martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Prefazione






  







Il Re Pescatore
e il Pesce d’Oro



Aspetti della Rivelazione Primordiale




di Giuseppe Acerbi



















monografia dedicata
allo studio del piú antico simbolo sacro









        
                  
                   
                          A Gian Giuseppe Filippi,
                                                             nostro professore all’Università Ca’ Foscari   
                                             


Alcuni preferiscono la Non-dualità, altri la Dualità,
ma nesuno sa che la mia Verità si situa al di sopra di tali concetti.

(Kulārava Tantra- i. 110)































































Prefazione


Da più di vent’anni Giuseppe Acerbi conduce ricerche sulle fonti mitologiche del Medio ed Estremo Oriente, tese a disvelare relazioni e analogie con l’epica del Medioevo romanzo. Una dimensione «comparativa» nella quale gli avvicinamenti e i paralleli assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione orientale del Munsalwaesche, il Castello del Graal, cioè il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il «Re Pescatore» lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in tante pubblicazioni. Basti ancora ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: un’epifania del dio Brahmā, un «Pescatore di Luce» talora duplicato nell’Avatāra del dio Viu noto come il «Pesce d’Oro», funzione in origine rivestita da Brahmā.  È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore. Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il «ricordo» di una forma ideale di esistenza.
Nella prima stesura del lavoro l’indagine era estesa ai popoli etnologici in un itinerario simbolico che costituiva anche la ricerca dell’origine comune di un mito capillarmente diffuso nella storia dell’umanità: il ritorno a una condizione di «primordialità» e l’accesso a uno stato di beatitudine transitoria usualmente definito «paradiso». In seguito per motivi editoriali l’A. ha posto il frutto della sua ampia analisi in due testi separati, dei quali ora ad uscire è solamente il primo. La storia delle religioni, nella sua orba ufficialità, ha da tempo rigettato il suddetto metodo di ricerca, essendo più interessata a evidenziare le differenze che le analogie. Una soluzione estrema questa, che ignora, per paradosso, il fondamento mitico del metodo esibito dall’Acerbi. L’aspirazione di ogni buon ricercatore sarebbe, a parer mio, una mediazione tra le due estreme soluzioni, un incontro fra sapienza di «fede» e «ragione». Tentando di presentare il prezioso lavoro dell’Acerbi, proverò nei limiti angusti di una prefazione alcune brevi riflessioni mitografiche in tal senso.
L’immagine del pesce, per un’ovvia specularità, richiama il fluido che egli domina e in cui esso vive, l’acqua. Miti e simboli sono i veicoli prediletti nei quali si dispiega e viene rappresentato un itinerario spirituale. Spesso culture differenti hanno descritto esperienze religiose, interiori e mistiche, utilizzando un’identica struttura simbolica o mitica. È ad esempio possibile interpretare la menzione che la liturgia funebre latina, la Missa Defunctorum, fa del lacus profundus come connessa da un lato all’idea del viaggio dell’anima nel post-mortem attraverso le regioni delle tenebre, delle poenae infernis, fino alle rive d’un oceano oscuro che è il mare della morte, l’abisso fluidico, indefinito, in cui essa deve transitare per accedere purificata al Paradiso. Mentre da un altro si coniuga al valore negativo e demoniaco che il rito battesimale riveste nello gnosticismo, un universo «religioso» per certi versi parallelo al cristianesimo nascente, ma nella sua essenza autonomo da questo. Importante in quest’ultima accezione, sicuramente la più arcaica, è la Parafrasi di Sēem, un documento gnostico fra i più complessi ed intricati tra quelli emersi dai cocci della giara nella quale furono ritrovati, negli Anni Quaranta del secolo appena trascorso, i codici manoscritti di Nag Hammadi.
La prima parte della storia narrata nella Parafrasi di Sēem parla dello smarrito equilibrio iniziale tra Luce (Phōs), Spirito (Pneûma) e Tenebra (Skotos), perduto a causa di un movimento conoscitivo e di un impossessarsi di particelle spirituali ad opera della Tenebra. Segue la catabasi in due tempi del Salvatore e Rivelatore Derdekeas, il quale prima «solidifica» e rende capace di resistere agli attacchi della Tenebra lo Spirito intermedio, scendendo in seguito nella Tenebra stessa ed inducendola con l’inganno a procreare. Con questa generazione, pure suddivisa in due fasi, la Tenebra, definita «utero» (mētra) e «natura» (physis), inconsciamente separa da sé le particelle luminose. L’ultimo prodotto di tale atto generativo, spesso descritto facendo ricorso ad una esplicita simbologia sessuale, è la duplicazione dei corpi, cioè l’umanità.
