martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Note al Capitolo II (1-400)






Note al Cap.II


1)          Gué., Il q. V., passim.  Guénon naturalmente ha ragione da vendere nel correggere la dicotomia creata dagli orientalisti fra Veda e Tantra, ma non del tutto.  L’induismo è uno solo naturalmente e i Tantra sono le scritture per eccellenza adatte al Kaliyuga, peraltro ormai definitivamente trascorso; ma non è proprio esatto dire che il Tantra è contenuto nel Veda e che il Veda era al principio, sottintendendo nel Satyayuga o meglio nell’Iāvta.  Questo assioma è contenuto nei testi, lo sappiamo bene, Guénon non dice nulla che non faccia parte di quella tradizione.  Il problema è che anche i testi in certo senso <barano>.  Vale a dire, la simbologia del Caturveda ci fa credere d’aver a che fare col Caturyuga, sicché ogni singolo Veda sarebbe l’espressione d’un singolo Yuga.  L’Atharvaveda è il quarto Veda per ordine di compilazione, ha valenze magiche a differenza degli altre tre e quindi il Tantra in tale ottica appare quale appendice di quest’ultimo testo.  Benché il simbolismo nella sua quadruplice valenza si riferisca pure al piano letterale, ciò va considerato cum grano salis, vale a dire intendendo il sapere vedico nelle sue varie gradazioni quale immagine del passaggio dalla perfezione primeva alla decadenza dei tempi ultimi.  Il che non significa, come qualche tradizionalista ha creduto ingenuamente, che in principio esisteva il gveda; non esisteva, non poteva esistere, neanche oralmente.  Visto che la Lingua di Manu, coincidente con quella di Adamo, era il silenzio.  L’iconografia medesima ce l’illustra, dotando il Primo Uomo solamente della Coppa dell’Abbondanza, il Cuore.  Allora perché talvolta, ci si può chiedere, il Matsya è affiancato da una personificazione dei Quattro Veda?  Cfr. ad es K.S. Desai, Iconography Of Viu (In Northern India Upto The  Medieval Times)- Abhinav P., N.Delhi 1973, p.64 e figg. 51 e 53.  Si tratta di immagini tardo-medievali presenti a Garhwā, Gyaspur (ora al Mus. di Gvāliyor, piú comunemente Gwalior) e Chambā, aventi per base un fior di loto.  L’autore non sa interpretarle correttamente, ma vi è una ragione precisa per quest’<errore>.  Infatti, introducendo l’argomento (p.62), scriveva: “It is really a problem how the fish came to play a part in the avatāra cycle of Viu.  It does not figure in the Vedic mithology.“ Vero, esso spunta nello Śatapatha Brāhmaa e poi nel Mahābhārata; non è una tema collegato ad Indra, il deus-ex-machina del gveda.  E a rimetterci in tal senso non è la leggenda del Matsya, ma il Veda, poiché il Veda come tutte le scritture è una compilazione relativamente tarda.  Sul piano contenutistico e quindi anche a livello di tradizione orale – lo ha dimostrato Tilak indirettamente in The Orion – il gveda non va oltre l’inizio del Kaliyuga, se non di poco; per questo è attribuito a Ka, il IX Avatāra.  In The Arctic Home Tilak (Capp. IX-X sgg) è riuscito ad andar oltre e a dimostrare, errori ed omissioni parziali a parte (in primis la confusione fra patria artica e patria nordica), che certi miti rispondono ad una logica piú antica; diciamo dvaparayughica, ma non ha potuto andar piú in là della Fine dell’Epoca Glaciale, cioè dell’epoca di dominio degli Ārya (Eroi).  Non c’è un «piú in là», dato che il Veda ha un carattere principalmente vishnuita, sebbene non settario; il ‘brahmanismo’ di cui parrebbe latore è invero la dottrina degli Ārya, cioè degli Eroi, o Vaiśya (‘Artigiani’) che dir si voglia.  Invece il Tantra – se proprio vogliamo andare a vedere – possiede per sua stessa ammissione un originario carattere shivaita, non shaktico (vale a dire regale, non popolare), e si rifà pertanto al Tretā.  Il vero mito delle origini, ce l’insegna la tradizione hindu nel suo complesso a chiare lettere, è insomma la leggenda del Pesce d’Oro (Matsya) e del Re Pescatore (Manu) e non altro.  Il Veda è stato ideato dai bardi vedici nell’Uttarākuru, non dai i; i quali costituiscono una categoria riassuntiva nello schema quaternario (anziché quinario) delle età cicliche – e come tale solo ideale – della sovracasta primeva e della casta sacerdotale nel loro insieme, ma maggiormente prossimi alla seconda.  Tanto piú che il sacerdozio primordiale era formato principalmente da shamane (cin. wu), piuttosto che da shamani (cin. rsi).  Cfr. nn. 24 e 26.
2)          In questa scia di studi si è inserito già dalla Fine degli Anni  ’60 anche il prof. Parpola, il quale seppur un poco sgomitando (ma è tipico dei migliori) è giunto al punto piú avanzato in questo settore, finendo purtroppo per riconoscere a Padre Heras solo una grande fantasia.  Troppo limitativo ed irriconoscente, visto che la tematica del Trifoglio di cui si fregiavano quale ornamento cerimoniale gli antichi sacerdoti vallindi nella loro emblematica veste e di cui egli si è fatto un notevole illustratore dalla metà degli Anni ’80 in poi (Parp., The Sk., passim) è stata introdotta nell’orientalistica proprio da Heras.  Vedi H.Heras, The trefoil decoration in Indo-Mediterranean Art- Raj. Sir Ananamala Chettiar Comm.Vol., 1941, pp. 588-98 sgg.  Noi stessi in parallelo, pur all’oscuro dei risultati ottenuti dallo studioso finlandese in campo iconologico, avevamo nella nostra prima tesi di laurea (Ac., Kāl., 2 voll., passim) discusso fra le altre cose la medesima effigie.  Seppur con minor enfasi ed in relazione al motivo dei Tricorni, fino ad allora per noi di maggior interesse, data la relazione inevitabile con quello dell’Unicorno.  Fu d’altronde esattamente in quel momento che il nostro relatore, prof. G.G. Filippi, ci parlò di questo insigne studioso.  Di sicuro Parpola è stato l’unico, a parte il sottoscritto (che ha svolto per proprio conto analoga ricerca piú in penombra, vide Cap.I, n.144), a portar avanti le tematiche indomediterraneiste di fronte al gran pubblico negli Anni ’90; ed è andato oltre Heras di molto per certi versi (ad es. nella giusta decifrazione di determinati pittogrammi quali il Pesce o di alcuni antichi simboli mediorientali quali la Luna e la Stella), per certi altri propriamente spirituali (ad es. il motivo del Matsya e del Diluvio, bene sviluppato dal gesuita spagnolo) non riuscendo invece a coglierne in pieno il significato.  Benché abbia apportato pure a questo tema, in effetti, nuovi argomenti di discussione.  Cfr.  in proposito Parp., Dec., P.IV, Cap.X sgg.  A differenza di Heras è riuscito comunque a capire (ibid. come al Cap.I, n.122), e gliene va dato atto, che lo schema storico dell’invasione aria tarda preceduta da quella dravidica in tempi ignoti è ormai datato.  I Paleo-dravidi dell’antica Valle dell’Indo erano dunque dominati da dei Proto-ari, come vorrebbe il Parpola, oppure connessi (non importa in quale rapporto di subordinazione o meno) ad altro ceppo piú primitivo ma d’origine nordica anch’esso?  Vedi piú innanzi.
3)          Considerare, per un confronto, i proto-europei additati da Platone nel Criti.- iii. 109°-v. 112°; già descritti nel Tim.- iii. 23d-25d.  Forse esisteva una terza opera ora perduta di argomento atlantideo, a giudizio di C.  Giarratano, l’Ermocrate.  La Grecia descritta nei due Dialoghi platonici citati non pare tanto una Grecia mitica, sebbene idealizzata, quanto una Grecia preistorica e con una diversa conformazione geografica.  Questi proto-greci ed altri proto-europei in un passato lontano, quando la Grecia era ancora una terra fertile con vaste boscaglie e dominavano la cima delle colline grandi alberi in seguito abbattuti per fabbricare i tetti dei templi, si sarebbero scontrati con “un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un tempo tutta l’Europa e l’Asia, movendo di fuor dell’Oceano Atlantico.  Questo mare era allora navigabile, e aveva un’isola dinanzi a quella bocca, che si chiama, come voi dite, colonne d’Ercole.  L’isola era più grande della Libia e dell’Asia riunite, e i navigatori allora potevano passare da quella alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente opposto, che costeggiava quel vero mare” (ibid, 24°-25°).  
4)          Accertato a livello archeologico è almeno il passaggio dall’Asia all’Europa, come si desume dal trasferimento della cultura megalitica e della pittura parietale dall’Australia al Mediterraneo.  Cfr. Cap.I, n.117.
5)          Il gr. Πελασγός (nome dell’antenato eponimo dei Pelasgi secondo Esiodo, figlio di Zeus e Niobe secondo Ecateo) proviene a nostro parere da *πέλᾱς/*πελαινός quale var. di *κέλᾱς/κελαινός (‘nero, scuro, blu’) e μέλᾱς/ femm. μέλαινα (id.), scr. kāla/  femm. kālī (id.).  [Si noti che l’α della prima serie di termini è lunga.]  Il gr. πέλασγος (‘mare, oceano’) prova non solo che era un popolo di pelle scura, ma anche che era venuto dall’Oceano (vedi l’etimo proposto da E.Klein), l’Atlantico s’intende.  I Pelasgi – che Dionisio faceva giustamente corrispondere ai Greci – erano in genere ritenuti le genti stanziate nell’Egeo e in Asia Minore prima dell’avvento degli Elleni; a partire da Dodona secondo Esiodo, ma altri autori tracciano un diverso quadro.  I Pelasgi avrebbero fondato la civiltà cretese e a giudizio di Ellanico ed Eforo spostandosi in Italia dalla Tessaglia, dall’Epiro e dal Peloponneso (chiamato una volta Pelasgia, al pari dell’Arcadia) avrebbero dato luogo a quella tirreno-etrusca.  Oggi erroneamente si commette nei loro confronti da parte di alcuni studiosi lo stesso sbaglio che si fa coi Dravidi (lett. ‘figli delle acque’), considerandoli autoctoni.  Non possono essere stati degli aborigeni, dato che appartenevano non meno dei Dravidi e degli Egizi al ceppo camitico.  Alcuni li connettono al ceppo ibero-caucasico, ma la sostanza non cambia.  Probabilmente hanno raggiunto la Grecia alla fine del Mesolitico (7.000-6.500 a.C.).  Lo testimonia indirettamente Hēr., Hist.- i. 57.  La cultura proto-pelasgica a livello di scavi è stata identificata alle culture tessaliche neolitiche di Sesklo (6.850-4.400) e Dimíni (4.800-?), ma vi è chi ipotizza un suo arrivo nell’Egeo dall’Asia Minore nel IV millennio; altri ancora la identificano all’Elladico Medio (2.100-1.550), o persino all’Elladico Tardo (1.550-1.060) della Grecia micenea.  Cfr. Ovidio, o Strabone, al riguardo.  Secondo Omero del resto i Pelasgi erano alleati di Troia, quantunque nell’epoca della stesura dell’Iliade (fra il IX e l’VIII sec.) i tempi del loro dominio erano ormai troppo lontani per avere un quadro chiaro della situazione in passato.  I loro luoghi di stanziamento si erano ridotti ad enclavi.  Verso il 1.500 c. erano infatti giunti ad ondate sulle sponde egee i Proto-elleni (Ioni ed Eoli), cioè gli Achei dell’Iliade, e la loro venuta aveva determinato nel giro di uno o due secoli (forse attorno al 1.400) la caduta di Troia.  Una disputa, prima, e poi una fusione col ceppo pre-ellenico erano inevitabili.  Proprio questo periodo storico è stato cantato ed idealizzato da Omero, il periodo della grande monarchia micenea.  Successivamente (1.200-1.000 c.), prima del sorgere del grande vate, era avvenuta anche la seconda invasione; quella dorica, dell’ellenizzazione vera e propria.  L’effetto principale, a partire soprattutto dall’VIII sec., era stato la nascita di πόλεις autonome ed indipendenti che sostituivano alle vecchie monarchie una nuova oligarchia fondiaria.  È in tal momento che secondo gli storici spunterebbero i primi servi della gleba, ma a nostro parere erano già presenti nel Neolitico.  Cfr. nn. 7-8.  Ivi la situazione di pauperismo, evidentemente, si cronicizza.  Può darsi che anche in India sia avvenuto qualcosa di simile: una prima invasione ad ondate del ceppo ario verso il 1.800 od il 1.500, una seconda tardiva verso il 1.200 od il 1.000, con conseguenze sociali parallele.  Onde i testi, peculiarmente il gveda, finirebbero per testimoniare soltanto tradizioni orali precedenti; di carattere e contenuto ambivalente, in quanto ereditate dalla fusione etnoculturale. 
6)          Il dato tradizionale, per la precisione 12.960 anni, è costruito sulla precessione equinoziale e la dottrina degli Yuga, che invece calcola le congiunzioni di Giove e Saturno ogni 20 anni.  Il loro computo, nell’arco di 2.160 anni (equivalente al trascorrere del P.V. di 30°), non a caso è venerato come il numero dei nomi di Śiva: 108.  Il calcolo planetario, per forza di cose, è dunque piú  ancestrale di quello zodiacale.
7)          Lascia il tempo che trova la teoria materialistica proposta da G. Childe che le caste siano sorte tutte assieme all’inizio del Neolitico, quando la popolazione si trovò di fronte a risorse economiche che mai aveva posseduto prima.  Secondo la tradizione hindu al contrario ogni vara sarebbe sorto in uno Yuga specifico, in ordine decrescente per valore ed importanza; gli Śūdra, ad es., sarebbero nati all’inizio del Kaliyuga.  Ed è questo che specificatamente accettiamo, non l’ipotesi peregrina dello studioso australiano.
8)          Lo śūdra corrisponde al famulus, il ‘servo’ della latinità, od all’iloto dalla grecità (l’ilico degli Gnostici).  Da notare che i termini ellenici, in proposito (cfr. anche il gr. δμος/δμος = ‘paese, territorio; popolo, comunità’, connesso da un lato al vr. δαίομαι = ‘dividere’ e dall’altro a δμω = ‘lavorare, fabbricare, digrossare il legno’), indicano tutti una relazione colla natura od il legno.  Curiosamente invece in latino il termine famulus, di cui familia è soltanto un collettivo rappresentante il nucleo di base dei famuli formato da genitori e figli ma senza un mestiere preciso, è considerato unanimemente d’origine pre-indoeuropea; raccoglie insomma la categoria di coloro che, non possedendo un’arte peculiare da esercitare liberamente (scr.artha), dovevano servire un padrone.  Potrebbe derivare da famēs (‘fame, carestia; povertà, indigenza’), altra parola ritenuta dai filologi senza un etimo preciso nelle lingue indoeuropee.  La voce prōlētārius, assegnata dai Romani a chi possedeva in dotazione unicamente la prole, è piú recente ma ha lo stesso significato sociale e culturale di famulus.  Invece il concetto di plebs = ‘plebe’ (da *pleo = ‘riempire’), gr. πληθύς = ‘moltitudine, folla, massa’ (da πλήθω = ‘esser pieno, crescere’) poggia concettualmente sul numero.  Il scr. śūdra è, come famulus, d’etimo incerto; tuttavia non è detto che debba derivare dal linguaggio anario, potrebbe ricollegarsi al s.m.(n.) śūla, designante il forcone a tre punte od ogni altro strumento con denti acuminati quale strumento di lavoro.  In fondo, inteso come Tridente è l’arma tipica di Śiva, che nelle sue forme sinistrorse è signore dei servi.
9)          Pl., Tīm.- iii. 25c-d; Crit.- v. 112° e xii. 121b-c.  Senza dimenticare che un terzo dialogo è andato perduto oppure non è stato mai compilato.  Se la grande inondazione atlantidea, coinvolgente secondo lo scrittore anche Atene ed il Mediterraneo, è stata “la terza innanzi al Diluvio di Deucalione”, significa o che retrodatando ne erano avvenute tre prima oppure che quella di Deucalione era la quarta.  Non è facile risolvere la questione.  Cfr. n. 11.  La storiografia ufficiale ha preso poco sul serio la leggenda dell’Atlantide, eppure si tratta di un comune dato cosmologico, che fa il paio con tanti altri della mitologia greca e non.  Il corrispettivo ellenico, tanto per esser chiari, della cosmografia quale appare in tutta la letteratura sacra dell’India e d’altre contrade.  D’altra parte, l’autore dichiara in modo inequivocabile per bocca di Crizia (Tīm.- ii. 20d: “Ascolta dunque, o Socrate, una storia molto meravigliosa, ma tutta vera, come raccontò una volta Solone, il più savio dei Sette (trad. di C.Giarr.).”  Platone mette in gioco con questa affermazione non solo sé stesso, ma la credibilità dell’illustre antenato oltreché dell’intera propria famiglia, di cui ci tiene a mostrare la discendenza aristocratica.  E ribadisce piú avanti (ibid., iii. 21d: “La storia… dell’impresa più grande e più degna di tutte d’essere celebrata.”  Il paragone d’obbligo è con Omero ed Esiodo, nei confronti dei quali Solone avrebbe potuto sembrare un piú grande aedo se avesse narrato lui stesso la storia per intero.  Per la verità si allude qui orgogliosamente con tipico spirito egeo alla vittoria dei proto-ateniesi sull’esercito proveniente da oltreatlantico, non solo all’Atlantide medesima, nonché alla superiorità greca nei confronti del resto dell’ Europa ancestrale; ossia mesolitica, fatto confermato del resto dall’archeologia.  Cfr. A.J. Ammerman & L.L. Cavalli-Sforza, La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa- Boringhieri, Torino 1986 (ed.or. The Neolithic Transition and the Genetics of Populations in Europe- Princeton U.P., Princeton 1984), Intr., p.17.   Prima di affrontare l’argomento atlantideo, Platone c’informa sempre per bocca di Crizia sulle differenze d’effetti a livello geografico fra le grandi conflagrazioni e le inondazioni terrestri (ib., 22c-e), le une sterminando coloro che vivono ad alta quota e le altre quelli che dimorano a livello del mare.  Solo a questo punto introduce il tema della civiltà atlantidea, che non può perciò essere unicamente un’utopia, ma un dato di fatto, benché obliato dal trascorrere temporale ed idealizzato dalla leggenda.   Si parla oltretutto nel testo, in termini ciclici, di molti diluvi occorsi sulla terra prima dell’ultimo di Deucalione: l’Egitto ne ha conservato memoria, diversamente dalla Grecia, tramite ossequiate iscrizioni sulle colonne dei templi (23°-b).  Platone fa leva, nel contempo, sulla distinzione castale quale si ritrovava in Egitto – od in India, aggiungiamo noi – e che era propria in sostanza anche della Grecia arcaica (24°-b).  Ovvio il rimando alla Repubblica, ma tale dialogo è a sua volta la testimonianza in tempi storici di concezioni che si perdono nella notte dei tempi; non si può quindi parlare di utopismo, ma semmai di ieraticità.  Il filosofo aggiunge (24°-25°) che l’Oceano Atlantico era allora navigabile e che in linea retta colle Colonne d’Ercole, in altre parole nell’attuale zona caraibica (cfr. codesto dato colla tesi andino-caraibica dell’ing.Allen), emergeva una grande isola retta da una mnirabile potenza regale.  Dall’isola si poteva passare ad altre isole minori e da queste accedere al grande continente opposto, le cui coste abbracciavano  per intero l’oceano.  È l’esatta descrizione di quella zona geografica quale si può immaginare sia stata in quei lontani secoli nei confronti del continente americano.  Per questo Socrate crede alfine sia stata vera storia e non finta favola, sia pure con qualche appropriato dubbio (iv. 26°).
10)        Dal Graves (§ 98.r, p.310) deduciamo che Deucalione, essendo figlio di Minosse, ne era un alter-ego.  Quindi per forza di cose, dal momento che il Graves non a torto identifica Minosse a Dioniso ( ibid., p316, n.6) e Dioniso a Deucalione in quanto signori della vite (ib., §§ 27.6, p.97 e 38.3, p.126), è lecito tracciare una corrispondenza tra il Μίνως egeo-cretese signore dell’Età del Ferro ed il Manu del Kaliyuga indiano; cosí come tra il lunare Dioniso (Zagreo) e Shiva-Orione, di cui il generale Ταύρος – nonché il Minotauro od il Toro Bianco di Pasife (cfr. Cap.VI, §m) – rappresentano un’alternativa a livello di Zodiaco Solare.  Anche Arianna, la sorella di Deucalione, era legata al <Vino> (§27.8, p.97), svolgente in zona egeo-cretese la funzione del Soma in ambiente indo-iranico.  Simile ipotesi riguardo l’equiparazione fra Dioniso e Deucalione (varr. Pitone, Pirro, Lico) siccome esempi di contrapposizione ad Apollo (nel binomio calendariale Sōl-Lūnus – aggiungiamo noi rimodellato sull’antica dicotomia di carattere titanico-planetario fra Elio e Crono), trovasi in J. Fontenrose, Python. A Study of Delphic Myth and Its Origin- California U.P., Berkeley-L.Angeles 1959, Capp. XIII, p.xxx e XIV, p.424.  Nel mito delfico, creato subito dopo l’ultima catastrofica inondazione, Apollo mette in secondo piano Zeus quale ‘Re degli Dei’ (ibid., p.391).  Esattamente come fa Rudra (Śiva) in India nei confronti di Indra (Dyaus Pitar).  L’originario culto delfico secondo Strabone (ib., pp. 412-3) risaliva a Lycoreia (lett. ‘Città dei lupi’), un villaggio montano un tempo diversamente denominato, ove regnava Deucalione prima del diluvio che ne porta il nome.  Attesta Pausania (Per.- x. 6. 2) che il nome deriva da Lico (Licòro), appellativo onorifico di Deucalione, giacché furono i branchi urlanti dei lupi a guidare verso l’alto le persone del villaggio e a salvarle dalle acque diluviali.  Passato il pericolo, gli abitanti ricostruirono il villaggio distrutto e lo chiarono appunto con tal nome (p.421).
11)        Ac., La quest., pp. 10-3.  Tale minore diluvio, ponendo Ogigia come sinonimo dell’occidentale ‘Terra di Giovinezza’ celtica, potrebbe riguardare la cd. ‘Atlantide Iperborea’.  Qualora le cose stiano così, bisogna allora distinguere il fenomeno in sé dalla sue conseguenze cosmografiche, dal momento che le storie arie tramandano un abbandono della sede degli antenati di tal ceppo dopo un graduale ma inesorabile congelamento.  Solo degli esperti in materia potrebbero dire parole esaurienti su questo enigma prettamente geologico.  Si potrebbe ipotizzare in merito che lo sprofondamento parziale dell’Atlantide, avvenuto in realtà nell’XI mill. a.C. (ibid., p.11) quale effetto della grande congiunzione planetaria occorsa nel 10.960 a.C., abbia avuto come conseguenza il cambio di rotta della Corrente del Golfo; è questa l’ipotesi avanzata anni fa dalla scienzata moscovita E.Hagemeister e riportata in A.Thomas, I segreti dell’Atlantide. Dalla leggenda alla scoperta delle tracce del continente misterioso- Mondadori, Milano 1976 (ed.or. The Treasure of the Sfinx; ed.franc. Le secretes de l’Atlantide- R.Laffont, 1969), p.21.  In altre parole, la Corrente del Golfo sarebbe responsabile dell’era glaciale, poiché prima di lambire le coste europee fino al Nordeuropa andava verso l’Artide.  Questo il motivo onde la Groenlandia, situata latitudinalmente fra il 60° e l’80° parallelo, risulta coperta di una spessa coltre di ghiaccio; mentre la Norvegia, collocata fra il 70° e il 60° parallelo, è attualmente vivibile.  La nostra personale ipotesi, pur senza la competenza che sarebbe necessaria a discutere il problema in termini geologici ed oceanografici, è che il Diluvio Ogigio corrisponda invero a quello Atlantideo tramandato dagli Egizi e raccolto indirettamente da Platone; in termini cosmografici tradizionali, il centro dell’Ecumene Occidentale.  A meno che si riferisca ad un’isola quale l’Islanda sommersa in tempi neolitici, come è avvenuto per Creta, e poi parzialmente riemersa con una differente superficie; insomma, al centro dell’Ecumene Nordoccidentale.  Vedi, in proposito, la tesi dell’ing. Vinci di Ogigia quale isola dell’Atlantico Settentrionale.  Perché è chiaro che il congelamento della Groenlandia ha comportato, dal lato opposto dell’Atlantico, uno scongelamento antitetico.  Nel caso sia valida invece la prima ipotesi allora il Diluvio Ogigio costituirebbe il ricordo greco, od ellenico, del fenomeno ricordato da Platone; coincidente da un lato col Diluvio di Utnapištīm della tradizione mesopotamica (ib., p.10) e, dall’altro, con quello indiano del Govardhana (p.11).   Può darsi anche che, ma è interpretazione meno convincente delle due precedenti, la <Terza Inondazione innanzi a quella di Deucalione> di cui parla Platone si riferisca in realtà alla fine del VII Ciclo Avatarico: il Ciclo di Rāmacandra in termini puranici, quello di Šeth in termini biblici.  Ossia alla chiusura del primo eone concernente la Razza Rossa, od Atlantidea (Ciclo Sudoccidentale o Sethita), sovrappostasi poi nella memoria alla fine del secondo eone (Ciclo Occidentale o Noaico).  Nell’induismo i due cicli sono noti come ciclo ramaita e ciclo krishnaita, sennonché per l’atteggiamento indocentrico tipico della mentalità hindu essi sono stati ambientati nel Bhāratavara (l’India) anziché nel Ketumālavara (la dimora di Viu, ad ovest del Meru).
12)        Nella tradizione celtica, non a caso, i 2 Diluvi si sono sovrapposti attraverso la leggenda.  Sicché la Terra di Giovinezza (Tir nan Og) è addivenuta sia una terra occidentale, sia una terra nordica.  Vide Cap.I, n.22.
