martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Capitolo II






Cap. II

Il culto misterico del Delfino,
 dall’India alla Grecia




a)  Il problema degli apporti etnoculturali
all’Induismo storico: Paleo-dravidi ed Indoari

Gli studiosi di orientalistica sono stati ossessionati, dopo la scoperta della Civiltà dell’Indo nel 1922, dalla contrapposizione fra la cultura dravidica e quella indoaria in una maniera che difficilmente poteva corrispondere al vero.  Ovverossia, a quanto la tradizione storica indigena ci aveva proposto.  A poco era valso l’insegnamento di Guénon (1), premuratosi a suo tempo di far notare che al di là del razzismo eurocentrico d’epoca post-coloniale, comunque fossero andate le cose in passato, l’induismo costituiva la fusione di una doppia cultura, fusione dunque e non scontro.  I cultori del Veda hanno cercato di dimostrare infatti che quasi tutto in India derivava dalla cultura aria, confondendo ancora una volta in tal modo – come già nel secolo precedente – la cultura colla lingua, mentre i sostenitori del pan-dravidismo hanno assunto l’atteggiamento opposto.  Da parte nostra vorremmo qui prendere le distanze, sebbene in modo equilibrato, da questa esagerata contrapposizione.  Pur dovendo riconoscere che questo doppio binario di studi ha favorito l’esame dettagliato di tutti e due i fronti culturali, esistono dei fattori che ci portano a considerare l’India pre-dravidica e le sue influenze sull’induismo assai maggiori di quel che si sarebbe spinti a credere di primo acchito.  Ciò è il frutto soprattutto delle ricerche paletnologiche, etnografiche ed antropologiche, le quali han messo in risalto direttamente od indirettamente la cultura degli abitanti tardo-paleolitici dell’Eurasia oltre a quella degli arcaici abitanti dei Mari del Sud.  Non si deve, però, pensare che gli antichi fossero del tutto all’oscuro delle loro origini e della provenienza delle loro tradizioni.  Vi sono fattori culturali nell’induismo che testimoniano l’esatto contrario, seppur avvolti dalle nebbie dei miti e delle leggende. Dato che tali fattori culturali a ben guardare non sono reperibili soltanto nella mitologia indiana, ma anche in molte altre mitologie affini (iranica, ellenica, latina ecc.), non possiamo esentarci dall’analizzare brevemente di che cosa si tratti veramente.
Prima occorre però fare una premessa.  Quando utilizziamo i termini ‘anario’ ed ‘anellenico’, fatti propri negli Anni ’40 dalla scuola mediterraneista del Pestalozza e da quella indo-mediterraneista di Padre Heras (2), facciamo appello ad un sostrato pre-ario e pre-ellenico che costituiva de facto un amalgama di popoli di varia natura, colle loro tradizioni distinte: Proto-europei cromagnoidi (3) e Proto-pelasgi in Grecia, Austronesiani, Proto-asiatici cromagnoidi e Paleo-dravidi in India.  Essendo gli Austronesiani e i Cromagnoidi i ceppi maggiormente vetusti (Paleo-asiatici a parte), è chiaro che dovette esservi uno scambio etnico di ceppi minoritari fra Asia ed Europa, presto riassorbito del resto dalla popolazione (4).
Nello schema cronologico sinora accettato l’arrivo di Paleo-dravidi e Proto-pelasgi (5), in altre parole del ceppo camitico, nei rispettivi luoghi di stanziamento definitivo e la loro parziale ibridazione cogli antichi abitatori dell’Eurasia non ha ricevuto molta attenzione.  Il loro percorso paletnologico è posto nell’indeterminatezza del Mesolitico o del Neolitico, senza troppa cura, benché costituisca un problema fondamentale per un’esatta comprensione del periodo protostorico successivo.  Per fortuna l’archeologia marina ha dimostrato che presso le coste dell’Oceano Indiano, nelle sedi storiche del krishnaismo, è  esistita una civiltà databile a tempi mesolitici ed assai piú antica di quella dell’Indo.  Nonostante il fatto che quest’ultima appaia visibilmente apparentata ad essa.  Ciò prova quindi che le tappe culturali e cronologiche delineate dalla dottrina cosmologica indigena (in particolare da quella avatarica), in questo caso la trasformazione kaliyughica (in termini archeologici, neolitica) da un ambiente vishnuita di tipo krishnaita ad uno in prevalenza shivaita e shaktico, non è una mera congettura o peggio un dato fantastico.  Siffatta trasformazione non riguarda esclusivamente la cultura e l’arte, ha un risvolto pure sociale ed economico.  Dacché termina coll’inizio del Kaliyuga il dominio dei Vaiśya, cioè dell’elemento per cosí dire <borghese>, che aveva avuto la meglio nella Guerra di Bhārata (vinta dai relativamente sedentari mercanti e produttori mesolitici sui pastori e cacciatori nomadi paleolitici); ma da quel tremendo agone le genti dei borghi ne erano uscite devastate, impoverite.  Per vincere i loro titanici avversari avevano in tutta evidenza dovuto usare un’arma a quel tempo proibita in combattimento dalle leggi dell’onore, la scorrettezza.  Il dominio dell’homo faber, che nel Mesolitico aveva sostituito pian piano nel corso della sua ascesa millenaria il villaggio e poi il borgo all’accampamento tribale del Paleolitico, sino ad allora era durato incontrastato per millenni.  La dottrina ciclica ci tramanda per quasi 13.000 anni (6).  A quel punto sono sorte in tutto l’arco geografico indomediterraneo le prime città-Stati lungo i corsi dei grandi fiumi, subentrando al loro interno – cinto da mura per renderne indipendente il territorio e difenderlo dalle orde barbariche degl’invasori – nuove stratificazioni popolari; ciò deve essere necessariamente avvenuto non solo presso l’Indo ma anche, sebbene in maniera meno massiccia a quanto risulta dai dati archeologici, nelle vicinanze degli altri grandi fiumi.  Era cominciato intanto, a Kaliyuga inoltrato (dal 4.480 a .C. in poi), l’essicamento della Sarasvatī.  Il nuovo elemento popolare darà luogo alla formazione d’una casta prima inesistente (7), quella degli Śūdra (8), svolgente mansioni servili.  A tale classe sociale, prettamente plebea nel carattere e nelle attitudini, saranno appaiati sul piano delle Generazioni Umane i Manava (‘Uomini’); così come ai Vaiśya, o se vogliamo agli Ārya,  erano abbinati i Deva (‘Dei’).  
Se l’arrivo dei Paleo-dravidi è lasciato nell’indeterminato, la presunta invasione indoaria è posta dagli indologi occidentali con spirito eurocentrico in una data sempre piú prossima al I mill. a.C., quasi a giustificare ante litteram il colonialismo d’epoca moderna e contemporanea.  La scoperta alla fine del XX sec. dell’essicamento della Sarasvatī, a partire da c.6.000 anni fa, ha ad ogni modo riportato in discussione il discorso sulla data oggettiva d’entrata in India delle truppe indoarie.  Tanto che gli studiosi locali, vessati da anni di contrapposizione etnoculturale fra Ari e Anari e dal danno sociale per la comunità odierna che il riverbero di questo pseudomito ha prodotto all’interno dell’India democratizzata post-gandhiana, hanno preferito eludere il problema dell’ingresso sul suolo indiano di codesti due ceppi affermando che erano colà dalla notte dei tempi.  Un assurdo ovviamente, storicamente parlando, ma del tutto comprensibile sul piano pratico.  Di certo, l’India del Tardo Paleolitico non era abitata né da Dravidi né da Indoari.  Abbiamo visto nel capitolo precedente come l’ingresso dei Paleo-dravidi nel Deccan sia di necessità avvenuto in epoca mesolitica, giacché costoro sono stati artefici della civiltà sommersa di Dvārakā, di cui sono state reperite tracce a livello archeologico-subacqueo nel ventennio a cavallo fra il XX ed XXI sec.  Non si tratta quindi solo d’una leggenda relegabile ai sogni mahabharatiani, come qualcuno avrebbe magari voluto sottintendere (modernisti indiani compresi), bensí d’un vero e proprio mito diluviale; posteriore al Diluvio Atlantideo tramandato da Platone (9) ed identificabile, semmai, al Diluvio Deucalionico di cui parla la tradizione greca (10).  Anche Platone (Tim.- iii. 22.b) vi fa cenno.  Invece il Diluvio Ogigio può esser interpretato come un’inondazione minore (11), a meno di assimilarlo ad uno dei due suddetti (12).
L’ingresso degli Indoari viceversa, appare assai piú problematico.  Vi sono ragioni egualmente valide al momento, abbiamo già visto, per ritenere che esso sia coevo a quello dravidico (13) o di poco posteriore, sia per accettare la datazione comunemente indicata dagli storici contemporanei (14).  Bisogna comunque fare delle precisazioni e, di conseguenza, delle distinzioni.  Poiché potrebbe non esser piú valido quanto dichiarato una volta da Padre Heras, ovvero che “the existence of the Dravidian peoples prior to the Āryan invasion is a fact admitted by all”.  Lo spostamento degli Indoari viene dall’orientalistica ufficiale strettamente associato alla compilazione del gveda.  Il problema è che questo testo non conosce un animale tipicamente indiano, la tigre.  Come mai menziona allora piú volte la Sarasvatī, un fiume essicato oltre 6.000 anni fa?  O tale essiccamento è relazionato al mutamento di condizioni climatiche susseguenti al Diluvio di Dvārakā citato dal Mahābhārata?  Gl’indologi non paiono pensarlo, danno altre spiegazioni climatiche, ma l’ipotesi non è ad ogni modo da escludere.  Sta di fatto, perciò, che chi ha elaborato il piú antico dei 4 libri vedici conosceva la parte settentrionale del subcontinente indiano, pur non avendo esperienza di altre zone dell’India come le giungle del Nepal o del Bengala, ove la tigre era diffusa.  Una mancanza di notizie dettagliate sul territorio prossimo a quello di stanziamento è tipico di genti provenienti da altri luoghi.  La vecchia tesi d’una provenienza centroasiatica indeterminata, cui personalmente non crediamo se non quale fase finale del percoso, è stata ripresa in forma nuova prima dalla Gimbutas e poi dal Parpola  (15) ed altri.  In ciò Tilak appare un pioniere, benché ormai superato almeno nell’idea del loro habitat polare originario (16); mentre la tesi della provenienza occidentale, precisamente caucasica, fino a non molto tempo fa era la piú accreditata anche a livello accademico (17).
Da parte nostra siamo convinti che la giusta prospettiva sia quella offerta dalla ‘Bibbia’, sia pur cogli aggiustamenti dovuti in base agli insegnamenti delle scienze moderne; pensare che fin dall’antichità sia esistita una razza a parte, cosí è dipinta la stirpe indoeuropea sostanzialmente nei rigurgiti filo-nazisti di certo celato teosofismo contemporaneo, e che i compilatori del sacro testo ebraico non se ne siano mai accorti, sarebbe davvero ridicolo.  Nella Genesi gl’Indoeuropei non sono stati contemplati ed al loro posto troviamo il ceppo iaphetico, disceso da Noè esattamente come il ceppo semitico e quello camitico.  Quindi, secondo la prospettiva biblica, la provenienza di tal ceppo non può che essere occidentale (18).  Nello stesso tempo Platone ci tramanda tuttavia attraverso l’avo Solone (il quale era un grande e nobile legislatore, non un ciarlatano od un utopista ante litteram), casualmente venuto in contatto colle conoscenze sacerdotali tramesse minuziosamente nei templi egizi, di una stirpe europea di uomini distinta dalle genti dimoranti oltreatlantico; una stirpe meno evoluta tecnologicamente, dato che non era in grado a differenza dell’altra di attraversare l’Atlantico e portar battaglia nelle lontane plaghe d’un oceano un tempo diverso da quello odierno e definito addirittura “navigabile”, ma che era tanto forte e coraggiosa in combattimento da surclassare orgogliosamente avversari meglio dotati dal punto di vista bellico.  Questa stirpe non poteva che coincidere con quei primitivi abitatori dell’Eurasia chiamati dalla paleontologia “Cromagnoidi” (19), fisicamente piú alti e robusti e quindi piú potenti nella lotta corpo a corpo.  In tempi neolitici si rintracciano in Europa 3 nuovi ceppi (20), i quali non possono esser altro che il frutto d’ibridazione (21) dei nuovi venuti dall’Atlantico (i 3 rami della stirpe noaica, probabilmente tutti di aspetto brachicefalico) con i Protoeuropei (i dolicocefali paleolitici).  Come d’altronde ha ammesso da un punto di vista totalmente diverso dal nostro il genetista di popolazioni Cavalli-Sforza (22), è probabile sia avvenuto fra il Mesolitico ed il Neolitico un incrocio (23) della popolazione tardopaleolitica europea con quella mediterranea.  Ed è possibile sia accaduto, in parallelo, anche in Asia fra le popolazioni cromagnoidi centroasiatiche e quelle dei nuovi arrivati del Vicino e Medio Oriente.
Le caratteristiche fisiche e culturali dei Proto-europei, idealizzate e banalizzate ad un tempo, hanno finito in epoca moderna e coloniale per essere attribuite ai presunti Proto-indoeuropei; ma essi andrebbero allora meglio definiti ‘Proto-eurasiatici’ (diversi dai Paleo-asiatici, ancor piú ancestrali di loro), poiché anche in Asia erano stanziati in una zona a vasto raggio.  Cosí intesi, gl’Indoeuropei sarebbero realmente distinti dagli Iapheti, proverrebbero realmente dall’Asia Centrale e tutto ciò che abbiamo negato agli uni lo potremmo comodamente associare agli altri.  Persino sul piano mitologico presto ci accorgeremmo che le cose stanno proprio in tal maniera, ad esclusione dell’uso del vasellame in ambiente domestico, dell’utilizzo di carri trainati da cavalli per gli spostamenti e della pratica metallurgica (il  ferro soprattutto).  Questi appena menzionati sono infatti i  tratti tipici dei discendenti di Iaphet, non dei loro predecessori, che per ora lasciamo ancora un po’ nell’indeterminato d’una mancata connotazione mitica.  Vide infra.
La questione indoeuropea non poggia unicamente sul problema della provenienza geografica degli Ari e della loro connotazione etnolinguistica, facilmente risolubile su base biblica ma insolubile altrimenti; vi è anche il problema della datazione dei loro spostamenti e, volendo considerarli un’etnia vera e propria relativamente ai tempi antichi (dai tempi medievali non lo sono piú a causa dei troppi connubi subiti dalla popolazione euroasiatica in seguito alle varie invasioni barbariche), occorrerebbe intuire almeno quand’essi siano giunti nelle loro sedi storiche d’appartenenza.  Abbiamo visto sopra come ciò non sia esattamente possibile, per via dei numerosi dati contrastanti nel campo.  Non resta altro da fare quindi che spostarci sui contenuti dei libri sacri e desumere da questi la data della loro compilazione orale.  Rimangono indubbiamente valide a tal proposito le argomentazioni di Tilak circa l’alta antichità degl’inni rigvedici.  Dimostrando in Orion l’aggancio di molti miti vedici alla mitologia orionica e pleiadica, lo scrittore marathi ha spostato inoppugnabilmente all’indietro rispetto alle supposizioni errate dei contemporanei – in ciò essendo stato coadiuvato da Jacobi – il tempo di creazione letteraria degl’inni.  Gliene va dato atto, ancor oggi, comunque lo si voglia giudicare.  Le ulteriori speculazioni in ‘Arctic Home’ sono piú problematiche, personalmente non ci convincono del tutto.  Grave è stato l’errore di confondere il tempo dei i col tempo degli Ārya.  Eppure, in nessuna parte del Veda i i (24) sono stati identificati agli Ārya.  Di certo il pensiero di Tilak, come avviene inevitabilmente per tutti gli scrittori, risente fortemente dell’epoca di stesura dei suoi scritti (25).
Tornando al gveda, è chiaro che la data di redazione scritta del testo non può aver a che fare necessariamente colla data d’arrivo sul suolo indiano degli Ārya.  Delle genti che arrivano da terre straniere non si mettono a compilare libri non appena stanziate in un nuovo territorio.  Presumibilmente lo fanno almeno 300-400 anni dopo.  Se l’ultima ondata aria è giunta in India attorno al 1.200 od al 1.000 a.C., è probabile che l’ultima redazione dei testi ad opera d’appositi scribi brahmanici sia avvenuta fra il 900 ed il 600 a.C c.  Le scuole di i (26) che avevano formulato gl’inni in principio, è chiaro, erano tutt’altra cosa.  A loro va attribuita la suddivisione ideale fra inni dedicati ad Orione, ad Aldebaràn, alle 6 Pleiadi od ai successivi che con grande intuito Tilak ha delineato nella sua prima opera (27).  Non corrispondendo piú alla realtà quotidiana il dato astrologico oggetto di speculazione simbolica (una volta inscindibilmente connesso alla pratica sacrificale), per via dello spostamento processionale, la stesura scritta dei libri sacri da parte degli scribi dovette evidentemente adattarsi ad esigenze storiche e politico-sociali.  L’esigenza maggiore era quella di conservarli intatti in una terra e in un ambiente nuovi.  In secondo luogo si doveva per forza di cose giungere ad un compromesso colle tradizioni locali, il che spiega l’ampio attingere del Veda alle fonti anarie.   