Lo stratagemma che le forze della tenebra utilizzano per incatenare il genere umano è il vincolo del battesimo, l’immersione nelle acque di morte. L’immagine che sta dietro a questa forma di pensiero è probabilmente quella della «bestia» (thērion), del Drago o Serpente dalle molte facce, avvolto in sé stesso, che penetrando nell’utero (mētra) cosmico, acquatico e fluidico, dà impulso alla generazione degli esseri viventi. Ancora, il demone su ordine della Tenebra scatena il Diluvio, che è primo tentativo di «legare» l’umanità al vincolo della forza «psichica» simboleggiata dall’acqua: il battesimo d’acqua è dunque immagine del Diluvio. L’acqua rappresenta l’elemento caotico, notturno, embrionale, in cui sono contenuti i germi del divenire; essa contiene i vari «uteri» (mētrai) acquei primordiali, dai quali ha avuto origine la generazione corporea.
La visione negativa e demoniaca del battesimo e delle acque è presente in numerosi ambiti gnostici: essa ricopre un orizzonte ermeneutico che va dall’imagery antibattesimale di Giovanni Battista, rappresentato quale «maschera» attraverso cui parla il demiurgo omicida, a teorizzazioni più specifiche e complesse. In Zostriano, un’apocalisse gnostica, l’acqua del rito battesimale impartito dalla Grande Chiesa è l’«acqua di morte», elemento «psichico» e «femminile», vincolo e «laccio» che lega lo Spirito. Nei sistemi gnostici il fiume Giordano assume la tipica connotazione di «oceano generativo», idea espressa dai Naasseni nella «Predica» a loro attribuita. Essi identificano questa corrente acquea con il fiume seminale: scorrendo verso il basso essa genera l’uomo, mentre scorrendo verso l’alto genera gli dèi.
Il rifiuto del battesimo, s’è detto, coinvolge anche Giovanni Battista, che taluni chiamano «arconte dell’utero», in quanto signore dell’elemento acqueo in tutta la sua negatività, principalmente sessuale. Il battesimo d’acqua sembra essere di per sé «arcontico», «cosmico», e quindi espressivo della sessualità, intesa come negativa e demoniaca.
Su un medesimo piano di demonizzazione del battesimo si colloca il pensiero del fondatore della «Religione della Luce», Mani: Nel Codex Manichaicus Coloniensis la negatività delle acque è espressa come un «morire nel mezzo del mare e delle tenebre». Mani, sin dalla sua polemica con gli Elchasaiti – la comunità giudeo-cristiana in cui visse sino all’età di ventiquattro anni – respinge il rituale battesimale come strumento di salvezza, ma conserva la simbologia dell’acqua, che si accorda perfettamente con l’ideale soteriologico gnostico.
Strettamente imparentati con gli Elchasaiti di Mani sono i Mandei, una comunità gnostica tuttora stanziata nella Bassa Mesopotamia. La loro vita cultuale è totalmente incentrata sul rito battesimale, il mabuta: esso permette di entrare in contatto con le «Acque di Vita», mia hiia, cioè le acque del Giordano (Yardna) Celeste. Secondo la gnosi mandea esistono però delle Acque Torbide, oscure, mia hšuka, nelle quali vive un «serpente velenoso» e su cui è fondato il mondo di Tibil, il mondo materiale governato da Qin, madre dei demoni e regina della tenebra.
I Mandei rappresentano forse la forma originaria di ciò che in Occidente sarà lo gnosticismo cosiddetto «sethiano», incontro di culture al crocevia fra ellenismo e mondo aramaico-iranico. L’impulso iniziale del mito gnostico presuppone una elaborazione e visione di materiali ideologici e narrativi arcaici: a volte l’immagine del Seth biblico, inteso quale Redentore, si confonde con quella del Set egizio, inteso quale nemico.  I sistemi gnostici parlano di un Redentore, di un Cristo che in realtà è personificazione di Seth; ma il Cristo è anche e soprattutto il Pesce, un’immagine dalla grande posterità, che affiora plasticamente nel loghíon 8 del Vangelo di Tomaso. Secondo gli gnostici ofiti il demiurgo omicida Ialdabaōth ha un figlio, il quale ha le sembianze della lettera ebraica Nun, «che è contorta e ha forma di serpente». Abitualmente i commentatori di questo frammento gnostico, interpolato nell’Adversus haereses di Ireneo (I,30,5), intendono il termine Nun come l’accusativo del greco Noûs, «Intelletto». Una interpretazione corretta deve però tener conto che l’aramaico Nun traduce il greco Ichthys,  «Pesce»: secondo gli gnostici il filius del Demiurgo, e non del Dio buono, è infatti sia «Pesce» che «Serpente». Una personificazione mitica che testimonia un transito culturale fra Oriente e Occidente. Si pensi alla Balena dracontica di Giona od al Leviatano che nell’esegesi rabbinica ha le pinne e, di più, alle vicende «iraniche» di Tobia che caccia i demoni con un suffumigio a base di pesce.