13)        Se gli Ari erano presenti sul suono indiano prima del disseccamento della Sarasvatī , le cose non possono stare che cosí.  La Guerra di Bhārata, del resto, è avvenuta secondo il testo prima dell’ultimo Diluvio; se – come insegna Dumézil – i Pāṇḍava sono degli ari, vale quanto appena suggerito.  Il gveda non tratta di grandi inondazioni, è vero, ma il noto passo upanishadico  dell’universo pereunte e della rana nel pozzo disseccato (Mait.U.- i. 4) allude ai continenti sprofondati periodicamente, alla frantumazione della Ruota dei Venti ed allo spostamento celeste dei Poli.  Vi potrebbe persino essere la possibilità d’una coesistenza fra Ārya e Drāvia in tempi post-neolitici, stando alle congetture di alcuni (L.A. Waddell, V.Iyer), ipotizzanti una fusione dei due ceppi in area sumerica.  I Proto-sumeri avrebbero poi colonizzato l’Indo, imponendo a quella cultura il loro stile di vita, la loro scrittura ecc. (K.C. Jain, Prehistory and Protohistory of India- Agam Kala P., N.Delhi 1979, Cap.IX, p.126).  Secondo altri ancora (ibid., p.128) la cultura harappana rappresenterebbe la fase tarda, magica insomma, di quella vedica.
14)        In tal caso si potrebbe ulteriormente ipotizzare che l’invasione sia avvenuta in doppia ondata, come in Grecia per gli Argivi e i Dori; l’una, magari, attorno al 1.800-1.600 a.C. e l’altra nel 1.200-1.000 c.


15)        Parpola tratta il problema indo-ario in Dec. (P.III, Capp. 8-9), la cui bibliografia è arricchita rigorosamente di testi accademici [decida il lettore se ciò sia un vanto o meno].  L’opinione del professore finlandese è che gli inni rigvedici siano stati composti nella seconda metà del II mill. a.C.  In questo il N. segue la linea generale dell’orientalistica ufficiale, la quale non tiene minimamente conto degli studi di settore da parte di Tilak.   Questi per l’accademia non esiste, è un autore che ai laureati alle prime armi – almeno in Italia – si dà il consiglio di tralasciare per non impantanarsi in “analisi non-scientifiche”.  Eppure quegli fu in amicizia a suo tempo col grande orientalista Max Müller, inoltre è stato menzionato lo scorso secolo da parte della valentissima studiosa (nonché insegnante al Dip. di Studi Reg. di Asia Meridionale presso l’Univ. della Pennsylvania) Stella Kramrisch; oltre ad esser stato lodato dal maestro sufi René Guénon, ma qui si torna evidentemente al punto di partenza, giacché l’ostracismo verso lo scrittore francese appare altrettanto oscuro.  Invece autori che hanno scritto delle corbellerie su temi analoghi, quale lo storico della scienza D.Pingree ecc., sono naturalmente citati negli scritti di matrice post-universitaria e vi si attinge a piene mani.  Questa è la prassi usuale del mondo accademico, che pretende di dire la propria anche sulle cose maggiormente sacre dell’umanità colla scusa della scientificità senza preoccuparsi che le sue tesi rispecchino realmente il vero.  Ovviamente vi sono molte lodevoli eccezioni, noi non abbiamo avuto pregiudizio a farne menzione in tale trattato.  Comunque sia, la data proposta dal Parpola e da chi prima di lui potrebbe semmai corrispondere alla prima redazione scritta dei sūkta, ma non di certo a quella della composizione orale, che risale almeno al Periodo Orionico, cioè a 6.500-4.500 anni fa.  Forse persino piú addietro di qualche centinaia d’anni, pur contenendo il testo dati maggiomente vetusti anche rispetto a tale correzione di visuale.  Per un approfondimento al riguardo cfr. G.Acerbi, Tilak e la riscoperta dell’antico calendario vedico I-II- Alle pendici del Monte Meru (blog, 29-07/16-11 2016), passim.  Circa il problema della provenienza aria, A.Parpola riconosce onestamente che la ricerca non è giunta a risposte definitive e – aggiunguamo noi – non vi giungerà mai.  Per un semplice motivo: non tien conto della prospettiva cosmografica tradizionale.  Quando si pensa che formulare liberamente delle teorie, sull’unica base dei reperti archeologici rinvenuti, sia il prodotto d’un pensiero scientifico i risultati sono questi appena detti; invece far tesoro delle nozioni degli antichi espresse nei sacri testi non costituisce un vuoto atto fideistico, e come tale irrazionale, per cui da tale posizione si può trarre notevole vantaggio.  In tal modo l’incertezza non si propaga indefinitamente, come quando una valanga di teorie senza costrutto si assommano una dopo l’altra, prevalendo unicamente per fattori emotivi o di prestigio universitario dei propositori delle stesse; ma esse di veritiero, in genere, contengono assai poco.  Tuttavia occorre essere sinceri: i dati archeologici vanno spiegati in qualche maniera, non possono essere ignorati per opposto pregiudizio, giacché la verità ha sempre molteplici sfaccettature.  Entrando nello specifico notiamo che Parpola si rifà a G. Childe, il quale fin dal 1926 indicò la zona della ‘Cultura della tomba a fossa’ (Pit grave culture, rus. yamna, dall’ucraino) delle steppe pontico-caspiche quale casa-madre dei Proto-indoeuropei (3.500-2.800).  Una popolazione di cacciatori-raccoglitori di provenienza asiatica si sarebbe congiunta con un’altra venuta dal Vicino Oriente.  Ma ciò contrasta coll’etimo della parola ārya, che esprime tutt’altro.  L’idea era stata rielaborata prima dalla Gimbutas negli Anni ’50 colla sua ‘teoria kurganica’ (vide n. 17) e alla fine degli Anni ’80 da J.P. Mallory, che ha pubblicato un libro di sintesi sull’argomento.  Parpola pone la disintegrazione dell’unità linguistica indoeuropea nel IV mill. a.C. ed attribuisce la Ceramica Cordata del Nord e del Centro Europa all’espansione di tale ramo etnico.  In ciò si può anche concordare, seppure non col punto di partenza; il quale per noi è biblicamente l’Ararat, cioè l’Armenia.  Vide n.18.  Né ci pare adeguata la cronologia.  In riferimento al IV mill. non ci pare vi siano già piú dati comuni fra i vari ceppi di lingua indoeuropea, solamente gli Indo-ari e gl’Iran-ari potrebbero essere stati ancora a stretto contatto.  Il Parpola (ibid., Cap.VIII, §4, p. 145/ col.a)  parla viceversa d’una prossimità perdurata sino al III mill.  del ceppo proto-greco (bisognerebbe dire però proto-ellenico, i veri Greci essendo i Pelasgi, di ceppo camitico), proto-armeno e proto-ario (s’intende indo-iranico) nella steppa a nord del Mar Nero.  Poggiando sulla teoria antropologica delle aree laterali dichiara che le lingue kentum (dell’Europa Occidentale e del tocario in Cina) hanno preservato le gutturali originarie della supposta area centrale indoeuropea; mentre le satəm (baltico, slavo, albanese, armeno e indo-iranico) avrebbero trasformato, ben presto, le gutturali in affricate (k/h > s/ś).  Neanche questa teoria, almeno cosí formulata, ci convince del tutto.  Se l’area centrale di raccolta e di partenza per le varie emigrazioni fosse però stata l’Armenia, come personalmente crediamo, allora risulterebbe ribaltato l’intero discorso.  E si potrebbe spiegare la variazione in tal modo in base alle influenze delle lingue uralo-altaiche (fin. sata, scr. śata), le quali sono visibilmente da attribuire al ceppo turano.  Anche se oggi, sotto influenza del pan-indoeuropeismo dilagante si tende a sminuire la portata delle affinità etno-idiomatiche fra il gruppo uralico (Finni, Magiari ecc.) e quello altaico (Turchi, Mongoli), talvolta addirittura negato di per sé.  Insomma, l’autore fa della steppa ponto-caspica – la regione stepposa a nord del Mar Nero, del Mar Caspio e del Mar d’Azov – il sito d’espansione della lingua proto-aria, cosa accettabile invertendo la direzione del flusso d’espansione, da sud verso nordest anziché da nordest verso sud.  Cronologia a parte.  Inoltre identifica il luogo della presenza della fase ultima della ‘Cultura della tomba a fossa’ (o ‘Cultura di Jamna), detta della <tomba a capanna >, come quello piú probabile dello stanziamento della comunità di lingua proto-aria.  Il motivo per cui quest’area è stata identificata come proto-indoeuropea è per il fatto che alcuni genetisti hanno riconosciuto le steppe ponto-caspiche quali residenza d’elezione, durante il III mill., dei primi addomesticatori di cavalli; ma altri studiosi pongono la Cultura di Jamna come sede dei tardi Proto-indoeuropei, facendo della ‘Cultura di Srednij Stog’ (fra il 4.500 e il 3.500, a nord del Mar d’Azov) – affine alla Cultura di Chvalynsk, sul Volga, a sua volta preceduta nel VI mill. dalla ‘Cultura di Samara’ – la vera Urheimat dei cd.Proto-indoeuropei.  Altri ancora, i sostenitori della T.C.P. (o T.C.), parlano di continuità paleolitica; essi (vedi ad es. M.Alinei) sono convinti che tali culture della tomba a fossa e di quelle colla fossa ricoperta dal tumulo, appartenessero in realtà alle tribú altaiche.  Ciò potrebbe benissimo risultare vero, ma sicuramente sbagliano nel concepire gl’indoeuropei come i discendenti attuali dei popoli abitatori dell’Europa durante il Paleolitico e nel far derivare dall’Africa l’Homo sapiens Sapiens.  Non vi è infatti alcuna testimonianza, di nessun tipo, al riguardo.  Circa gl’invasori dell’Europa in tempi tardi, sarebbe troppo semplicistico far dei guerrieri-pastori a cavallo dei Pre-indoeuropei; innanzitutto non erano sempre dei pastori, vi erano pure degli agricoltori quali i Goti e fra di loro alcuni erano di lingua indoeuropea, altri come gli Unni no.  Tornando a Parpola, a questo punto lo scrittore finlandese introduce l’idea generale dell’affinità dei Mitanni (stanziatisi in Siria ed in parte dell’Anatolia) cogl’Indo-ari, piuttosto che col ramo iranario o nuristano, onde – posto, sulla scorta di T.Burrow, che la separazione fra Indoari ed Iranari sia avvenuta a partire dal 2.000 c. – suppone che la primitiva casa-madre di codesto gruppo tribale fosse nella parte meridionale dell’Asia Centrale o in quella orientale dell’altopiano iranico.  Il Papesso, invece (Pap., op.cit., §12, pp, 34-5, n.38), proponeva a suo tempo anche tesi alternative in proposito.   Secondo R.Ghirshman (Par., p.148/ col.a) i Mitanni avrebbero appreso l’arte della cavalleria nella Piana di Gorgān (m.pers. Gurgān, a.pers. Varkāna, av. Vəhrkāna; gr. Ὑρκανία, secondo la menzione di Arriano nel descrivere le imprese di Alessandro), sul lato sudest del M.Caspio e capitale della regione attuale del Golestān (in passato il Gurgān).  Il testo citato del valente archeologo francese, d’origine russo-ebraica, è L’Iran et la migration des Indo-Aryens et des Iraniens, Leida 1977.  T.C. Young ha interpretato altresí la prima ceramica grigia irano-occidentale come un’evoluzione della ceramica Gurgān.  Varie somiglianze culturali connetterebbero del resto la Cultura Gurgān (cfr. Tepe Hissar IIIc) del  Nordiran al C.A.B.M., su cui vide n.seg.  Un sigillo cilindrico gurgan in alabastro (Tepe Hissar IIIb) mostra un carro a 2 ruote trainato da un cavallo (ibid., p.148/ col.b, fig. 8.17): è la piú vetusta raffigurazione d’un carro del genere a noi nota.  Per la distribuzione dei siti archeologici in Gurgan, Margiana  e Battriana  – allineati in un’ideale continuità, rispettivamente da ovest verso est – cfr. l’ottima cartina ricostruita dal Parpola (ib., p., fig. 1.17).  Trattasi di siti cronologicamente coevi al Tardo Harappa (1.900-1.500) e al Post-Harappa (dal 1.500 in poi); ma quivi analoghe bighe erano trainate da una coppia di bovini, secondo quanto dimostra un carro con guidatore presente al Mus.Naz. di New Delhi (Wikip.- on line, s.v.HARAPPA).  Nel C.A.B.M. gli archeologi sovietici, capeggiati da Viktor Sarianidi, hanno messo in luce la presenza d’una civiltà del bronzo sino ad allora ignota (CABM I > 1.900-1.700, CABM II > 1.700-1.500); in pratica, i 2 livelli corrispondono al Post-Harappa.  Un approfondimento sulla questione è possibile farlo in S.P. Gupta, Archeology of Soviet Central Asia and the Indian borderlands- B.R. Publ.Corp., Delhi 1979, Vol.2, Cp.5.  Sono state rinvenute dal Sarianidi delle coppie di cavalli da traino (p.158/ col.b, fig.8.26) in rame, ora al Mus.Metrop. d’Arte di N.York, facenti pendant colle rappresentazioni equine nel vasellame nero-su-rosso della Valle dello Swat (1.700-1.400).  Per un esempio di queste ultime cfr. la fig. 8.25, con testa e collo di cavallo anch’essi in rame.  In aggiunta, trombette in miniatura sono state reperite tanto nel C.A.B.M. quanto nel Gurgan, a riprova d’una pratica equina diffusa nella zona.  Tali dati parrebbero smentire di primo acchito quanto da noi dichiarato al Cap.I, n.38.  Eppure ci sono parecchi dati artistici e letterari che provano il contrario, dai disegni parietali mesolitici di cavalli (Bhimbetka) alle datazioni fornite dal Mahābhārata sull’epoca della guerra per il dominio dell’Āryavarta fra Kuru e Pāṇḍava; combattuta chiaramente per mezzo di bighe e cavalli, non con carri trainati da bovini od elefanti.  Per non parlare dei dati genetici, che i vari studiosi usano talvolta a sproposito, ossia per confermare i propri pregiudizi anziché per proporre soluzioni nuove.  Alla tesi dei genetisti occidentali di domesticazione del cavallo in Asa Centrale nel III mill. si oppongono altre analisi del Dna fatte dai genetisti indiani, che proverebbero una domesticazione assai precedente dello Śivalensis.  La mitologia puranica farebbe addirittura risalire la conoscenza degli equini alla fine del II Ciclo Avatarico, interpretando il bianco quadrupede (in origine unicorne) sorto dall’Amtamathana non come onagro (che peraltro è di natura rossiccia ), bensí come cavallo.  In sintesi, la pseudo-mitologia indoeuropea, non soltanto pretende d’inficiare i dati cosmografici dei testi tradizionali indiani; ma pure del sacro testo per eccellenza degli Occidentali, la Genesi, base dell’intera ‘Bibbia’ giudaico-cristiana. 
16)        La tesi di Tilak, espressa in Arc.H. (op.cit., Cap.I, pp. 32-4) e desunta dal Warren, è stata ripresa e parzialmente rilanciata in forma molto modificata alla fine del Novecento da J.P. Mallory (ma i tempi di discesa in questo caso sarebbero assai piú prossimi, giacendo nella protostoria anziché nel mesolitico), che ha fatto della Cultura di Andronovo (2.300-1.000 a.C.) – estesa fra la Siberia Meridionale e l’Asia Centrale – il punto di partenza di quella indoaria.  Spingendosi verso sud queste popolazioni avrebbero adottato lo stile di vita urbanizzato proprio della civiltà del cd. C.A.B.M. (‘Complesso archeologico battriano-margiano’), ingl. B.M.A.C., per insediarsi nel Deccan definitivamente durante la seconda metà del II millennio.  Salvo un passaggio in Mesopotamia di alcune tribú guerriere disperse, entrate a far parte del Regno Mitannico verso il 1.700 c.  La cultura dello Swāt (delle tombe del Gandhāra), sorta in Pakistan sulle sponde del fiume omonimo fra il 1.500 ed il 600, secondo la tesi sviluppata soprattutto dall’archeologa russa Elena E. Kuz’mina, avrebbe svolto da tramite fra i due periodi.  Infatti la ceramica di codesta cultura mostra affinità con quella centroasiatica del C.A.B.M. (2.200-1.700), nonché dell’altopiano iranico; oltretutto si sarebbero trovati resti equini in una tomba, ma sappiamo che dati del genere sono altamente manipolabili, visto che taluni storici indiani (cfr.  ad es. K.C. Ja., op.cit., p.135) sostengono la presenza di equini pure nei reperti dell’antica Civiltà dell’Indo (Mohenjodaro, Lothal, Rana Ghundai).  Altri studiosi, come K.A.R. Kennedy, sottolineerebbero invece un’affinità biologica delle popolazioni gandhariche con quelle neolitiche.  Il che escluderebbe l’invasione indoaria nei termini suddetti.  Di opinione contraria era ovviamente  la Kuz’mina, scomparsa nel 2013, la quale notava affinità antropologiche ed archeologiche coll’Asia Centrale.  Questa tesi non rende conto, a ben vedere, dei rapporti degli Indoari colle altre genti di lingua indoeuropea; a meno di collegarla colla ‘teoria kurganica della Gimbutas’ (vedi n.seg.), dato che nelle oasi battriane appaiono i cimiteri a tumulo (kurgan) e le ceramiche sono di tipo-C.A.B.M. oppure di tipo-Andronovo.
17)        Le tesi accademiche sono varie ormai, il quadro risultando molto cambiato rispetto ai nostri personali riferimenti nel momento in cui abbiamo iniziato a stendere questo saggio oltre 20 anni fa (cioè la bibliografia ordinaria in campo indoeuropeistico prima degli Anni ’90); per cui vale la pena d’analizzarle una ad una, sia pur brevemente. Si scostano dall’opinione delineata nella n.prec., siccome tengono conto di tutto l’insieme del ceppo indoeuropeo, che da parte nostra – lo ribadiamo per l’ennesima volta, a scanso d’equivoci – preferiamo continuare a chiamare biblicamente iaphetico.  La piú accreditata a livello generale è la ‘teoria kurganica’ di M.Gimbutas, teoria che ha sfruttato gli studi precedenti di O.Schrader e V.G. Childe ed è stata poi ampliata da altri.  Cfr. al riguardo G.Acerbi, Critica alla teoria kurganica- Alle pendici del Monte Meru (24-05-2017).
18)        Cfr. in proposito la Sacra Bibbia coll’imprimatur della Cei a c. di A.Penna, Vol.I, Gen., p.18, comm. in nota a 8.4.  L’autore giustamente identifica l’Ararat al nome ebraico dell’Armenia, bab. Urartu.
19)        Vide Cap.I, n.114.
20)        Tilak (Arc.H., p.31), o meglio le sue fonti, parlavano di 2 tipologie dolicocefale e di 2 brachicefale, a differenza del Furon.
21)        Ibid. come alla 19.
22)        Cfr. G.Acerbi, Le razze da un punto di vista genetico e cosmologico. Un confronto impari- Alle pendici del Monte Meru (blog, 21-06-17).       
23)        Naturalmente dal nostro punto di vista rivelazionista non condividiamo minimamente la tesi, ormai purtroppo ufficialmente accettata, della deriva delle popolazioni attuali mondiali da migrazioni provenienti dall’Africa c.100.000 anni or sono (Wikip., s.v.: GENI, POPOLI e LINGUE).  Tutt’al piú, se ridimesionato alle giuste proporzoni, quello può essere stato un passaggio ciclico intermedio nell’ambito del precedente Manvantara.  Facciamo notare che nessun mito è rimasto al riguardo.  D’altronde l’interdisciplinarietà degli autori sostenenti tale tesi è limitata alle discipline non tradizionali o, comunque, lontane dal punto di vista religioso-scritturale.
24)        Non è ben chiaro in ambito induistico quale sia il ruolo veramente giocato dai i e perché mai siano abbinati cosmologicamente al Ktayuga.  Una spiegazione a tale dilemma ce l’offre, guardacaso, la tradizione cinese; ove delle figure quasi omonime, i Rsi, fungono da controparte maschile delle Wu.  Queste antiche shamane sono da porre in correlazione coll’Ecumene Orientale, che nelle tradizioni cristiane medievali figurava quale <Paradiso delle Donne>.  Biblicamente, se ci è consentito, potremmo parlare di <Paradiso Evaico>.
25)        Per quanto datato, lo scrittore marathi offre ancora notevoli spunti d’interesse.
26)       Le scuole di i sono le scuole brahmaniche.  I Brāhmaa, come i i e le scritture vediche, hanno infatti simbolicamente a che fare col Ktayuga.  Ciò non significa che tutte codeste categorie citate appartengano realmente a quell’età, ma certamente non appartengono all’età storica, né a quella protostorica.
27)        Sebbene oggi snobbato dalla cricca accademica, non a caso lo studioso marathi è stato a suo tempo menzionato da eminenti personalità del mondo universitario quali Stella Kramrisch.  Ciò non va preso a pretesto, viceversa, per santificarlo e trasformarlo guénonianamente in un autore tradizionale.  Gli autori tradizionali non hanno mai trattato di ‘razza aria’.  Tilak è stato un  ottimo scrittore, certamente di stampo tradizionalista, esattamente come il nostro Evola.  Tutto qui. 
28)        Til., Arc., Cap.XII (pp. 246-51).  Tilak purtroppo ha preso in considerazione le speculazioni letterarie degli storici della scienza del suo tempo (non che gli altri della seconda metà del sec. XX abbiano aggiunto molto di piú…), perciò non ha compreso adeguatamente la suddivisione del Caturyuga e dei Mahāyuga.  Onde – pur avendo il buonsenso di non pigliar sul serio la data ufficiale d’inizio del Kaliyuga (cioè il 3.102 a.C.) – fa iniziare il Ktayuga c.12.000 anni fa, riducendo alquanto di conseguenza la durata della Quarta Epoca.  Si è limitato quindi a contrassegnare come “post-glaciale” la fuga degli Ari dalla loro sede primaria, ritenuta a torto artica, c.10.000 anni fa.  Mostra cosí (ibid., Cap.XI, pp. 315-8) d’essersi abbeverato alla dottrina avestica, senza tener conto opportunamente della sapienza vedica, relegando peraltro il mito di Manu sullo stesso piano di quello di Yima; colla scusa che questi è figlio di Vivanghat e quegli del quasi omonimo Vivasvat, come d’altronde il suo doppione Yama, il quale è non a caso il  corrispettivo di Yima.  L’autore non tien conto, disgraziatamente, del fatto che lo Yima avestico zoroastriano non è piú la figura paradisiaca incarnata dal suo predecessore primordiale d’egual nome; ma, come insegnavano già i vecchi iranisti, costituisce un riadattamento del medesimo per ribaltamento di ruolo col tardo Gayomart.  Tilak per la verità riconosce la differenza fra il congelamento riguardante la storia del Vara e l’inondazione di cui è vittima Manu, ma interpreta la parola pralaya normalmente tradotta con ‘diluvio’ nell’accezione inconsueta di ‘neve, gelo’.  Certamente il congelamento del primitivo Āryavarta (noi pensiamo fosse la Groenlandia, ma non vogliamo per nulla vincolare la nostra opera a questa tesi) fu dovuto ad una fenomenica diluviale precedente, che lo ha determinato quale effetto indiretto.  Vide n.11.
29)        Quelle indicate non sono, ovviamente, le date indicate da Tilak.  L’indicazione astronomica non parte da un punto preciso e perciò si basa sull’approssimazione cronologica.  Il riferimento astrale invece tien conto non solo degli asterismi lunari, ma pure delle costellazioni solari e dei pianeti, che fan da pietre miliari nel cammino celeste.
30)        La maggior precisione della nostra datazione rispetto a quella tilakiana è dovuta al fatto che abbiamo basato l’inizio del calendario lunare sull’inizio effettivo del Kaliyuga (4.480 a.C.), contando un arco di 720 anni ossia 10° processionali per ogni asterismo, secondo quanto cripticamente suggerito da Guénon (Form., p.39, n.3).  Per stabilire il punto esatto di partenza dei cicli, che Tilak sembra non comprendere pensando che le antiche osservazioni dei bardi vedici non tenessero conto della matematica e della geometria (di fatto quindi confondendo astronomia ed astrologia, le quali invece in India sono sempre rimaste affiancate l’una all’altra nel cd. Jyotia), i grandi astronomi ed astrologi del passato fino a Keplero poggiavansi sulle Triplicitates; vale a dire i cicli ventennali di Giove e Saturno, in tutto 108 – il numero non a caso di Śiva – nell’arco di 2.160 anni ovvero col trascorrere di 30° processionali.  Dato che la precessione è unica, per distinguere fra Zodiaco Solare e Lunare, ad ogni asterismo lunare è stata assegnata la lunghezza di 13°20’; per cui, ogni grado equivalendo a 72 anni processionali, 13°20’ corrispondono a 960 anni.  S’intende, degli anni sacrali (basati su 360°), non quelli civili (basati su 365 gg.).  Sicché, essendo l’asterismo di Mgaśiras passato al Punto Gamma 3°40’ ossia 264 anni prima dell’inizio effettivo del Kaliyuga, la data giusta d’inzio del Ciclo Orionico sarà il 4.744 a.C.  E da qui, assommando i 960 anni testé citati, si ottiene la durata precessionale degli altri asterismi a seguire.  Logico pensare che sia questa la data di composizione, con un’approssimazione appunto di 264 anni, del nucleo fondamentale del gveda.  Non l’attribuisce la Smti (‘Tradizione’) a poco prima dell’inizio del Kaliyuga?
31)        Vide Cap.I, n.38.   
32)        Pap., op.cit., Intr., pp. 17-66.
33)        Pap., cit., §A.8, pp. 27-8.
34)        Vide Cap.I., n.193.
35)        Il mito della Liberazione delle Vacche è passibile d’una interpretazione a posteriori, in senso ovviamente kaliyughico (in rapporto al P.V. nella costellazione del Toro), ma la pluralità delle Aurore prova che si trattava in origine di albe annuali circumpolari e non di quelle giornaliere.
36)        Cfr. Cap.III, n.10.