Il processo di compilazione scritta dei testi sacri in epoca protostorica non può metter in ombra il fatto che il gveda incorpori maṇḍala ideati per celebrare il trionfo del Punto Vernale.  La presenza vernale di Orione, Aldebaràn e le Pleiadi ha chiaramente un significato cosmologico, non astronomico, come riduzionisticamente intendeva Tilak.  Sta di fatto ad ogni modo che in termini di calendario lunare i periodi astrologici ai quali fanno riferimento gl’inni vedici, in relazione all’Anno Sacro (Yajña) ed all’inizio effettivo del Kaliyuga (quest’ultimo non contemplato da Tilak se non in  maniera imprecisa)(28), siano i seguenti: a) Punto Vernale in Mgśiras (Orione): 4.744-3.784; b) P.V. in Rohiṇī (Aldebaràn): 3.784-2.824; c) P.V. nelle Kttikā (Pleiadi): 2.824-1.864 (29).  Tale precisa calendarizzazione (30) ci permette di relazionare piú precisamente il tempo di compilazione orale degl’inni coi luoghi descritti in essi, pur tenendo conto d’un margine di probabilità che alcune parti degli stessi siano state tardivamente interpolate.  Basta analizzarli a grandi linee.  Pertanto è facile constatare che tanto gl’inni orionici quanto quelli aldebaranici menzionano continuamente accanto ai bovini gli equini come normali bestie da soma oltreché sacrificali.  Ciò significa che l’utilizzo del cavallo e dei carriaggi – evidentemente anche per uso bellico o parzialmente agrario, benché la pastorizia di tipo nomadico risulti naturalmente dominante – non è affatto recente, ma risale almeno al Mesolitico (31).  Sebbene infatti gl’inni rigvedici facciano riferimento generalmente ma non sempre ai tempi neolitici, non abbiamo l’impressione alla lettura di trovarci di fronte ad una invenzione dell’ultim’ora.  Non si nota del resto negli inni pleiadici una grande evoluzione tecnica rispetto ai precedenti, segno che l’economia pastorale alla quale le genti vediche erano soggette era già abbastanza stabile all’inizio del Neolitico.  Un quadro di vita vissuta e delle sue implicanze sia a livello cultuale che economico ci è offerto dal Papesso nella sua magnifica seppur a tratti ingenua Introduzione al gveda, che è in pratica un ampio articolo sul tema (32), quantunque datato.  Il Papesso (33) sostiene che parrebbe il Panjāb Orientale, la ‘Terra dei Cinque Fiumi’, l’ambientazione ideale del testo rigvedico a livello di paesaggio e condizioni climatiche.  In effetti, se è vero che non vengono menzionate città o villaggi, al fine d’una localizzazione precisa si fanno però i nomi dei fiumi.  In x. 75, 1 viene esaltato l’Indo (scr.Sindhu) come il piú potente in portata d’acque.  Ad esso, avanzante come toro che muggisce, accorrono gli affluenti, quali madri che cercano i loro figli o vacche desiderose d’allattare (vv. 3-4).  Ai vv. 5-6 vengono nominate la Kubhā (Kabul) ad ovest e ad est la Gagā, la Yamunā e la Sarasvatī.  Il vs.6 cita 4 affluenti di sinistra dell’Indo uno per uno: Śutudrī (Sutlej), Paruṇī (Ravi), Asiknī (Chenab), Vitastā (Jhelum).  Manca solo la Vipās (Bias), con cui formavano i Pacanāda.    Il vs.7 dichiara l’Indo “ricco di cavalli, di carri, di tessuti, d’ornamenti d’oro, di alimenti, di lana” e di speciali piante da cordame.  Il che è un modo per indicare i commerci in tali settori.  Ora, è vero che il X Maṇḍala è ritenuto dagli esperti di lingua vedica maggiormente tardo rispetto agli altri, ma non si può certo pensare che l’ambientazione dell’inno risalga al II od al I millennio a.C.  Se viene ricordata la Sarasvatī, quale fiume sullo stesso piano della Gagā e della Yamunā ma meno importante dell’Indo, non può essere altrimenti; tal fatto non può risalire ad una data piú avanzata del III millennio, allorché il progressivo essiccamento della Sarasvatī è andato a vantaggio dell’Indo (34).  Un’altra cosa che si nota, altresí, nei c (‘versi laudativi’) è l’alterigia con cui vengono trattati i Dasa o Dasyu.  Il vocabolo significa ‘Servo’, ma è la probabile corruzione di Dāśa (‘Pescatore’).  Da quanto ora detto deduciamo che lo scontro fra costoro e gli Ārya era già in atto nel Periodo Orionico, cioè uno o due millenni prima della cd. ‘Antica Civiltà dell’Indo’.
Gl’Indoari, data per scontata a questo punto sia la loro distinzione rispetto ai i primordiali ed ai Proto-eurasiatici cromagnoidi sia la loro provenienza oltreatlantica come per tutte le stirpi iaphetiche, sono penetrati nel Deccan dopo aver composto oralmente il gveda o prima?  Il contenuto cultuale dei sūkta (’inni’) varia dalla serie di miti ancestrali – precisamente dvaparayughici – riguardanti le Aurore, nei quali è coinvolto Indra (vedi liberazione delle <Vacche> tenute prigioniere in una grotta dai Pai) in conflitto col demone Vala (35), a quelli kaliyughici concernenti Soma.  I primi necessariamente risalgono ad una sede circumpolare quale potrebbe essere stata per es. la Groenlandia.  Oltretutto Indra, il capo dei Marut (cfr. collo Ζεύς Πίκος greco od il Pīcus Mārtius latino)(36), appartiene alla Terza ‘Generazione Divina’; prima di lui sono  venuti rispettivamente Varua (Ορανός) e Agni (Φορωνεύς)(37), dalla triplice natura (38).  All’inizio del Kaliyuga, invece, la staffetta passa in mano a Soma (Orione)(39) ed i miti orionici divengono dominanti.  Ma fra gli uni e gli altri ci sono di mezzo altri miti legati a periodi intermedi.  Se il mito polare della Liberazione delle Vacche (Aurore) può astrologicamente esser collocato nell’Era del Leone (10.960-8.840 a.C.)(40), allorquando al Discendente del P.V. vi era l’Aquario, quello di Aditi (41) e Daka va ascritto all’Era del Cancro (8.840-6.640)(41), allorché al Discendente trovavasi il Capricorno.  Daka ha infatti, Testa di Capra (42).  I ben 54  sūkta secondo il Papesso interamente dedicati agli Aśvin, i fatidici “cavalieri dell’aurora”, risalgono invece all’Era dei Gemelli (6.640-4.480 a.C.)(43).  Non meno dei Dioscuri greci, ai quali erano egualmente associati i cavalli (44), il nome degli Aśvin (da aśva = ‘cavallo’) testimonia direttamente la presenza d’equini presso i compilatori di quegl’inni.  A conferma decisiva che il cavallo era un animale domestico già nel Mesolitico.  Visto che, come vedremo nei prossimi paragrafi a proposito di Paraśurāma e dei suoi omologhi in Grecia ed in Persia, le leggende persiane spostano se non proprio l’addomesticamento almeno la domatura equina persino molto piú addietro nel tempo.  Addirittura oltre 25.000 anni fa.  Gl’inni composti durante l’Era del Toro (4.480-2.320 a.C.)(45) hanno badato ad esaltare Orione e Sirio, Aldebaràn e le Pleiadi, siccome costellazioni allora apportatrici in primavera mediante le piogge di fecondità al bestiame e fertilità al suoli (46).  Si spiega cosí non solamente l’importanza nel gveda nonché nell’Avesta degl’inni dedicati al giallo o rosso Soma, la bevanda inebriante ottenuta da un arbusto montano oggi ignoto, il cui rito di spremitura era volto magicamente ad ottenere le piogge (47); ma anche perché mai alcuni altri illustrino l’annientamento d’un demone della siccità, variamente denominato, da parte di un Indra kaliyughicamente riadattato.  Indra, è ovvio, in questo mito non può che alludere cosmologicamente a Sirio e Vtra, Namuci ecc. ad Orione.  I miti relativi ad Orione, Aldebaràn e le Pleiadi sono stati commentati splendidamente da Tilak (48) e ad essi rimandiamo.  Ricordiamo unicamente la convinzione da parte dello scrittore marathi che la suddivisione dello Zodiaco Lunare in 27 porzioni da parte dei sacerdoti vedici in quei lontani tempi non fosse strettamente matematica (cioè di 13°20’), bensí posizionale (osservando quale gruppo di stelle fisse fosse maggiormente prossimo ai due luminari)(49).     



