apostoli (tutti in bianca veste, tranne il Maestro in veste violacea), schierati frontalmente, appaiono come se fossero disposti ad ascoltar parabole anziché accingersi ad un vero pasto.  Altre Cene allegoriche appaiono nei secc. VII-VIII (70).  La presenza del Pesce proveniente dalle mani di Gesú, che l’Evangelium non menziona, si ricollega alla visione esoterica che verrà tardivamente attestata dal De Boron.  Eppure, come tale, compare nel cimitero sotterraneo della Catacomba di S.Cornelio (71).  Una figura maschile impone le mani sul pasto sacro ed una femminile accanto leva le braccia al cielo in segno di giubilo.   Si tratta chiaramente d’una consacrazione eucaristica.  Egualmente una mano s’estende su un pesce, presso cui sta una pagnotta, su uan tavola nella catacomba di S.Callisto a Roma (72).  Anche Sant’Agostino alludeva al Cristo come al <pesce arrostito> (73), nel senso d’un nutrimento eterno.  La varietà d’immagini del Pesce Eucaristico tendeva ad elevare l’animo verso pensieri di grazia e di comunione spirituale.  Il Pesce, sovrastante il Calice Eucaristico e 2 Pani è effigiato pure in una lucerna altomedievale (74).  Su un antico marmo modenese sono scolpiti 5 Pani e 2 Pesci opposti ed è loro aggiunta la scritta latina SYNTROPHION, cioè il “comune banchetto” (75).  Questo è un ancor piú chiaro rimando alla parabola della moltiplicazione dei Pani e dei Pesci.  Nel senso in cui l’abbiamo personalmente interpretato.  Vide infra.  Il senso secondario del pasto sacro è corretto, pur di subordinarlo all’altro e mantenerlo solamente su un piano exoterico.  Risulta evidente che il secondo significato ha preso piede via via col tempo, anche perché è l’unico che ci sia stato tramandato a livello ecclesiastico. L’immagine dei 2 Pesci e dei 5 Pani ricorre altrove durante il Medio Evo (76).  La Cattedrale di Chartres contiene una rappresentazione della Sacra Cena nel XII sec. sul medesimo modello (77).         



g) L’ΙΧΘΥΣ dai regni barbarici altomedievali
alle abbazie tardo-medievali

La grande moda del Pesce Cristico durante i primi tre secoli cristiani nel IV sec. passò in Gallia.  Furono creati oggetti d’arte come fosssero talismani.  Un amuleto del genere è stato ritrovato a Langon, in Vandea (78).  Altri pesci vengono realizzati in bronzo (79), con scritte greche.  Dopo la conversione di Costantino il marchio di Cristo, detto Labarum (formato a una Chi (X) ed un Rho (P) sovrapposta), diventa un’insegna degli stendardi imperiali.  Lo ritroviamo pure su una tomba fenicia a Cannes (80).
A partire dal V sec. l’emblema del Pesce Divino, dopo la parentesi delle invasioni barbariche nel IV sec., riprende vigore in tutto il bacino del Danubio, in Liguria, in Emilia e nelle Gallie.  Poi si trasmette anche in Irlanda (81).  Le manifestazioni artistiche di quest’arte decadente in Gallia sono molteplici, specie in epoca merovingia.   Abbiamo un tipico esempio in una fibbia d’un cinturone rinvenuta in una sepoltura (82).  Il Pesce è ancora reperibile su due vasi di terracotta, sempre di epoca merovingia (83), ora al Mus. d’Angoulème.
 Strati architettonici di mttoni paralleli, a lisca di pesce (<<<<<<<<<<<<<<), sono reperibili nelle mura della Basilica di S.Maggiore; affiancata al Battistero di S.Giovanni ad Fontes, a Lomello (da *Laevum mellum).  Si tratta di costruzioni longobarde, che rimandano però a precedenti edifici del V sec., attribuiti alla popolazioni ligure dei Levi.   Disegni di sagome pescine si ritrovano anche sotto l’intonaco dell’Abbazia cistercense di Rivalta Scrivia, presso Tortona (Al), a dimostrazione che si trattava d’una tematica piuttosto diffusa e dispiegata in varie forme.     