37)        Foroneo, il nume oracolare inventore dei mercati (φόρα), è un appellativo di Crono (Grav., op.cit., §57, p.174, n.1) quale scopritore del fuoco (gr. πῦρ, ingl. fire).  Viene detto anche Pico Feronio, per distinguerlo dal suo successore Zeus Pico (il figlio, mitologicamente parlando).  I due corrispondono, senza dubbio, a Crono e Zeus.  Il ruolo di Foroneo rispetto a Prometeo (Προμηθεύς), rapitore del fuoco celeste, è analogo a quello vedico di Mātariśvan nei confronti di Agni, ulteriormente sdoppiato in Bhgu (da bhrāj = ‘bruciare’).  I Bhgava erano sacerdoti che sfregavano tra di loro gli arai (‘bastoncelli di legno’ di Ficus Religiosa od altra pianta, dal scr. araya = ‘foresta, cfr. coll’ingl. fir = ‘abete’), onde ottenere la fiamma.  Ad ogni modo, Foroneo non meno di Prometeo funge da ‘Primo Uomo’ e ‘Primo Re’ (Ker., op.cit., Vol.1, Cap.13, pp. 205-6).  Entrambi sono stati trasposti, tuttavia, e riciclati in tematiche post-diluviali; basta pensare al fatto che Prometeo è figlio del titano Giapeto e padre di Deucalione, donde discende Elleno.  In tal senso l’Aquila che gli divora il fegato sul Caucaso altro non è che l’Aquila Celeste, posta presso il Sacro Vaso dell’Acqua di Vita (Aquarius), ai tempi nei quali tramontava al mattino all’inizio della primavera.  La liberazione da parte di Eracle ha a che fare col punto opposto, il P.V. in Leone ovviamente.  Questo, se non altro, dimostra che la leggenda biblica dello sbarco in Armenia dopo il Diluvio Noaico era condiviso dagli Elleni e dalle genti iaphetiche piú in generale; le quali, superstiti del Diluvio Atlantideo nonché fuggiasche dalla loro patria primordiale (a poco a poco divenuta inospitale a causa del forte freddo), chiamavano Noè col nome di Eracle e Iaphet col nome di Giapeto.
38)        La triplice natura di Agni non compare quasi mai nell’iconografia, dove il nume presenta una o due teste, caprine od umane.  Cfr. T.A. Gopinatha Rao, Elements of Hindu Iconography- Vol.II, P.II, Cap.XVIII, p.524, tavv. CII e CIII, fig,2; nella prima scultura in pietra (Travancore, Kaṇḍiyūr, tempio di Śiva) il nume possiede però 3 Gambe (Tripāda), ma ne ha solo 2 nella seconda, un altorilievo (Cidambaram, tempio di Śiva) in cui il Toro anziché il prescritto Ariete (dagli āgama) gli fa da veicolo.  Cfr. colla triplicità di Sūrya, che pure raramente è effigiato tricipite alla maniera shivaita; ad es. a Bangaon, nel Bundelkhand (V.C. Srivastava, Sun-worship in Ancient India- Indological P., Allahabad 1972, Cap.VI, pp. 318-9, inoltre tav.27).  Non si tratta d’una trimūrti, ad ogni modo, diversamente da quel che vorrebbe l’autore rifacendosi ad un art. di H.Lal in ‘Indian Antquary.   Vide n.154.  Troviamo un analogo nume solare tricipite di stile meroitico, con 3 Teste di Leone e 4 Braccia alla maniera indiana, a Naqa in Nubia; la quale comprendeva il territorio fra l’Egitto Meridionale attuale e il Sudan Settentrionale, trasformato fra il 2100 a.C. e il 352 d.C. nel Regno di Kush.  Per l’iconografia cfr. G.Acerbi, Apedemek, il dio-leone nubiano ed i suoi epigoni egizio-ebraici- Alle pendici del Meru (25-10-17).
39)        L’identificazione di Soma con Mgaśiras (lett. ‘Testa di Cervo’, cioè Orione) è esplicita nell’iconografia posteriore, avendo il dio 26 o 27 spose; compresa o meno Rohiṇī  (Aldebaràn), a seconda del riferimento all’antico calendario rigvedico oppure a quello atharvavedico, di probabile origine babilonese.  In un bassorilievo gupta del V sec. d.C.(Garhwā, Mus. di Lucknow) Rohiṇī  è ritratta seduta, assieme a Soma, amorosamente, sulla Falce Lunare; l’accompagnano, tenendo in mano una corda (il ta), altre 4 femmine.  Cfr. al riguardo C.Sivaramamurti, Rishis in Indian Art and Literature- Kanak P., N.Delhi 1981, fig.96; anche Ac., op.cit., p.606, fig.285.  Dall’icona si capisce chiaramente che l’allusione è, ovviamente, al tempo in cui Orione dominava il Punto Gamma; ma si riferisce, invero, non tanto alll’asterismo di Orione quanto alla Luna in Orione.  Anche qui comunque vi è un mito vedico (ix. 86, 24) che collega Soma con Supara, nome del Garua o Garutmat, secondo J.N. Banerjea (Stut., op.cit., s.v. GARUA, p.138/ col.b, n.1) vetusta versione teriomorfica di Āditya o Viu.  Dato che il Garua – come d’altronde il Sīmorġ nella tradizione avestica – identificavasi all’asterismo di Orione in quanto sede cosmica della Luce, veniva un tempo punito da Indra (Sirio) col Vajra per il fatto d’aver portato via il Soma (o Amta) dal Cielo; ma il mitologhema celava di per sé un piú recondito senso, avvolto all’Aquila quale παρανατέλλον dell’Aquario, tale costellazione essendo infatti al Discendente allorchè il Leone anziché Orione (παρανατέλλον del Toro) trovavasi al Punto Gamma all’inizio del V Mahāyuga (Grande Anno).  Cfr. n.37.
40)        N.Sementovski-Kurilo, Astrologia. Trattato completo teorico-pratico- Hoepli, Milano 1977, Cap.III n.num., p.83, fig.11.  L’immagine è tratta da un testo di Frobenius & Obermaier, la quale mostra un uro preistorico con un primitivo zodiaco duodenario dipinto sulla gamba destra posteriore.  Da notare che il termine ‘gamba’, e la sua forma grafica, in certe lingue dravidiche (come il paleo-dravidico) equivale alla voce che indica il tempo.  Cfr. al riguardo A. Parpola, Sanskrit Kāla- «Time», Dravidian Kāl- «Leg» and the Mythical Cow of the Four Yugas- Ind.T. (Voll. III-IV, 1975-6), Proc. Of the II World Sanskrit Conf., Torino 9/15-6-1975, Sereno, Torino 1976, pp. 361-78.  Cosa ancor piú interessante è il fatto che sulla gamba destra anteriore compaia il Segno del Leone, come si deduce dai Segni  dell’altra gamba, a partire dall’Ariete.  Solo il Toro ha lo stesso emblema odierno.  Gli altri si farebbe fatica a riconoscerli se non fossero scritti nel giusto ordine, tranne l’Aquario (penultimo), contrassegnato celestialmente dal Cerchio (di Ganimede).  La Croce Gammata riportata sul lato sinistro dell’intera figura, in alto, ha sicuramente valore solstiziale-equinoziale e non polare.
41)        Sement., op.cit.
42)        Daka si presenta con Testa Caprina (Ajamukha) in una scultura in pietra incorniciata in un’edicola di Āṅgūr (distr. di Bellary), ritto in piedi accanto alla consorte, crediamo Aditi.  Cfr. T.A. Gopinatha Rao, Elements of Hindu Iconography- Vol.II, P.I, Cap.IV, §7, p.188, tav.XLV, fig.1; anche in Ac., op.cit., p.595, fig.205.
43)        Cfr. A.Tocci, Dizionario di mitologia- Brancato, Catania 1990, s.v. DIOSCURI, pp. 154/ col.b -6/ col.a.; inoltre (onde visionare il rilievo a tutto tondo del Mus.Arch. di Napoli, immagine probabile di Castore) A.Morelli, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale- Eli, ediz. n.cit., p.175, coll. a-b, fig. n.num.).  Vide Cap.I, n.230.  Per un parallelo con gli Aśvina Pap., op.cit., §24, p.43; sennonché questi interpreta i gemelli divini annunciatori dell’alba, assurdamente, come le due facce del pianeta Venere all’alba e al tramonto.     
44)        Ibid come alla 41.                                                            
45)        Ib.
46)        Non necessariamente un mito della fecondità e della fertilità dipende dai cambiamenti primaverili, o dalle piogge.  La solare Era dei Gemelli, ad es., era associata ad un altro tipo di vernalità rispetto a quella dell’Era del Toro; incorporante quali sottoperiodi i cicli lunari di Orione, Aldebaràn e delle Pleiadi, asterismi definiti ‘portatori di piogge’ (imbrifera) dai Latini e ‘diluviali’ da parte dei Maya mesoamerindi secondo Cortez.
47)        Pap., op.cit., §B.43, p.63.
48)        Til., The Or., Capp. IV-VI (per Orione), Cap.III (per le Pleiadi).  Del passaggio in Aldebaràn si dà conto soltanto vagamente al Cap.VIII, pp. 220-9 (pp. 233-48 della n.tr.).  Ciò per il fatto che la suddivisione proposta dall’autore parte da Aditi anziché da Mgaśiras, cosa sulla quale non siamo per nulla d’accordo; per cui la sequenza discussa non è come da noi suggerito Mgaśiras-Rohiī-Kttikā, ma piuttosto Aditi-Mgaśiras-Kttikā.  In tal modo i periodi presi in considerazione diventano periodi astronomici, anziché astrologici, e questo va contro l’asserzione dei testi che l’astrologia sia nata alla fine del Ktayuga.  Stando ad essi, non può dunque essere un fenomeno tardo.
49)        Op.cit., Cap.III, pp. 34-5 (pp. 62-3 della n.tr.).
50)        Vedi §a.
51)        Per un approfondimento sul tema cfr. Ac., L’Amer., passim; inoltre H.Mriga, I Tre Figli di Noè e la loro diffusione nel Vecchio Continente– Nel nido del Simorgh, blog (in prep.), sgg.
52)        Il termine significa ‘Terra dei Mini’ (Ar-Minni) secondo Graves (op.cit., §154, n.12), i Mini non essendo altro che dei camiti emigrati in Asia in tempi che è difficile stabilire; ma quel che è piú interessante è che la voce mīn , scr.mīna, in lingua  paleo-dravidica significa ‘pesce’.   Ciò, è ovvio, ha a che fare col fatto che queste popolazioni erano genti di mare e di fiumi come tutti i Dravidi in generale.  L’etimo del loro nome, che significa ‘Figli dell’Acqua’, lo testimonia.  D’altronde i Mini, stando sempre al Greaves (ibid.), sarebbero da intendere quali discendenti di Minia, ossia l’equivalente greco del Mina hindu e del Min egizio.

53)       R. Guénon, Il Compagnonaggio e gli Zingari- R.S.T. (gen.-dic., N°54-5), Torino 1981, p.16; ed.or. Le Compagnonnage et les Bohémiens- Le Voile d’Isis (ott. ’28).  Il luogo preciso di raduno dei Gitani (cfr. coi Sigyýnnai   o Siginni di Hēr., Hist.- v. 9), o Zingari Meridionali, è Saintes-Maries-de-la-Mer; c’informa Guénon che il Marchese di Baroncelli-Javon, nel suo saggio Gli Zingari delle Saintes-Maries-de-la-Mer, parla di costoro come genti affini ai Pellerossa e perciò d’origine atlantidea.  In effetti i Gitani avevano il costume nei tempi addietro, a quanto ci è tramandato (Ac., L’Is. B.- Simm., N°41, apr. 2016, p.11/ col.b) di dipingersi il volto in maniera simile ai Nativi americani.  È un monaco olandese, certo S.Simeon, a comunicarcelo nei suoi Itineraria; egli li descrive come dei “danubiani” non diversi dagl’Indiani, ma stanziati in Egitto, con tipiche cicatrici nel volto ottenute mediante tatuaggio facciale cum ferro ignito.  Segnalato dal Di Nola in AAAA., Enc. d. Rel., Firenze 1970, Vol.VI, s.v.ZINGARI (Religione degli), p.357.
54)        Til., op.cit., Cap.VIII, p.234 (p.252 della n.tr.).
55)        Per un resoconto generico sul Caturyuga hindu cfr. Ac., Kāl, Vol.I, P.II, Cap.V, p.361ss; per una panoramica piú dettagliata sugli avvenimenti precessionali all’interno del VII Manvantara (dal 3 Maggio 2000 è cominciato l’VIII) cfr. Ac., Intr., passim.
56)        Ibid. come alla 54, pp. 232-3 (p.251 della n.tr.).
57)        Ib., p.234 (p.252 della n.tr.).
58)        P.232 (p.251 della n.trad.).
59)        Volendo adottare la visione astronomica tilakiana, pre-astrologica ovvero pre-matematica a suo dire (che personalmente non condividiamo del tutto), si potrebbe considerare un arco di tempo piú generico, ma le cose non cambierebbero comunque di molto.
60)        L’esistenza d’una classe di guerrieri dediti all’uso del carro da battaglia secondo Parpola (op.cit, p.149/ col.a) è chiaramente testimoniato nel C.A.B.M. e nel Gurgan.  Una statuetta in bronzo delle tombe saccheggiate battriane mostra addirittura un cavallo con un cavaliere nudo itifallico.  La supposizione del Parpola è che questa élite della cultura battriana parlasse una sorta di proto-indoario ed in base agli scavi d’una troupé francese guidata da J.F. Jarrige in un punto strategicamente importante della via che conduce dal Baluchistan al Sind i reperti assomigliavano a quelli della Battriana e della Margiana.  Vedi ad es. le spirali in steatite, molto comuni d’altronde in Asia Centrale.  Vi è dunque in Baluchistan testimonianza d’una continuità culturale tale, rispetto al CABM, per cui si possa sopettare di un’interazione colla Civiltà della Valle dell’Indo al principio del proprio aspetto Tardo-harappano.  Il movimento implicato coinciderebbe, anzi, colla disintegrazione di siffatta civiltà.  Naturalmente il Parpola fa derivare dall’Asia Centrale pure coloro ch’egli chiama gli Ari mitannici.  Il Saranidi avrebbe trovato un nuovo argomento per sostenere che Mitanni ed Indoari compositori del gveda provenivano dalla Battriana e dalla Margiana, il fatto che essi adorassero entrambi Indra, il dio della guerra (trasformato da Zoroastro in un demone); siccome sarebbe stata trovata traccia di Ephedra nei residui di liquidi di alcuni vasi e l’Ephedra costituirebbe, guardacaso, la pianta tanto cercata dagli indologi che gli Indoari definivano Soma e gli Iranari Haoma.  Il Parpola parla, non si capisce bene su che base, di una fusione di 2 distinte tribú attorno all’VIII sec. a.C., con ristrutturazione dei rispettivi canoni religiosi.  Il periodo coinciderebbe colla trasposizione dal CABM I al CABM. II.  Qui la ricostruzione appare un po’ confusa, è difficile da accettare (ibid., p.149/ col.b).  Importanti indizi dell’invasione aria (e qui potremmo essere d’accordo con lui, ma non con la cronologia) il Parpola li troverebbe nei forti a mura cicolari dalla triplice cinta concentrica (tripura) erette dai Dāsa.  Fin al 1976  si è seguita l’ipotesi di Marshall che le città fortificate della Civiltà dell’Indo sarebbero state tali forti descritti nel Rgveda, ma dal ’76 in poi Rau mostrò che tali forti venivano descritti come semplici ripari in pietra, non come vere e proprie città.   Il Professore finlandese ha proposto d’identificare codesti forti ai villaggi fortificati rinvenuti in Battriana e in Margiana.  Questi sarebbero stati inoltre i luoghi ove i Dāsa, i Dasyu e i Pai venivano collocati anticamente dalle fonti iraniche, greche e latine.  Nelle fonti iraniche si nomina un popolo chiamato Daha (>Dasa) situato a ridosso dei Saka.  Secondo Q. Curzio Rufo e Tolomeo le genti denominate Daha vivevano in Margiana, con essi concordando anche Pomponio Mela.  Strabone c’informa invece che una delle tribú dei Daha era quella dei Paroi (il Diz. Gemoll, XIII ed.riv., dà in proposito Párioi traducendo ‘Parii’), dal Parpola identificati ai Pai.  La tradizione di costruire con una triplice cinta (cfr. coi Celti) è continuata in Battriana sino agli Achemenidi. Il dato sembra coincidere, al dire sempre del Parpola, con quanto attestato nello Ś.B.- vi. 3. 3, 24-5.  Sappiamo d’altronde che nella tarda mitologia vedica ed in quella induista i Tripura sono attestati quali dimore degli Asura, opposte a quelle egli Dei, ciò valendo sia a livello numinoso che umano.  Il gveda parla inoltre esplicitamente di centinaia di forti dei Dāsa, mentre gli Ārya detengono accampamenti vicino ai fiumi e si riscaldano col fuoco.  Segno che questi ultimi erano delle popolazioni disperse, non originarie di quella plaghe.  I testimoni vedici tardi confermano d’altronde che nella battaglia fra Deva ed Asura all’inizio erano gli Asura (gli adoratori degli Asura) – cioè le genti stanziali in quel territorio – ad avere la meglio sui Deva (gli adoratori dei Deva), avendo a disposizone le loro rocche.  La qual cosa prova di nuovo che gli Ari eran di passaggio in Margiana e Battriana.  Gli Ari rigvedici descrivono i loro nemici come ricchi e potenti, dotati di carri e di cavalli, di altro bestiame, di armi acuminate, di ricchezze varie, oro compreso.  Questa descrizione concorderebbe –  indica Parpola – colla prima fase del CABM in Battriana per via delle coppe e delle armi dorate rinvenute e le raffigurazioni di animali domestici, inclusi gli equini.  La differenza di pelle descritta nel gveda fra le due compagini porterebbe alla stessa conclusione, nel senso d’una suddivisione etnica.  Qui viene tracciato l’etimo del termine Dāsa (ib., p.150/ col.b), ma la cosa non ci convince, sinceramente ci pare forzata.   L’intento del Parpola è di minimizzare le differenze fra Ārya e Dāsa, fra Deva ed Asura, respingendo la tesi precedente dei Dāsa e degli Asura come anari.  Dopo la fusione fra Deva ed Asura persino Indra, il devarāja per eccllenza, sarebbe stato definito occasionalmente un Asura.  In proposito non vien citato tuttavia alcun passo da esaminare.  Si sa d’altra parte che il principale asura è Varua, il nume piú importante del Rgveda, sebbene per motivi di attualità sia ossequiato maggiormente Indra.  Il discorso del professore appare piuttosto ambiguo quando si rifà all’avestico Ahura quale asura per antonomasia, che Zoroastro avrebbe ristabilito quale divinità principale, anziché il daeva Indra.  Parpola non ha la minima conoscenza di cosa sia ciclicità, sembra che il fatto di elevare a supremo un dio anziché un altro sia solo una questione di potere o di convenzione, ma le cose non stanno affatto cosí.  Per la verità ci pare che Ahura abbia nell’Avesta lo stesso ruolo posseduto da Varua nel gveda e che altrettanto si possa dire di Verethragna rispetto a Vtrahan, cioè di Indra in quanto uccisore del demone Vtra.  Invece sul fatto che i Mitanni venerassero sia Varua che Indra  potrebbe aver ragione nell’ipotizzare che provenissero dalla Battriana e dalla Margiana dopo la fusione dei 2 ceppi, ario e (diciamo noi, di contro alla sua ipotesi identificativa) uralo-altaico o turanico che dir si voglia.  S’intende, però, che la provenienza degli Ari in generale non può essere avvenuta dall’Asia Centrale se non come meta provvisoria.  Non bisogna dimenticare che erano iapheti, checché se ne dica, e che quindi facevano parte del ceppo noaico.  Parpola non dichiara esplicitamente da dove provenissero gli Ari.  Ammette giustamente però, a differenza della Gimbutas, che non possano esser venuti dall’Asia Centrale se non di passaggio.  Ponendo il quesito di come siano finiti là, indica vagamente la sede originaria nelle steppe nordasiatiche; è la vecchia tesi del Warren, poi rabberciata da Tilak.  Ed allora, ci si chiede, perché non cita Tilak direttamente?  Spiega che quest’ipotesi è stata respinta dagli archeologi, i quali non hanno trovato reperti sufficienti a provare valida la tesi suddetta.  Ad es. in Battriana ed in Margiana non è stata trovata traccia di distruzioni violente, quindi il declino dalla I alla II fase del CABM deriverebbe da altre cause.  Le vestigia d’una espansione verso sud della Cultura di Andronovo (2300-1000 a.C.) delle steppe del Kazakistan puntano verso il II mill., onde la cronologia sovietica è stata sospettata d’essere troppo bassa.  I primi cimiteri in stile Andronovo, negli Urali Meridionali, risalirebbero infatti al 1600 a.C.  Ad ogni modo vi sono collegamenti oggi riconosciuti, non menzionati al tempo dall’autore, di tale cultura con quella di Afanasevo (3500-200 a.C.).  Da notare che i carri per cavalli, seppelliti assieme ai proprietari delle bestie da soma nella prima delle due culture citate, mostrano ruote con 10 raggi ciascuna.  Parpola ritiene possibile un collegamento fra i Mitanni, signori dei carriaggi nel XVI sec., e simile cultura, siccome i carri vicino orientali  disponevano di ruote a soli 4 od 8 raggi.  Egli è convinto che i Dāsa siano stati la casta dominante delle culturea tardo-harappane, ma non ci spiega bene come costoro fossero finiti in India, se non attraverso la fusione cogli Ārya.  L’ipotesi finale di questo problematico discorso è che quando gli Ari vedici raggiunseo il Gange si trovarono a combattere contro la tribú ostile e barbara dei Māgadhī, menzionati nell’Atharvaveda.  In conclusione, i Māgadhī sarebbero parte della primitiva ondata aria, identificata a quella dei Dāsa.  La nostra personale ipotesi è viceversa che i Dāsa fossero la classe sacerdotale dei ramaiti pre-ari.  Anche noi in un primo tempo avevamo pensato ad una doppia ondata, sul modello ellenico, ma se vi è stata a nostro parere non ha avuto nulla a che fare in ogni caso coi Dāsa, che erano di per sé anari; od in quanto camiti paleodravidici, o piú probabilmente siccome discendenti di Parashurama (Perseo) mescolati ad essi.
61)        Che anche i testi sacri siano fallibili in qualche punto è possibile, ciò essendo implicito nel concetto di Tradizione, siccome distinta proprio per questo dalla Rivelazione.  La fallibilità può riguardare ad ogni modo solo elementi secondari, non quanto concerne il nucleo sostanziale dell’insegnamento.  Per es. il personaggio di Giuseppe, di cui si narra in Gen.-xxxviii e poi in xxxix-l ossia a conclusione del libro, a giudizio di taluno (L. Gardner, Le misteriose origini dei Re del Graal- Newton, Roma 2000, Cap.17, pp. 188-94; ed.or. Genesis of the Grail Kings- Bantam P., Londra 1999) sarebbe da ascrivere storicamente a due diversi personaggi; vissuti fra il tempo di Giacobbe e quello di Mosé, pur rimanendo intatto il senso del racconto. Le scritture vengono attribuite del resto a delle figure profetiche.  Nel caso del Pentateuco a Mosé, cosí come il Corano è assegnato a Maometto; o nel caso dell’India direttamente alla figura avatarica di Ka, ma da ciò non ne consegue che essi siano stati scritti realmente da costoro.  Semmai da un corpo sacerdotale di scribi, il quale ne svolgeva le veci nel tempo di fissazione su manoscritti di determinate tradizioni orali, facenti capo a quel dato profeta od avatāra.  
62)        G.Acerbi, La nozione di ‘Olam’ nella cultura ebraica ed il culto solare giudaico-cristiano, da Noè ad Hebron– Alle pendici del Monte Meru (16-02-17), §c sgg.
63)        Abbiamo altrove (vide Cap.VI, n.211) spiegato come la suddivisone quaternaria sia, in ogni tradizione, sempre complementare a quella quinaria.  Onde otterremmo la serie quinaria introducendo la figura di Eva fra Adamo e Caino e correlando cosmograficamente la prima all’Est, il secondo al Polo, il terzo al Sud.  A seguire, Noè all’Ovest e Nimrod al Nord.
64)      Equiparando Hevel a Jamadagni (H.Mriga, Il viaggio degli Adamiti all’emisfero australe III- Nel nido del Simorgh, blog [18-11-15], §c, p.17) e facendo di lui il vero padre di Lemek le cose tornerebbero a posto, d’incanto; poiché, in tal modo la discendenza di Qayin-Vāmana rimarrebbe in contrapposizione a quella di Hevel-Jamadagni, esattamente come è descritto nel mito hindu, o piú sinteticamente ma confusamente nella Gen.- iv. 23-4.  L’uccisione di Caino in prospettiva biblica è fattore secondario, proprio come il pentimento dello stesso per l’uccisione di Abele ed il conseguente utilizzo della meditazione a scopo lenitivo.  Gli scritti apocrifi mettono infatti in chiaro che Caino possedeva un corno di tipo shivaico, equivalente a quello di yaśṛṅga.  Cfr. a tal proposito G.Acerbi, La simbologia fitomorfica: l’orticoltura nel mito delle origini- V.d.T. (A.XXIII, Vol.XXIII, gen.-mar., N°89), Palermo 1993,  P.I, pp. 34-5, n.13.        
65)        Ibid. come alla 62.
66)        Shrī Laka (ex-Ceylon) era abitata fino al I mill. a.C. da stirpi primitive (Emb., op.cit., Cap.13, §II, p.175 ss), delle quali i Vedda sono gli attuali discendenti.  Nel V sec. a.C. subentrarono coloro che divennero in conseguenza di ciò la principale etnia, i singalesi, arrivati sull’isola via mare partendo dal Golfo di Cambay.  Questi indiani venuti dal nordovest  costrinsero gli auctoni a rifugiarsi all’interno dell’isola, ove dimorano ancor oggi in spazi sempre piú ristretti.  Le cronache singalesi li chiamano Yakka.  A metà del III sec. a.C. giunse il buddhismo, per merito di Aśoka, ben presto divenendo la religione dominante.  Fin dal I sec. a.C. la capitale del regno è stata conquistata dall’India dravidica, che per tutto il I mill. d.C. ha continuato ad invaderlo.  Nell’XI sec. è avvenuta, attraverso i Chola, la penetrazione piú massiccia.  La popolazione austronesiana  non ha solo occupato Śrī Laka, ma anche le isole coralline attorno al subcontinente.  