b)  Riepilogo sul popolamento del Deccan da parte degli Ārya: loro connessioni col Rgveda

Abbiamo constatato dapprima che gli Ārya non sono autoctoni dell’India, diversamente da come intende la maggior parte degli studiosi locali.  C’è anzi la grande probabilità che, essendo un ramo  di stirpe iaphetica, non provengano neanche  dall’Asia; bensí, se i nostri calcoli sono giusti, da una terra oltreatlantica.  Non stiamo ad indagare ulteriormente quale possa esser stata questa sede, non è compito di codesto scritto rintracciarla esattamente, fermo rimanendo il fatto che debba essersi trattato d’una sede per forza di cose circumpolare.  (Non artica, però, come pretendeva Tilak.)  Perché ciò è chiaramente indicato dai miti vedici delle Aurore, basati in tutta evidenza sulle lunghe albe delle lontane plaghe sub-polari; oltreché sul mito avestico del Vara (‘Recinto’) di Yima, che non è naturalmente il Giardino Paradisiaco propriamente detto.  Insomma, l’Ilāvta hindu.  L’emigrazione aria dalla sede originaria è dovuta ad un cambiamento climatico, conseguente ad un cataclisma.  Bisogna a tal proposito distinguere fra il vero e proprio Diluvio Atlantideo, da Guénon collocato per interposte parole attorno al 10.960 a.C. in base a vari dati dei quali lo scrittore francese nel suo consueto stile scorpionico amante dei segreti non fa aperta menzione, ed il fenomeno di sicuro ad esso collegato ma posteriore che produce un congelamento nella sede aria e la rende inabitabile.  Quest’ultimo è probabile abbia a che fare col cd. ‘Diluvio di Ogigia’, il fenomeno probabile che ha fatto scomparire il Tir na nOg, la leggendaria ‘Terra di Giovinezza’ celtica.  Si può ad es. immaginare che che lo spostamento della Corrente del Golfo dall’America Settentrionale all’Europa abbia fatto sgelare delle terre prima ricoperte dai ghiacci, provocando da un lato dell’Atlantico un’inondazione secondaria rispetto a quella atlantidea.  Mentre intanto, dall’altro lato dell’oceano, la cd. ‘Atlantide Iperborea’ (a nostro giudizio soltanto la Groenlandia possiede un’estensione geografica tale da poter assumere siffatto ruolo) andava sempre piú congelandosi.  Una fenomenica del genere spiegherebbe la confusione fra le due inondazioni, atlantidea od ogigia, sí da generare negl’informatori egizi dell’avo di Platone l’idea che l’inondazione fosse stata unica.  Invece col Diluvio Atlantideo si conclude il Ciclo Occidentale (VIII Ciclo Avatarico), che è nel contempo la seconda metà del IV Mahāyuga (Grande Anno).  Dopodiché seguirà il Ciclo Nordoccidentale IX Ciclo Avatarico), che però avrà 2 fasi; la prima sul lato nordoccidentale dell’Atlantico, la seconda fra il Mediterraneo Orientale e l’Indo.  Guardacaso a mezzo fra queste fasi, paletnologicamente parlando, terminerà il Paleolitico in Europa e comincerà il Mesolitico; che avrà relativamente breve durata, poiché a fine ciclo inizierà il Neolitico, ancor piú breve.  Per via del suddetto congelamento, coagulante probabilmente in un unico sforzo di sopravvivenza – stando alla cosmografia biblica – i discendenti del Ciclo Atlantideo sudoccidentale ed occidentale (Camiti, Semiti) e di quello Atlantideo-iperboreo (Iapheti), questi ultimi essendo stati costretti ad abbandonate le zone circumpolari spingendosi a ridosso degli altri prima di spostarsi sul lato opposto dell’oceano, il centro culturale e stanziale degli Ārya (‘Eroi’) passa piú o meno dal Nordamerica all’Eurasia Meridionale.  Quivi si svolgono i passaggi contemplati nel gveda dall’Era del Leone a quella del Toro (50).  Non sappiamo esattamente se essi nella loro migrazione oltreatlantica si siano spoastati in massa o a poco a poco.  La Genesi descrive un’unica traversata, ma è chiaro che si tratta d’una idealizzazione dei fatti realmente accaduti; poiché l’immane gesto ha assunto un valore allegorico, non può avere quei connotati assai poco realistici.  Bisognerebbe raccogliere dati in proposito, anche a livello folclorico, vagliando tutte le varianti della leggenda giudaico-cristiana del Diluvio e confrontandole con le tradizioni di altre genti camitiche, semitiche e iaphetiche per avere una visione maggiormente aderente alla realtà storica (51).  Rimane ancora il problema se interpretare i <Figli> di Noè come delle stirpi già formate prima della traversata oceanica, oppure considerarle il frutto di commistioni etniche avvenute dopo lo sbarco in Armenia (52).  Ammesso che sia questa la zona principale di sbarco e non la costa atlantica europea, secondo quanto si potrebbe dedurre da certi riti gitani (53).
Si può immaginare in ogni caso che le 3 Stirpi dipinte dalla leggenda come triplice prole d’un unico padre, senza dubbio fra loro distinte già in partenza, si siano stanziate in territorl confacenti alle loro esigenze climatiche.  Quindi, se seguiamo la traccia degli spostamenti iaphetici giungiamo a grandi linee da un lato verso l’Iran, l’India o la Cina; dall’altro, verso il Mediterraneo od il Baltico.  Grosso modo sono questi i due segmenti divergenti dei popoli di lingua indoeuropea, che qualcuno ha definito in passato kentum e satǝm in base alla forma lessicale del numero ‘cento’ in queste varie lingue.  Non è facile reperire nelle varie letterature indoeuropee qualcosa che renda conto, in maniera esplicita, della prima fase d’espansione delle genti arie.  Adottando ad imitazione di Tilak il metodo processionale, che lui chiama “l’infallibile orologio del cielo”(54), si ha invece a disposizione un preciso archivio naturale che non deve esser sottovalutato.  Basta saperlo comprendere nelle sue pieghe talora nascoste, indagando con sottigliezza nella sfera del mito.  Cosí facendo, si può asserire che sino all’Era dei Gemelli la tradizione indiana e quella greca paiono combaciare, od almeno non sembrano divergere di molto.  Segno che il ramo orientale e quello occidentale degli Iapheti non si erano ancora del tutto separati.  All’inizio dell’Era del Toro, ovvero del Kaliyuga (Età del Ferro)(55), i rami iaphetici vari si avviano per contro verso la dispersione dei ceppi.  Cosa su cui pressappoco era d’accordo anche Tilak, uso del termine ‘indoeuropeo’ a parte.  Dal canto nostro siamo convinti che ciò sia avvenuto probabilmente in conseguenza dell’ultima grande inondazione ciclica, tramandata dagl’Indiani quale Diluvio di Dvārakā e dai Greci come quello di Deucalione.  La fase indo-iranica pare al contrario ancora in atto a quest’epoca, visto che il culto avestico dello Haoma equivale perfettamente a quello rigvedico del Soma.  Sono le tradizioni orali che contano in tal senso e le tradizioni testimoniano, se non una fonte comune al gveda e all’Avesta, almeno una comunità d’intenti rituali e di significati simbolici fra le due fedi.  Il ragionamento fatto per un testo vale spesso pure per l’altro, essendovi molti paralleli possibili.  Se compaiono in essi anche delle forti diferenze, queste sono dovute alla riforma zoroastriana, che ha cambiato in tempi storici certi connotati del vecchio culto iranico.  Il fatto che Aristotele od Eudosso collocassero l’età di Zoroastro 6000 o 5000 anni prima di Platone (56) conferma quanto detto, equiparando lo <Zoroastro> dell’antica tradizione greca all’iranismo avestico remoto pre-zoroastriano.  Circa gl’inni vedici Tilak (57) era dell’opinione che la “forma degl’inni potesse essersi parzialmente modificata in tempi piú recenti”, ma che il contenuto fosse rimasto in sostanza lo stesso.  Ragion per cui poneva la separazione fra Greci ed Ari fra il 3500 ed il 3.000 a.C. c., quella fra Indoari ed Iranari alla fine del Periodo Orionico ossia fra il 3000 ed il 2500 c. (58).  Da parte nostra porremmo il primo distacco dei ceppi iaphetici, come detto sopra, nella prima decade dell’Età del Toro (c.4480-3760 a.C.); cioè in pieno Periodo Orionico, dato che non vi è mai stato in Grecia od altrove qualcosa d’analogo ai testi sacri indoiranici, ad esclusione forse degl’Inni Omerici e dell’Edda norrenica.  Manca, insomma, fra i testi greci e gli altri della letteratura indoeuropea alcunché d’analogo al rituale hindu del Soma od al culto parsi dello Haoma.  Collocheremmo viceversa il secondo distacco tribale nell’arco di tempo trascorso nelle due decadi successive (c.3760-2320 a.C.), poiché se pur vi è nell’Iran antico a livello iconografico qualche riferimento alla venerazione di Rohiṇī, manca quasi totalmente rispetto all’India la devozione verso le Kttikā.
Se il gveda è ambientato nel Panjāb Orientale durante l’Era del Toro, come si può escludere che gli Ari non fossero già penetrati nel Deccan, dal momento che erano loro note persino la Gagā e la Yamunā?  No, non può essere diversamente.  La Smti va presa sul serio, non è un trastullo intellettuale per professori ed eruditi, e la Smti afferma che il gveda è stato composto poco prima dell’inizio del Kaliyuga; insomma all’incirca nella prima metà del Periodo Orionico (4960-4000 a.C.), cominciato 480 anni prima del Kaliyuga, vale a dire fra il 4960 ed il 4480 a.C. (59).  Lo studio ulteriore del Veda ha condotto Tilak ad ipotizzare che il testo piú arcaico del Caturveda accluda, in realtà, materiale tradizionale  trasmesso oralmente che fu ideato in data ancor precedente a quella tramandata riguardo la stesura generale dei 10 Maṇḍala rigvedici.  Del resto il rilievo, sia pur negativo, concesso nel testo ai Dasa prova che la datazione sopra supposta ha basi reali.  I Dasyu non possono essere, infatti, qualcosa di molto diverso dagli abitanti dell’antica Valle dell’Indo.  Abbiamo già dedotto che costoro erano imparentati etnicamente coi Paleo-dravidi mesolitici di Dvārakā (‘lett. ‘Dalle-molte-porte’), la capitale del regno krishnaita.  La penetrazione oltre l’Indo nel Periodo Orionico non è ancora avvenuta, avverrà successivamente; a lungo andare darà l’impressione d’una nuova invasione, ma l’avanzata deve esser avvenuta poco alla volta, per osmosi piú che per scontro.  Le descrizioni rigvediche suggerirebbero un’attesa tipica di stirpi nomadi stanziate in dati punti strategici, onde favorire le razzie di bestiame piú che una conquista definitiva.  Riguardo gli spostamenti successivi non rientra nel compito che ivi ci prefiggiamo delinearli, neanche sommariamente, è compito degli archeologi.  Sta di fatto che, come si può dedurre da queste ulteriori precisazioni, la situazione degli Ari vedici nell’epoca da noi analizzata è pressoché quella che avevamo suggerito nel precedente capitolo prima d’analizzare in dettaglio il problema.  La Guerra di Bhārata non può esser stata combattuta fra Ari ed Anari, ma piuttosto fra autoctoni, i Panduidi essendo probabilmente dei Paleo-dravidi; e i Kuruidi altre genti delle quali parleremo fra breve, che dal punto di vista paletnologico abbiamo classificato come Proto-eurasiatici.  Non Ari giunti prima degli altri, come vorrebbe il Parpola (60), ciò anzi essendo assolutamente da escludere; benché pure da parte nostra abbiamo in un primo tempo – vedi il precedente capitolo – sospettato qualcosa del genere.  Dopo affannose ricerche bibliografiche, oggi possiamo sostenere con veridicità che gli Ārya non erano ancora arrivati a stanziarsi nell’Āryavarta, vale a dire la Pianura Gangetica.  L’archeologia non dimostra nulla, anche tirandola per i capelli, quando non vi sono basi culturali serie dietro agli scavi.  Anche se si cerca di dimostrare l’indimostrabile, pur di rimanere ancorati alla propria visione delle cose.  In questo caso si deve tuttavia apprezzare il fatto che, diversamente dal passato, non ci si è limitati ad ipotizzare una cervellotica discesa degli Ari in India al di là delle testimonianze di qualsivoglia natura.  Si è badato a ricostruire un percorso credibile, ma ancora una volta l’inganno del cavallo come mezzo locomotorio esclusivo degli Ari (e chissà mai perché?) ha determinato l’ennesima incomprensione del quadro antropologico in questione.  Se gli Ari sono stati preceduti da dei Proto-ari, non si comprende bene cosa sia attribuibile a costoro.  Tutto ciò che è stato attribuito agli Ari?  I conti non tornano egualmente.