h)  Re Faramundo, i Merovingi e la Bistea Neptunis

Il Gardner, nella sua ricostruzione circa la linea ereditaria del Gesú storico mutuata dalla Thiering, traccia due linee di demarcazione ben distinte: i parenti diretti di Gesú tramite Maria Maddalena (accettando la tesi di costei come sposa del ‘Signore’ nelle nozze di Cana) e la linea laterale di discendenti di Giacomo il Giusto, capo della Chiesa di Gerusalemme, meglio noto come Giuseppe d’Arimatea (84).  Non stiamo a discutere queste tesi, le pigliamo per buone.  Qui c’interessa evidenziare solamente il rapporto di discendenza concernente il re pescatore Aminadab, nipote di Giuseppe, il figlio di Maria Maddalena (85).  Questo Aminadab aveva una sposa di nome Eurgen, che era la zia di Coel II di Colchester (86), la cui figlia Elena avendo sposato Costanzo Cloro di Roma divenne la madre dell’Impertore Costantino il Grande (306-37 d.C.) (87); cioè, la cd. Sant’Elena (248-328).  Ora bisogna sapere che Nascien II di Septimania e Meroveo, il capostipite dei Merovingi, erano discendenti (desposynoi) di Gesú in una doppia linea di sangue, attraverso la linea diretta e quella tramite Giacomo.  Mentre Costantino soltanto mediante Giacomo, sicché – assserisce il Gardner – per poter aspirare legittamente al trono Costantino dovette inventrasi la “linea apostolica”.  Non stiamo a riportare tutte le tavole genealogiche del Graal, che Gardner ha ricostruito con dovizia di particolari in appendice al suo libro da noi citato, facendo attenzione che – come spiega l’autore – la letteratura graalica non compilava archivi storici bensí romanzi d’avventure galanti.   Per questo è stata sempre respinta a margine da Santa Romana Chiesa.  Onde le datazioni erano vaghe, nel senso che si pensava a delineare <in sostanza> una linea di discendenza, non in termini strettamente individuali di diritto ereditario.  Per cui le suddette Tavole del Gardner risultano essere molto utili.
Per quanto concerne il nostro discorso, basterà sapere che Re Nascien, contemporaneo di Meroveo, aveva come emblema il Pesce ed era un successore e discendente dei re pescatori di Gallia.  Tanto l’uno quanto l’altro provenivano dal re pescatore Faramundo, anche questi col Pesce per emblema, cui molte case reali (oltre i franchi Merovingi e gli Stewart scozzesi) fanno risalire il loro antico lignaggio.  Clotilde di Borgogna, nipote di Nascien, aveva sposato Re Clodoveo e cosí era nata la dinastia dei Merovingi; anche se il nome della casata risale a Meroveo, nonno di Clodoveo e padre di Childerico.  Pur essendo il nipote legittimo di Faramundo, a Meroveo lo storico del V sec. Prisco di Tracia attribuí per antenato la Bistea Neptunis.  Ciò però necessita di spiegazione. 
Meroveo discendeva dai Sicambri, i quali erano degli Sciti venuti da una zona presso il Mar Nero e stanziatisi in Arcadia.  Una loro regina tribale era stata Cambra nel IV sec., donde il loro nome (lett. gli ‘Sciti di Cambra’).  Ivi erano stati associati a Poseidone ed, evidentemente, al Delfino.  Onde la loro associazione col Pesce era antecedente alla loro franchizzazione ed al connubio coi re pescatori gallici.