67)        Accettando l’idea che il subcontinente si prolungasse piú oltre lungo la dorsale oggi sommersa nell’Oceano Indiano, come vuole la leggenda, si può immaginare che le genti degli arcipelaghi emergenti in direzione  sud-ovest siano ciò che perdura tuttora di quella colonizzazione partita dall’India preistorica che la Smti attribuisce al VI Ciclo Avatarico.
68)        I Boscimani, nome derivato dall’oland. bosjeman (‘uomo dei boschi’), sono un ceppo disperso di pelle gialla d’un ramo pigmeo un tempo assai diffuso sino all’Africa Centrale, che si ricollega preistoricamente a nostro parere ai Negritos dell’Asia Sudorientale.  Inutile aggiungere che non siamo minimamente d’accordo con coloro che han fatto degli Ottentotti e dei Boscimani dei “pre-camiti“ (quindi affini a paleo-sudanesi e a paleo-etiopici), termine che avrebbe un senso solamente facendo provenire – come abbiamo fatto noi in questo libro – il ceppo camitico dalla parte meridionale del Nuovo Continente, risultando perciò connesso ai cainiti austronesiani colà giunti per via antartica.  Anche i Pigmei africani, che sono dei Negrilli nei confronti dei quali è possibile tracciare una linea di parentela coi suddetti Negritos, appartengono alllo stesso ceppo; difatti venerano Gōr, l’elefante bianco con tratti assai simili a quelli dell’analogo elefante bianco indiano uscito dal Rimestamento dell’Oceano di Latte, Airāvata; parallelamente all’India, pure tale pachiderma è abbinato alle piogge in senso pre-zodiacale (A. di Nola, s.v. PIGMEI, Religione dei, p.1.640; apud AA.VV., Enc., Vol.4).  Un’ulteriore loro divinità è Tore, il nano cornuto (ibid., p.1641), che egualmente presenta tratti comuni con certi numi della zona austronesiana.  A differenza dei Boscimani, gli Ottentotti (originati da boscimani ibraditisi coi pastori nilocamitici dell’Africa Nordorientale) pur appartenendo al medesimo ceppo sono maggiormente evoluti ed oltre a nutrirsi di tuberi, cipolle selvatiche e radici praticano l’allevamento (A. di Nola, s.v. OTTENTOTTI, p.1.320 ss; ib.).  La differenza nell’Africa sub-nilotica fra costoro e i Boscimani è simile a quella fra Munda e Vedda in India.  Tornando ai Boscimani, il loro carattere prettamente proto-australoide (sebbene qualcun altro pretenderebbe di classificarli come mongoloidi) è evidenziato dal culto di Cagn/Kaggen; un essere supremo dai tratti shivaici, fungente altresí da genio degli animali e signore della caccia.  Prende la forma di Antilope (H.Pager, The Antilope Cult of the Prehistoric Hunters of South Africa, p.408; apud AA.VV., Les religions de la prehistoire- Jaca B., Milano 1975) o di Leone (R.Bosi, I Boscimani del Kalahari- Il Saggiatore, Milano 1961, P.Ter., Cap.1, pp. 108-9), al pari dello Śiva hindu.  Cfr. in proposito G.Acerbi, Mrigeçvara. Ricognizioni su un’eccezionale icona del tempio di Pâçupatinâtha in Nepâl- Alle pendici del Monte Meru, blog (10-05-14), p.8.  Osservando foneticamente il nome Cagn, si può notare la convergenza fonetica – ma secondo noi è un vero e proprio etimo – coll’ebr. Qayin; d’altronde la radice nei due nomi è la medesima (Cgn = Qyn), giacché in molte lingue la semicons. -y- è interscambiabile colla corrispondente palat. -j- o la corrispondente gutt. -g-.  Per un parallelo fra la forma cornuta di Śiva e quella di Caino vide n.64.  A dimostrazione di quanto da noi postulato, D.Bleck (Bo., ibid., p.114) ha segnalato dal canto suo le concordanze fra le leggende boscimane riguardanti i corpi celesti e quelle non dissimili degli aborigeni australiani del sudest.  Nei miti astrali hanno un particolare posto gli asterismi fungenti da perno al Polo Sud ossia Sirio, Canopo e la Croce del Sud (A. di Nola, s.v. BOSCIMANI, §1.b, pp. 1.194-5, apud AA.VV., Enc., Vol.1).  Non meno degli aborigeni australiani, i Boscimani hanno coltivato da millenni l’arte rupestre, che possiede legami misterici colla pratica venatoria e la magia di caccia.  Tali pitture rocciose sono state paragonate a quelle dell’area franco-ispano-franco-cantabrica (ibid., §29), ma è logico vi siano delle somiglianze; l’arte parietale mediterranea è stata influenzata da quella austronesiana attraverso i secoli, nel corso di migrazioni millenarie delle quali è rimasta scarsa traccia.  Cfr. Cap.I, n.117.   Per quel che riguarda le origini lontane dei Negrilli centro-africani, a parte la stretta parentela coi Boscimani e gli Ottentotti dell’Africa Meridionale o i  Negritos sudestasiatici, è significativo il fatto che i Pigmei riconoscano come prima coppia umana (Ntaum e Rae) due esseri nati da uova di Tartaruga (Wikip., s.v.PIGMEI).  Il che colloca tutta la stirpe dei Nani in diretta corrispondenza col ceppo di bassa statura dei Paleoasiatici.  In altre parole, col cd. ‘Ciclo della Tartaruga’, donde provengono anche gli Uralo-altaici e i popoli di razza gialla (oceaniani).  Si badi bene che le popolazioni estremo orientali e del sudest asiatico, al di là delle nostre definizioni attuali di comodo, sono in realtà delle commistioni varie fra il ceppo turanico e quello polinesiano-melanesiano, in altre parole fra la razza bianca e la razza gialla.  Cfr. il nostro schema distributivo alla n.17 del Cap.IV. 
69)        Al riguardo cfr. i Flem-Ath (vedi Intr., pp. 8-9), i quali non trattano però dell’arrivo dei Cainiti in questa parte di Antartide, che associano al primo periodo atlantideo e cioè sostanzialmente alla preistoria dell’America del Sud. Cosa che peraltro condividiamo, per quanto essi non distinguano erroneamente – nemmeno a livello cronologico – fra tale prima Atlantide e la seconda, quella egizio-platonica.    Tuttavia la scuola anglo-americana cui il duo attinge, soprattutto attraverso G.Hancock e C.Wilson, ha constatato attraverso le effigie umane rappresentate nell’arte amerinda la presenza di ceppi negroidi.  Forse si sono aggiunti, una volta tracciata quella via, degli esponenti del ceppo abelita (successivi o meno che fossero rispetto  quelli di ceppo cainita); visto che nella tradizione hindu Parasurāma viene ucciso da Rāmacandra, sempre che ciò non vada inteso solamente nel senso d’una staffetta avatarica.  La questione della Gigantomachia non chiarisce affatto il problema, non comprendendosi bene se siffatti ‘Giganti’ dai tratti titanico-ofidici siano dei sethiti ibridatisi ai cainiti e poi ribellatisi, come pretenderebbe la tradizione ebraica, oppure costituiscano un terzo ceppo.  La tradizione hindu fa di Rāvaa l’avversario di Rāmacandra, ma Rāvaa a quale dei due rami appartiene, al ceppo proto-australoide oppure a quello turano?  O, addirittura, ad uno misto, dovuto alla loro ibridazione? La questione non è facile da dirimere, anche perché secondo consuetudine l’induismo facendo dei due personaggi degli eroi locali li colloca entrambi in determinate zone dell’India.  Per chiarimenti ulteriori sul ramo turano, proveniente dall’Asia Settentrionale, vide infra.     
70)        Vi è peraltro una tela stampata nella coll.priv. di A.Daniélou (Id., Śiva e Dioniso- Ubaldini, Roma 1980, fig.13 n.num. a mezzo fra pp. 128-9; ed.or. Shiva et Dyonisos- Lib. A.Fayard, Parigi 1979) ritraente la scena rituale d’una devī  con in mano il Liga mentre accoglie l’offerta sacrificale del Toro da parte di Śiva.  Che si tratti d’un sacrificio è dimostrato dal fatto che l’intera scena si svolge in una specie di coppa sacrificale decorata in stile geometrico ed allargata a mo’ di catino, sotto cui vi è un oceano pieno di pesci.  La devī  è sicuramente la Śakti, avente sul paredro un ruolo dominante; tant’è che è ritratta in grande seduta in trono, mentre il deva è piccolo accanto all’animale sacrificale, di maggiori dimensioni.  L’opera proviene dall’India del Sud, ma l’autore non offre alcuna datazione.   Al toro il Daniélou non dà neppure un nome, seppure a fianco sia posta un altorilievo di Nandikeśvara, con testa taurina (Khajurāho, X sec. d.C.).  L’animale al fianco di Śiva è veramente un bovino?  Il pizzo sotto il mento, l’espressione della faccia della bestia, le corna diritte e la coda corta rivolta in avanti la farebero sembrare piuttosto una capra.  Non è certo un caso, infatti, che in un’analoga scena di due arcaici sigilli in steatite (H.Mode, L’antica India- Primato, Roma 1960, p.240, tav.70 supra et infra; ed.or. Das Frühe Indien- Cotta, Stoccarda 1959), compaia quale animale sacrificale la capra selvativa (markhor).  In un sigillo (sup.) la bestia è preceduta dalla figura umana per metà inginocchiata, con un ramoscello fra le corna bovine.  Anche la dea ha qualcosa in mezzo alle corna bovine, parrebbe una gemma, tale da trasformare il copricapo rituale nell’insieme in un tridente.  Nell’altro sigillo (inf.) l’ordine di presentazione dell’offerta alla dea è invertito, ma la figura umana coll’arboscelo fra le corna è poco sagomata e non è ben chiaro il gesto.  Avessimo voluto a tutti costi dar la prova di quanto sostenevamo ossia la probabile presenza di Nandin nell’antica Civiltà dell’Indo, di chiara matrice paleo-dravidica, avremmo potuto sorvolare sulla distinzione fatta; al contrario la spiegazione data, pur problematizzando la questione, c’insegna che non c’era bisogno di un toro sacrificale.  Primo, perché Nandin o Nandikeśvara altri non è che Śiva , che proprio per questo è cornuto.  Con tutto ciò che comporta il simbolismo delle Corna, cioè il rimando a Kāla ecc.  Lo Śiva vetusto quindi non solo era cornuto, ma aveva corna sia di toro (nelle due immagini analizzate) che di bufalo (ibid., p.237, tav.66, infra); in un singolo caso, si vede una figura con corna di markhor (ib., p.235, tav.64, infra) ed una lunga protuberanza posteriore, tanto da farne ibrido di tigre.  Se il dio colle con corna bufaline è stato designato come Proto-Shiva, la dea con corna caprine ed appendice retrostante tigresca la potremmo definire una Proto-Durga.  Le corna di bufalo sono andate scomparendo iconologicamente nei tempi storici, quelle di toro sono rimaste piú a lungo, per quanto siano andate pure loro rarefacendosi in epoca moderna.  Vedi tela segnalata dal Daniélou, dove nessuna delle due deità ha le triplici corna arboree, benché sopravvivano al loro posto il Fallo e la Lancia colla punta a forma di gemma.  La stessa che apparterrà al figlio Skanda.     
71)        Vide Capp. I, n.75, II, n.53 e VII, n.73.
72)        Il I ed il II Avatāra sono legati alla supercasta degli Hasa, non hanno a che fare col sacerdozio, che ancora non esisteva nei primi due cicli.  Il sacerdozio nasce con Varāha, nel III Ciclo Avatarico.  Il Verro è stato per questo, da sempre, un simbolo sacerdotale sia presso gl’Indiani che presso i Celti.  Merlino, associato al Cinghiale Bianco, è il classico esempio a questo proposito di sacerdote archetipico.  In India Bhairava, talora effigiato con Testa di Cinghiale, ci pare abbia funzione analoga.  Le Zanne o la Zanna Unica, nel caso di Varāhāvatāra, indicano la capacità dottrinale di scavare nella realtà per comprenderla a fondo.  Narasiha, IV avatāra, rappresenta l’altra faccia del sacerdozio ovvero la capacità d’offrirsi al martirio pur di non venir meno alla propria fede religiosa.  Con Vāmanāvatāra diventa essenziale il Sacrificio, una prerogativa di per sé aristocratica, come fra i leggendari Δαίμονες in Grecia.  Paraśu-rāma (prima si chiamava Rāma secondo una leggenda, che fa risalire la Doppia Ascia ad un dono di Śiva), VI avatāra, è il frutto d’una reazione sacerdotale alla presa di potere della classe aristocratica nei Mari del Sud.  Tanto è tuttavia il sangue versato in tali millenni per combattere l’arroganza di quei guerrieri, che lo sresso Paraśu può esser reputato un appartenente alll’aristocrazia piuttosto che al sacerdozio.  La sua origine indiretta è comunque da Brahmā, attraverso Bhgu; ecco perché discende dalla famiglia dei Bhārgava, addetta al fuoco.  Vi sono due storie realative a Bhgu.  Da un lato viene considerato il figlio di Brahmā, dalla cui pelle ha preso vita; dall’altro è figlio di Varua ed è costui che funge da antenato di Jamadagni, padre di Paraśurāma.  Svariate storie collegano il VI avatāra ai Kuru, specie a Kara e a Droa, ai quali avrebbe insegnato l’arte di tirar l’arco.  Al di fuori del mito, possiamo intanto constatare che i Kaurava etnicamente discendono da Parśu, questo è il vero senso dei racconti; perciò, non sono né iapheti né camiti del Ciclo Eroico, ma piuttosto ramaiti del Ciclo Titanico.  Può dirsi la medesina cosa dei Pāṇḍu?  No, costoro sono degli ari intendendo il termine in senso lato, in altre parole dei camiti paleo-dravidici.  Dopo la fusione etnoculturale camito-iaphetica, che ha dato luogo alla formazione del ceppo hindu ed all’induismo, i tratti assunti dai Pāṇḍava nel Mahābhārata hanno ricalcato in parte la fisionomia dravidica ed in parte quella aria propriamente detta (indoaria).  Inoltre va specificato che la discendenza dei Ramaiti dal secondo Bhgu, varuniano anziché brahmanico, fa di loro un ceppo turanico; disceso cioè dal II Ciclo Avatarico, anziché dal I.  
73)        Vi sono ceppi tribali come i Gond (A. di Nola, s.v. INDIA, Culture arcaiche e anarie dell’, pp. 883-7, §4; apud AA.VV., Enc., Vol.3) che, pur derivando dal primitivo gruppo veddoide, hanno assimilato la lingua dravidica e la cultura orticola avanzata.  In tal modo han potuto conservare, oralmente, il loro patrimonio mitologico trasmesso per via bardica e sacerdotale.  Compresi i dati antropologici, relativi ai loro rapporti colle altre tribú.  Tutti coloro che come costoro hanno subito una dravidizzazione ed una sanscritizzazione forzata sono caratterizzati da un’organizzazione familiare di tipo clanico, non hanno suddivisione castale.  
74)        I Bhīl (Di N., s.v. cit., pp. 881-3, §2 sgg), nonostante l’arianizzazione, nelle zone tribali isolate palesano l’antica cultura venatoria propria dei proto-australoidi; posseggono infatti un dio-tigre, Vāghdev, con funzioni similari a quelle del dio-leone boscimano (vide n.68). 
75)        L’etimo di questo nome è convergente col lat. viātor (‘viandante’ ), dal vr. vio (‘andare, far strada, camminare’); cfr. col scr.vyādha (‘cacciatore’), da vyadh (‘colpire’, ferire’).  A nostro giudizio, però, non si tratta solamente d’una convergenza, ma d’un vero e proprio etimo di sapore primordiale.  Difatti, il vr. vyadh ha come parallelo vyac (‘circondare’), che a sua volta è una var. di v (id.); quest’ultima voce deriva dal vr. vī (‘andare’, ma anche ‘afferrare, attaccare, assalire’), l’equivalente insomma del succitato lat. viāre.  Significativo, peraltro, che nella nostra lingua si trovi come prima pers.sing. del presente di ‘andare’ la voce ‘vado’ e che il scr.vī giustamente sia collegato (M.Monier-Williams, Sanskrit-English Dictionary Etimologically and Philologically Arranged with Special Reference to Cognate Indo-European Languages- Munshiram M., N.Delhi 1981, p.1004, col.a; ed.or. Clarendon P., Oxford 1899) col lat. venor (‘cacciare, dar la caccia’); il quale è secondo noi solo una variante di veneror (‘venerare’, ovvero dar la caccia in senso erotico), tenendo conto che in tempi lontani la foresta (scr.vana) costituiva lo sfondo naturale sia della caccia che dell’eros tribalmente inteso.   
76)        La parola Mūṇḍā , deriva da un termine sanscrito, significa ‘capo di villaggio’ (Di N., s.v. cit., §9.c, p.903). 
77)        Stut., op.cit., s.v. PARAŚURĀMA, p.320/ col.b.
78)        Di N., s.v. cit., §8.a, p.898.
79)        R.Graves  & R.Patai, I miti ebraici- Longanesi  & C., Milano 1980 (ed.or. Hebrew Myths. The Book of Genesis- Cassell, Londra 1964), Cap.14, p.105.
80)        In un nostro art. (Ac., La simb., P.II, p.80) abbiamo indicato l’quivalenza culturale ed etimologica fra Caino e Crono, nonché fra Abele e Apollo.
81)        Secondo Eschilo (Pe.- lxxix), quando i re persiani invasero la Grecia per conquistarla reclamarono Perseo quale loro antenato; menzionato da Ker., op.cit., Vol.2, L.pri. Cap.4, p.64.
82)        L’Ariete, in questo caso, non ha nulla a che fare collo Zodiaco, ma semmai colla pastorizia.


83)        Il suggerimento è del dott. E.Albrile, iranista di fama.  La mitologia iranica ha fuso assieme, in maniera quasi inestricabile, la mitologia degli Iranari e quella dei Turi.  Il leggendario Ferēdūn (pahl. e m.pers. Frēdōn, n.pers. Ferēydūn/ Farīdūn, av. Thraētaona) viene descritto (Encyclopaedia Iranica, s.v.FERĒDŪN) come un titano della dinastia di Āthbiya (scr. Āptya) e corrisponde dunque a Trita Āptya.  Entrambi sono vincitori d’un mostro tricipite: il drago Aži Dahāka il primo e il demone Viśvarūpa (o Triśiras, figlio di Tvasṭṛ) il secondo.  Thraētaona ha un doppione in Thrita, che come lui prepara il sacro Haoma.  Il Drago sconfitto (vedi Dragone del Nord, la costellazione circumpolare) è stato rinchiuso in una grotta, in cui è rimasto sino alla ‘Fine del Mondo’ per essere ucciso da Garšāsb.  Anche l’Apocalisse giovannea annunciava per lo stesso periodo la sconfitta del Drago da parte del Cristo del ‘Secondo Avvento’.  In effetti, nel 2000 d.C. vi è stato un passaggio del perno artico dal Dragone alla Stella Polare, con tutte le conseguenze che su diversi piani la cosa comportava.  Nello Šāh Nāma cotal Ferēdūn vien identificato al figlio di Ābtīn (Āthbiya probabilmente), un discendente di Jamšīd (Yima Kšaēta), il ‘Primo Re’.  Subito dopo l’uccisione del padre da parte di Dahāka, la madre Farānak lo conduce nella foresta, dove viene allattato dalla vacca Barmāya.  Cfr. colla storia di Paraśurāma.  Per paura del Drago, non appena il bimbo ha 3 anni, la madre fugge con lui sul M.Alborz.  Non appena giunto ai sedici anni, vendica la morte del padre sconfiggendo Dahāka, regnante in Gerusalemme (sic!).  Un amuleto sasanide del Mus.Britannico ritrae Ferēdūn, con una mazza a testa di toro, nell’atto di soggiogare un demone.  Questo ritratto palesa il fatto che, non meno di Abele, il titano persiano era un bovaro ovvero un pastore di vacche.  Bisogna ricordare che egli dovette combattere anche contro i Māzandar, oggi identificati alle popolazioni negroidi provenienti dai Mari del Sud.  Costoro lo assalirono in seguito nella regione di Khwanērah (av. Khvaniratha), ma  alfine riuscí ad espellerli, tramutandone alcuni in pietra; infatti l’Avesta gli attribuisce poteri magici, oltreché medicamentali.  Ferēdūn è noto come l’inventore degli antidoti e degli amuleti.  Ha diviso il proprio regno tra i suoi figli conferendo il Rūm (l’Anatolia e l’Occidente) a Salm, l’Asia Centrale a Tōz (Tur), la Persia e l’India a Ērez (Iraj). 
84)        Per tale doppia assimilazione cfr. H.Mriga, Il Capricorno nel Bene e nel Male. La simbologia solstiziale dei ‘Tre Figli’ di Adamo, con un’indagine sull’origine dei culti demonici in rapporto al Cainismo, all’Abelismo e al Sethismo- Nel nido del Simorgh, blog (7-02-15), riediz.rived. d’un art. pubbl. in altro blog (Nel Regno Perduto della…, 22-09-06), pp. 9-10, n.6
85)        Nella stesura originaria di codesto libro vi erano 2 tomi, il secondo dei quali – ancora incompleto – è stato ora omesso per brevità, in attesa di riciclarlo in una successiva edizione come libro a sé per motivi editoriali.  Il nuovo titolo dovrebbe essere, a meno di cambiamenti imprevisti, La saga universale del Pesce e del Pescatore. Esame iconologico e cosmografico degli sviluppi ciclici della Rivelazione Primordiale.  Nei capitoli vari affrontiamo il percorso del simbolismo ittico, in senso solare ossia ecumene per ecumene nell’ordine delle 10 Direzioni, attraverso l’intero Manvantara.  Abbiamo cosí potuto apprendere – e la cosa è oggidí segnalata in parte anche da alcuni studiosi indiani – che il simbolismo avatarico è diffuso in ogni cultura, sennonché ciascuna cultura giunta al punto del suo massimo sviluppo vi rimane inscindibilmente avviluppata, entrando in una specie di letargo millenario da cui non riesce mai piú a risollevarsi.  Come se avesse esaurito definitivamente le sue possibilità di incremento, progresso ed espansione.  A meno di apporti da altre ecumeni, che si risolvono comunque in fenomeni di passività culturale.  Per farla breve, le zone artiche e subartiche comprendono solamente la simbologia del I Avatāra, la Cina unicamente quella del I e del II (gli altri sono appunto posteriori, presenti solo nominalmente e di marca indiana), la Polinesia ha invece nozione soltanto dei primi 3.  In altre zone del globo, che corrispondono a periodi ciclici successivi di manifestazione divina, gli avatara intermedi tendono a disperdersi o ad assommarsi; fermi rimanendo al loro posto, in genere, il primo od uno dei primi e l’ultimo.  Vale a dire la figura umana divinizzata che ha determinato lo sviluppo culturale d’una data ecumene e, talvolta, l’avatara od uno degli avatara immediatamente precedenti.  In certe zone culturali piú sviluppate del pianeta, viceversa, compaiono tutti o quasi tutti.  In nessun luogo come in India, però, il prospetto avatarico è ugualmente chiaro.        
86)        Il problema di localizzazione del Narasihāvatāra è di difficile risoluzione, poiché tale avatara dovrebbe essere correlato dal punto di vista cosmografico all’ecumene ormai scomparsa del Ciclo Sud-orientale, situato geograficamente pressappoco in zona pacifica melanesiano-micronesiana; ma l’identificazione all’animale primario oggetto d’ispirazione iconologica si è fatta oggi impossibile, dato che non esiste piú attualmente un mammifero predatore in quelle isole, resti d’un continente inabissatosi in epoca lontana secondo le narrazioni del luogo.  Vedi mito della pesca delle isole.  Si potrebbe pensare forse alla presenza dello Smilodon, ma per poterlo affermare con certezza bisognerebbe restituirne i resti archeologici attraverso degli scavi.  Qualche tradizione della venerazione ancestrale d’un sacro felino, seppur molto dispersa, per la verità è rimasta e non unicamente in India.  Anche in Africa.  Si pensi al dio-leone boscimano, corrispettivo nel Continente Nero del dio-tigre veddoide.  Boscimani e Vedda sono da ricollegare, ad esser precisi, al V Ciclo Avatarico; tuttavia è chiaro che le due divinità alle quali abbiamo fatto cenno, menzionate alle nn. 68 e 74, risalgono inevitabilmente al ciclo ad esso anteriore.
87)        Il sacrificio ai Padri è un culto guerriero, non sacerdotale, a dimostrazione di quanto dicevasi alla n.72.
88)        I Keniti, viceversa, rispetto ai Cainiti primordiali sono i cultori tardi del Cainismo; al modo come i Sethiani rispetto agli antichi Sethiti lo sono del Sethismo.                                        
89)        Sulle relazioni intercorse fra Cainiti, Abeliti e Sethiti cfr. Mr., art.cit., passim.
90)        Hês., Theog., vs.825.
91)        Plut., De Is. Et Os.-xxii E.  
92)        Font., op.cit., Capp. I e V passim.
93)        Ac., Sulla q., §4, p.18, n.34.
94)        Ac., art.cit., p.19, n.35.
95)        Nella Genesi si rinviene soltanto un breve cenno ad essa.  Descrizioni maggiormente approfondite si trovano negli Apocrifi del Vecchio Testamento.
96)        Queste consuetudini oscene nel loro assieme passano in India per pratiche di tipo tantrico.  D’altra parte Shiva, il nume presiedente a queste, è Kala e cioè Crono; signore dell’orticoltura primitiva, quindi dei riti di fecondità e di fertilità, dai quali le cerimonie orgiastiche dipendono.