c)  Errori metodologici e pregiudizi in materia

Prima di passare ad un esame dei rapporti di civiltà fra l’India e la Grecia in tempi neolitici e protostorici, riflesso evidente di quelli etnoculturali del periodo mesolitico fra il Mediterraneo e l’Indo, sarà bene aggiungere qualcosa su ciò che nella penisola indiana ha preceduto l’avvento di Paleo-dravidi e Indoari e nell’Egeo quello di Proto-pelasgi e Proto-elleni, cosa solitamente assai trascurata.  In quanto l’idea, peraltro errata, che non vi fossero genti aventi a che fare in qualche modo colle origini della nostra cultura sembra averci esentato da un’analisi seria del periodo.  Unicamente ci si è affidati ad aridi studi di tipo paletnologico.  Ciò sia detto non per pregiudizio, ma per constatazione.
In questo nostro saggio, soprattutto nell’ultima redazione del testo, abbiamo voluto giungere ad un compromesso fra tradizionalismo ed accademismo, nonché fra tradizionalismo e scientismo in base alle seguenti ragioni.  Lo sviluppo esponenziale degli studi scientifici in vari campi già non permetteva all’inizio del secolo scorso a visionari (lo diciamo nel senso migliore) come Tilak di elaborare le loro teorie senza  tenerne conto.   Figuriamoci oggi!  D’altronde ci siamo accorti che spesso, se i dati presentati dal campo tradizionale e da quello scientifico non collimano, è a causa di certi fattori che vengono sottovalutati dall’una o dall’altra parte e che una volta offerti correttamente risolvono per intero le questioni.  Almeno, con buona approssimazione a quella che si può ritenere sia stata un tempo la situazione preistorica reale.  Naturalmente, può anche darsi che intervengano dei pregiudizi in uno dei due campi, tali da impedire l’accertamento imparziale della verità.  O, se si vuol esser meno presuntuosi, della veridicità.  Vedi, ad es., la tesi del Furon da noi esposta nel capitolo precedente; per un lungo periodo, praticamente tutto il tempo di stesura di questo libro (ben 24 anni, dunque!), non riuscivamo a trovare un compromesso fra quanto attestato dall’allora massimo rappresentante della paletnologia francese nel suo datato ma ciononostante ancora bel Manuale di preistoria e la tesi di fondo di questo libro.  Sarebbe bastato capire chi fossero questi dannati proto-europei, unici abitatori dell’Europa pleistocenica, ed il gioco era fatto.  Invece, purtroppo, siamo involontariamente saltati da un pregiudizio all’altro; in primo luogo incocciando contro i dati archeologici, eppure il dato di per sé è neutro oltreché inoppugnabile, bisogna semplicemente utilizzarlo al meglio.  Sicuramente il fatto di non esser riusciti dopo la prima laurea a Venezia (in Lingue e Letterature Orientali) a frequentare un corso di specializzazione in Archeologia, colla costrizione a passare prima per una seconda laurea a Torino (in Lettere Moderne) ad un certo punto abortita, ci ha giocato un brutto scherzo.  In secondo luogo, cozzando contro altri dati, trasmessi a livello tradizionalistico (para-massonico), che fino a non molto tempo fa non sapevamo adeguatamente interpretare; principalmente, l’idea che dal Polo Artico gli uomini dei tempi adamici si fossero propagati nel globo a raggiera.  Ci pareva da parte nostra, viceversa, che per rilevare l’espansione delle razze e delle loro relative culture a livello antropico fosse necessario unicamente adattare la visione del nostro schema al modello proposto dalla cosmografia puranica.  Un modello che è sottosotto accettato da ogni cultura tradizionale, se la si confronta cum grano salis con quella indiana.  Questa però non era la visione giusta.  Noi infatti vediamo il sole spostarsi nella giornata ed illuminare ora un luogo, ora un altro; non per questo le persone si spostano qua e là per seguire il movimento della luce, piuttosto s’adattano a sfruttare le trasformazioni della luminosità quotidiana secondo la propria convenienza.  Egualmente deve esser avvenuto anche coll’insediamento umano nei vari continenti, indipendentemente da quel flusso di culture e di civiltà che la cosmologia hindu testimonia essersi svolto in direzione solare.
Vi è una ragione precisa, tuttavia, che giustifica il nostro errore; vale a dire un’imprecisione della ‘Bibbia’ (61), che ci ha inconsapevolmente o meno molto condizionato.  Secondo la Gen.-iv sgg, difatti, Adamo (l’Uomo del nostro Manvantara, che la tradizione zingara identifica non per niente a Manu) ha avuto 3 <Figli>.  Come interpretare questo dato?  Abbiamo già visto quanto sia difficile e problematico comprendere la reale portata paletnologica dei 3 <Figli> della leggenda noaica.  Qui è la medesima cosa, se non peggio, perché si torna maggiormente addietro nel tempo.  La Storia delle Religioni, pregiudizialmente (in ispecie attraverso la persona del pur grande Eliade), ha dedotto dall’analisi testuale che nella tradizione giudaico-cristiana non esisteva un computo del tempo ciclico come in altre tradizioni.  Ciò è del tutto falso, basterebbe rifarsi all’Apocalisse giovannea per dimostrarlo.  La verità, dunque, è che la ciclicità nella Genesi è trasposta in allegoria.  Allegorica è la leggenda dei fatidici ‘Sette Giorni’ della Creazione (ibid., §§ 1-2.4°), allegorica sono pure la nascita e la vita di Adamo ed Eva (ib., §§ 2.4b-3) ed, altrettanto, si può dire degli altri 3 momenti fondamentali di codesta narrazione: a) la triplice figliazione dei mitici Progenitori (§§ 4-5.8); b) i Patriarchi antidiluviani, la corruzione del genere umano ed i tempi immediatamente post-diluviali (§§ 5.9-10), c) l’edificazione dell’infernale Torre di Babele, la serie post-babelica dei Patriarchi semiti tramite Eber (Abramo, Isacco, Giacobbe) e le dodici tribú ebraiche (§§ 11-50).  Dato che la tradizione giudaico-cristiana s’inserisce a suo stesso dire nell’alveo dei discendenti noaici, cioè nel vasto gruppo di culture camito-semito-iaphetiche, non è difficile intravedere nei ‘Sette Giorni’ di Yahweh-Elohīm (equiparabile concettualmente allo Yima-Kšaeta iranico, il Jamšīd neoiranico) qualcosa di conforme ai ‘Sette Manvantara’ induisti.  Dal che si può dedurre che gli altri 4 periodi, all’interno del ‘Settimo Giorno’ (nella serie quaternaria Adamo-Caino-Noè-Nimrod)(62), altro non siano che le famose 4 Età mitiche della letteratura indoeuropea (63).  Per cui i 3 <Figli> d’Adamo (s’intende, i 3 ceppi di discendenza dell’uomo primevo) risulterebbero di conseguenza coincidere o quasi colle figure dominanti dei 3 cicli minori dell’Età Argentea di classica memoria, insomma il Tretāyuga degli Indiani.  In base a siffatto ragionamento avevamo identificato Qayin, Hevel e Šeth sin dalle prime stesure di codesto libro vicendevolmente ai 3 avatāra del Tretā hindu; ovvero a Vāmana, Paraśurāma e Rāmacandra.  Sennonché le cose non quadravano del tutto, giacché Abele moriva e la Gen.- iv. 17 parlava di Lamek come d’un cainita.  Questo Lemek era d’altronde l’unico possibile corrispettivo ebraico del Rāma indiano, in termini etimologici; tanto piú che in v. 25 il nome veniva raddoppiato, alludendo questa volta al padre dell’<aratore> Noè (64), un po’ come succedeva nell’induismo con i 2 Rāma indicati.  Quindi non ci restava che immaginare vi fosse stato un passaggio di consegne non solo a livello culturale fra il V ed il VI Ciclo Avatarico, ma anche a livello etnico.  Cosa che comportava numerosi problemi, poiché induisticamente Vāmana è descritto come un nano, Par(a)śu come un gigante.  Era dunque l’altezza dei membri della nostra specie un fattore talmente elastico da accorciarsi ed allungarsi ogniqualvolta un ceppo umano si trasferiva da una sede geografica ad un’altra?  Di certo i climi influiscono sulla crescita e lo sviluppo osseo degli animali, compreso quello dell’uomo, soprattatutto nei lunghi periodi.  Ma se era accettabile un passaggio dal gigantismo adamico (cosí è descritto Adamo nella cultura ebraica, con allusione all’ascolto dei Cherubini in excelsis) al nanismo cainita (correlato, chiaramente, al culto induistico – d’origine austronesiana – di Vāmana, il Primo Orticoltore) nell’arco di 25.920 anni ossia di 4 eoni (ebr.ōlam)(65), considerando in parallelo il gran trasferimento dalla fredda ecumene polar-boreale alla calda ecumene australe per via oceanica (pacifica) sfruttando sicuramente una rudimentale navigazione, non si poteva al contrario ipotizzare una veloce riconversione al gigantismo sol nell’ambito di 6.480 anni ossia d’un ‘grande anno’.  Neanche pensando ad un trasferimento dai caldi mari australi a quelli maggiormente freddi dell’ecumene polar-antartica, pur tenendo a mente che la forza di gravità ai poli geografici risulta minore.  Eppure, poggiandoci su Gen.-iv. 17, avevamo finito per accettare assurdamente tale possibilità.  Visto che, oltretutto, si presentava in linea col movimento di espansione in direzione solare delle culture umane secondo la dottrina avatarica; inoltre anche il <Terzo Figlio> di Adamo, Seth, veniva dalla tradizione ebraica associato ai Cainiti per mezzo della leggenda della prima corruzione del genere umano.  Leggenda che i Greci conoscono come quella di Tifone e della relativa ‘Gigantomachia’.  Non ci siamo accorti disgraziatamente che Seth e gli angelici <Figli di El> (la ‘progenie solare’) a lui correlati (vi. 1-4) per forza di cose non potevano discendere a loro volta da Caino, secondo quanto pur tramandato dalla ‘Bibbia’; almeno in toto, sul piano etnico, il piano culturale essendo d’altronde strettamente connesso.  Del resto, il testo biblico parla di Seth quasi come di un secondo Abele. Potremmo ipotizzare, piuttosto, una duplice ibridazione.  In altre parole, una trasmissione etnoculturale dall’ecumene austral-orientale (austronesiana) a quella austral-occidentale (sud-amerinda), fermo rimanendo il fatto d’un apporto grandemente maggioritario proveniente da nord; nei cui confronti la componente proveniente da sudest ha agito necessariamente quale fattore spiritualmente disgregante, pur essendo per quei tempi preistorici culturalmente piú avanzata.  



d)  Il precedente retaggio: Ciclo dei Nani e Ciclo dei Titani

Per quel che riguarda gli apporti precedenti all’arrivo degli Ārya e lo stanziamento