Nella concezione gnostica l’uomo cade in balía di forze oscure e inafferrabili, diventa un mero involucro somatico, una prigione nella quale sono esiliate le particelle provenienti dalla vera realtà, il Mondo della Luce. Un mito plasticamente effigiato dalla discesa del Redentore (Cristo = Seth) nelle acque terrene, fluido letale che vincola la Luce al disordine cosmico. Qui, sicuramente, l’Acerbi parlerebbe di Seth quale patrocinatore di un ciclo cosmico: la figura che domina la gnosi è difatti la sua; le origini del mito sethiano possono essere rintracciate in due leggende rabbiniche tramandate nella letteratura giudaico-cristiana (apocalittica, tradizioni midrashiche, pseudo-clementine). Nella prima Caino è figlio del serpente satanico che seduce Eva, mentre nella seconda i «Figli di Dio» menzionati in Genesi 6, 2 e identificati (secondo la tradizione enochica) con gli Angeli decaduti o con i figli di Seth, seducono le figlie degli uomini (o ne vengono sedotti), cioè le fanciulle della genía di Caino. Da ciò traggono origine due «stirpi»: quella del seme puro ed incontaminato di Seth, non maculata dall’uso volgare della sessualità; e quella delle bestie, cioè i figli di Caino, predestinati alla lussuria, al male e alla dannazione eterna.
Il simbolismo delle acque primordiali latrici di vita, in cui l’Acqua è connaturale alla Luce e di cui si ha un’eco nelle hydata zōēs di Apocalisse 22, 1 rientra in uno sfondo culturale che comprende l’antico mondo religioso iranico (preislamico) e il milieu di lingua aramaica in cui si svilupparono le speculazioni del giudeo-cristianesimo, dello gnosticismo e del manicheismo. In questo ambito religioso riveste un ruolo importantissimo la concezione dello xvarənah (> pahlavi xwarrah), l’aura gloriae, lo splendore fiammeggiante che nell’ideologia del mazdeismo zoroastriano è detto celarsi nelle acque. Lo xvarənah ha un aspetto sia ideale che seminale, poiché è l’embrione in cui l’intera creazione si articola e si viene sviluppando: esso è la «forma di fuoco», asrō karp, da cui procede il cosmo.
Allo xvarənah, che è il seme del profeta Zoroastro celato nelle acque del Lago Kansaoya, è associata l’immagine della dea Arədvī Sūrā Anāhitā (> pahlavi Ardvīsūr Anāhīt): Anāhitā è la signora di una grande quantità di xvarənah; il suo fiume che dalla cima del Monte Hukairya scorre giù sino al Lago o «Mare» Vouru.kaša, contiene tanto xvarənah quanto tutte le acque della terra. Lo xvarənah risiede dunque in gran quantità nelle acque superiori, che dalla cima del Monte Hukairya, da un’altezza di mille uomini, si gettano nelle acque inferiori del mare Vouru.kaša, nel cui centro si erge il Gaokərəna (> pahlavi Gōkarn), l’Albero della Vita sorvegliato dal mitico Pesce Kara (> pahlavi Kar), il «Pesce d’Oro» dell’Acerbi.
La gloria, la forza luminosa, lo splendore fiammeggiante, è racchiusa dentro le acque in alto e in basso, nel macrocosmo e nel microcosmo, è la forza magica che ha come veicolo l’elemento umido. Nell’acqua risiedono la vita, la forza e l’eternità. Ora lo xvarәnah è appunto un’energia vivificante e creatrice per il posto che esso occupa nella cosmogonia e nell’opera della creazione zoroastriane. Il valore specificamente germinale di siffatto simbolismo è evidente: l’acqua è il ricettacolo di tutti i germi vitali e come tale diviene la sostanza magica e taumaturgica per eccellenza. Il suo modello ideale è l’Acqua di Vita di cui parlano i testi mandaici e gnostici, ma anche il Soma celeste del Veda; ovvero lo Hōm ī spēd avestico, cioè l’Haoma bianco che nei testi pahlavi viene raffigurato dentro le acque ed identificato con il Gōkarn, l’Albero della Vita innalzantesi al centro del mare Varkaš (< avestico Vouru.kaša). L’Haoma (> pahlavi Hōm) è, secondo questi scritti, un ricettacolo dello xvarәnah.
Tramite questa comparazione si definisce il punto di contatto in cui l’ambiente religioso di lingua aramaica viene ad intrecciarsi con il linguaggio simbolico caratteristico del dualismo zoroastriano: da questo sfondo culturale si dipanano inoltre le rappresentazioni simboliche che fondano l’immaginario religioso del citato gnosticismo «sethiano». Una di queste è certamente la Mētēr he phōteinē, la «Madre luminosa», dea della sapienza ed effluvio di Luce immacolata, il cui ruolo soteriologico è centrale in questa specifica corrente gnostica che rivela evidenti matrici pre-cristiane e giudeo-iraniche.