i)  Giona e la Balena

Sul senso della pia leggenda di Giona abbiamo già speso parole esaurienti in precedenza (88) e non è quindi il caso di tornarvi su ora.  Ivi ci limitiamo ad esaminare l’iconografia, a grandi linee, essendo questa molto ampia.  Diciamo subito che il periodo maggiormente fecondo è stato quello paleocristiano, poiché i <3 Giorni> trascorsi nel ventre del Pesce erano paragonati ai 3 di Passione, Morte e Resurrezione di Cristo.  Dato che la Crocifissione per il momento non era ancora oggetto di elaborazione artistica, pittori e scultori si sbizzarrivano nel rappresentare Giona buttato al Mostro del Mare, ritratto peraltro in aspetto ancora dracontico.  Le raffigurazioni sono molto ingenue: vediamo infatti il profeta gettato direttamente nella <Bocca del Mostro> (simulacro dell’Entrata agl’Inferi), che l’inghiotte o sta per inghiottirlo.  Cosí è il caso, ad esempio, dell’affresco della Cappella dei Sacramenti, all’interno delle Catacombe di San Callisto (prima metà del III sec.)(89); nonché della pittura murale della volta della catacomba dei Santi Pietro e Marcellino (fine III sec.)(90) o di quella dell’ipogeo sincretista degli Aurelii a Roma (IV sec.)(91).  Ed ancora, del mosaico pavimentale della Cattedrale del vescovo Teodoro ad Aquileia (inizio IV sec.)(92).  Dopo un’eclisse durato vari secoli, praticamente dal V all’VIII, il tema viene ripreso nell’ambito della miniatura durante il IX per continuare sino al XV.  In questo caso il soggetto preferito è la Liberazione dalla Bocca del Mostro, con qualche interesse per la presenza del profeta dentro il Ventre del Grosso Pesce, che solo in epoca molto recente sarà ripreso ed effigiato come quello d’una Balena.  Ritroviamo traccia dell’inghiottimento, viceversa, in una scultura del capitello destro della navata dell’abbazia di Mozac (XII sec.)(93).
Di Giona nel <Ventre del Mostro> (simulacro della Dimora agl’Inferi) ne troviamo uno nel Periodo Pre-romanico, precisamente in una miniatura russa di Chludov, della metà del IX sec.  Altri esempi, questa volta della serie della <Liberazione dal Mostro>, li troviamo: ad Aquileia (inizio IV sec.)(94), in una miniatura dell’Hortus Deliciarum del 1180 c. (95), in una scultura del ciclo biblico del XIII sec. presso la Cattedrale di Amiens (96), in un’illuminatura della Bibbia di Giovanni XXII della scuola francese del XIV sec. (97),  in una pagina miniata del ‘Compendio delle Cronache’ (Jāmi’ al-tawārīkh) del 1400 c. (98), nell’affresco del 1553 della Chiesa dell’Ospeddale del Santo Spirito a Bad Aussee (Stiria austriaca)(99), in una composizione pittorica del pittore fiammingo Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625) del XVII sec. (100).



l)  Note sui Misteri Graalici
e il Re Pescatore nel folclore celto-cristiano

       Cogliamo l’occasione per precisare meglio la nostra opinione su uno dei temi fondamentali del Graal: il Re Pescatore.  La Riemschneider ne tratta nella parte del suo bel saggio, Miti pagani e miti cristiani, dedicato al Re Paralitico (101).  L’autrice individua nei motivi della Coppa e del Re Paralitico i due fattori decisivi della saga graalica.  Circa il secondo fattore, fa notare, gli autori variano sulla ragione dell’infermità, ma la sostanza rimane in fondo la medesima.  Vero e ciò dimostra che è l’infermità che va spiegata, non la ragione che la determina, la sola oggetto di variazione.