dei Drāvia, è necessario Innanzitutto distinguere fra Proto-australoidi e Paleo-indonesiani; gli uni avendo  raggiunto via mare le coste meridionali dell’India (66) per poi slanciarsi verso sud-ovest (67) e gli altri essendo rispettivamente emigrati via terra fino ai confini nordorientali del subcontinente indiano, onde poi proseguire lungo il litorale asiatico-meridionale fino al lato occidentale del Mediterraneo.  Ma vi è stata un’ondata da parte di quest’ultimi che s’è spinta anche verso il Madagascar, non per circumnavigazione della costa africana, come comunemente si crede; ma semmai per circumnavigazione delle coste dell’India Occidentale e delle terre allora emerse della dorsale oceanica, successivamente divenute isole per sommersione, testimoniata in termini leggendari dai testi sacri.  Vedi la leggenda della bevuta dell’Oceano Indiano da parte di Varua, doppiato in ciò dal i Agastya.  Difatti, per un verso ritroviamo dei protoaustraloidi in Sud dell’Africa sotto forma dei loro discendenti odierni, Ottentotti e Boscimani (68); per un altro verso constatiamo la presenza di paleoindonesiani, sia pur minoritaria, presso l’antica civiltà indica.  A nostro giudizio i movimenti marittimi del ramo proto-australoide hanno condotto alfine il tragitto antarto-sudafricano verso sud-ovest, fino alle coste meridionali dell’America; o meglio dell’Atlantide (Meridionale), collegata all’Antartide Anteriore, supposta come tale dal prof. C.Hapgood basandosi su antiche carte nautiche del tipo della mappa cinquecentesca del Piri Re’is.  Malauguratamente quelle preziose carte (salvate qualche giorno prima da mani premurose, secondo certuni, dall’incendio doloso della Biblioteca di Alessandria d’Egitto) erano già state messe alla berlina indirettamente da parte di alcuni scrittori come E. von Daniken e L.Pauwels, sostenitori della teoria irrazionale degli ‘antichi astronauti’; sicché anche lo storico della scienza americano, benché insegnante al Keene State College del N.Hampshire, rientrò suo malgrado nella campagna di diffamazione generalizzata nei confronti dello spinoso argomento (69).  Tornando alla questione, ciò senza bisogno di dover circumambulare l’Africa Orientale, poiché la penisola indiana si spingeva una volta molto piú a sud, dando retta alla cosmografia puranica.  In tale nuova ecumene il ceppo proto-australoide secondo la tradizione leggendaria ebraica pare riemergere nel suo sembiante tipicamente cainita, distinto da quello sethita giunto da nord e palesante tratti etnoculturali assai differenti.  Il che, naturalmente, deve essere accaduto in tempi piú recenti di quelli dei suddetti spostamenti marittimi all’interno dell’Oceano Indiano.
Il fatto di classificare come anari tutte le tribú non-arie ha creato comunque una gran confusione riguardo il mondo pre-ario.  L’unica giustificazione per questo modo di procedere è che, purtroppo, lo stato di conservazione dei credi e dei miti antecedenti all’avvento degli Ari è tale che parrebbe quasi impossibile distinguere nel gran caos creatosi fra componenti etniche e fattori culturali.  Anche perché molti di questi elementi sono divenuti parte integrante dell’induismo storico.  Perciò è arduo discernere fra di essi, pur partendo dal Veda, quel che è da attribuire agli uni o agli altri.
La prima distinzione che va fatta esaminando la posizione religiosa degli Anari, per sgombrare il campo dagli equivoci, è di assegnare alla cultura e alla civiltà dravidica quel che le spetta.  Ed è molto, il pantheon induista non sarebbe tale senza l’apporto dei Drāvia, ma non è detto che tutto quel che come tale rientra nell’induismo esaurisca la loro vera fede.  Evidentemente c’è qualcosa che ci sfugge nel tentar di ricreare un quadro d’insieme delle loro concezioni mitiche e della loro condizione spirituale prima della subordinazione agli Ari.  La civiltà egizia, la civiltà cretese, la civiltà sumera e quella elamica erano civiltà camitiche, magnifiche da ogni punto di vista; perché non avrebbe dovuto essere tale anche quella paleo-dravidica, altrettanto antica?  A giudicare dall’antica Civiltà dell’Indo, dovremmo avere un’alta opinione di essa.  Entrare nei dettagli non possiamo in quest’occasione, ma di certo appartengono al culto dravidico tipicamente i riti orgiastici collegati colla pratica agricola e la venerazione della Madre Terra; intesa non quale controparte in senso spaziale del nume uranico, alla maniera vedica, ma piuttosto nella sua specificità pagano-sacrificale.  La Terra, in quest’accezione, non era un territorio da percorrere nomadicamente, bensí un recinto ove operavano segretamente gli dei agrari.  Da notare che come abbiamo in precedenza supposto i Dravidi credevano negli Eroi (Bīr = Vīra), anziché nei Titani (Daitya), non meno dunque degli Ari; essi erano infatti i loro antenati, come per gli Ārya.  L’unica differenza, logicamente, era che gli antenati dravidici possedevano un aspetto piú camitico che iaphetico.  Altri tratti peculiari della religione dravidica sarebbero, a sentir gli studiosi (70), “la sospensione delle normali regole esogamiche o endogamiche tribali, l’uso del linguaggio osceno, la danza frenetica, l’ebbrezza alcoolica, la provocazione di rumori violenti, il consumo di enormi quantità di prodotti alimentari…”.  Un po’ riduttivo, forse.  Osservando altri popoli camitici, come gli Egizi e i Sumeri, possiamo attribuire al paleo-dravidismo molto di piú di quel che si fa di solito.  A cominciare dall’impiego dei templi di forma piramidale, quale si osserva in epoca medievale nell’India Meridionale.  L’utilizzo dei templi per le pratiche devozionali è maggiore, anzi, fra i camiti che fra i semiti e gli iapheti a causa del loro sedentarismo.  Un’altra caratteristica  della cultura dravidica è l’uso masiccio d’immagini liturgiche, esaltanti mediante la vivacità dei colori ed il loro geniale accostamento il valore estetico delle forme concrete, a differenza degli Ari; piú propensi, invece, nelle arti alle formule astratte (mantra, sūkta) o geometriche (yantra, maṇḍala).  Si spiega in tal modo, per via dell’influenza dravidica, lo sviluppo notevole dell’iconografia nell’India antica e medievale.  Il confronto coi tempi vedici (pur non sapendo quali siano gli esatti confini cronologici fra una civiltà e l’altra), da questo punto di vista, è oltremodo impari.  Non crediamo d’andar lontan dal vero se affermiamo che l’arte camitica in generale, considerando anche gli apporti di altre civiltà apparentate sorte attorno ai grandi fiumi dell’area indomediterranea durante il Periodo Neolitico e quello Protostorico, è l’arte piú bella e gratificante ed iconologicamente piú preziosa di tutta l’Antichità.  Anche l’allevamento bovino, impiegato a scopo agricolo, è un tratto saliente dell’etnia camitica e lo ritroviamo difatti persino presso le tribú camito-nilotiche dell’Africa Nordorientale (commiste ai gruppi paleo-negritici); le quali (ad es., certi allevatori come i Nandi) hanno nomi che la dicono lunga sull’origine di certe vetuste e rinomate deità indiane (quali Nandin, il veicolo bovino di Śiva), che però stranamente non è rintracciabile nei sigilli vallindi (70).  Forse perché, a parte il nome, la sua caratterizzazione teriomorfica dipende dal contesto ario-vedico.   Vi è altro.  Ad es. la ripartizione ieratica in caste, seppur presente in egual misura fra gli Ārya, a giudicare dalle figure sacerdotali indossanti bianche vesti ornate con motivi a trifoglio presenti nei reperti archeologici dell’antica Valle dell’Indo.  Per non parlare del Trifoglio stesso, che simbolizza qualcosa d’analogo ad una Trimūrti, ad una Trinità o a qualche altro ternario.  Potrebbe trattarsi forse d’una raffigurazione del Tripurua della Gītā, testo che considerando la vera età di stesura orale del Mahābhārata era quindi già stato compilato.  E, d’altra parte, Ka non può che collocarsi in tempi pre-ari se intendiamo questo termine in senso etnico restrittivo.   La versione scritta del poema che è giunta fino a noi appare però fortemente arianizzata e, dunque, non rispondente al vero dal punto di vista storico; è evidente che la versione primaria, anaria, ha subito un processo di revisione tematica e di sanscritizzazione sul piano filologico.  Esiste comunque un criterio sicuro per distinguere gli elementi mitici in base alla loro provenienza.  Tale criterio è lo sforzo di classificazione cronologica che è stato compiuto, con eccelsi risultati, nella formulazione del Ciclo Avatarico. 
Il Ciclo Avatarico non è tuttavia suddivisibile per etnie, ma semmai per cicli culturali; e questa è l’unica vera cosa che importi, volendo andar oltre il consueto eurocentrismo.  Il paleo-dravidismo corrisponde in tal senso al II Ciclo Krishnaita, il Ciclo del Ka-auriga e a quanto ne sussegue nella Civiltà dell’Indo, sebbene il culto vishnuita scemi momentaneamente a favore di quello shivaita.  Il periodo indoario, grosso modo, è quello seguente alla discesa degli Ind-ari nel subcontinente indiano, dopo essersi stanziati per qualche millennio probabilmente in area panjabica o circostante.  Se la tradizione hindu dichiara per bocca dei Tantra che la Conoscenza vedica ha fatto il suo tempo nell’Epoca Kali, è perché nel Medioevo il processo di induizzazione è giunto al termine ed ha apportato grandi modifiche alla società indiana.  Il Vedismo degl’Indoari di per sé era parallelo al culto orgiastico dei Paleo-dravidi, cosí come i Camiti lo erano cronologicamente agli Iapheti, tanto in Epoca Pre-neolitica quanto in quella Neolitica.  Indra e Ka-Jagannātha nella loro forma originaria appartengono al medesimo tempo, il Mesolitico, pur svolgendosi i due culti in due zone geografiche separate.  La versione tardiva del Mahābhārata, al contrario, li unisce facendo di Indra un dio kritayughico e di Ka  un avatara dvaparayughico; ma è evidente che le cose dovevano stare diversamente allorché gli Ari non erano ancora entrati in India.  Da dove viene perciò, ci si può chiedere, il dio aureo dell’induismo tardo?  Brahmā, stando alla storia del Re Pescatore, è connesso ai Dasa e costoro non sono degli ari secondo quanto abbiamo già stabilito (71); ma neanche dei Drāvia, sono dei discendenti di Paraśurāma.  È col VI Ciclo Avatarico, del resto, che si comincia a parlare nella tradizione hindu di famiglie brahmaniche vere e proprie come quella di Jamadagni (72).  A Kaliyuga inoltrato è avvenuto l’incontro e la fusione del culto vedico con quello dravidico e questo spiega il trionfo momentaneo di Indra per trasposizione a dio aureo, ma colla progressiva decadenza del vedismo le cose sono di nuovo cambiate ed è ritornato a trionfare Brahmā, il dio che il culto dravidico aveva ereditato dal cd. ‘Ciclo dell’Ariete’ (il Ciclo Ramaita, parte di quello propriamente titanico, stando i Greci) e che gli Ari avevano evidentemente messo in penombra.  Se Brahmā fosse stato fin dall’origine un dio vedico, o meglio ario, perché mai avrebbe dovuto esser ripristinato quale dio del Satyayuga nell’India medievale ormai induisticizzata?  La riformulazione del Veda poco prima dell’inizio della Quarta Epoca era accentrata, similmente all’Avesta orale arcaico (che non deve esser stato concepito in tempi molto posteriori) attorno all’ossequio a livello cosmologico dell’asterismo di Orione, identificato a Prajāpati; il quale altro non è, etimologicamente parlando (prefisso a parte), che l’ebraico Iaphet ossia l’ellenico Giapeto.  Venuto meno tale culto nello scontro-incontro fra Ari ed Anari, col trascorrere della precessione vernale, assistiamo insomma ad una lenta ma inesorabile rivalorizzazione delle tematiche dravidiche; delle quali il Tantrismo costituiva l’aspetto esoterico piú pertinente, pur inglobando anch’esso – soprattutto nel Dakṣiacāra (‘Cammino di Destra’) – elementi culturali discesi dal mondo pre-dravidico.  Questi elementi, rimanendo alle congetture accademiche, parrebbero essere semplicemente quelli scaturiti dal mondo austronesiano e provenienti dal ramo proto-astraloide da un lato e dal ramo paleo-indonesiano dall’altro, rispettivamente stanziati nelle due zone dell’India già indicate.  A sud il ceppo veddoide (73), dedito a caccia e raccolta (74); ad est il ceppo mundarico, dedito principalmente alla pastorizia e maggiormente acculturato, ma in principio praticante il metodo economico dell’orticoltura primitiva colla zappa ed il bastone da scavo.