97)        Il materiale pre-letterario di cui ha fruito il testo biblico del Pentateuco, a mo’ di canovaccio (A.Soggin, Introduzione all’antico Testamento. Dalle origini alla chiusura del Canone alessandrino- Paideia, Brescia 1979 [I ed. 1968], P.pri., Cap.VI, §1, pp. 97-9), risale ad un periodo fra il XIII ed il X sec. a.C.  Donde provenisse siffatto materiale da parte degli studiosi che hanno elaborato codesta teoria non è ben spiegato, ma ad ogni modo la datazione è compatibile con il dato di coloro che come noi (inutile aggiungere che altri la pensano diversamente) ritengono Mosé – il depositario della Rivelazione che fa capo ad esso, secondo la tradizione tramandata presso la Chiesa e la Sinagoga – identificabile al Faraone Amenofi IV (Akhenaton, 1.353-1.336 a.C) nell’Egitto del Nuovo Regno (1.550-1069) ed il fratello Aronne al Reggente (il cugino Smenkh-ara-on, 1.335-1.334 a.C.) della XVIII dinastia.  Quest’ultimo è stato preceduto brevemente da un’enigmatica sovrana, Neferneferuaton, che si crede sia stata Nefertiti o piú probabilmente Merytaton, la figlia di Akhenaton e Nefertiti nonché sposa di Smenkhara.  Tornando a Mosé, uno o due secoli ci pare siano sufficienti per la formazione d’una tradizione orale.  La catena di trasmetttitori degl’insegnamenti mosaici – al dire del Soggin Tōrāh significa appunto ‘insegnamenti’, donde deriva il senso di ‘Legge’ – è giunta necessariamente sino all’inizio del I mill. a.C.  La tradizione orale aveva a quel punto raggiunto un certo grado di fissità prima di passare alla redazione scritta (ibid., §2 sgg).    La cultura  epico-religiosa e letteraria come per altri popoli veniva assicurata in Israele, dopo lo stanziamento definitivo nel Paese di Canaan, tramite il santuario.  Bisogna tener conto, a tal proposito (ib., p.103) che la maggior parte dei manoscritti andò perduta nei saccheggi e nei roghi che seguirono al doppio esilio del VI sec. a.C. e del I sec. d.C.  L’attribuzione del Pentateuco a Mosé è oggi messa in dubbio (P.II, Cap.I sgg), ma è evidente che la paternità come per le scritture d’altri popoli vada intesa in senso lato.  Un profeta non è né trasmettitore tradizionale né un autore, è un rivelatore e come tale va inteso se non si vuole equivocare sul suo messaggio spirituale.  A giudizio di J. Astruc (§3, p.130), Mosé si sarebbe servito di memoriali pre-esistenti per redigere il Libro della Genesi, donde sarebbe sorta la suddivisione fra fonte yahweista (contrassegnata con Y, o J nel caso in cui si trascriva il Nome Divino alla latina) e quella elohista (contrassegnata con E).  Altri, rispettando la testé citata ipotesi documentaristica, hanno supposto la riunificazione da parte del redattore di vari frammenti disomogenei.  Anche la teoria frammentaristica è stata respinta non meno della prima, a favore di una complementaristica, quando H. Ewald ipotizzò l’esistenza di 2 fonti elohiste.  Piú tardi E. Reuss e J. Wellhausen ordinarono cronologicamente le 3 suddette fonti, ponendo la fonte yahweista (Y) come la piú antica (c.X-IX sec.) e a seguire le due elohiste, una (E) di poco posteriore (c.VIII sec.) e l’altra deuteronomica (abbrev. con D) meno antica (c.VII sec.).  Una quarta fonte, definita sacerdotale (abbrev. con P), conterrebbe materiale soprattutto rituale (vedi ad es. la seconda parte dell’Esodo e la prima dei Numeri).  Poi, in seguito alle critiche, anche la fonte P è stata suddivisa in vari sottocodici (§§ 4 sgg e 5, p.136).  Rimaneva da spiegare come e dove le 4 fonti fossero nate.  H.Gunkel argomentò, dapprima, che esse erano il prodotto di un’opera redazionale piuttosto che creativa (§6, p.138); mentre il prof. Cassuto, negli Anni ’30, formulò “l’ipotesi d’una redazione unitaria avvenuta all’Epoca di Davide o poco dopo sulla scorta di tradizioni più antiche” (p.139).  Stando a tale congettura, la ricerca delle fonti e la discussione intorno a queste diveniva inutile e persino impossibile.  Fra gli Anni ’30 ed il 1945 avvenne una serie di rivalutazioni della tradizione orale, con gran soddisfazione della Chiesa e della Sinagoga, ma quest’istanza – già profferita all’inizio della ricerca sul Penatateuco, allorché si imitavano gli studi omerici, che postulavano la trasmissione dell’opera da parte di un numero imprecisabile di aedi prima della redazione definitiva del testo scritto – alfine cadde.  Oggi si tende a parlare solamente di ‘strati tradizionali’, in ossequio all’idea di Traditiongeschichte propria di I. Engnell (§7 sgg).  A nostro modesto parere, senza entrare nel merito della questione non avendone la dovuta competenza, ci pare che l’ultima soluzione ora proposta sia quella adeguata; da parte nostra infatti siamo convinti che anche nel mondo ebraico come altrove debbano esser giunte a grandi linee 2 forme tradizionali distinte, l’una per cosí dire abelita (la fonte elohista, forse disgiunta arbitrariamente in doppia forma) e l’altra noaica (la fonte yahweista).  La fonte sacerdotale potrebbe benissimo essere semplicemente d’origine mosaica.  Lo stesso Guénon paragonava la bipartizione ebraica fra Askenaziti e Sefarditi a quella fra Rom e Sinti e, non a caso, questi ultimi sono a vicenda leggendariamente discesi a loro dire da Abele e Noè.
98)        Il fatto che la Gigantomachia sia associata all’Asino, simbolo collegato ad un antico passaggio di Canopo al Polo Antartico (cfr. al riguardo Ac., Il mito del G., p.14, n.27), potrebbe riallacciarsi ad una presenza assai minoritaria sul suolo atlantideo-meridionale del ceppo ramaita-lamekita (abelita), meno ancora di quello cainita.  Tanto che scarsa traccia ha lasciato nella leggenda ed invisibile orma a livello archeologico.  Per  quest’ipotesi cfr. Mri., Il Capr., p.3.  L’Asino infatti non è connesso ai ramaiti unicamente per via del VI Ciclo Avatarico, ma pure per il II Ciclo (dalla fine del quale, posteriormente al ‘Rimestamento dell’Oceano di Latte’, tale ceppo in effetti proviene), quantunque il simbolo sia in seguito passato a denotare il Cavallo Bianco Unicorne.  Pegaso, il Bianco Cavallo Alato di Perseo, non ne è che una variante, visto che nasce dalla Testa di Gorgone (Γοργόνειον).  Da un punto di vista cosmologico si rifà a Canopo ed è conforme alla Cavalla delle profondità oceaniche (Vadabā) di cui parla la tradizione hindu, nata dal fuoco ascetico (Vadabāgni) di Aurva, nipote di Bhgu e bisnonno di Parśu; da un punto di vista ontologico invece indica il ‘Settimo Raggio, veicolo verso il Paradiso Supremo’.  Evidentemente, dunque, Pegaso equivale all’Asino Unicorne e Tripode dell’Avesta.  Di solito si mette in relazione alla Cavalla non l’Unicorno ma il ‘Terzo Occhio’, che potremmo definire per contro il ‘Sesto Raggio’; il rimando, in questo caso, è solamente al Paradeśa.  Occorre rammentare, onde capire al meglio questo simbolismo alla rovescia, che nel VI Ciclo avviene il cd. ‘Rovesciamento dei Poli’; fatto da taluni interpretato, troppo limitatamente, quale fenomeno geo-magnetico.
99)        È la situazione geografica descritta in modo chiaro dal filosofo greco.  Platone, per la verità, chiama ‘Atlantide’ solo la grande isola al di qua del continente; ma altri soprattutto in campo esoterico, durante l’Età Contemporanea, hanno esteso la definizione ad includere tutte le terre al di là dell’Atlantico.                           
100)      Platone allude, senza mezzi termini, ad un continente di vaste proporzioni oltre l’Atlantide e facilmente raggiungibile da isola ad isola.  Si deve perciò presumere che le distanze marittime non fossero quelle attuali.
101)       Cfr. Ac., Sulla q., §6, p.28.  
102)      Secondo qualcuno (Sogg., op.cit., P.sec., Cap.II, p.152) l’episodio narrativo di Caino ed Abele non sarebbe appartenuto in principio alle tradizioni leggendarie d’Israele, ma sarebbe stato tratto da un altrove imprecisato.  A nostro giudizio, comunque, non proverrebbe dalla fonte Y, bensí dalla E.   Vide n.167.
103)      Si analizzino, a titolo esemplificativo, le caratteristiche dei Camé amerindi nelle tradizioni Maya-quiché.  Costoro appartengono alla Seconda Era ed appaiono, alternativamente, come i ‘Gemelli’; sono caratterizzati dal numero 7, in evidente rapporto coll’Ebdomade planetario, e da una pratica meditativa corrispondente di tipo ermetico.  Sul piano comportamentale presentano una tendenza all’orgia ed al cannibalismo, tipica della Razza Nera.  Ciò valga, fra l’altro, per coloro che negano la sua presenza in America.  Come succedeva una volta per l’Elefante, o meglio il Mammut.
104)      Hēr., Hist.- ii. 51, 1.   Scrive lo storico di Alicarnasso (colonia dorica secondo il Càssola rimasta isolata e di poi ionicizzata) che  i Greci “…nel rappresentare le statue di Ermes col membro virile eretto non hanno imparato dagli Egizi, bensí dai Pelasgi: per primi furono gli Ateniesi a consolidare tale pratica e da costoro impararono tutti gli altri.”  Codesti Pelasgi, al dire del Càssola, provenivano dalla Beozia; spiega Erodoto subito dopo (ibid., 51, 2) che essi si fusero coi Greci, insegnando loro i Misteri dei Cabiri.  Del resto avevano un tempo abitato in Creta ed anche in altre isole quali Samotracia.  I Pelasgi, riguardo il Fallo eretto di Ermes erano soliti narrare una sacra leggenda, la quale veniva svelata solamente nei Misteri Cabirici (ib., 4)
105)      L’arcaico nome dei Greci era quello di ‘Danai’ (Ker., op.cit., Cap.3, p.49), ma discendenti di Danao erano tutti coloro che abitavano fra la Grecia e la Libia; i discendenti di Egitto, il gemello di Danao, quelli stanziati fra l’Egitto e l’Arabia.  I due gemelli erano figli di Belo (equiparabile, filologicamente, ad Apollo), che gl’indiani chiamano Bali o Vali e gli ebrei Hevel o Hebel.  Occorre ricordare che Perseo è figlio di Danae, la danaide per eccellenza?
106)      Per questa equivalenza trinitaria si veda Ac., art.cit., §3, pp. 9-10.
107)      Ci scusiamo per il neologismo, ma non troviamo altra espressione per designare i discendenti di Perseo-Parashu.  Questi primitivi detentori della Doppia Ascia, praticamente la medesima cosa a livello grafico dello Stemma di Davide (un tempo assegnato a Seth), sono i veri inventori del simbolo.  Cfr. Ac., I D. Av., p.45/ col.a.  Esso appartiene a costoro, i quali sono identificabili ai primi Lamekiti (il secondo Lamek della Genesi, invece, non è che un discendente od un alter-ego di Seth), giacché sono stati gli scopritori dei 2 Poli; ed è a causa loro che, a partire dal VI Ciclo Avatarico, è avvenuta tradizionalmente la cd. ‘inversione dei Poli’.  Cfr. Ac., Il mito del G., p.15, n27. 
108)      Vedi Cap.VI, §§ a-d.
109)      Un quadro risassuntivo del significato etnoculturale delle tre simboliche figliazioni d’Adamo, che i Germani denominavano latinamente Mannus (scr. Manu), vien tracciato in H.Mriga, Il viaggio degli Adamiti  verso l’emisfero australe- Nel nido del Simorgh (blog, ago-dic. 2015), 4 PP.
110)      A.K. Coomaraswamy, Khwaja Kadir e la fontana della vita- R.S.T., (lug.-dic., NN 20-1), Torino 1966, pp. 133-48; ed.or. Khwāja Khadir  and the Fountain of Life, in the Tradition of Persian and Mughal Art- Ars Islamica (I, 1934), ripubbl. In What is Civilization?- Oxford U.P., Oxford, Cap.XVII, pp. 157-67).
111)      Parjanya, il <figlio> di Dyaus Pitar (corrispettivo hindu di Iuppiter ed al ter-ego di Indra nella signoria divina), al pari del suo doppione piú noto è effigiato dal Toro.  Come accade d’altronde per tutte le deità pluviali dell’area indomediterranea.
112)      Ibid. come alla 108.
113)      L.Bonelli (a c. di), Il Corano- U.Hoepli, Milano 1979, p.271, n.1.
114)      Abbiamo cercato di dimostrare l’argomento in alcuni altri nostri scritti precedenti e non ci sembra qui il caso d’insistervi troppo.  Se ciononostante vi fossero delle obiezioni, potremmo affrontarle in altra occasione. Va chiarito, ad ogni modo, che la Rivelazione – scr. Śruti, dal s.f. Śri = ‘Luce’; donde origina il concetto correlato di Śri = ‘Fortuna’, la dea nata dal ‘Rimestamento primordiale dell’Oceano di Latte’ alla fine del II Ciclo Avatarico  – è la sapienza diretta pervenutaci dall’Età dell’Oro (il Paradiso adamico ed evaico, per cosi dire); la Tradizione la conoscenza indiretta trasmessaci dall’Età dell’Argento (i 3 <Figli> di Adamo nella leggenda biblica, allegoria dei 3 cicli argentei).  Giano e Saturno costituiscono in tal guisa i primi due antenati di riferimento nel novero dei “patrî Penati” ( Verg, Aen.- vii. 265-70), i mitici avi ossequiati dai Latini sotto forma di simboliche verghe, associate ai “santi fochi” e ai “santi arredi”.  Quelle verghe, con valenze erotiche, altro non erano se non le “sacre effigi” (iii. 260) della stirpe, o meglio dei loro culti dell’Unità Divina e delle sue ipostasi cicliche.  Per un approfondimento rimandiamo al nostro art. I Penati, un’indagine sui misteriosi simulacri recati da Enea nell’«altra Ilio» (in prep.). 
115)         Una delle diciassette versioni popolari raccolte dal Pitré di codesto personaggio d’una fiaba siciliana omonima che lo ha per protagonista, di provenienza palermitana, è stata inserita nelle Fiabe italiane trascritte in lingua da I. Calvino (Einaudi, Torino 1971, N°147, pp. 602-4; I ed. 1956).  Essa narra la storia d’uno strano tipo che “se stava in mare dal mattino alla sera” e a cui alfine, per maledizione materna, accade di divenire “mezzo uomo e mezzo pesce”.  Calvino nelle sue Note ci fa sapere che le altre versioni della leggenda hanno prodotto in passato un’accesa diatriba tra B.Croce, A.Graf e G.Pitré; informandoci peraltro che la prima menzione di siffatto racconto compare in R. Jordan, poeta provenzale del XII sec. 
116)      Cfr. A.Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti- Sellerio, Palermo 1977, App.sec., p.294 ss.
117)      Ragionando sul nome del personaggio siciliano, Nicola Pesce, la Seppilli (Sepp., op.cit., p.309) dopo averlo ricondotto alla cultura della Magna Grecia (ibid., p.294) e aver desunto (ib., p.310) che le funzioni di Poseidone sono state ereditate da San Nicola – donde la menzione dell’uomo di mare col nome di Nichola de Bar da parte di R. Jordan, trovatore di Tolosa del XII sec. – lo definisce alfine (ib., pp. 348-9) giustamente come il prodotto ormai desacralizzato di un complesso mitico-ritualistico d’un lontano passato.
118)      Un altro possibile rimando è ad Odino, che personalmente abbiamo riportato nell’etimo all’Es-Ētin paleo-siberiano e nel contempo all’Äjan-Ojan  o Od’en mongolo-manciú (Ac., Il culto del N., p.77, n.72).  Vi è difatti tutta una serie di vocaboli elencati dall’antropologa triestina (ibid. come alla 116, pp. 310-21), che cominciano per nic(k)- ed indicano un antichissimo signore (o mostro) del mare, la cui etimologia è riportata dall’autrice al Nechtan celtico e al Neptunus romano.  L’appellativo anglosassone di (Old) Nick, riferito al Diavolo (nel senso dell’Avversario Divino), rientra nella serie.
119)     Circa il passaggio da S. Nicola a S. Klaus ed i legami con Babbo Natale li abbiamo analizzati in 2 nostri articoli: Il doppio volto di Babbo Natale. Father Christmas e la sua eredità culturale- Alle pendici del M.Meru (blog, 25-12-2012) e La vera origine di Babbo Natale- Alle pendici del M.Meru (blog, 13-10-2015).  Una sintesi riveduta e parecchio ampliata dei 2 scritti è in preparazione in Babbo Natale, i Re Magi e la Befana, dai vecchi prototipi shamanici ad oggi- Herakles, N°3 (riv. on line, in prep.). 
120)     K.Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia- Garzanti, Milano 1976 (I ed.it. Il Saggiatore 1963; ed.or. Die Mythologie der Griechen- Rhein-V., Zurigo 1955), Vol.1, Cap.6, p.106.  Le fonti da costui citate sono Ath., verso 296/b sgg; sc. Ly., verso 811 sgg ed Ov., Met.- xiii. 151 ss.
121)     Grav., op.cit., §90.j, p.277.
122)     Op.cit., §90., pp. 278-9, n.7.
123)     Sepp., op.cit., passim.  Vide, inoltre, la n.115 di questo capitolo.
124)     Ibid. come alla 121.  Vedi per una parafrasi ed un commento a tale versione il Cap.VII, §q.
125)     Op. cit., §§ 70, p.207, n.5 e 71, p.209, n.4.   L’autore pare identificare altrove Melicerte e Talo, alias Tauro o Tantalo, il secondo dei quali sarebbe da intendere nell’etimo come lo ‘Zoppo’ (ibid.,  §92, pp. 286-7, nn. 1 e 7).   Tutti gli appellativi testé citati non sono che varianti solar-saturnine di Kálōs-Krónos.  Vide n.129.  Cfr. inoltre Ac., Le ‘Caste’ , pp. 23, n.27 e 24-7, n.29.  Uno strano racconto narra d’altra parte di come Melicerte sia stato gettatto prima in una caldaia d’acqua bollente e poi nel mare; ma, è credibile si abbia qui a che fare con emblemi uranico-solari d’antico sapore shamanico.  Sul tema cfr. M.Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani- Rusconi, Milano 1973 (ed.or. Antiker Mythos und Mittelalter. Quellen und Parallelen der Gral und Artussagen- Koehler und Amerang, Lipsia 1967) , Cap.III, pp. 77-80.  L’autrice collega il motivo dell’orcio, da Ullas (dio ittita della vegetazione) a Glauco Melicerte, coll’inaugurazione o la cessazione dell’Età Aurea.  
126)     Melkarth (Wikip., s.v. Melkart), secondo quanto indica il nome, era il dio tutelare della città di Tiro.  Come in altre contrade del mondo, veniva considerato l’antenato della famiglia reale.  Era l’equivalente fenicio dell’Heraklês greco e fu venerato in tutte le colonie fenicie: da Malta alla Sicilia, dalle coste puniche a quelle ispaniche.  In una stele siriaca (Amrit, 550 a.C.) è ritratto infatti ritto su Leone.   Benché nessuna fonte classica connetta in realtà Melkhart al figlio di Ino, sappiamo che costei era figlia di Cadmo di Tiro.  Uno scrittore fenicio (Sanchuniátōn), parafrasato in greco da Filone di Biblo (I-II sec. d.C.) e citato dal vescovo Eusebio di Cesarea (III-IV sec.) ha descritto d’altronde Melkhart quale figlio dell’accadico Hadad, dio della folgore (coll’Ascia nell’altra mano) ed assimilabile a Zeus.  Riguardo l’ebraico Moloch (ibid., s.v. Moloch), legato al sacrificio canaita dei bambini, va specificato che la tradizione rabbinica dipingeva tale culto in rapporto ad una statua di bronzo riscaldata (con fisionomia semiumana) alla base della quale c’era un’apertura in cui venivano gettati i bimbi in sacrificio.  Era questo nume dal nome grecizzato connesso a Melqart e a Melicerte, come è stato sostenuto da alcuni?  Non si sa con certezza, qualcuno parla d’un errore assimilativo.  Le testimonianze archeologiche e letterarie provano però che a Cartagine venivano effettivamente compiuti sacrifici di bambini in onore di Ba’al Hammon (il Crono-Apollo fenicio), probabilmente una variante rituale di Melkart.  Anche Melicerte, in certo senso, viene sacrificato seppur in forma meno cruenta.  Quindi è probabile che una connessione col <Moloch> cananeo vi fosse davvero, perché tale figura numinosa pur avendo da un lato una fisionomia divina trattandosi d’un figlio di Hadad, lo Zeus o Iuppiter mesopotamico, ha serbato nel contempo rudi tratti titanici al modo di Crono o Saturno.  Come d’altro canto si può rilevare, a ben guardare, pure in Glauco Melicerte.  I Fenici per inciso vengono classificati fra i popoli semitici per via della loro lingua, ma vi è chi afferma siano stati di ceppo camitico; non meno quindi dei Cananei, che pare fossero d’origine cretese.  E proprio Creta chiude il nostro cerchio, se si pensa ai sacrifici di giovani che venivano richiesti ad Atene da parte del mitico Re Minosse  dopo la morte di Androgeo.
127)     §71.a-b, p.208.
128)     Ac. , Il culto del N., p. 69, n.7 e pp. 73-4, n.48. 
129)     Cit., §67.a, p.194.  L’atlantide figura anche quale figlia di Enopione, a sua volta prole di Dioniso, ed altrimenti come madre di Talo; nipote di Dedalo, chiamato anche Calo o Circino, Talo, Tauro.
130)     §67, p.197, n.2.  Il Graves interpreta, giustamente, l’immane ‘masso’ come il disco solare e la ‘cima del colle’ come lo zenit della volta celeste.
131)     §70.a, p.202.
132)     §70.g, p.204.
133)     Cfr. anche Ac., La simb., p.34, n.12.
134)     Ibid. come alla 131, inoltre il §70.l, p.205.
135)     §63, p.187, n.2. 
136)      Ker., op.cit., Cap.5, p.68.  
137)     Op.cit., Vol.1, Cap.9, pp. 149-50.  Sulla natura solare di certa parte del culto del ’Signore dell’Olimpo’ e su alcune analogie di siffatto culto con quello d’Issione, diffuso tra Romani ed Etruschi oltreché tra gli Elleni, si veda A.B. Cook, Zeus. A Study in Ancient Religion- Biblo & Tannen, N.York 1964 (ed.or. Cambridge 1914-40), Vol.I, Cap.I, §6.a-d, p.186 ss; ed, in particolare, la sezione riguardante l’iconografia di quest’ultimo personaggio numinoso (ibid., §6.d, pp. 198-211).
138)     Co., op.cit., Vol.I, §6.d (i), pp. 204-5 e fig.148.
139)     Ker., op.cit., Vol.1, Cap.12, p.179.
140)     Op.cit., p.178.
141)     Sul nome Tántalos cfr. n.125 .
142)     Ibid.
143)     Graves (op.cit., §108, p.357, n.2) interpreta la <Pietra> pendente sul capo del titano come “masso incombente su di lui” e pertanto lo identifica, in tal senso, a Sisifo e non ad Issione come abbiamo fatto da parte nostra.    
144)     Ib.  Cfr. Co., op.cit., pp. 296-8.
145)     Queste due figure titaniche andrebbero invero distinte, funzionalmente parlando, nonostante i loro nomi si applichino nella cultura greco-romana al settimo pianeta del sistema solare; ma i loro equivalenti indiani (Kāla e Savitar), almeno a livello etimologico, mostrano viceversa tratti decisamente solari.  Comparati biblicamente Crono e Saturno corrispondono invece a vicenda, sul piano mitico, al primo e al terzo dei <Figli> di Adamo; i quali, cosmologicamente, alludono ai 3 Eoni di cui è composta l’Età Argentea.  Se talora i due nomi vengono accomunati, è sol perché appartengono entrambi a tale epoca.  Proprio come Caino e Seth nella Genesi rappresentano nell’insieme i due estremi della generazione umana prototipica – la corrispondente generazione divina nella ‘Bibbia’ non è contemplata per via del monoteismo cui andava soggetto il culto ebraico, a differenza di quelli pagani, al tempo in cui è stato redatto il sacro testo –  in epoca post-adamica, allorché l’uomo cominciò a dedicarsi all’orticoltura.  La comparazione fra i suddetti nomi divini indiani o greco-latini e quelli umani prototipici ebraici (Qayin/Kāla/Kalōs > var.  Krónos e Šeth/Savitar/Sāturnus > var. Saviturnus) chiarisce, comunque, che l’onomastica umana e divina è la stessa; tanto nelle lingue iaphetiche, o indoeuropee che dir si voglia, quanto in quelle semitiche.  Vale del resto la pena di aggiungere che la terna di nomi alludente al signore dell’orticoltura ancestrale (nel doppio senso, indicato, umano e divino) fa riferimento, sia pur velato, al bastone da scavo quale mezzo orticolo fondamentale; secondo quanto ci tramandano in silenzio alcune arcaiche parole presenti nelle nostre lingue mediterranee, come il lat. cāla > var. cāia  (‘bastone’), gr. κάλως > varr. κάννα (‘canna, bastone diritto’) e κάμαξ (‘bastone, cavicchio’).  Vero che  il gr. Κρόνος significa ‘Cornuto’, ma le Corna erano già in sede preistorica un emblema delle 2 fasi principali del tempo ciclico; ed è per questo che la voce è apparentata tanto al termine Χρόνος (‘Tempo’), quanto agli altri vocaboli citati, aventi un nesso simbolico coll’Asse della Ruota Celeste.  Tant’è che Crono, non meno del Saturno latino, è in Grecia il signore dell’agricoltura.   Riguardo l’etimologia di Sāturnus, la faccenda parrebbe complicarsi, poiché si deve far ricorso al vb. sero (‘coltivare’); ma non si tratta invero che di un sinonimo di colo (id.), connesso all’altra serie piú arcaica di nomi.  Il scr. Kāla è altresì congiunto al concetto di tempo in senso ciclico, pur essendo affine di per sé al lat.arc. Càelus (‘Cielo’), che ha difatti proprio nell’antica lingua indiana un corrispettivo ribaltato cosmogonicamente in Khala (‘Terra’).  Alla serie andrebbero apparentati anche da un lato il Kāma indiano, nume che difatti in veste asurico-tretayughica a differenza di quando è raffigurato col Pesce (in veste kritayughica) od il Pappagallo (in veste bronzea), ha per effigie una verga o meglio un albero od un fallo; e dall’altro, l’Hímeros greco.  Cfr. a  proposito del primo O’Flah., op.cit., Cap.V, §G  sgg; sotto forma di Nathurām, una sua ipostasi in forma di pianta o di feticcio fallico, Kāma nato dall’ardore di Brahma viene bruciato ritualmente. 