       Unicamente in un romanzo, il Sone de Nausay (102), è Giuseppe d’Arimatea a fungere da re pescatore ad anche in questo caso, ad ogni modo, egli possiede il  Graal ed è paralitico.  Dio lo ha punito per aver sposato una pagana, benché battezzato.  Come appena rilevato, la ragione della punizione è sovramercato, quel che è importa è l’infermità in sé e ne vedremo la motivazione.  A tale doppio motivo principale la Riemschneider ne collega un terzo minore, il tema della ‘Terra Desolata’, cui non si sottrae neppure il Sone: gli alberi sono privi di foglie, né risuona canto d’uccello, il cereale non cresce e la ragazza non trova marito.  Nella Storia del Santo Graal il Re del Graal raddoppia di numero.  È Gioseppo, il figlio di Giuseppe d’Arimatea, ad esser ferito alla coscia da un Angelo (l’Arcangelo Michele?) colla Lancia (103).  Verrà tuttavia risanato 12 giorni dopo assieme al re pagano Nascien, che aveva osato guardare il Graal (104) e ne era rimasto accecato, colla stessa Lancia; la quale, evidentemente, aveva annaloghe prerogative di quella di Achille.  Dalla Lancia conficcata di nuovo nella coscia di Goseppo gocciola, infatti, il sangue dentro la Coppa.  Il sangue verrù usato per medicare la gamba dell’uno e gli occhi dell’altro.  I suddetti motivi graalici, ad esclusione della Coppa, si moltiplicano indefinitamente nel Ciclo Vulgato come in un riverbero.  Ciò accade ancora ad es. nella Ricerca del S.Graal, a dimostrazione di quanto detto, ma sarà Galahad questa volta a compiere il gesto liberatorio sfregando ritualmente le cosce all’innominato re paralitico della situazione colla Lancia gocciolante di sangue.  Perceval, invece, si autopunisce ferendosi alla coscia per essere stato sul punto di cedere alle lusinghe del Diavolo sotto veste di avvenente pulzella.  Il padre di Pelles, il Ricco Pescatore (ma era ormai una carica nominalmente  ereditaria), subisce un’infermità analoga nel Lancillotto.  E qualcosa di simile accade persino nel Merlino.  Wolfram attribuisce mali similari a Titurel e ad Amfortas (105), cosí come all’altro doppione Klinschor, signore del Castello delle Meraviglie (106).  Nel Peredur è lo zio cimrico del cavaliere-archetipo di Parsifal (107), ossia Manawyddan alias Mananann, corrispetivo celtico del Manu indiano, insomma il Re Pescatore.
      Concordiamo colla Riemschneider che Coppa e Testa Mozzata, in questo caso quella di Bran, equivalgono sul piano simbolico.  Un’immagine hindu rovescia la relazione attribuendo al Calderone (Kalaśa) fattezze antropomorfiche, essendo un’immagne dell’Universo.  Sempre secondo l’autrice, pure Artú finisce per rimanere claudicante.  In proposito cita l’avventura con Hueil, in cui viene ferito ad una coscia dal rivale in amore, essendo i due innmorati della medesima donna.  Nella Morte Darthur Re Artú indossa i panni del Re Pescatore ed è perciò lui che diverrà il re ferito, questa volta a causa del tradimento di Ginevra (108).  Aggiunge in seguito la scrittrice tedesca: “Il mitico re primordiale è sempre contempraneamente signore dell’età dell’oro.  Ma poiché, purtroppo, le condizioni paradisiache non sopravvissero, l’unico modo per immaginarsi la scomparsa della fertilità e dell’abbondanza era quello di concepirla come la cessazione della capacità generativa del re…; altrimenti l’età dell’oro sarebbe sopravvissuta.”
       Al di là delle considerazioni della Riemschneider, constatiamo che la Coppa è un emblema del cuore umano e la Lancia è il Raggio Divino che lo illumina.  Il Re Pescatore è dunque il terzo elemento che congiunge i due opposti, maschile e femminile, e come tale è il depositario della Rivelazione Primordiale; ma nel contempo è anche il custode della Tradizione, poiché incarna quel punto unico ove l’una e l’altra trovano il loro fondamento.