I testi del mazdeismo zoroastriano conoscono una zoologia fantastica che parla di un Asino unicorne, uno Xar ī sē pāy; animale meraviglioso dimorante al centro del Mare Frāxwkard, traduzione pahlavi dell’avestico Vouru.kaša, il mitico mare onirico fulcro della cosmologia iranica entro il quale si riversano, ad ovest e ad est, le acque dei fiumi ahurici Arang (< avestico Raŋhā) e Weh-rōd oppure Weh-daītī (< avestico Vaŋhvī daītyā), provenienti entrambi dalle cime dello Harā, il monte sito a nord, al centro del mondo.
L’«Asino unicorne» o «Asino a tre zampe» è dotato di sei occhi, poiché in numero di sei sono i kišwar (< avestico karšvar), le «regioni», i «continenti» che circondano Xvaniraqa, l’unica regione della terra abitata dall’uomo. Poiché Xvaniraqa è il solo, immenso continente popolato dell’ecumene, si può ragionevolmente supporre unicorne possiede un corpo bianco come il cibo sacro, l’haoma prodotto dal Gāw ī ēw-dād (< avestico Gav aēvō dāta), il Bovino unicreato anch’esso «bianco, splendente come la luna». che gli altri spazi terracquei, i sei kišwar che l’attorniano, non siano percepibili dai sensi umani. Il riferimento sembra palese: gli occhi disseminati sul corpo dell’Asino unicorne alludono ad una facoltà visiva spirituale, ad una mēnog-wenišnīh o gyān-wēnišn, la «vista animica» con cui possono essere percepite ed interiorizzate le modalità di esistenza non manifeste alla realtà fenomenica. In questo modo il «corpo visionario» dell’Asino a tre zampe può essere inteso quale mēnog-xwarišn, «nutrimento spirituale» serbato per il «giusto», ahlaw.
Il corno aureo (ēk srū z arrēn) sfoggiato dall’Asino mazdeo, designa non solo la centralità dell’esperienza di perfezionamento spirituale, ma anche la funzione dell’Asino quale axis mundi e luogo in cui si intersecano differenti livelli ontologici: nella cosmografia esso ha preso il posto dell’Albero Gaokәrәna, l’Albero della Vita che si erge maestoso, circondato da piante taumaturgiche, al centro del Mare Vouru.kaša. È l’Albero miracoloso recante il «bianco haoma», hōm ī spēd, la «pianta suprema» che conferisce vita imperitura a chi si ciba dei suoi frutti, allontanando la debolezza della vecchiaia e il «rarefarsi del respiro» e che al tempo del frašgird rende immortali i corpi dei risorti. Anche morfologicamente lo Xar ī sē pāy assume le fattezze dell’albero cosmico Gaokərəna: dai fori del suo corno immenso, dice il Bundahišn, partono come rami miriadi di altri corni grandi come cammelli, cavalli, asini ecc. Quel corno tramite cui sono distrutte le xrafstarān, ossia le creature ahrimaniche e la genía dei rettili consustanziali alle Tenebre, può essere inteso come axis mundi in cui si congiungono i poli dell’asse terrestre e celeste. Non a caso l’Acerbi ha rilevato nel presente libro ed altrove la sovrapponibilità e l’analogia funzionale tra il Gaokərəna, cioè l’Asino unicorne, ed il Dakiā Gokara, spazio topografico che nella tradizione puranica designa il Polo Sud in senso canopico.
L’albero della vita imperitura nella tradizione iranica è sovente confuso con un altro albero, anch’esso legato al mitologhema dell’Asino unicorne, il Wan-ābad, letteralmente l’«Albero rigoglioso», «prosperoso». Ora, questa pianta cosmograficamente altro non è che il Wan ī was-tōhmag, l’«Albero dai molti semi»; la «pianta», urwar, miracolosa da cui scaturisce l’intero regno vegetale. L’origine di quest’albero taumaturgico che reca guarigione e benessere è narrata nella cosmogonia del Bundahišn: quando lo Spirito Malefico contaminò la pianta primigenia facendola seccare, l’Immortale, l’«Arcangelo» posto a tutela della flora, il cui nome è Amərətāt, la ridusse in polvere disperdendone l’essenza sulla terra attraverso la pioggia. Da essa scaturì la totalità delle piante, la cui semenza generò nel Mare Vouru.kaša l’omonimo Albero.
Questa pianta mitologica prende inoltre il nome di «Albero Saēna», dal Saēna mərəɣa (> pahlavi Sēn murw), l’«Uccello Saēna», il meraviglioso Sīmurɣ dell’epopea neopersiana, la Fenice iranica che si posa sui suoi rami. Ogni anno l’Uccello Saēna mescola i semi dell’Albero taumaturgico, salvifico, nell’acqua e Tištrya/ Sirio, il possente destriero celeste, li distribuisce sulla terra: ciò è più che comprensibile, poiché Tištrya/ Sirio è legato alla stagione delle piogge, suscitate in seguito alla lotta intrapresa contro il demone Apaoša (> pahlavi Apōš).