146)     Agl’iniziati venivano poste catene o lacci a mani e piedi e fatti camminare a stento per simboleggiare il dominio sul desiderio, che spinge all’azione.
147)     L’argomento è dibattuto piú diffusamente in G.Acerbi, Kâma-Kâla. Érôs e Thánatos ovvero il motivo ierogamico- Heliodromos (Il Cinabro), N.S. (Aut. ’96-Inv. ’97), N°11, Catania 1997, P.I, pp. 47-50, n.6.
148)     Vide n.151.
149)     In altre parole, la suddivisione geometrica dell’Anno Sacro in gradi che è propria del calcolo astrologico esige dei numeri simbolici, i quali si richiamano ad una realtà sovramondana.  Per contro, la suddivisione matematica dell’anno civile fa leva sull’aspetto fenomenico ossia apparente dell’anno; è a questo che s’applica, in sostanza, il calcolo astronomico.  Non si sa quando sia stato per la prima volta ideato l’anno civile, sicuramente in tempi posteriori a quello sacrale; ma, anche in mancanza dell’anno astronomico, il calcolo approssimativo dell’anno astrologico consentiva d’esprimere valutazioni in termini stagionali accettabili in tempi relativamente limitati.  È lecito ipotizzare che l’uno sia nato dall’altro per esigenza di perfezionamento matematico del calcolo, dovuta probabilmente alla mancata corrispondenza stagionale effettiva a lungo andare dell’inizio annuale.  Ciò ha prodotto involontariamente un allontanamento rituale prima dalla realtà fenomenica, che pur essendo tale costituiva ad ogni modo uno specchio di quella ultramondana; e dopo, nel tentativo susseguente di riadattamento del calcolo, un perdersi in studi tecnici che proprio per la loro alta specializzazione richiedevano un ulteriore tributo della mente.  Siamo lieti che alcuni storici della scienza (G. de Santillana & H. von Dechend, Il Mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo- Adelphi, Milano 1983; ed.or. Hamlet’s Mill. An Essay on myth and the frame of time- Gambit, Boston 1969, Interm., p.103) la pensassero in questo campo pressappoco come noi, che pur veniamo da altre esperienze, se è vero che hanno scritto le seguenti parole a proposito del fatto che l’astrologia non sia un lascito tardo della cultura umana: “Il maggior divario tra il pensiero arcaico e quello moderno sta nell’uso dell’astrologia.  Non s’intende con ciò l’astrologia comune o giudiziaria, oggi ridivenuta capriccio e moda tra il pubblico ignorante, evasione dalla scienza ufficiale e, per il volgo, un altro genere di arte occulta dal vasto prestigio ma altrettanto incompresa nei principi.  È necessario risalire ai tempi arcaici, a un universo che non sospetta minimamente della nostra scienza e del metodo sperimentale su cui essa è fondata, inconsapevole dell’arte terribile della separazione che distingue il verificabile dal non verificabile.  Era quello un tempo ricco di un’altra conoscenza di corrispondenze cosmiche che trovavano riprova e suggello di verità entro uno specifico determinismo, anzi un ‘sovradeterminismo’, soggetto a forze del tutto prive di ubicazione.  Il fascino e il rigore del Numero facevano obbligo che le corrispondenze fossero esatte in molte forme (in questo senso Keplero fu l’ultimo dgli arcaici).”  Anche di Newton essi (ibid., Introd., p.32) scrivono – riportando uno scritto di J.M. Keines – che egli “… non fu il primo dell’Età della Ragione, bensì l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei babilonesi e dei sumeri, l’ultima mente eccelsa che guardò il mondo visibile e intellettuale con gli stessi occhi di coloro che incominciarono a costruire il nostro mondo intellettuale un bel po’ meno di diecimila anni fa …”  In sostanza i due concepiscono l’astrologia come una lingua franca del passato, universlmente nota (ib., Conc., p.405).  L’impressione tuttavia, nonostante la giustezza delle loro osservazioni, è che gli autori tradiscano ancora qualche pregiudizio di tipo scientista nei confronti di questa scienza od arte che dir si voglia.  L’astrologia (scrivendo il termine al maiuscolo, giacché si tratta di una disciplina ben precisa e non vaga, come si possa pensare da parte dei profani) comprende vari settori: l’Astrologia Naturale o Cosmologia e l’Astrologia Giudizaria sono i principali, ma non i soli, e ciascuno di questi è legittimo.  Del resto è il temine stesso scientia che, che passando per lo scīre latino, ci riporta all’ a.ingl. ski (‘cielo’).  Ma il cielo inteso semplicemente come ‘ombra (gr. skaia), scr. chaya (id.).    
150)     Grav., op.cit., §67.e, p.195.
151)     Al riguardo vedi G.Acerbi, La Leggenda del Cervo, della Cerbiatta e del Cacciatore…- V.d.T. (A.XXI, Vol.XXI, lug.-set. ’91, N°83), Palermo 1992, pp. 147-56 sgg.
152)     Ac., art.cit., pp. 147-8.  Cfr. Grav., op.cit.

153)      Il Graves (op.cit., §67, pp. 196-7, n.1) lo apparenta al Tešub iittita, dio solare della ‘Quarta Era’ ciclica (dopo An, Kumarbiš e Ayaš) o della ‘Quinta Era’ (contando pure il primevo Alaluš), scrivendone latinamente il nome in base ad Esichio; cosí: Sesephus, anziché Sīsyphus, gr. Σίσυφος.  Etimo a parte, valga o no l’ipotesi del N., il ruolo del titano ellenico ci sembra correlato piuttosto alla funzione saturnio-solare svolta da Kumarbiš (hur.Kumarbi), il Crono anatolico.   Vi è da ggiungere tuttavia che Tešub equivale nell’induismo a Rudra-Śiva; poiché essi hanno entrambi il Toro per veicolo, di contro alla Leonessa – od al Leone – sormontato dalle loro paredre, rispettivamente Hepat e Durgā.  È inoltre da segnalare che Śiva presiede, in veste di Kālapurua, tanto all’Età Argentea (in qualità di signore dei 7 Daitya) come all’Età Ferrea (in qualità di signore dei 27 Nakatra, gli asterismi lunari).
154)      Crono (varr. Calo, Talo, Tauro) in Grecia è il corrispettivo di Kala in India.  Prajāpati è stato assunto ad aspetto creaturale di Kāla dalla sapienza vedica, ma poiché equivale in senso argenteo al titano greco Giapeto (pref. pra- a parte), padre di Prometeo ed avo di Elleno (vide n.37), non può esser stata la figura originaria di riferimento in India di Sisifo; che, ovviamente, è non solo pre-olimpico ma anche pre-ellenico.  S’intuisce, semmai, che questo ruolo sia stato una volta espletato da Sūrya; il quale, per via dei suoi 3 volti asurici (vide n.38) doveva essere di conseguenza l’equivalente sia di Sisifo che di Issione (var. Atamante) od Elio (varr. Iperione, Salmoneo, Tantalo).  Ecco il motivo per cui Sūrya è figlio di Kaśyapa (dal scr. Kaśyapa = ‘Tartaruga), un allonimo di Kūrma, l’avatara del Ciclo Nordorientale.  Essendo Vāyu il dikpāla (‘signore direzionale’) del Nordest ossia Eolo, il padre dei 3 Eolidi, si vedrà come i conti tornino perfettamente.  Lo stesso Prajāpati è paragonabile a Kaśyapa, dato che si tratta di due varianti della prima figliolanza divina di Brahmā; l’una discesa dal ceppo ario, proveniente dal ceppo nordasiatico-orientale attraverso il percorso iperboreo-atlantideo, e l’altro disceso direttamente dal ceppo iperboreo-turanico.
155)      In Grecia la tematica della ‘Grande Dea’ non era diffusa come in India, seppure la s’intuisca chiaramente dietro le sembianze della famosa ‘Triplice Dea’ di gravesiana memoria.  Fra i Latini si può scorgere forse qualcosa di piú, non fosse che per l’importanza del culto della ‘Grande Madre’.  In ogni caso, neppure in ambiente italico esso è mai assurto all’importanza che ha sempre avuto viceversa in ambito indiano la Śakti.  Nonostante la scuola mediterraneista si sia prodigata per dimostrare, peraltro giustamente, la prevalenza della figura femminile su quella maschile nelle pratiche religiose pre-indoeuropee.  Il fatto è che la figura maschile nalla pianura indo-gangetica non è mai apparsa del tutto disgiunta dalla sua controparte di sesso opposto.  Mentre, nel Mediterraneo, è accaduto che l’una fosse praticamente obnubilata dall’altra.  Di qui la mancata assunzione del paredro a ‘Grande Dio’.  Riteniamo da parte nostra che, tenuto conto degl’indubbi ed ormai comprovati rapporti di reciprocità fra il mondo anario egeo-mediterraneo (pelasgico) e quello anario indo-gangetico (dravidico), quanto appena rilevato provi l’origine pre-dravidica cioè indigena (il che significa quasi sicuramente austronesiana) di siffatta concezione.  In altre parole, è possibile ipotizzare che la venerazione della coppia divina Shiva/Shakti costituisca la trasposizione australe d’una primigenia forma di shamanismo di matrice nord-orientale; di cui è traccia in tempi preistorici e protostorici da un lato nel wuismo estremo orientale e dall’altro nello shaktismo mediorientale, di provenienza proto-australoide.
156)     Il nome di  Σαλμ-ων-εύς di primo acchito parrebbe apparentato a quello di Salm, il terzo figlio del grande sovrano Thraētaona (Farīdūn), dominante l’Asia Minore e la Grecia.  Si può perciò supporre che, oltre al senso geografico letterale, la terna di nomi pre-iranica ne detenesse uno titano-solare al modo della doppia triformia greca esaminata.
157)     Op.cit., §1542, p.566, n.12.  Quantunque altri (A.Penna, Antico Testamento- Utet, Torino 1973, Vol.II, p.657) interpreti diversamente il testo biblico, traducendo “…convocate contro di essa i regni di Ararat, di Minni e di Ashkenaz.”  In nota, però, si chiarisce che si elencano tre popolazioni dimoranti in Armenia.
158)     Vide n.457. 
159)     C’è un quarto Glauco (vedi §f) da non dimenticare, il cd. ‘Glauco il Giovane’ con padre Bellerofonte; anziché l’aureo Minosse, l’argenteo Sisifo od il bronzeo Poseidone.  Tale Glauco è nipote del cd. ‘Glauco il Vecchio’ (Ker., op.cit., Vol.2, L.pri., Cap.8, p.83), secondo Omero figlio di Sisifo e secondo altri di Atamante, ma la paternità argentea in ogni caso non muta.  
160)       Vedi §g.
161)       Hom., Od.- xi. 791-1.
162)       Cfr. ad es. A. Cantele Maselli (a c. di), Odissea- Principato, Milano-Messina ?, p.293, n.791.
163)       Vedi Cap.VII.
164)       G.Acerbi, La Fenomenologia Evoliana- Simm. (ott., N°36), Roma 2014 (booklet on line), p.7, n.17. 
165)       Vedi Capp. III-IV.
166)       Font., op.cit., Cap.XI, p.296.
167)       Op.cit., Cap.XIII, p.388.  L’equiparazione fra Perseo ed Apollo implica che – come scrive l’autore – …first Dionysos kills Perseus, then Perseus kills Dionysos…  Questo doppio annientamento mitico ritualmente ambientato a Delfi è simile a quello biblico di Caino che uccide Abele, ma poi viene ucciso da Lamek.  Qualcuno potrebbe obiettare che Lamek non è Abele.  L’obiezione in questo caso sarebbe troppo semplicistica, dal momento che Abele è paragonabile ad Apollo; e corrispondendo Apollo a Perseo, secondo quanto appena rilevato, basterà rifarsi al Parashu-rama hindu per capire che Perseo-Lamek è in realtà un unico nume frammentatosi in due… analoghe leggende.   Forse non aveva torto Soggin (vide n.102) quando ha segnalato la non-ebraicità della storia fratricida, che pare risalire per l’alta arcaicità del contesto ai tempi paleolitici.  D’altro canto Caino non è paragonabile solo a Dioniso, ma anche a Shiva (vide n.64), il corrispettivo indiano di Dioniso secondo Daniélou et al.
168)     Cit., Cap.XII, p.323.
169)     Ker., op.cit., Vol.1, Cap.15, p.243.
170)     Op.cit., pp. 243-4.
171)     In una statuetta di marmo pompeiana proveniente dalla cd. ‘Casa di Cerere’ (della metà del I sec. d.C., ma di gusto ellenistico) ed appartenente  al Mus.Arch.Naz. di Napoli, la quale è stata adattata a fontanella da giardino assiene a 3 altre composizioni simmetriche,  si assiste invece all’Erote dimenantesi mentre è a cavalcioni del Delfino; dal fondo del mare, al di sotto del ventre del cetaceo, il Polpo afferra il Divino Fanciullo per un braccio e riuscirebbe a trascinarlo nel ‘Fondo delle Acque’ se non intervenisse il pesce salvifico – che ha denti da mostro del mare – a condurlo via sulla sua groppa.  Cfr. in proposito AA.VV., Riscoprire Pompei [Catal. Della Mostra romana, tenutasi presso il Mus.Capit. fra la fine del 1.993 e l’inizio del ’94] – “L’Erma” di Bretschneider, Roma 1993, p.228, fig.126, con comm. a p.230. 
172)     Melicerte fu denominato ‘Palèmone’ allorquando la madre (Ino-Leucotea) fu costretta da Atamante a gettarsi nel mare con lui per la colpa d’aver lasciato fuggire Frisso ed Elle (figli di Nefèle, la prima consorte) sul Montone dal Vello d’Oro.  Una figura dai simili connotati era l’etrusco Portuno, signore delle porte nonché dei porti, che a Roma dopo l’ellenizzazione del culto si confuse con Palemone.
173)     J.Charbonneaux-R.Martin-F.Villard, La Grecia arcaica (620-480 a.C.) – Rizzoli,  Milano 1969 (ed.or. Grèce arcaïque- Gallimard, Parigi 1968), P.sec., p.106, fig.116).
174)     Charb.-Mart.-Vill., op.cit., p.134, fig.161.
175)     Mor., op.cit., tav.V COL a fr. di p.34.  Cfr. coll’iconografia di Kāma, che i Greci designavano col nome di Imero (gr. μερος = ‘Desiderio’).  Vide Cap.I, nn. 246-7. 
176)     R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica- Rizzoli, Milano 1979 (I ed. 1970, ed.or. Rome. La fin de l’art antique- Gallimard, Parigi 1970), P.pri., Cap.I, p. 102, fig. 94.
177)     R. Bianchi Bandinelli-A.Giuliano, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma- Rizzoli, Milano 1985 (I ed. 1973; ed.or. Les Etrusques et l’Italie avant Rome- Gallimard, Parigi 1972), P.qui., p.342, fig.398 (stamnos del IV sec. a.C., da Clusius-Volaterrae).
178)     A.Giuliano, I cammei della Collezione Medicea del Museo Archeologico di Firenze- De Luca-Leonardo, Roma-Milano 1989, pp. 166-7, fig.40.
179)     I Giganti, dalle lunghe barbe e dai capelli inanellati, erano insorti per vendicare i titani, loro fratelli.  Sulla presumibile natura etnica di costoro cfr. Mri., Il Capr., p.9, n.8; inoltre, nn. 69 e 98 di questo Capitolo.
180)     Questa versione, diversa da quella succitata esiodea, è tratta da 36.a; il racconto è basato su Pindaro (P.T.- i. 15 ss) ed Igino (Fab.- 152).
181)     Bisogna tener conto, in questo caso, del rovesciamento dei Poli a partire dal VI Ciclo.
182)     Ecco il piú antico Zodiaco solare, a 8 Segni.  Vide Capp.I, n.248 e IV, n.4.
183)     Nell’altorilievo ionico del cd. ‘Trono Ludovisi’ (V sec. a.C.), appartenente al Mus.Naz. delle Terme (Roma), scorgiamo Afrodite Urania emergente nuda dalle Acque e subito vestita dalle Ore (Mor., op.cit., p.14, fig.n.num.).  Cfr. Hom., Hym. in Ven.- 2. 5 ss.  Da notare che i fedeli di A.Urania, ad es. a Corinto, si recavano in pellegrinaggio in un santuario posto sulla cima d’un monte; ove, ci tramanda Pindaro (framm.107), venivano accolti benevolmente dagli officianti del tempio.  Inutile aggiungere che il Monte, di per sé, è un rimando all’Età Aurea.  Per questo in Hom., Hym.- v. 1 la dea “che ama il sorriso” è chiamata Afrodite d’oro”.   
184)    F.Càssola (a c. di), Inni Omerici- F.L.V. (A.Mondadori), Milano 1975, p.279.
185)     Grav., op.cit., §11.a, pp. 40-1.
186)     Personalmente concordiamo con chi la mette in rapporto col mese di Aprile, dato che il 21 di codesto mese il Sole entra nel Segno del Toro, domicilio di Venere.  Al modo come il 21 marzo entra in Ariete, domicilio di Marte, che non per niente conferisce il  nome al mese.  In tale funzione Afrodite è equiparabile all’omonima figlia di Zeus e di Dione (Hom., Il.-v. 370), dei delle sorgenti, ossequiati a Dodona.  Cfr. Ker., op.cit., Cap.4, p.66.  Ciononostante va chiarito che la natura vera della dea è assolutamente pre-olimpica, il che è come dire pre-zodiacale, come indica chiaramente l’appellativo di ‘Urania’; da Urano, donde anche per metatesi sillabica deriva quello latino di ‘Venere’ (var. Venilia, paredra di Giano).
187)   Essendo Cipro un’isola ricca di rame (Cu), metallo che per la sua rossezza vien di norma associato alla Cipride, è lecito supporre che sia avvenuto il contrario di quanto in genere si sostiene.  Cfr. a tal proposito Til., The Or., Cap.VII, pp. 170-5; inoltre, per la trad.it. Ac. (a c. di), Or., pp. 187-91 ed, in particolare, p.190, n.****.  Lo scrittore marathi l’apparenta nell’etimo al scr. Śukra (lo ‘Splendente’, da śuc (‘brillare’), il sacerdote in divinis degli Asura (Anari); venuto in conflitto con Bhaspati, il sacerdote dei Deva (Ari).
188)     Grav., op.cit., §15, pp. 48-9.
189)     Ker., op.cit., p.65. 
190)     G.Becatti, Ninfe e divinità marine. Ricerche mitologiche iconografiche e stilistiche- DeLuca, Roma 1971, §1, p.17, coll. a-b.
191)     Bec., op.cit., tavv. I-X.  Il reperto delle tavv. I-VI è stato trovato ad Ostia, nell’iposcenio del Teatro, e risale probabilmente al I sec. d.C.  Il reperto acefalo delle tavv. VII-VIII, in cui è andato perduto il pilastrino sulla destra, proviene invece in parte dalla Casa dei Triclini di Ostia ed in parte da altri siti (I-II sec. d.C.).  Alle tavv. IX-X abbiamo un’altra copia coeva trovato nello scavo della scena del Teatro.  Le altre tavole riportate nel libro non presentano significative varianti, tranne la fig.13 della tav.XII, la quale mostra l’erma al posto del pilastrino (Mus.Chiaramonti, Vatic.).
192)     Op.cit., tav.XIV, fig.15 (Mus. del Prado, Madrid).
193)     Cit., tav.XV, fig.16 (coll.priv., Port Sunlight); opera del II sec. d.C., in cui il Vaso è proporzionalmente di maggiori dimensioni ed il pilastrino è ridotto quasi ad un cubo.
194)     Tav.XX, figg. 26-8.
195)     Tav.XXIV, figg. 33-4.  La mano destra posa sulla coda eretta del cetaceo, in posizione verticale rovesciata (II sec. d.C.).  Altri esempi alla tav.XXV, figg.35-6 (rispettivamente al Museo di Vienna e di Saragozza).
196)     Tav.XXVI, figg. 37 e 39 e tav.XXVII, figg. 40-3.  La prima proviene dagli scavi presso il Foro di Dugga e la seconda, rinvenuta in quelli di Minturno, è stata acquistata nel XIX sec. dal Mus.Arch. di Zagabria.
197)     Tav.XXVIII, fig.44 (Gall.Borghese, Roma).
198)     Tav.XVI, fig.38.
199)     §2, p.25/ col.a.
200)     Il Becatti ci ricorda (p.24, col.b) che il Delfino contraddistingue oltre alla Venere Marina (o Anfitrite), Poseidone ed altre figure collegate al mare nelle decorazioni di terme, ninfei, fontane e giardini.  Cfr. a tal proposito nel riquadro di tipo pittorico d’un mosaico pavimentale di Età Adrianea (Africa Proconsolare, Mus. di Timgad) la Venere Marina nuda – a parte la gamba sinistra fasciata dal manto di regina – a fianco di Poseidone in forma di centauro marino, con Oceano che fa capolino da dietro (riconoscibile per le antenne da granchio sul capo e la coda serpentina), in B.Band., op.cit., P.sec., Cap.I, §1, p.227, fig.210.  In mezzo alle Gambe Equine vi è appunto il Delfino, sennonché il Becatti dimentica – e bastava osservare attentamente la sua tav.XXXIII, fig.57 (Bec., ibid.) – che il Delfino in causa ha denti da orca o da squalo; dato che non è propriamente il Delfino salvatore dei marinai, tipo quello del musico (= gandharva) Arione, che ci rimanda all’Età dell’Oro.  Cioè, al mito di Manu salvato dal Mahāmatsya.  Questo Delfino è piuttosto il Κῆτος, il titanico ‘mostro del mare’ contro cui combatte Perseo, vale a dire un parente stretto dell’altro animale in chiave ermetica.  Cfr. col Leviatano ebraico. 
201)     Charb.-Mart.-Vill., La Gr. cl., P.qua., p.344, fig.401.
202)     Wikip., op.cit., s.v.AFRODITE DI APELLE.
203)     Op.cit., s.v.AFRODITE CNIDIA.
204)     Bec., op.cit., tav.XXX, figg. 47-50.
205)     Wikip., op.cit., s.v.VENERE DE’  MEDICI.
206)     Ibid. come alla 201, fig.402.  La scultura in marmo è attribuita a Scopa, il maggior rappresentante del Mausoleo di Alicarnasso; l’originale apparterrebbe infatti alla seconda metà del IV sec., ma gli specialisti in materia sono scettici, benché Plinio l’additasse come superiore persino a quella di Prassitele (ib., P.sec., p.224).
207)     Ibid. come alla 199.
208)     Ib.
209)     Ib., col.b.
210)     Charb.-Mart.-Vill., La Gr. arc., p.138, fig.167.
211)      In una moneta di Cnido compare l’Afrodite di Prassitele (ibid. come alla 202).
212)      Ib. come alla 209. 
213)     Tav.XXXI, fig.5; per una scultura analoga ora al Mus. delle Terme di Roma cfr. Mor., op.cit., a fr. di p.9, tav.III a sin.
214)     Anche la sensuale tipologia dell’Afrodite Esquilina (rinvenuta a Villa Palombara sull’Esquilino nel XIX sec.), del I sec. a.C., ha il Vaso col panno.  Cfr. G.Becatti, The Art of Ancient Greece and Rome. From the Rise of Greece to the Fall of Rome- H.N. Abrams, N.York-Milano 1967, Cap.VIII, §3, p.257, fig.231.
215)     Bec., Ninf., p. 27/ coll. a-b.
216)     Op.cit., pp. 25/ col.b e 26/ col.a.
217)     Cit., tav.XXX, fig.49.
218)     Fig.50.
219)     Bec., The Art, fig.230.
220)     Bec., Ninf., p. 27/ col.b.
221)     J.Cooper, An Illustrated Encyclopaedia of Traditional Symbols- Thames and Hudson, Londra 1978, pp. 151/ col.a  e 152/ col.a.
222)     Vano sarebbe obiettare che i Greci non avevano lo zero matematico.  Il Fato, allorché non è considerato il semplice Destino ma viene posto al di sopra di Zeus, ci rimanda infatti allo Zero Metafisico ovvero a qualcosa che è al di sopra del Principio della Creazione, esattamente come la Conchiglia di Venere.  Cfr.   sul tema Ac., Met., passim.
223)     Coop., op.cit., p.128/ coll. a-b.    
224)     Bec., op.cit., p.28/ col.a.
225)     Op.cit., tav.XXXI, fig.53.
226)     Cit., tav.controfrontespizio.
227)     Ibid. come alla 224.
228)     P.28/ col.b.
229)     Tav.XXXVIII, fig. 77-8.
230)     P.29/ col.b.
231)     P.31/ col.b.  Il Becatti si rifà in ciò ad un saggio di S.Settis, cit. alla n.50, sull’argomento.  La Tartaruga in questione (ibid., tav.XXXIV, fig.60) è situata sotto il piede sinistro rialzato di un’Afrodite ellenistica, con Vaso e Pilastrino, del Mus.Nazionale di Copenaghen.  L’utilizzo della statua come fontana è provato, in questo caso, dal foro per l’acqua nella bocca del vaso.
232)      Cfr. la copia antica dell’Afrodite con Tartaruga di Fidia, o forse d’altro autore della seconda metà del V sec. a.C., del Mus.Statale di Berlino (Charb.-Mart.-Vill., La Gr. cl., P.sec., p.163, fig.173).  La dea – anche in tal caso purtroppo acefala – è ivi ricoperta da una veste, modellata con panneggio, ma non sono presenti accanto a lei altri attributi oltre alla testuggine; che, in tempi primordiali, doveva evidentemente essere una testuggine marina.
233)     Bec., op.cit., tav.XXXVI, fig.69.