Di norma il quadro dell’India pre-aria e pre-dravidica si esaurisce in tali constatazioni, sacrosante ma limitative; in questo modo si comprende esclusivamente uno dei due cicli anteriori tramandati dalla tradizione hindu, il Ciclo dei Nani, concernente i pigmei asiatico-meridionali (austronesiani).  Donde i Vedda (75) ed i Munda (76) sono derivati.  La tradizione hindu, invece, non si ferma qua, asserendo che è esistita una primordiale “arianizzazione” del territorio indiano al tempo del Titano Paraśurāma (77).  Come crederle?  Per forza di cose dobbiamo crederle, altrimenti dovremmo metter in discussione anche tutto il resto.  Proviamo ad analizzare il problema in dettaglio, premettendo che una tribú richiamantesi al primo Rāma, i Rāmośī (78), esiste davvero.  Il V ed il VI Ciclo Avatarico hanno visto quali protagonisti, a vicenda, Vāmana e Paraśu: l’uno era nano e come tale viene presentato nell’iconografia, l’altro un gigante ed in questo caso l’iconografia appare meno esplicita.  Ma se leggiamo le storie che li riguardano non possiamo non rammentare i paralleli biblici di Qayin e Hevel.  Nella Genesi i due fratelli – in altra versione della leggenda sono gemelli (79) – non differiscono molto in altezza, sono diversi per costumi, l’uno essendo presentato quale primitivo orticultore e l’altro quale ancestrale pastore (80).  Fatto inconsueto, rispetto alle tematiche usuali dei miti, è il piú vecchio che uccide il piú giovane; sebbene l’omicidio sia in seguito ribaltato da Lemek, alter-ego di Hevel, che annienta Qayin.  Proprio il nome di questo personaggio ci spinge alla comparazione con Rāma, Paraśu ovviamente o Parśu se preferiamo.  I Greci lo hanno denominato Περσεύς, a dimostrazione che la vicenda a questi assegnata era di matrice persiana; non la Persia storica, dove il nome si è ristretto ed è stato sostituito dalla voce Iran in ragione dell’occupazione aria in tempi neolitici, bensí la Persia preistorica del Tardo Paleolitico (81).  È lecito ritenere comunque che prima dell’occupazione da parte degli Iranari sia avvenuta quella dei Proto-elamiti, un po’ come è avvenuto in Grecia coi Proto-pelasgi ed in India coi Paleo-dravidi.  Il Ciclo dell’Ariete (82) invece è occorso, esattamente, fra il 29.400 ed il 22.920.  Perciò la figura di Perseus-Parśu, crediamo il Ferēdūn della mitologia iranica (83), è presumibile abbia svolto la sua funzione avatarica alla fine di questo periodo oppure a cavallo fra il VI ed il VII Ciclo Avatarico; in una Persia che, come si può facilmente capire, era indistinguibile dall’India.  Visto che la cultura tardo-paleolitica non aveva ancor subito quel processo di differenziazione linguistico-territoriale avvenuto dal Kaliyuga in poi.  Biblicamente, a partire dall’infernale ‘Torre di Babele’, il corrispettivo giudaico-cristiano dell’Età Oscura.             
Se si vuol capire chiaramente quanto andiamo dicendo bisogna tener conto che prima di Vāmana e di Paraśu, cioè di Hermês e Perseús (84), hanno svolto la loro relativa funzione altri 4 avatara e di codesta loro esistenza è traccia in tutte le zone estremo orientali del globo (85); tranne che per il IV, ma ciò è un problema che andrebbe trattato separatamente (86).  Ciò è attestato oggi in maniera esplicita da parte degl’indologi indigeni, a differenza di quelli occidentali.  È del tutto evidente che il conflitto fra Nani e Titani non vada inteso allegoricamente, come la storia biblica di Davide e Golia.  Vāmana (il ‘Nano’), o meglio i suoi discendenti nel ciclo successivo, è del resto l’aggressore in questo caso ma ne avrà la peggio.  Vedi strage dei guerrieri da sacrificare agli Antenati (87), perpetrata per vendetta dopo l’uccisione del padre, da parte di Paraśurāma.  Abbiamo a che fare, piuttosto, con due cicli diversificati.  L’uno, che potremmo definire dei Nani, riguarderebbe coloro che la tradizione biblica definisce Cainiti (88); l’altro, che potremmo appellare dei Titani (o dei Giganti, ma non è in tal modo che viene presentato Perseo in Grecia), riguarderebbe viceversa gli Abeliti (Heveliti) o Lamekiti (Lemekiti) che dir si voglia (89).  Non stiamo qui a trattare del ciclo avatarico successivo, il VII, quello del secondo Rāma; omologabile al secondo Lemek biblico, identificabile a sua volta a Šeth.  Concerne la storia di Rāmacandra che sconfigge Rāvaa, il mostro a 10 teste, delle quali una asinina; i Greci gli danno il nome di Tifeo, Tifone o Tifaone, attribuendogliene 100 (90), ma anche per essi la pelle rossiccia è d’asino (91).  Tifone viene asssimilato a Pitone, il mitico drago di Delfi, consorte d’una dragonessa dai molteplici epiteti; il principale dei quali è, come è noto, Δελφίνη (92).  Tifone è stato identificato da Plutarco al Set egizio (93), che aveva però come il Coccodrillo – suo veicolo –  un doppio ruolo benefico (ereditato forse dagli ebrei profughi in Egitto al tempo di Giuseppe e di Mosé) e malefico (in contrasto al culto di Horus)(94).  In sostanza, codesto mito non riguarda l’India, bensí l’America in una delle sue primitive conformazioni; indianizzato sicuramente dai Paleo-dravidi, descrive in realtà il primo tentativo di colonizzazione del suolo americano da parte dei Sethiti.  La leggenda ebraica (95) vuole che si siano uniti orgiasticamente alle avvenenti cainite, generando una promiscuità di culti e di riti riguardata dai moralisti ebraici con molto sospetto, a dir poco.  In verità, è da qui che parte quell’atteggiamento d’insofferenza verso Cam (ebr. am) e la sua progenie riscontrabile in Gen.- ix. 27.  La maledizione di Noè verso il figlio, presa letteralmente, è assurda: viene maledetto per la sola colpa d’aver visto il padre nudo dopo un’ubriacatura di tipo dionisiaco e d’averla riferita ai fratelli.  È evidente che vi sia un sottinteso, ossia Cam è visto agli occhi del padre come un mezzo depravato (nel senso di seguace di pratiche abitudinarie immorali)(96) e per questo gli lancia un anatema: la sua discendenza verrà schiavizzata. 
Spiegando il fatto dal punto di vista storico, ci troviamo di fronte ad una sorta di visione precognitiva della decadenza futura del ceppo camitico, dovuta ad una severa riflessione sulle tendenze negative (sensuali) della cultura camitica.  Nella realtà dei fatti, ci pare, abbiamo a che fare con una mera constatazione di quanto già avvenuto al tempo di stesura del Pentateuco (97).  Poiché, piú addietro, ad es. al tempo di dominazione degli Egizi e dei Sumeri (l’epoca di Noè è peraltro precedente ad essa, coincidendo con quella del secondo Krishna), non si poteva certo affermare che i camiti fossero asserviti ad alcun altro popolo.  A lungo andare però le cose, come riconosce la Chiesa, sono effettivamente andate secondo quanto pronosticato e la spiegazione dell’anatema crediamo sia quella data.  Vi è un ulteriore fattore che può spiegare in associazione a quello menzionato tale maledizione, vale a dire la nascita della Controtradizione, di evidente carattere demonico (tifonico-asurico)(98); in altre parole, l’eredità cainito-sethita e fors’anche cainito-abelIta di sud-atlantidea (sud-amerinda) memoria da parte camitica.  I Noachiti centro-atlantidei (centro-amerindi, ma di un’America Centrale assai diversa dall’attuale, siccome estesa nel Mar Caraibico)(99) incarnano in certo senso il riscatto nell’ambito dell’VIII Ciclo Avatarico, che gl’indú attribuiscono a Ka Gopāla, da parte sethita.  Per tal motivo la ‘Bibbia’ considera palesemente il proprio ceppo semitico, eroico (della natura cioè dei Gibborīm), superiore a quello camitico.  Riguardo al terzo ceppo, iaphetico, non si pronuncia ma decantandone la capacità d’espansione in esteso tradisce una non-celata ammirazione.  S’intuisce, per le stesse ragioni opposte a quelle per le quali depreca il primo ceppo, ovvero la scarsa sensualità e la maggior devozione verso il Divino.  Naturalmente, a vedere l’Occidente odierno vi sarebbe da pensare l’esatto contrario, se paragonato agli antichi fautori camitici della civiltà dall’Egitto all’India; ma del resto l’Europa e l’America attuali non rispecchiano per nulla il IX Ciclo Avatarico (Nord-occidentale) ed, al di là del giudizio interessato ed in certo senso non imparziale dei redattori biblici, va ricordato che in un modo o nell’altro ogni ciclo costituisce sul piano spirituale un cedimento verso l’imperfezione rispetto a quello precedente.    Il Ciclo Nord-occidentale non ha a che fare coll’Atlantide di Platone, sul piano geografico; questa coincide con quella noaico-caraibica, piuttosto, stando alle ricerche dell’ing. Allen.  La data riportata da Platone riguardo l’inondazione atlantidea tuttavia è invero quella della fine dell’Atlantide Settentrionale, il cui ciclo di dominio è durato poco, ma è continuato di seguito nell’Europa Settentrionale.  L’errore di prospettiva trasmessogli dall’Egitto è di sicuro stato causato da un errore di sovrapposizione ciclica e cosmografica, dovuto al fatto che la catastrofe dell’Atlantide (America) Centrale, cambiando rotta alla Corrente del Golfo nel Mar Caraibico, ha provocato indirettamente un terribile seppur lento congelamento nella parte settentrionale dell’Atlantide (America)(100).  