Ma nel contempo questa circostanza propone un’altra riflessione di carattere «polare»: astrologicamente il favoloso volatile corrisponde oltreché a Sirio anche alla costellazione dell’Aquila, il cui retaggio mitologico, cioè il rapimento di Ganimede da parte di Zeus trasmutatosi nell’animale, ricorda l’occultamento di Zāl nell’epopea neopersiana dello Šāh-nāme. Saēna e Tištrya sono relazionati dal mito, perché assialmente opposti nel cosmogramma che contrappone emisfero boreale ad emisfero australe; egualmente nella mitologia greca l’Aquila astrale si posa sulla Testuggine di Hermes, fuor di metafora la costellazione della Lyra, identificabile in Vega = Wanand, la stella alla quale nell’astrologia iranica compete la sovranità sul quadrante occidentale della sfera celeste. L’Acerbi, non per niente, ha associato la Lyra al Delfino Salvatore del musico ellenico Arione riconoscendo in questo mitologhema il frammento d’un aureo mito. L’assialità di Vega/ Wanand rispetto a Tištrya/ Sirio è comprovata: allorché l’Albero dai molti semi è identificabile all’Albero della Vita sorvegliato dal Pesce Kara è quindi riconoscibile il polo boreale, quando viceversa appare affine all’Albero Saēna richiama al polo australe. Il Saēna va distinto dal Gaokərəna/ Gōkarn, il mutamento da un albero all’altro indicando lo slittamento periodico del polo australe da Sirio a Canopo. Altro argomento al quale l’A, come ci ha confidato, intende dedicarsi in una sua ricerca futura, allo scopo di chiarire bene il problema delle variazioni polari e dei loro rapporti colla tematiche avatariche.
Tutte queste relazioni tra mondo terreno e mondo celeste hanno una loro sistemazione «rituale» nei culti  astrolatrici praticati nell’antica città mesopotamica di Ḥarrān, singolare confine spirituale tra ellenismo e iranismo. Le origini di Ḥarrān, città della Ĵazīra, risalgono al regno di Mitanni; circa tre millenni dopo, i Mongoli la rasero al suolo deportando la popolazione locale a Mossul e Mardīn. In questo lungo lasso di tempo, Ḥarrān, è passata alla storia religiosa del Vicino Oriente sostanzialmente per due motivi. Tra le sue mura sorgeva il tempio consacrato al dio babilonese della luna, Sin. Un santuario che nel IV sec. d.C. ebbe quale visitatore illustre l’Imperatore «Apostata» Giuliano. Ultima funesta tappa, prima di soccombere all’esercito di Šābuhr II.
Da un altro lato gli scrittori arabi insistono nel presentare Harrān quale centro di un culto astrolatrico, singolare incontro di neoplatonismo teurgico, ermetismo e antiche tradizioni religiose mesopotamiche, officiato da una comunità di credenti meglio noti come «Sabei» (in arabo Sābi’ūn, Sābi’a). Usualmente nei Sabei si riconoscono tre identità religiose: i Sabei menzionati nel Corano; i Sabei come Mandei, la menzionata setta gnostica aramaico-mesopotamica nota per le interferenze con il cristianesimo delle origini; i Sabei di Ḥarrān, espressione s’è detto di una tradizione sapienziale, che nel IV sec. d.C. mescola teurgia e rituali ermetici.
L’ultimo tempio pagano di Ḥarrān è stato distrutto nel V sec. d.C., allorché la città passò sotto il controllo della dinastia nomade dei Numayridi. Non esiste alcuna testimonianza a partire da questa data, che documenti un’attività cultuale pagana in Ḥarrān. Ora, la quasi totalità delle notizie arabe circa i Sabei di Ḥarrān sono posteriori a tale data. Alcuni autori non hanno nemmeno visitato la regione: le loro notizie provengono da oppositori, cristiani o musulmani, che a vario titolo proiettano sull’astrolatria di Ḥarrān modelli e tipologie ereticali. È il caso di al-Dimašqī, che descrive gli hayākil, i «templi» sabei, in termini talmente estrosi e chimerici, da farli apparire più vestigia psichiche di un passato teurgico che reali oggetti cultuali. L’idea sullo sfondo di questa affabulazione è che gli astri inscritti nei cieli astronomici sono riprodotti simbolicamente nell’architettura dei templi terrestri. Una sincronia che riporta alla concezione platonica secondo cui le anime conducono dapprima un’esistenza astrale, poiché associate a un astro «compagno» (synnomon astron). E proprio a questa dottrina di una parentela segreta tra le anime e gli astri è legata la nozione aristotelica della «quinta essenza», cioè l’etere, di cui i corpi celesti sarebbero composti. Le anime in origine erano stelle e a questa stirpe  astrale faranno ritorno.