234)     Op.cit., p.32/ col.a.
235)     Pp. 32/ col.b e 33/ col.a.
236)     Tav.XXXV, fig.65.
237)     P.33/ coll. a-b.
238)     Tavv. I-XXIX.
239)     Tavv. XXXII-XXXIII.
240)     Tav.XXXV, fig.66.
241)     Tav.XXXIII, figg. 56-7.
242)     P.34/ col.b.
243)     Vedi Cap.III.
244)     §6 sgg.
245)     Lat. concha (‘conchiglia; perla’), gr. κόγχη (‘conchiglia; scatola cranica’).
246)     Stut., op.cit., s.v. ŚAKHA 2, p.388/ col.a.
247)     Śakha viveva nel Bianco-celestiale Palazzo (Sabhā) di Varua (Sabhāp.- ix).
248)    K.C. Aryan & S.Aryan, Rural Art of Western Himalayas- Rekha, N.Delhi 1985, p.92, fig.85 (coll.priv. del primo dei 2 autori).
249)     Ar. & Ar., p.98, comm. alla fig.85.  Fanno notare i due illustri studiosi d’arte popolare che ad osservare la scena parrebbe essere Brahmā, benché stranamente nel foglio miniato (della serie dei Daśāvatāra vishnuiti) si vedano solo 2 teste.  Stesso discorso andrebbe fatto per il Veda, solitamente distinto in 4 figure od una figura sola con 4 teste.
250)     Stut., op.cit., s.v. ŚAKHA 1, p.387/ col.b.  Per una conferma cfr. Lieb., op.cit., s.v. ŚAKHA, p.253/ col.b-1.  Secondo il Diz. Mon.Williams (op.cit., s.v. ŚAKU, p.1047/ col.b) Śakhuneśvara è menzionato nel Mahābhārata quale forma di Śiva.  Śakhu è anche il nome d’un particolare Liga, inoltre Śakha è il nome del daitya che ha portato il Veda in fondo all’oceano dopo aver vinto gli Dei (ibid., s.v. ŚAKHA, p.1047/ col.c).
251)     ‘Pene, colonna’.
252)     Cit., s.v. ŚAKU, p.1047/ col.b.
253)     Lieb., op.cit., s.v. KĀMA(DEVA), p.121/ col.b.
254)     Op.cit., s.v. VARUA, p.331/ col.a. 
255)     S.v. PRAJÑAPARAMITĀ, p.225/ coll. a-b.
256)     S.v. VAJRADHARA, p.320/ col.a.    
257)     L’idea che Dio, ovvero l’Esistenza-in Sé, sia rappresentabile da un ente singolo è falsa.  Il concetto numerale di ‘unità’ deriva dal verbo ‘unire’, applicato a due enti opposti ma complementari, non viceversa.  La verità è che  fin dagli albori del tempo gli esseri umani si resero conto che dietro le apparenze delle vicende fenomeniche stavano due forze fondamentali, una maschile e l’altra femminile.  Come giustamente insegna taluno (F.D.K, Bosch, The Golden Germ. An Introduction to Indian Symbolism- Munshiram M., N.Delhi 1994, Cap.II, p.51 ss; ed.or. Mouton & C., ’S-Gravenhage), sebbene limitatamente al gveda, ma potrebbe benissimo essere riferito anche alla tradizione cinese e a tutte le altre.  Spesso il giudeo-cristianesimo, colla scusa della trascendenza, ha confuso Dio e cioè il Principio della Creazione (o Manifestazione, che dir si voglia) coll’Avversario Divino.   Vedi ad es. i Gesuiti alla corte dell’Imperatore della Cina, i quali illustrando la natura del dio cristiano ad una cultura estranea finirono per indicare a lui prossimo quello che per i cinesi fungeva da equivalente del nostro Diavolo…  In altre parole la differenza fra il Λόγος (la ‘Parola’ Divina) ed il Δημιουργός  (semplicemente ’Artefice’ del Mondo) – come insegnano i Vangelli Apocrifi – dipende dal fatto che l’uno è accompagnato dalla Sapienza, a lui congiunta come una femmina (Prajña Paramitā significa non a caso ‘Sapienza Suprema’), l’altro vi si oppone in netto contrasto.  La lotta fra gli  Elementi contrari costituisce la natura del mondo, oltreché la base della filosofia ionica.  La Quintessenza risolve in unità intellettuale il loro opporsi perenne, ma solamente l’Unità Divina è la risoluzione finale.  Vi è un pricipio tuttavia che la supera, il principio femmineo nel suo stato immanifesto, principio che il gveda designa come Aditi (lett. ‘Illimitata’), in alternativa a Daka.  Oltre rimane unicamente quella che potremmo definire, insomma, la ‘Grande Unità’ della Non Manifestazione (lo Zero Metafisico) e del Principio della Manifestazione (l’Unità Divina).  Se l’interpretazione dei testi appare talora difficile (cfr. x. 72, 2-4 e 90, 1 a titolo di chiarimento) è per la ragione che Aditi e Daka possono fungere non soltanto nel senso supremo suddetto, ma anche in un’accezione piú limitata, per cosí dire demiurgica oppure intermedia fra le due menzionate.  
258)     Lieb., op.cit., ss.vv. CĀMUṆḌĀ/-Ī, p.54/ col.a e VĀRUI-CĀMUṆḌĀ, p.331/ col.b.
259)     Des., op.cit., Cap.I (n.num.), Intr., p.2.
260)     Op.cit., p.3.
261)     Cit., §I, p.8.
262)     Secondo l’autore rassomiglierebbe nella forma al Vaso d’Ambrosia (Amtaghaa).
263)     Ibid. come alla 261.
264)     Ib.
265)     P.6.
266)     Stut., op.cit., s.v. ĀYUDAPURUA, pp. 50/ col.b e 51/ col.a.  Cfr. anche V.R. Mani, The Cult of Weapons. The Iconography of Āyudha Puruas- Agam Kala P., Delhi 1985.  Quest’autore scrive  (ibid., Cap.1, p.6) che some works in Sanskrit ascribable to the early centuries of the Christian era make references to contemporary conceptions of anthropomorphic Āyudhas.  Quindi non può trattarsi d’una applicazione tardo-medievale, essendo già in voga all’inizio dell’era Cristiana.  Bhāsa, ad es., riferisce (ib., pp. 6-7) che l’apparizione delle armi personificate di Viu – fra di esse pure il Pāñcayanya Śakha – è avvenuta al tempo del conflitto fra Vāsudeva (Krishna) e Duryodhana.  Insomma, stando alla datazione tradizionale, prima dell’inizio del Kaliyuga.  Da notare ancora che lo Śakha, cosí come altre armi, è passato come semplice attributo da Viu ad un suo āyudapurua quale Sudarśana, la personificazione del suo Cakra.  
267)     Nella trad. del Ganguli (op.cit., Vol.II, p.23) abbiamo those princes of all gems al maschile (il soggetto è Śakha and Padma), ma in italiano ‘gemma’ è femminile e si usa ‘regina’ nella nostra lingua per la comparazione fra gli oggetti, non ‘principessa’.  Il maschile dell’originale è dovuto al fatto che in effetti il termine Śakha in sanscrito è maschile, onde sebbene Padmā al contrario sia femminile, prevale concettualmente nell’apposizione il maschile.
268)     Des., op.cit., pp. pp. 6-7.  Il passo è riportato in sanscrito per intero a p.20,  n.53.
269)      Il nome originale del dio era infatti Ānakadundubhi (Stutl., op.cit., s.v. VASUDEVA, p.475/ col.b), che sicuramente non appartiene alla sfera linguistica indoeuropea.  Affermano d’altra parte gli Stutley (ibid., s.v. VĀSUDEVA, pp. 475/ col.b e 476/ col.a) che soltanto in un secondo momento l’indigeno Vasudeva (lett.‘Buon Dio’) è stato identificato al vedico Viu, generando vari sincretismi; ma noi preferiremmo dire ‘sincresi’, poiché trattasi di fenomeni religiosi legittimi e tutt’altro che spuri.
270)      Des., op.cit.,  p.14 e fig.12.
271)      Gr. Λιμνάς, άδος (‘abitante del lago, stagno o palude’), var. Λιμνῆτις, ιδος (id.), voci derivate da λίμνη (‘lago, stagno, palude’).
272)      Toc., op.cit., s.v. NINFE (LE), p.355/ col.a.
273)      Mor., op.cit., s.v. MELIADI, p.334/ coll. a-b.
274)      V ide §n.
275)      Ker., op.cit., Cap.10, pp. 166-8.
276)      Op.cit., p.166.
277)      Vide Cap.I, n.251.
278)      È l’equivalente della Māyā hindu, ma non la dea tarda richiamantesi alla Settima Pleiade, con Hermes in funzione orionica.  Vide n.prec.
279)      Op.cit., pp. 152-3.
280)      Pleonastico segnalare il rimando alla costellazione boreale omonima (Lyra) che ha fatto da perno polare durante il I Ciclo Avatarico.
281)      Ac., Il Druid., p.15, n.3.
282)     Vi è una differenza naturalmente fra tale suddivisione dello spazio, la quale risale al II Avatāra, e quella propriamente attribuita a Vāmana, il V Avatāra.  Quest’ultima infatti comprende un quinto punto, il Centro, i famosi ‘Tre Passi’ essendo effettuati in verticale.
283)      Ibid. come alla 274.
284)      Ker., op.cit., p.167.
285)      I Satiri dalla pelle caprina corrispondono in India ai <Figli> di Daka, i Sileni ai Kinnara (uomini dalla testa di cavallo e corpo umano o viceversa), gr. Κένταυροι.
286)      Che la Conchiglia quale elemento simbolico risalga al II Ciclo Avatarico (il Ciclo del Nordovest o Ciclo della Tartaruga) è provato, oltretutto, da una leggenda camciàdala; secondo questo strano racconto, strano ovviamente ai nostri occhi di civilizzati, il dio supremo Kutka si era dato alla sodomia dopo che una Conchiglia ch’egli aveva cercato di violentare lo aveva evirato.  In tale insolito mitologhema (A. di Nola, s.v.SCIAMANESIMO, §6, p.895; apud  AA.VV., Enc., Vol.5,) gli specialisti dell’argomento vedono una proiezione sessuale in chiave religiosa dei Camciadali, parzialmente dediti alla pederastia; ma, al di là di questo, ogni mito ha sempre un senso cosmologico oltreché ontologico.  Benché quello citato sia assai difficile da interpretare a livelli superiori a quello antropologico, proviamo egualmente a farlo.  Dopo esserci informati sulla sorte degli antichi abitanti della penisola di Camciatka, dei quali ci rimangono dopo la russificazione massiccia avvenuta nel XVIII sec. soltanto dei resoconti di viaggio del Settecento, veniamo a sapere dal Paulson che il nume sunnominato (trascritto da altri Kutkhu, Kuthku o Kutchu) era il dio creatore nonché salvatore del mondo. E che identificavasi al Grande Corvo (Kutg) dei Coriachi, nulla di piú.  Vi è traccia presso altre tribú paleo-siberiane, tuttavia, d’una disputa cosmica fra un grande uccello ed un grande crostaceo (gambero o granchio che sia) fungente da divino avversario allo scopo d’impedire l’atto cosmogonico.  La Storia delle Religioni c’insegna inoltre che l’evirazione è in genere l’atto di passaggio d’un nume da un culto dominante ad una posizione cultuale da deus otiosus.  Il fatto che a farlo sia la Conchiglia significa perciò che in posizione dominante da quel momento in poi subentrava una divinità-femmina, ovvero una concezione femminea del Divino.  È ciò che in effetti tramandano pure la tradizione cinese e quella indiana, nonché la tradizione greca e (fuor di metafora) quella… giudaico-cristiana attraverso la leggenda evaica.  Il nostro Medioevo attribuiva del resto ad Alessandro Magno una visita nel cd. ‘Paradiso delle Donne’, ubicato in Oriente; da identificare, insomma, all’Ecumene Orientale, dedito non a caso ai piaceri del sesso secondo i testi sacri hindu.  Non in senso demonico, ma semmai ‘shakta’. Si trattava, in sostanza d’uno shaktismo primordiale, verso cui convergono persino le tradizioni taoiste.   Le pratiche omosessuali potrebbero esser state dunque in principio, come in certi misteri antichi a noi noti, non il frutto di perversioni tribali; ma semplicemente, al di là di quel che ne possa pensare la nostra cultura omofoba (o con atteggiamento esageratamente opposto), un rituale poi degenerato dopo la perdita dell’originario significato spirituale in costume vizioso. 
287)      Ibid. come alla 283.
288)      M.Bulteau, Le figlie delle acque- Ecig, Genova 1993 (ed.or. Mythologie des files des eaux- Ed. du Rocher, Monaco 1982), p.97.
289)      Bult., op.cit., pp. 97-8.
290)      Ker., op.cit., pp. 166.
291)      Il Monte Ida era situato dietro Troia, un altro a Creta.  Questo nome ci ricorda Īḍā, la dea vedica dell’abbondanza (anche in veste di vacca); che a sua volta rimanda ad Ilā, cioè all’Ilāvta.
292)      La libera crescita di grandi alberi sulle zone scoscese dei monti ed il rispetto umano per loro in tempi molto arcaici è testimoniata anche da Platone.  Vide n.3.
293)      λιος ha a che fare, dal punto di vista etimologico, coll’ Ilā-vta; per questo la città era costruita attorno al sacro boschetto d’un colle, ad immagine dell’originaria Selva Paradisiaca di cui è memoria presso molte tradizioni.
294)      Ibid. come alla 287.  Solo una delle nereidi, Centuripe, a volte è effigiata isolata; cosí appare in una terracotta del II-I sec. a.C., ora di appartenenza privata, in cui la ninfa è posta anziché su un sauro marino su un kêtos.    

295)      Nel Monumento delle Nereidi a Xanto, in Cilicia (Anatolia Sudoccidentale), fra le colonne del peristilio d’un tempio ionico dell’inizio del IV sec. a.C. c. se ne vedono solamente 3 – al modo delle Ninfe delle Sorgenti e dei Fiumi – colla gamba sinistra sollevata a postulare una corsetta danzante; la ricostruzione di tale facciata è stata edificata per il Museo Britannico, a Londra.  Cfr. al riguardo Charb.- Mart.-Vill., La Gr. cl., P.pri., p.94, fig.98.  Inoltre per un ingrandimento di una delle tre fanciulle velate che danzano, simulanti l’accompagnamento funerario dell’anima nell’Aldilà, vide ibid., P.sec., p.192, fig.219.  Il drappeggio delle loro vesti, sollevate dietro la schiena dalla mano destra come fosse un velo, le rende oltremodo impalpabili.  Altre volte, come nelle 5 metope del Tempio di Sele, le Nereidi sono effigiate a coppie per ciascuna metopa; ognuna di esse ha il braccio sinistro alzato e piegato ad angolo retto, tanto che nell’insieme paiono librare nell’aria al modo delle ombre (Bec., The Art, Cap.III, §12, p.109, fig.95).  In numero maggiore appaiono per contro e con vesti nere da lutto in un idria di stile corinzio recente del c.550 a.C. (Cere, Etruria; ora al Louvre, Parigi).   Nell’immagine in terracotta (Idem, La Gr. arc., p.74, fig.79) le Nereidi in atteggiamento mesto attorniano il corpo disteso di Achille colla destra tesa cerimonialmente in avanti, come ancor oggi taluni fanno individualmente sulle bare dei morti quale gesto finale di commiato.  Nella parte sottostante del catafalco compare un Γοργόνειον leonino, a lingua penzolante; minaccioso per un verso, poiché la morte è essenzialmente un dramma cosmico, ma rassicurante per altro verso a causa della connessione del simbolo colla Porta Solare.  In una terza raffigurazione del fregio di stile ionico dell’architrave del tempio di Asso (c.550-525 a.C., anch’essa al Louvre), nella Troade, osserviamo parimenti varie Nereidi  fuggire intanto che Eracle lotta con Tritone (ibid., p.159, fig.198).  La scena, pure in tal caso, è di tipo antropomorfico.
296)      Quando si ha a che fare non con Tritone, ma con dei Tritoni, la fisionomia tipica di questi mostri è interamente di sauropodi (o, se vogliamo. di draghi marini) a parte i lunghi aculei dei quali son dotati sul dorso spiovente e la coda pescina; come avviene nel mosaico in stile macedone  di Olinto (c.400 a.C., in situ), ove si assiste ad una sfilata marina di 2 Nereidi su Tritoni che, precedute da Tetide, in segno di onore recano le armi ad Achille piacevolmente seduto nella dimora della Regina dell’Abisso per il lungo riposo dopo la morte (Charb.-Mart.-Vill., La Gr. cl., P.ter., p.291, fig.335).
297)     Non molti anni fa è stato rinvenuto al largo del Mar del Giappone un grosso pesce serpentiforme, masssiccio e d’una lunghezza impressionante; potrebbe esser stato un tempo maggiormente diffuso nei mari del globo ed aver ispirato, cosí, la versione serpentina dei Tritoni.
298)      Nella terza rappresentazione cit. alla n.295, per via del disfacimento parziale del bassorilievo in andesite della lastra dell’architrave proprio nel punto d’effigie del Tritone, non è possibile capire quale sia l’aspetto iconografico del mostro.  In un altorilievo sul frontone in stile attico dell’antico tempio di Atena, eretto sull’Acropoli ateniese (c.560-550 a.C., ora al Mus. dell’Acropoli), l’agone fra Eracle e Tritone risulta invece assai piú chiaro dal punto di vista iconologico; questa volta il mostro è scolpito con 3 busti umani, a giustificare il nome, ma con soma ofidico e coda pescina  Cfr. col vedico Trita o Trita Āptya (lett. il ‘Terzo – s’intende, forse, nume – sorto dalle Acque’), av.Thrita, un doppione di Indra; in altre parole, un dio dell’Età del Bronzo ed in correlazione colla terza casta, come d’altronde Plutarco asserisce di Tritone.  Infatti Tritone è, a sua volta, un allotipo di Poseidone.  Tant’è vero che in un càntaro ad un’ansa di stile beotico, decorato a figure nere e con un muso di verro nel becco (c.525-550 a.C., Mus. del Louvre), troviamo una facies assolutamente inusuale di Poseidone che lo apparenta strettamente al figlio Tritone.  Ivi il dio mostra, esattamente come lui, corpo serpentiforme e coda pescina (Charb.-Mart.-Vill., La Gr. arc., p.70, fig.75).  Il Villard non si pronuncia sul nome, ma lo riconosce quale dio del mare e non come tritone.  Dato che regge il Pesce colla mano destra potrebbe esser scambiato per Nereo (cfr. n.301), sennonché la Palmetta sulla sinistra lo distingue nettamente da costui.  Inoltre si notano in contrapposizione zodiacale il Delfino ed il Granchio, rispettivamente dinanzi e dietro l’ignoto dio del mare, benché la scena sia mascherata dalla presenza subacquea d’altri delfini che gli fanno corteo.  Questa simbologia in nessun modo può appartenere a Nereo, che è un nume primordiale e pre-olimpico; appartiene invece a Poseidone, notoriamente uno dei 3 iddii del Triregnum olimpico e come tale vincolato allo Zodiaco Solare.  Anche se, a dire la verità, è probabile vi sia stato un travaso di attributi dall’uno all’altro.  Vi è un ulteriore particolare, notato dal Villard, che ci fa propendere per la seconda soluzione: l’Occhio in cima all’ansa del vaso.  Codesto emblema è un attributo non soltanto di Poseidone, ma pure del suo corrispettivo romano, Nettuno.  Vide nn. 31 e 316.  Non si dimentichi a tal riguardo che il detentore per antonomasia dell’Occhio Frontale in Grecia, ossia Polifemo, è al pari di Tritone un <figlio> di Poseidone.  D’altra parte tanto il dio ellenico quanto quello corrispondente romano impugnano il Tridente ed il Tridente era in ambiente greco-latino un contrassegno esoterico delle 3 Vie ermetiche (di Destra, di Centro e di Sinistra, non meno del Tridente di Śiva in ambiente indiano.
299)     Vide n.296.
300)     Charb.-Mart.-Vill., op.cit., P.ter., p.316, fig.362.
301)     Abbiamo rinvenuto la raffigurazione on line, in un magnifico sito spagnolo riccamente illustrato d’anfore attiche a figure rosse (H.V. López, Heracles) che la pone proprio al §11, dedicato all’Undicesima Fatica. Benché purtroppo l’autore non fornisca i dati per poter rintracciare la pittura vascolare in qualche testo ed inquadrarla storicamente e stilisticamente, in questo caso non ci sono dubbi che il Pesce sia sollevato in aria dal dio del mare, un tempo in possesso – si tramanda – anche del Tridente di Poseidone.  Per un’iconografia un po’ piú ampia di Nereo cfr. inoltre, sempre on line, l’art. anonimo di un argentino Nereo, el sabio viejo del mar (blog, 13-02-11).
302)     Grav., op.cit., §33, p.114, n.2.
303)     J.Charbonneaux-R.Martin-M.Villard, La Grecia ellenistica (330-50 a.C.) – Rizzoli, Milano 1978 (Grèce hallénistique- Gallimard, Parigi 1970), P.ter., p.279, fig.300.    
304)      Grav., op.cit., §133.d-e, pp. 467-8.
305)      In un anfora attica a figure rosse (c.490 a.C.) troviamo riuniti tutti e tre i tratti salienti del nume, che presenta per l’occasione coda di pesce, soma ofidico ed in piú stringe in mano il delfino.  Un ulteriore particolare è dato dalle creste (o pinne, se si vuole) da rettile sulla schiena, al modo di certi Tritoni.  Ibid. come alla 299.
306)      Il quadro climatico cosí tracciato delinea la presenza in tempi pre-zodiacali d’un vetusto calendario stagionale trimestrale anziché mensile, al quale deve esser subentrato in un periodo intermedio quello stagionale bimestrale,  ancor oggi in vigore in India.
307)      Charb.- Mart.-Vill., La Gr. cl., P.sec., p.108, fig.113.
308)      Op.cit., p.137, fig.146.
309)      Mor., op.cit., p.410, fig.n.num.
310)      Cit., p.154, fig.163.
311)      R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere- Rizzoli, Roma 1976 (Rome, le centre du pouvoir- Gallimard, Parigi 1969), Cap.6, p.334.
312)      B.Band., op.cit., Cap.3, p.156, fig.165.  È una moneta del tempo di Ottaviano, cioè della Fine del I sec. a.C.
313)      Cit., p.334, fig.376
314)      Ibid. come alla 311.
315)      Vide n.301.
316)      La vicenda narrata in Hom., Od.- ix. 463-566 interpretata dal punto di vista esoterico indica che Ulisse (cioè l’iniziato) ha percorso gl’Inferi ed ha incontrato Πολύφημος (lett.’Molto famoso’), il Kakodaímōn per eccellenza, il quale alla maniera dell’Orco delle fiabe ha tentato di divorarlo assieme ai suoi 12 compagni (fatto notato in Grav., op.cit., §170, p.679, n.3); ma egli è alfine riuscito a fuggire dall’Antro della Morte (ibid.) tramite l’Ariete, il segno zodiacale dell’inizio della primavera, in altre parole un simbolo dei Misteri Minori in senso eleusino.  D’altronde l’Occhio Ciclopico, secondo quanto dimostrato dal Cook (ib.), era in Grecia un contrassegno dell’Occhio Solare e quindi l’Ariete fungeva al tempo di Omero da Axis Mundi dal punto di vista vernale.  La fuga di Ulisse-Nessuno (il ‘Tredicesimo Compagno’ = il nuovo ’Ariete’ ossia l’Agnello d’Oro, in senso pre-cristiano) dal nume monocolo può dunque esser interpretata come un ratto dell’Occhio Frontale, di cui l’eroe s’impadronisce, secondo quanto avviene difatti in certe narrazioni islamiche di probabile origine indiana.  Al riguardo il Graves menziona, in parallelo, l’uso degli antichi fabbri-antenati della Sicilia preistorica di tatuarsi un occhio in mezzo alla fronte quale emblema del clan. 
317)      G.Acerbi, Il mito del Gokarna e il drammatico agone fra Perseo e Medusa- Alle pendici del Monte Meru (blog,17-01-13), passsim.
318)      Vide n.105.
319)      Μέδουσα infatti significa ‘Sovrana’’, essendo il femminile di Μέδων (‘Sovrano’), uno dei termini coi quali si designava in Grecia il signore del mare (op.cit., p.51): ἁλόςμέδων (‘dominatore del mare’), ποντομέδων (‘id.), υρυμέδων (lett. ‘dall’ampio dominio’).
320)      Ker., op.cit., Cap.3, p.52.
321)      Cfr. n.200.
322)      B.Band., Roma. La f., p.viii, fig.1.
323)      Cfr. §l.
324)      Vide n.176.  In un’altra simile immagine di Venere su Conchiglia sorretta da Tritoni (op.cit., P.pri., Cap.I, pp. 100-1, figg. 92-3), in questo caso seduta in atto di pettinarsi piuttosto che distesa su di essa, non ci sono Delfini e i 2 Amorini Alati che la fiancheggiano mirandola con doni di prosperità stanno in piedi sulla schiena dei Tritoni; ritratti secondo la moda romana in forma metà semiumana metà semiequina sul davanti, con 2 mani e 2 gambe, e coda di lungo serpente sul retro.  Si tratta del coperchio della cassetta nuziale di Secundus e Proiecta (IV sec. d.C., Mus.Britannico, Londra), rinvenuta nel XVIII sec. sull’Esquilino; in tale iconografia, è bene sottolinearlo, convivono elementi pagani con elementi cristiani.  Codesto motivo iconologico, c’informa inoltre il Bianchi Bandinelli (ibid., p.102), lo si ritova ”in numerose argenterie e si ripete con frequenza nei mosaici del IV secolo in Tunisia e in Algeria.”
325)      B.Band., Roma. L’art., Cap.2, pp .52-3, figg.51-2.  Per una migliore illustrazione vedi Bec., op.cit., Cap.X, p.304, fig.280.
326)      Cfr. §§ h e l.