Confrontata alla Grecia del tempo l’Atlantide tramandata da Solone (l’Atlantide propriamente detta, cioè il grande arcipelago caraibico ancora emerso durante il IV Grande Anno) apparve a Platone il prototipo arcaico del vivere civile, ancorché la grande isola fosse sprofondata di poi per cause naturali, che invece ovviamente gli uomini sopravvissuti al cataclisma ritennero un castigo divino in senso per cosí dire ‘karmico’ (101).  Soprattutto i Semiti, per il carattere sentimentale (correlato all’El. Acqua) che li caratterizza, onde pongono l’etica al primo posto a differenza dei Camiti.  Anche Esiodo in parallelo a Platone ha riservato al Ciclo Eroico (sviluppatosi nel IV G.A.) parole elogiative rispetto al ciclo precedente (III G.A.), accusato di un eccesso di furore bellico (correlato all’El. Fuoco).  Ma la cosa non può esser presa in senso lato.  Codesta epoca era d’altronde in termini biblici quella di Caino e Abele (102), vessata da guerre disdicevoli; ossia, unitamente, il Ciclo dei Nani e il Ciclo dei Giganti.  Il V Grande Anno ovvero l’Era degli Uomini (scr.Manua-mahāyuga) comprende tanto il Ciclo Nord-occidentale quanto  il Ciclo Nordico, dei quali abbiamo già trattato esaurientemente per il compito ivi prefisso.  A questo punto si comprenderà tutto il disappunto espresso nel gveda da parte dei sacerdoti indoari, di stirpe iaphetica e quindi affini eticamente ai loro pari di stirpe semitica, nel ritrovare sul suolo indiano quelle pratiche sconce ai loro occhi – culto del Liga o Śiśnadeva (il Fallo inteso come dio, o meglio Phallus Dei) – di tipo orgiastico-shivaico (camito-cainita) che i camiti paleo-dravidici avevano ereditato dalla loro sede di provenienza; insomma, dalla tradizione eracleo-krihsnaita ovvero noaico-atlantidea (103).  Oltretutto, rafforzate nella loro consuetudine giornaliera ed annuale dall’insediamento millenario nel nuovo ambiente asiatico-meridionale del vetusto ceppo austronesiano, primo detentore della mentalità titano-asurica.  Anche i ramaiti d’origine turanica (discesi da Paraśurāma) avevano abitudini primitive, ma almeno dovettero apparire piú sobri e contenuti degli altri autoctoni.  Da costoro gli Indoari ereditarono, con tutta probabilità, il culto brahmanico.  Non è avvenuta la stessa cosa in Grecia, dove i Pelasgi hanno trasmesso il culto del Fallo, al dire di Erodoto (104), agli Elleni?  Parimenti, i Proto-pelasgi si erano ibridati con gli antichi Danai (discendenti di Danae, la madre di Perseo)(105); come mostra il mito di Daianira, madre di Eracle.  Seppure il personaggio sia stato successivamente ellenizzato, facendone il figlio di Zeus; ma in origine era di certo l’emanazione principiale d’una divinità suprema maggiormente astratta, al modo del Puruottama hindu, che costituisce assieme a Ka ed al semplice Purua la Trinità mahabharatiana (106).  Fuori del mito è lecito pensare che in tutta Europa si fossero diffusi dappertutto, nei limiti imposti dalle condizioni climatiche durante il periodo della glaciazione tardo-paleolitica, quei proto-europei discesi dal ceppo proto-persiano (proto-turano)(107) che la paletnologia chiama ‘cromagnoidi’.  Possibile anzi probabile che tal ceppo disponesse d’una netta dominante cro-magnoide, ma che nascondesse al suo interno una ibridazione minoritaria col ceppo austronesiano, vista l’importanza sul suolo mediterraneo delle incisioni e delle pitture parietali prima dell’arrivo in epoca pre-mesolitica di nuovi venuti da Oltreatlantico.  Dopo quest’apparente digressione, allorché piú avanti affronteremo il tema ittico a Creta e a Delfi, si constateranno le affinità cultuali dirette fra il Κῆτος della leggenda di Perseo ed il Delfino apollineo delfico-cretese (108).  Altre connessioni indirette saranno svelate, prima ancora, da un’analisi del simbolismo zodiacale del medesimo cetaceo in questo stesso capitolo; e, a proposito del Tripode delfico ad esso concatenato, verranno esaminate nel prossimo capitolo le sue vere origini.  In base a quanto ora spiegato (109), le relazioni etnoculturali fra i vari fattori presi in considerazione appariranno senz’altro piú chiare. 