Tutto il rituale sabeo ha come fondamento e come scopo questo avvicinamento all’astro. Di qui la necessità di costruire sulla terra dei templi di cui astronomia e mineralogia garantiscano la corrispondenza con il tempio celeste. Ciò presuppone una ben determinata concezione e organizzazione dello spazio cosmico. È il compito esatto dell’astrologia, la quale immagina attorno alla terra un cerchio di costellazioni che i Greci chiamavano con il nome di Zodiaco. Prima delle costellazioni dello Zodiaco vi sarebbero delle stelle «erranti», cioè i «Pianeti», nell’ordine: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. Essi formano, con il loro vagare, delle figure geometriche quali trigoni e quadrati; al di là delle stelle erranti e di quelle mobili abbiamo il limite ultimo ed estremo della volta celeste, le stelle fisse.
Questi brevi rudimenti di astrologia, per comprendere quanto al-Dimašqī narra  circa  i templi dei Sabei. In particolare la nostra attenzione è presa dalla descrizione del tempio dedicato a Mercurio, con lessico medio-persiano nominato come Tīr. Esso è di forma esagonale, con  inscritto un quadrilatero; alle pareti immagini di bei giovani tradiscono, forse, una parvenza di androginía.
Il tempio ha quattro ingressi che si aprono nello spazio rettangolare al centro, mentre, inanellato da quattro gradini circolari, sta un trono. Esso diventa teatro, assieme agli altri, nel giorno consacrato al suo astro (il Mercoledì), di una liturgia particolare. Mercurio/Tīr è ritenuto lo scriba divino e lì viene officiato il suo culto. L’organizzazione dello spazio sacro del  tempio, l’esagono e il quadrilatero inscritto, più che richiamarsi a una sorta di  geometria astrale o planetaria, si rifanno alla ripartizione del cosmo nella cosmogonia dell’Iran antico. Il pensiero corre ai citati sei kišwar, i klymata con al centro l’immobile terra di Xvaniraqa, la «Ruota Avvampante». Gli indo-iranici pensavano che il mondo fosse ripartito in sette regioni, chiamate karšvar in avestico (> pahlavi kišwar), dvīpa in sanscrito. Secondo le popolazioni arie questi continenti avevano tratto origine dalla prima pioggia, che bagnando la terra l’avrebbe divisa in sette parti. La regione centrale, chiamata Xvaniraqa, è grande come le restanti sei messe insieme, ed è l’unica abitata dall’uomo. Gli hindu chiamavano questa regione centrale Jambūdvīpa e pensavano fosse circondata dalle altre sei, che la avvolgevano formando una serie di cerchi concentrici separati a loro volta dagli oceani cosmici.
Al centro della regione abitata dall’uomo, si erge un grande monte. Gli hindu lo chiamano Sumeru, Meru od altrimenti; anche in Iran ha vari nomi, ed è collegato tramite radici sotterranee alla grande catena montuosa dello Harā: esso è il «picco (Taēra) di Harā» e gli Śaka khotanesi, quando si convertirono al buddhismo, conservarono quest’antico nome di «Picco di Hara» (ttaira haraysä) per indicare la stessa cosa del Monte Sumeru. In pahlavi è spesso chiamato semplicemente Tērag, oppure Harā. Nel tempio sabeo dentro all’esagono sta un quadrilatero, figurazione di Xvaniraqa; al centro di esso sta il trono, immagine della «quinta essenza» e luogo dell’epifania del dio. Non a caso, cosmologicamente parlando, proprio sul «picco dell’elevato Harā... attorno al quale ruotano le stelle, la Luna ed il Sole»  si compiono  le altre epifanie: in un frammento manicheo in sogdiano tratto dal Kawān, l’enochico «Libro dei Giganti» rivisitato da Mani, gli Egrēgoroi assumono forma umana e discendono nell’Airyana Vaēǰah, cioè nel cuore dello spazio sacro del mazdeismo zoroastriano, il luogo ove l’induismo pone il Meru. Lì Mihryazd/Spiritus Vivens costruisce trentadue città dove, secondo un altro frammento, verrà confinata la progenie degli Angeli decaduti: le città corrispondono al Paradiso di Indra, che nel mito hindu «è localizzato tra i quattro picchi del Meru, e consiste di trentadue città di deva». Esso è quindi identico allo Harā Bərəzaitī, la catena montuosa che si erge imponente sulla dimora aria e che ritroviamo come Mw’i-lao, traduzione cinese del Monte Meru menzionata nel trattato manicheo edito da Chavannes e Pelliot. Questo monte è una sorta di paradiso lunare. Si deve ricordare infatti che nella gnosi manichea la Luce separata dalla hylē, prima di essere traslata nel Sole, si raccoglie sulla Luna. Ora, in un testo avestico l’haoma, la pianta che reca il fluido lunare per eccellenza, è detto crescere proprio nelle altezze della catena montuosa dello Harā. È noto lo stretto legame esistente tra Haoma avestico e Soma vedico: entrambi sono il modello dell’Acqua di Vita, la libagione celeste ricettacolo della forza luminosa. Poiché legato all’haoma/soma, il nettare vivificante in cui è celata la Luce, questo monte possiede quindi una ben definita struttura lunare: in Mihr Yast si dice che «il Sole fuoriesce attraverso l’alto Harā» e la sua vetta è descritta come «tortuosa, lucente... dove non c’è notte o oscurità, né vento freddo né caldo, né malattie mortali, né corruzione... dove non esiste foschia». Esso è un vero e proprio paradiso, una regione di beatitudine, ma priva di azione e di divenire, una specie di esilio, al di là di ogni conflitto, una terra dissolta nella pura immortalità.