327)      Non è facile capire il mitologhema della pazzia di Atamante ed Ino.  Da parte nostra proviamo a dare una spiegazione a livello cosmologico, altre di diverso tipo essendo ad essa naturalmente correlate.  La si prenda comunque, da parte del lettore, con beneficio d’inventario.  La pazzia di Atamante-Issione, il titano solare, è chiaramente riferibile alla presenza annuale del Sole in Orione per via del sacrificio di Learco in forma di <bianco cervo>.  Probabilmente si tratta d’un tema vetusto, riadattato poi al calendario lunare dell’Età del Ferro, ossia della Grecia neolitica.  D’un simile calendario poco ci è giunto, per la verità, ma il mitema può esser interpretato anche in relazione all’Età del Toro; vale a dire, se si prende in considerazione il calendario solare, essendo Orione un paranatéllon della costellazione del Toro è evidente che l’uccisione del cervo equivale ad un sacrificio taurino.  Stabilito questo punto indiscutibile, proviamo ad analizzare il resto, assai piú problematico.  Atamante prima d’innamorarsi di Ino su ingiunzione di Era aveva sposato Neféle, ma costei non era altro che “un fantasma creato da Zeus a somiglianza di Era” (Grav., op.cit., p.202, §70.a).  Subito l’oltraggio da parte di Atamante, che essendosi congiunto ad Ino aveva avuto dalla dea 2 figli, Neféle era salita furibonda all’Olimpo e si era rivolta direttamente alla Regina degli Dei.  Hera le aveva promesso vendetta, vendetta che sarebbe ricaduta sul marito; sennonché la rivale Ino aveva tramato in modo da provocare una carestia di grano, tale da costringere Atamante a rivolgersi all’oracolo delfico, opportunamente corrotto per fare gl’interessi della seconda moglie.  Il messaggio oracolare era stato infatti di sacrificare Frisso ed Elle, onde permettere alla terra di tornare fertile (ibid., p.203, §70.b-c).  Mentre il padre piangente era in procinto di compiere il gesto sacrificale sulla cima dell’Olimpo, Eracle trovatosi per caso da quelle parti (sic!) gli sottrasse il coltello.  Presto arrivò in volo un aureo ariete, inviato da Hera mediante Hermes (oppure inviato da Neféle avendolo ricevuto da Hera), e condusse sulla sua celeste groppa i due giovani fino alla Colchide; Elle (lett. ‘Cerbiatta’, con riferimento chiaro ad Aldebaràn, la ‘Settima Pleiade’) presa da vertigine cadde sullo stretto che da lei prese nome, l’Ellesponto (attuali Dardanelli, separanti l’Europa dall’Asia).  Arrivato a destinazione Frisso sacrificò l’animale a Zeus Liberatore (ibid., §70.d-e) e mise il Vello d’Oro nel tempio di Ares (ib. §70.l), di cui il ‘riccioluto’ giovane (Φρίξος, da φρίσσω = ‘arricciarsi’) altro non era a nostro giudizio che una parziale incarnazione.  Inutile aggiungere che l’Aureo Ariete ed il Vello d’Oro rimandano alla successiva Età dell’Ariete, che anche i Sumeri e i Babilonesi veneravano in maniera piú o meno simile.  Circa la divina nascita di codesto animale vide n.343.  In ultimo rimane da spiegare il rapporto fra Leucotea, Melicerte e il Delfino.  Forse abbiamo a che fare pure in questo caso col passaggio vernale da una costellazione all’altra, cioè dall’Ariete ai Pesci, se è vero che il delfino veniva considerato dagli antichi simbolicamente un pesce.  Ma è piú logico considerare un rapporto colla costellazione omonima del Delphinus, corrispondente al Capricorno (cioè al Solstizio Invernale), che nella Via Mediana rappresentava i ‘Misteri Minori’.  Diversamente da quanto sosteneva Guénon, il quale sull’argomento ha fatto un po’ di confusione a causa della sua non perfetta conoscenza dell’Astrologia.  Ciò infatti valeva durante l’Età dell’Ariete (2320-160 a.C.) sia da un punto di vista tropicale che siderale.
328)      Mor., op.cit., s.v. INO, p.286/ col.a.
329)    I grecisti fanno di Σεμέλη un nome della dea ctonia, ponendolo in corrispondenza col lit.žē(‘terra’), a.sl. zemlja (id.).  Cfr. al riguardo G.Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano- R.Sandron, Palermo-Milano 1922 (ed.or. F.Tempsky-G.Freytag, Vienna-Lipsia 1908), s.v.SEMÉLĒ, p.720/ col.a.
330)      Vide n.172.
331)      Bec., Ninf., §3 sgg.
332)      Non sappiamo esattamente, dato che non abbiamo avuto modo di consultare il testo, a quale dei 3 Filostrati di Lemno si riferisca l’autore.  Di certo non a Filostrato «l’Ateniese», autore delle Vite dei sofisti; forse a suo genero, il Filostrato «di Lemno» propriamente detto, che ha scritto le sue 65 Immagini ispirandosi ai supposti 65 quadri d’una villa napoletana e che è stato denominato “il fondatore della critica d’arte”.   Il problema è che vi è un terzo Filostrato, detto «il giovine» e nipote di quest’ultimo, che ad imitazione del nonno ha composto altre 17 Immagini; cui sono seguite nel IV sec., questa volta in campo scultoreo, le Descrizioni di Callistrato.
333)      Bec., op.cit., p.39/ col.b.
334)      Op.cit., tav.L, fig.81 (sottofigg.I-XXIV).
335)      Cit., sempre della fig.81 la sottofigura XXI e la XXIII.
336)      Sottofigg. I, III e V.
337)      Sottofigg. IV, VI-VII e XII.
338)      Sottofigg. IX e X.
339)      Sottofigg. VII, XIV e XV-XVIII.
340)      P.40, coll. a-b.
341)      Vi è una ragione precisa per cui Ino si trasforma in Leucotea ed è quella rilevata in alcune varianti tra di loro connesse e menzionate in Ker., op.cit., Cap.11, pp. 170-2.  Poseidone, dopo esser stato sottratto dalla madre Rhea alle grinfie del padre Crono, era stato allevato dalla Ninfa Arne (lett. ‘Sorgente della pecora’) in un gregge di ovini.  In Hyg., Fab. clxxxviii si racconta diversamente d’una dea di nome Teofane nuzialmente rapita da Poseidone e portata in una terra di nome Crumissa (attuale Crimea?), che potrebbe significare secondo Kerényi “Isola dell’Ariete”.  Ivi Poseidone trasformò la sposa in pecora e sé stesso in ariete.  Da questo connubio nacque l’aureo montone, destinato a condurre in Colchide Frisso ed Elle, per dar poi luogo al viaggio degli Argonauti una volta che era addivenuto un semplice Vello d’Oro custodito da un drago.  Orbene, secondo una variante narrata da Diodoro Siculo (v. 55) Poseidone sarebbe stato condotto da Rhea per lo stesso episodio nell’isola di Rodi, fra i Telchini.  Costoro, postagli quale nutrice l’Oceanina Cafira (figlia di Oceano), foggiarono per lui il Tridente al dire di Callimaco (Inno a Delo, vs.31) e gli fecero conoscere la loro sorella Hália (da ἅλιος = ‘appartenente al mare’); di cui il dio marino s’innamorò, una volta giunto in età adulta.  Da costei ebbe 6 figli ed una figlia di nome Rhódos, che avrebbe dato nome all’isola omonima.  Avendo i figli tracotanti di Poseidone impedito ad Afrodite in viaggio verso Cipro di sbarcare a Rodi, la dea li punì colla follia, tanto che violentarono la madre e Poseidone successivamente a causa di questo loro atto violento li fece sprofondare sottoterra.  Halia, per contro, si gettò in mare divenendo Leucotea; la ‘dea Bianca’, sulla quale il Graves, mediante comparazioni con analoghe deità britanniche, ha costruito il suo famoso saggio The White Goddess. (cit. al Cap.I, n.292)  In sostanza – conclude l’autore – Rodo non è diversa da Roda, cui si attribuisce come madre Afrodite od Anfitrite.  E, del resto, qualcun altro menziona Elio anziché Poseidone come padre.  Onde se ne deduce in sintesi che Halia, Leucotea, Afrodite, Anfitrite e Cafira (var. Cabiria o Cabira, madre dei Cabiri) non sono che allotipi di un’unica antica signora del mare.
342)      Al dire di Apollonio Rodio (Arg.- i. 917), c’informa il Kerényi (op.cit., Cap.15, p.243), il ‘Velo’ equivaleva al Nastro Purpureo’ concesso agl’Iniziati dei Misteri Cabirici in Samotracia; tant’è che costoro lo serbavano sempre attorno al proprio corpo onde evitare i pericoli del mare, con allusione ovvia al “mare delle passioni”.
343)      Bec., op. cit., p.41/ col.a.
344)      Ker., op.cit., Cap.15, p.240.   A tal proposito Kerényi (ibid., pp. 236-41) riferisce che esse in veste di ninfe o di nereidi fecero da nutrici al secondo Dioniso; cioè al figlio di Zeus e Semele, non il Dioniso cornuto figlio di Demetra-Persefone, concepita nei Frammenti Orfici- 145 (a c. del Kern) come una seconda Rhea.  Le nutrici sono descritte talora in numero di 3, talora di 4 (vedi simbolismo delle fasi lunari); proprio come le figlie di Cadmo, Semele e le 3 Sorelle.  Come tali appaiono anche nell’iconografia, ove una di esse allatta il bimbo Dioniso con accanto Sileno, secondo gl’Inni Orfici- 54 educatore del nume.  I Sileni non meno dei Fauni sono le controparti maschili delle Ninfe, come i Tritoni delle Nereidi, a dimostrazione che il concetto di ninfa della sorgente e di nereide marina arriva spesso a sovrapporsi.  Bisogna tener conto che la furia erotico-orgiastica delle Menadi o Baccanti diretta verso le selve montane era intesa quale divina pazzia (Μαινάδες < μανία = ’furore, pazzia; estasi, entusiasmo’ < Μήν = ‘Luna’), coinvolgente Bacco-Dioniso in un significato esoterico cha dal punto di vista cosmologico aveva a che fare colla Luna Piena in Orione.  Cfr. nn. 10, 39, 46 e 327.  Ivi l’ Οἴνος (‘vino’, ma anche ‘filtro, bevanda magica’) tiene il posto del Soma, o dello Haoma, l’inebriante liquore vedico-avestico; ma, nel contempo, rimanda al tema della fecondità (seme/fallo) e della fertlità (pioggia/axis mundi).  In alcuni miti, non per nulla, l’ira della lunare Hera rende folli le fanciulle tanto da spingere a credere d’essersi trasformate in vacche; quella di Afrodite, invece, le trasforma in ninfomani.  Ciò, è naturale, s’appaia alla forma taurina di Dioniso.  Per cui, come si vede, anche in questo caso le due varianti materne ed i miti che ne conseguono s’incontrano e si confondono in un unicum.  Tornando alle 4 figlie di Cadmo, lo sposo di Armonia, sappiamo che oltre a Semele – la principale nutrice di Dioniso – vi erano Autonoe, Agave ed Ino.  Ciascuna  in veste, non troppo celata, di Menade.  Autonoe era infatti la madre di Atteone, dilaniato dai suoi 50 cani dopo esser stato trasformato in cervo da parte di Artemide, sorpresa nuda al bagno assieme alle sue 60 ninfe (le Oceanine); pasto di chiaro aspetto dionisiaco, favorito dall’unguento – acqua della magica fonte ove la dea amava bagnarsi, insomma la Via Lattea – da lei gettato colle mani sul cacciatore.  Agàve (γαύη, da ἀγαυός = ‘sublime, famoso’, qui forse nel senso di ‘gaudente’) aveva invece quale figlio Penteo, divenuto oggetto di caccia dionisiaca da parte della madre e delle altre due, poiché aveva vietato a Tebe il culto di Dioniso.  Secondo Kerènyi (ib., p.241) l’invasamento delle Baccanti era un modo per riguadagnare la visione interiore della terra come fonte di latte e di miele.  Cfr. col concetto di ‘Terra del Latte e del Miele’, applicato di poi alla Terrasanta ma in verità riferito al iyyōn (cfr. Cap.I, n.49), presso gli Ebrei.  La quarta sorella, Ino, non solo si gettò impazzita in mare col figlio Melicerte; ma, a dimostrazione che trattavasi d’invasamento vero e proprio, secondo una data versione aveva gettato prima il bimbo in un caldaio d’acqua bollente e soltanto in seguito s’era buttata col figlio morto negli abissi marini.  Oppure, a giudizio di Pindaro, aveva gettato in acqua bollente il figlio maggiore Learco e poi col minore vivo s’era buttata in mare.  Un comportamento anche questo di tipo dionisiaco, che rammenta altresí la sorte del Glauco figlio di Minosse, di cui tratteremo al Cap.VII, §§ r-s.
345)      Bec., op. cit., p.41/ col.b.
346)      Op.cit., p.42/ col.a.
347)      Cit., tav.XXXIX, fig.79.  Il Cavallo è un noto contrassegno di Poseidone, non meno del Delfino.
348)      Pp. 43/ col.b  e 44/ col.a.
349)      Antica città sulla Via Appia, presso Anzio, promontorio marittimo sede d’una vetusta località balneare per i ricchi romani.
350)      Mor., op.cit., p.328/ coll. a-b.
351)      Bec., op. cit., p.44/ col.a.
352)      Mor., op.cit., s.v. EOS, p206/ coll. a-b.
353)      Op.cit., s.v. MATER MATUTA, p.328/ col.b.
354)      Cfr. con la Yamī vedica e la Yimak avestica.  Non importa che la raffigurazione o la citazione di codesta dea sia tarda, risulta palese dall’etimo, il quale rispecchia un’arcaicissima concezione di divinità gemellare alla base di tutta la costruzione mitica del ceppo di lingua indoeuropea.
355)      A.Pastorino, La religione romana- Mursia, Milano 1973, P.sec., Cap.II, §1, p.189.
356)      Portunno non viene classificato, di norma, quale discendente diretto di Giano; ma essendo figlio di Matuta, una delle tre consorti di Giano, ed avendo prerogative assolutamente simili – a parte forse la prevalenza della signoria sui porti per motivi marittimi – è assai probabile che lo sia.
357)      Vide Cap., n.262.   
358)      Vide Cap.I, n.49.
359)      Ibid., n.60.
360)      Op.cit., p.44/ col.b.
361)      Cit., pp. 44/ col.b  e 45/ col.a.
362)      P. 45/ col.a.
363)      Pp. 45/ col.b e 46/ col.a.
364)      Pānopē, madre di Re Evandro, è detta provenire dall’Arcadia.  Può esser considerata, in quanto nereide, praticamente un doppione di Ino.
365)      In onore di Carmenta venivano allestite le Carmentālia, con un relativo flamine.  Valga per costei quanto detto per Panope.  Cfr. n.prec.  Un’ulteriore identificazione nell’interpretatio romana è avvenuta con Albunea (dal lat. albus = ‘bianco’), altra dea di genere aurorale al pari di Matuta incarnata da una ninfa, cui erano sacre le sorgenti sulfuree cosiccome una grotta ed un bosco sui colli di Tivoli oltre ad un tempio sopra la cascata dell’Aniene (Cal., op.cit., s.v. ALBUNEA, p.124).  Era nota quale Sibilla Tiburtina.
366)      La vicinanza dei templi indica una prossimità cultuale.  In proposito  U.Pestalozza (Religione mediterranea. Vecchi e nuovi studi- Frat.Bocca, Milano 1951; rist. Cisalpino-Goliardica, Milano 1971, Cap.XIV, pp. 402-3) scrive che il culto di Venus Verticordia, in principio strettamente associato a quello della Fortuna Virilis, era volto ad ottenere la pudicizia al posto della libidine.  Ma col tempo il culto si è scisso in due e l’uno era dedicato mediante un bagno rituale alle mulieres honestiores, che venivano cinte di mirto dopo un lavacro della statua di Venere, cui seguiva l’ingestione d’un filtro d’amore; l’altro alle mulieres humiliores e alle meretrici, le quali pur coronate di mirto, facevano il bagno nella pubblica vasca degli uomini dopo l’offerta d’incenso alla Fortuna Virile (conciliante alle donne i favori degli uomini).  Orbene, il fatto che il tempio di questa dea si trovasse in prossimità di quello di Matuta, si spiega col fatto che costei era una tipica deità della vita muliebre. 
367)      Bec., op. cit., pp. 46/ col.b e col.47/ col.a.
368)      Op.cit., pp.47/ col.a.
369)      Cit., pp.47/ col.b.
370)      Ibid.
371)      Pp. 47/ col.b . 48/ col.a.
372)      Altri (G.Dumézil,La Religione romana arcaica- Rizzoli, Milano 1977 [ed.or. Payot, Parigi 1974], P.Sec., Cap.III, §1, p.292), nonostante sia d’un opinione convergente in sostanza con quella meglio argomentata del Becatti, riporta la teoria un po’ azzardata di G.Bonfante di far risalire l’attribuzione a Portuno delle porte e dei porti ai tempi durante i quali gli antenati dei Romani vivevano ancora sulle palafitte.  Dumézil fa in pratica di Portuno un collega di Giano, benché più limitato nella funzione, e non accettando la filiazione da Matuta non si accorge neppure che il nesso di Giano col mattino (ibid., pp. 292-3) è decisivo per fare di lui il corrispettivo maschile di colei che oltretutto funge da sua paredra mitologicamente.  Cfr. nn. 375 e 379.
373)      Bec., op.cit., pp. 48/ coll. a-b.  Sul fianco sinistro di Portuno si scorgono prima Eracle e poi Apollo.
374)      P.49/ col.a.
375)      Vi è chi è persino piú drastico rispetto a quanto asserito dal De Sanctis e dal Becatti.  Vide n.372.  Il Dumézil, rilevando piú o meno la stessa cosa, non accetta neanche d’apparentare la Madre Mattutina al Padre Mattutino pur cogliendo giustamente in Matuta il corrispondente latino della vedica Uas (Dum., op.cit., Cons.prelim., Cap.V sgg).  Ma banalizza la nozione rigvedica di Uasa (al plur.) interpretando le Aurore come la continuità indefinita del semplice fenomeno astronomico mattutino allontanante le tenebre, in relazione ad un ordine cosmico piú calendariale che veramente cosmologico, e non riconoscendo a costoro di rappresentare il fenomeno circumpolare preziosamente illustrato da Tilak.  Nega inoltre il lato materno del personaggio in questione, che al contrario è fondamentale nella figura della Mater romana, esaperando inoltre senza motivo l’interdipendenza della dea colla cultura indoeuropea.  Quantunque l’interpretazione delle schiave scacciate a forza dal tempio di Matuta, in relazione alle Tenebre anziché alla Notte, sia assolutamente corretta.  Pur non essendo l’unica interpretazione possibile, secondo quanto sembra unilateralmente credere l’autore.  Il simbolismo ha sfaccettature molteplici, applicate a vari piani.  Purtroppo Dumézil tende a tacciare di primitivismo tutto ciò che esula dalla sua visione storicizzante e neo-positivista, in sostanza negando valore al mito ed al tema della ‘nostalgia del Paradiso’, come direbbe Eliade.
376)       Vide n.366.
377)      Mor., op.cit., s.v. GIANO, p256/ col. b.
378)      Non si deve confondere questa simbologia quinaria con quella ternaria, che pagonando le 2 Teste di Giano (Guén., Simb., §18, p.118) al Passato ed al Futuro, ne sottintende in relazione al ‘Triplice Tempo’ (scr.Trikāla) una mediana alludente al Presente.  Questa è un’applicazione secondaria, a meno d’intendere i 2 Volti come Iānus-Iāna, ossia un Androgine (ibid.); mentre nel caso del contrassegno quaternario, col ‘Quinto Volto’ sottinteso, ci troviamo dinnanzi ad una frontalità paradossalmente mirante verso l’alto.  Non per niente, Guénon (ib., p.119) parla di Giano come non soltanto del ‘Signore del Triplice Tempo’, ma addirittura del ‘Signore dell’Eternità’.  Giano in effetti non è che il Brahman e la sua metafisica, checché ne dica qualche scettico, è l’equivalente latino della  metafisica brahmanica.  Di certo, chi confonde l’ontologia upanishadica col panteismo, non ha compreso quasi nulla né di questa né di quella latina.

379)      Dumézil (ibid. come alla 372, §1, pp.290-1) fa in apparenza di Giano il dio degli inizi, sennonché dichiara poi (ib., p.293): “…Giano è collocato nel tempo storico al posto che gli spetta: cioè agli esordi.  Si diceva che egli fosse stato il primo re del Lazio, re di un’età d’oro, in cui uomini e dei vivevano assieme (Ov. F., 1, 247-248)”.  Ivi inserisce una nota su quella che definisce la “pseudo-storia del Lazio primitivo”.  E continua: “Entrato così nella «storia», Giano ricevette i complementi consueti di una vita umana: moglie, figli, amici, che qui hanno poco importanza.  Altre versioni si spingono ancora più lontano: quando il Chaos dei Greci fu noto anche a Roma, i pensatori romani attribuirono a Giano la sua stessa posizione primordiale.”  È difficile fraintendere una divinità ed un sacro contesto in cui essa è inserita maggiormente di quanto abbia fatto l’autore francese.  Del resto, ciò s’inserisce sulla medesima linea di pensiero che fa della cd. ‘triade capitolina’ – ma il primo termine è sbagliato, poiché si tratta semmai d’un triregnum alla maniera greca – l’unico caposaldo della struttura arcaica della religione romana (P.I sgg), buttando a mare ogni dottrina ciclica tradizionale, aggiunge in modo totalmente assurdo un poco piú oltre: “…Questo aspetto fu poi accentuato dai poeti, …come per esempio Settimio Sereno …che chiamò Giano …principium deorum.  E in ultimo il dio venne presentato come «la più antica divinità indigena dell’Italia» (Herodian. 1, 16, 1), «il primo degli antichi dei che i Romani chiamavano Penati» (Procop. B. Got. 1, 25).  Partendo precisamente da questi testi, e dimenticando che essi sono soltanto riferimenti ad alcuni fra i molti prima tutelati dal dio, vari studiosi hanno costruito la singolare teoria che fa di Giano realmente un dio più antico di Giove, il «dio principale» della più antica religione, il quale sarebbe stato posto in secondo piano rispetto a Giove da una «riforma»”.  Che dire dinanzi a tanta incomprensione?  Dumézil parte dal concetto che i prima erano attribuiti a Giano ed i summa a Giove, il che è vero, per il fatto che un conto è un dio primevo ed un conto un dio supremo.  La primazialità indica una fase temporale o meglio ciclica di dominio, la supremazia un dominio nell’ambito d’un determinato pantheon.  Non si può confondere le due cose, come han fatto spesso gli storici delle religioni, Pettazzoni compreso.  D’altronde la precedenza di nascita è un fattore che è valso da sempre nella storia umana, soprattutto in ambito giuridico, tranne oggigiorno; in campo divino, ad imitazione di quello umano, è valso il medesimo principio.  La stessa suddivisione in caste, che Dumézil ha deformato a suo uso e consumo teorizzando un trifunzionalismo etnico di stampo indoeuropeistico anziché limitarlo all’ambito strettamente sociale, è valida solamente in ragione della maggior antichità d’una casta sull’altra. 
380)      Guén., op.cit., §16, p.109.
381)      Publio Ovidio Nasone (a c. B.Riposati-A.Manzo-L.Goracci), Le Metamorfosi- Bietti, Basiano [Mi] 1973, L.XIII, p.469 ss.
382)      Non per nulla nella Cantica Prima (vv. 63-72) del Paradiso l’Alighieri paragona la trasformazione di Glauco in uomo-pesce nel gustar dell’erba a quella di lui che mirando negli occhi Beatrice, la quale tutta nell’etterne rote fissa stava.  Questa esperienza interiore è definta in tali termini: «Trasumanar significar per verba/ non si poría; però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba.»
383)      Oggi il posto è conosciuto come ‘Rupe di Ulisse’, nei cui pressi si stende il borgo di Scilla, fondato dai Tirreni e poi passato ai Greci.
384)      A.Grossato, Il Libro dei simboli. Metamorfosi dell’umano tra Oriente e Occidente- Mondadori, Milano 1999, Cap.VI, §43, p.153.
385)      L’identificazione fra Glauco e Proteo, quali varianti del ‘Vecchio del Mare’, è suggerita anche da Graves (ibid. come alla 122).
386)      Wikimedia Commons, enc.fig. on line, s.v.URBINO (PIATTO CON GLAUCO E SCILLA, da Ovidio, 1570 a.C.).
387)      Wikim., s.v.: GLAUCUS ET SCYLLA-AGOSTINO CARRACCI-1595-FARNESE GALLERY-ROME.
388)      Wikim., s.v.: GLAUCUS-ET SCYLLA-JACQUES-DUMONT-ROMAIN-MUSEE-TROYES.
389)      Wikim., s.v.: BARTHOLOMÄUS SPRANGER 006.
390)      Wikim., s.v.: LAURENT DE LA HYRE-GLAUCUS AND SCYLLA.
391)      Wikim., s.v.: PETER PAUL RUBENS-SCYLLA ET GLAUCUS. 
392)      Wikim., s.v.: SALVATOR ROSA GLAUCUS AND SCYLLA 15092012421.
393)       Wikigallery.org., s.v.: GLAUCUS AND SCYLLA by FILIPPO LAURI.
394)      Wikim.C., s.v.:VACCARO NICOLA-1637-1717-ITALY-GLAUCUS-FLEEING-FROM- SKYLLA-TH.
395)      Wikim., s.v.: JOSEPH MALLOR WILLIAM TURNER, ‘GLAUCUS AND SCYLLA’, 1841.
396)      L’intero complesso è esaminato fotograficamente, pezzo per pezzo, in Wikim., s.v.: FONTANA DELLE NAIADI.
397)      Molto importante il fatto che, in alternanza a Scilla, Glauco amasse Arianna; l’allusione nel secondo caso, anziché alla Rivelazione del Paradiso Polare o alla Tradizione dell’Età Argentea, è alla ritualità dionisiaca dell’Età Ferrea.
398)      Wikim., s.v.: GIAN LORENZO BERNINI, NETTUNO E IL TRITONE, 1622-23 c..
399)      Il Cardinal Alessandro Damasceni Peretti, nipote di Papa Sisto V, era di Montalto di Marche e veniva denominato Cardinal di Montalto.  
400)      A.Cocchi, Fontana del Tritone, articolo on line.

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