m)  Il Dāśarāja, denominato Manu Satyavrata,
in una fiaba kashmira

     A conferma definitiva e a coronamento della nostra personale interpretazione del Re Pescatore mahabharatiano, di cui la saggistica induista per la verità non parla (colla sola eccezione parziale di Coomaraswamy in Yakas, ma non è una colpa che può essere imputata a noi…), varrà ancora la pena di menzionare in appendice una fiaba; segnalataci una volta di piú da padre Heras (109), del quale però non condividiamo l’impostazione storicistica con cui l’analizza.  La trama del racconto, desunto dal Kathāsaritsagara- v. 2, una redazione kashmira a c. di Somadeva (XI sec. d.C.) della perduta Bhatkathā, narra del vano peregrinare di un certo Śaktideva fino al proprio imbarco alla volta dell’isola di Utsthala, ove vive un ricco Re Pescatore (il gesuita spagnolo lo definisce esattamente “King of Fishermen”) di nome Sayavrata (sic!).  Il giovane brahmano è infatti innamorato della <Figlia del Re>, che non intende maritarsi con alcuno, se non con colui che sia riuscito nell’impresa di visitare Kanakapura, la ‘Città Aurea’.  E siccome il solo Satyavrata, per via delle informazioni che costui ha ricevuto dai suoi suditi nel corso di tutti i loro viaggi intrapresi per mare, è in grado d’aiutare Śaktideva a scovar e raggiungere tale città (in base a quanto gli ha suggerito un i, il vecchio asceta Dirghatapas), ecco motivate le ragioni del viaggio verso Utsthala.  Durante la navigazione sorge tuttavia una terribile tempesta e l’imbrcazione vien fatta a pezzi.  Un Grande Pesce divora Śaktideva per intero.  Guidato dal Destino, il Pesce approda miracolosamente all’isola di Utsthala e qui è acchiappato dai servi del Re Pescatore.  Il re, meravigliato della forma del Pesce, lo apre in due e da questo fuoriesce incolume il giovane.  Coll’aiuto del Re Pescatore Śaktideva raggiunge alfine Kanakapura ed ottiene in isposa non soltanto la Principessa, ma pure le ‘Tre Sorelle’ della damigella.
       Nella storia ora esaminata constatiamo il riemergere di molte delle tematiche sin qui affrontate: a) Il Re Pescatore (Dāśarāja), di cui si fa addirittura il nome conferendo credibilità alla nostra ipotesi iniziale che lo identificava a Brahmā, mettendolo inoltre in rapporto al Manu Satyavrata della leggenda del Diluvio primevo; b) il Magnus Piscis (Mahāmatsya), insieme divoratore e vittima sacrificale; c) le quattro figure femminili, delle quali una superiore alle altre; d) il color aureo del luogo fiabesco da ricercare.  Ma lo schema della narrazione sembra ivi piú fluido rispetto alla storia di Satyā tracciata nel Mahābhārata ed avente, per contro, un carattere iniziatico meno accentuato.  Si parla ora chiaramente della ‘Città Aurea’ a signficare il Paradiso Terrestre, sede spaziale della ‘Rivelazione Primordiale’ da riconquistare.  L’isola è posta in questo caso in mezzo all’Oceano anziché in mezzo al Fiume, come per la vicenda narrata da Vyāsa, detto appunto Dvaipāyana (‘Nato-su-un’isola’).  Se pensiamo a ciò che la Yamunā significa simbolicamente, il concepimento di Ka (110) su in’isola di tale fiume indica probabilmente la formazione d’un centro tradizionale secondario, a modello di quello primario.  L’interpretazione scontata della <Figlia del Re> quale personificazione della Conoscenza è naturalmente un tratto comune a tutte le fiabe di qualsiasi contrada, essendo le fiabe medesime il patrimonio culturale tramandato da tempi assai remoti d’una tradizione shamanica indistinta di età preistorica oppure protostorica.

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