Agli albori del VII secolo d.C. il re persiano Cosroe II Parwiz (590-628 d.C.) edificò uno straordinario palazzo che chiamò Taxt-i Tāqdīs, «Trono degli Archi» – ora noto come Taxt-i Sulayman, «Trono di Salomone» – sulle alture sacre di Shiz nella Media Atropatene, l’attuale Azerbaigian.  Era il centro del culto dei Magi zoroastriani: in esso si ergeva un tempio del fuoco, ed era ritenuto un’immagine del centro del mondo. Il Taxt era alimentato da due fiumi e circondato da possenti mura, inoltre vi erano istallati dei congegni che simulavano il variare delle stagioni e i mutamenti climatici; il tutto in armonia con l’idea cristiana del Paradiso, il Pairi.daēza iranico, altrimenti ritenuto la fonte iconografica del Castello del Graal, un motivo che l’Acerbi ha studiato in altre pubblicazioni.
Tornando all’astrolatria dei Sabei, una fonte neopersiana parla di un tempio foggiato in pietra bluastra, sempre dedicato a Tīr/ Mercurio, abitato da un singolare idolo dalle fattezze di pesce e dal volto di cinghiale. Un duplice zoomorfismo che si accoppia a una dicromia: lo strano personaggio metà bianco e metà nero, porta una corona sul capo mentre nella destra reca una penna e nella sinistra un calamaio. Una rappresentazione che porterebbe forse l’Acerbi a meditare sui cicli cosmici, sul loro avvicendarsi e sull’inaugurarsi di un nuovo kalpa. In India il terzo avatāra di Viu, Varāha, ha in effetti sembianze di cinghiale. Il mito narra che, al tempo in cui il demone Hirayāka teneva prigioniera la dea Pthivī, la terra era completamente sommersa dalle acque. Nelle fattezze del cinghiale e dopo un lungo combattimento, il dio Viu riesce ad avere la meglio sul demone. Si immerge nelle profondità, svelle la terra riportandola in superficie. La plasma dando forma ai continenti e alle montagne: un atto cosmogonico che è l’inizio di un nuovo kyklos, di un nuovo eone. Liberazione della terra ossia della sua divina incarnazione, cosa che nell’opera dell’Acerbi ha un suo significato peculiare: Pesce e Verro sono in tal logica, come in Persia il Pesce Kara e l’Asino unicorne, tutte figurazioni della ricerca d’un «polo», di un centro metafisico delimitato in uno spazio che i più chiamano «paradiso».
Secondo la tradizione zoroastriana, nelle acque del Lago Kansaoya sarebbe celato il seme del Profeta, da cui nascono una serie di tre Saošyant (> pahlavi Sōšyans) artefici supremi della storia dell’uomo e del cosmo. Solo l’ultimo di essi può dirsi veramente il Saošyant,  il  Soccorritore, il Salvatore venturo, cioè lo stesso Zoroastro. Colui che compirà il sacrificio finale preparando l’haoma, la bevanda d’immortalità, con il grasso del bue Hadhayans. Con ciò si avrà la resurrezione finale di tutti i corpi, a partire da Gayōmard, primo uomo e primo mortale.  Alla  fine  tutti saranno accolti nello splendore, nel «Paradiso» di Ohrmazd.  Nella dimensione terrestre, questo Pairi.daēza, questo luogo delimitato, «racchiuso in un cerchio», è figurato in Xvaniraqa, la regione al centro del cosmo mazdeo. È il  paradiso al  quale  accedono i sovrani  sassanidi, che già  nel diadema recano l’emblema della beatitudine «lunare», una  mezzaluna inscritta in un globo. In un cammeo di cornalina dedicato a Cosroe II Parwiz, la corona del sovrano assume la forma di un berretto strettamente aderente al capo. Essa presenta sul da­vanti una piccola mezzaluna e, sulla sommità, una seconda mezzaluna che inscrive un disco o globo. La duplice presenza degli spicchi lunari allude probabilmente all’avvicendarsi ciclico di luna crescente/ piena e di luna calante/ nuova.
C’è un altro monumento legato a Cosroe II, al centro di una vivace discussione: si tratta di un rilievo proveniente da Tāq-i Bustān; l’usuale iconografia della falce lunare che include il globo è arricchita dalla presenza, sulla superficie di quest’ultimo, di una serie di piccole sfere. Nell’interpretare questi monumenti si deve tener presente il fulgore igneo, lo xvarənah permeante il capo degli esseri eletti, un motivo che trasmigra nell’arte buddhista: si pensi al nimbo che aureola tante figurazioni di Maitreya. Ma nimbo, globo o disco, si collocano in una dimensione simbolica tesa ad affermare nel sovrano sassanide la funzione cosmica di emissario del sole. In realtà le piccole sfere disseminate (in gruppi di tre) sul globo a Tāq-i Bustān non rappresenterebbero tanto il Sole, quanto gli astri; d’altronde in altre figurazioni il re Co­sroe II, come altri re prima di lui, sostituisce al disco o globo nello spicchio lunare una stella a cinque punte. Siccome la corona, oltre allo spicchio lunare e alla stella, ha anche le due ali del sole, gli antichi simboli astrali mesopotamici sembrano rivivere integralmente in Cosroe II, a dispetto di chi ha voluto vedere in queste figurazioni una mera derivazione dall’arte kuāa (gandharica). S’è infatti dimenticato quanto siano a loro volta profondamente pervase di astromantica mesopotamica le stesse decora­zioni di tiare e corone dei sovrani kuāa.
Da sottolineare come questo globo alato proprio per la sua facoltà di volare, di portarsi al di sopra della Terra, nei piani celesti, di muoversi in piena libertà in ogni senso, esprima sotto forma di simbolo una serie di significati cosmici e spirituali. Una associazione di Stelle, Luna e Sole che conduce nel cuore della cosmografia iranica, configurata  proprio in  questi  tre  livelli.  La letteratura zoroastriana  più antica conosce infatti un percorso – i tre «passi» – dell’Anima attraverso le Sfere delle Stelle Fisse, della Luna e del Sole. La Sfera delle Stelle è quindi la più vicina alla Terra, secondo una concezione di probabile origine babilonese.
Una iconografia paradisiaca che contaminerà l’immaginario della gnosi iranica, il manicheismo: nel manicheismo Gesù è māh-yazd, il dio della luna, «occhio del  cielo»; un  paradiso ch’è luogo di transizione della Luce dalla Terra al Sole. Il motivo, ricorderà l’Acerbi, è quello upanishadico delle anime luminose che scorrono nella Via Lattea, in perenne ascesa dalla terra al cielo. Il Paradiso quale «casa del canto», nell’incontro del trapassato con le seducenti apsaras, allettanti fanciulle antesignane delle islamiche ūri, svestite nel loro primordiale baby-doll.
Concludendo, si può affermare che nel lavoro dell’Acerbi simbolismo cosmico e simbolismo animale assumono valori differenti, sebbene la temporalità sottenda entrambi. Nel primo tali valori sono espressi da una elaborata affabulazione mitopoietica, mentre nel secondo l’affabulazione coincide con una visione intuitiva e istantanea della realtà fenomenica. È una personale revisione dell’esemplarismo platonico, secondo cui gli oggetti, i fatti e gli avvenimenti altro non sono che illustrazioni, esempi, in occasione dei quali ha luogo l’intuizione di essenze. Intendendo come essenza ciò che si manifesta attraverso il fenomeno o ciò di cui il fenomeno è manifestazione.
Cosa più che comprensibile passando ad un altro livello, o per meglio dire la zona intermedia tra cielo e terra, chiamato simbolico. Nella mentalità giudaico-cristiana arcaica il cielo, «firmamento», era percepito in qualità di veste, limite o specchio della trascendenza divina. In tale ambito fenomenico rientrava comunque tutto ciò la cui esistenza aveva un’evidente natura ciclica (l’aurora, il tramonto, la pioggia, il vento, ecc.); insomma, quegli accadimenti che la logica moderna induce a classificare, in maniera assolutamente distinta, come fenomeni atmosferici, biologici e così via. La percezione di questi fattori ambientali concepiti come enti non era dunque intesa in senso prettamente fisico, ma era riallacciata ontologicamente a determinate forme archetipali. Di qui l’istantaneità del simbolismo animale, che assume nella forma fisica la manifestazione della trascendenza. Tutto ciò che è terrestre rispecchia, in quanto soggetto a misura, il divino, e il culto sottolinea questa semplice verità: i templi riproducono il cosmo e sono orientati verso un preciso punto celeste. La terra dei miti e dei riti corrisponde allo Zodiaco, all’inesorabile fluire del tempo all’interno di una frazione di esistenza.

                                                                        Ezio Albrile

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