e)  Rāja Khidār:  l’aneddoto della ‘Disseccazione’ del Pesce

e della ‘Rivivificazione’ del medesimo



Ora torniamo all’argomento principale del nostro dibattito: la tematica ittica.  Altre storie simboliche col Pesce per protagonista, dapprima inerte ma in seguito capace di tornare alla vita e fuggire nell’oceano, ritraggono le gesta leggendarie della figura indo-islamica di Rāja Khidār alias Seyidnā El Khidr (var.Kwājā Khizr).  Tali storie sono commentate da Coomaraswamy in uno splendido articolo (110), alla luce di corrispondenti riferimenti iconografici d’Epoca Mughal (XVIII-XIX sec.).  L’autore dopo aver sottolineato le analogie strutturali tra Pesce (Matsya), Coccodrillo (Makara) e Serpente (Nāga), rileva la presenza nel folclore indiano d’una dinastia facente risalire la propria origine all’unione d’un re umano con una nāginī.  A parere di Coomaraswamy ciò poteva esser messo in rapporto col ratto di Vāc, la Parola Divina; personificata nei panni d’una Apsaras, o “Vergine delle Acque, nata dalle potenze dell’Oscurità...”  Abbinavasi a cotale re umano quale alter-ego un “eroe solare, figlio d’una vedova”, insomma uno ierofante; “allevato lontano dal mondo e nell’innocente ignoranza del suo vero stato”, sul modello del Parsifal della saga graaliana.

L’aneddoto della ‘Disseccazione’ del Pesce, emblema della Rivelazione Paradisiaca, e della ‘Rivivificazione’ dello stesso – c’insegna lo studioso – è rintracciabile in India comunque persino nei Brāhmaa (J.B.- iii. 193).  Śarkara, lo Śiśumāra-i (il Rishi sotto forma di Delfino ), essendosi rifiutato di lodare Indra viene gettato su una spiaggia desolata e disseccato dal vento boreale; fino a che il ‘Re degli Dei’, nella forma di Parjanya ossia di dio della pioggia (cfr. col lat. Iuppiter Pluvius)(111), lo rivivificherà.  Soltanto dopo, però, che Śarkara abbia composto un canto di lode in onore del nume.  Salito in cielo, egli diverrà la costellazione del Delfino, situata nei pressi del Capricorno.  Attraverso Śarkara, pertanto, si crede che Indra regoli il flusso delle ‘Acque’ (P.B.- xiv. 5, 15).
È lecito quindi indirettamente asserire che, pur non essendo il personaggio indo-islamico sopra indicato legato ad alcuna specie ittica particolare, anche la vicenda di El Khidr (o El Khizr) rientri nell’ambito del culto del Delfino; cioè d’un culto di tipo apollineo ma non piú aureo, a meno di trasposizioni sempre possibili (112).  Le figure greche che ora presenteremo ivi di seguito s’inseriscono in tale filone interpretativo, pur con delle eccezioni, poiché è indiscutibile che pure in Grecia vi fossero richiami all’Età dell’Oro e all’originario Paradiso Artico cui alludono enigmaticamente le storie di El Khidr (lett. ‘Il Verde’).   A questi fa da contraltare nel mondo greco-islamico (Qūr.- xviii. 82) –  com’è noto – un personaggio chiamato Dhū’l-qarnain; lett. ‘Quello delle due Corna’; il quale, pur non avendo nulla a che fare colla tematica ittica, è coinvolto in tematiche ad essa correlate.  Questi altri non è se non l’Alessandro Magno trasfigurato da una leggenda siriaca del IV sec. d.C. (113).  La storia emblematica narrata nel sacro testo islamico (vv. 82-98) narra delle 3 vie seguite dal grande condottiero, a mo’ di cakravarti (azionatore della ruota-cosmica), per conferire ritualmente alle 4 Direzioni – oltre le quali ne va concepita un’altra in senso quintessenziale – il loro ruolo di garanti del sostegno del mondo.  Per questo, essendogli stato concesso da Dio di realizzare quanto può umanamente esser realizzato, ecco che Alessandro giunge dapprima dove tramonta il sole (ad O), presso una fonte limacciosa (Porta degl’Inferi); vi dimorano delle genti, che verranno castigate o ricompensate, a seconda di quel che avranno fatto.  Presa una seconda via, si reca nel luogo ove sorge il sole (ad E) ed incontra un popolo senza casa né vestiario.  Evidentemente, si allude qui alle genti paradisiache, anche se nel testo non si aggiunge niente al riguardo.  Piú difficile da interpretare è la terza via, per la quale egli arriva in mezzo alle due montagne (a nostro giudizio i  Poli, o meglio N e S).  Quivi vi è gente che appena comprende parola.  Essa gli chiede di porre una barriera fra lei e la corruzione, apportata da Gog e Magog.  Sicché Dhū’l-qarnain domanda che vengano portati ferro e rame fuso, onde colmare i versanti fra le montagne, rendendo impossibile scalare la muraglia da parte di Gog e Magog.  La leggenda ha un senso solo se si tien conto di quanto appena detto, ossia che ivi Alessandro funge da <Signore della Ruota>.  In tal maniera, è chiaro che la sua iniziativa è quella di verificare tutti i pilastri del mondo, poiché è per essi che l’anima deve passare per giungere a Dio; vale a dire – in relazione all’ultima età ciclica, da O a N, da N a E, da E a S.  Quivi, naturalmente, è posta la Porta dell’Assoluto.    



f)  Glaukós, un parallelo ellenico
– in 4 forme allotipiche – di Matsyendra

Tra l’El-Khidr indo-islamico, il Γλαυκός greco ed il Matsyendra (od il Mīna) hindu, ciascuno dei quali è associato leggendariamente ad un ‘Pesce Miracoloso’, vi è per certo un’esatta equivalenza, quantunque la leggenda shivaita riportata nel precedente capitolo si discosti tematicamente dalle altre due.  Tutti e tre questi numi ad ogni modo configurano essenzialmente la funzione spirituale personificata nell’insieme presso i Latini da Giano e Saturno, cioè rispettivamente il Signore della Rivelazione Primordiale ed il Trasmettitore della Tradizione Primeva (114); concetti questi che taluno sommariamente identifica (per certi aspetti ciò avviene anche a livello tradizionale, come mostra il personaggio composito di Yima Kšaēta nell’antica Persia, islamizzato di poi in Jamšīd), ma che andrebbero in verità distinti.  Proprio come accade mitologicamente parlando colle figure di Urano e Crono in Grecia oppure di Varua e Kāla, alternativamente Yama e Savitar, in India.  Si deve sottolineare a tal proposito, per esser precisi, che la prima delle due suddette funzioni (rivelativa, o rivelatrice che dir si voglia) è detenuta dalla coppia Giano-Yama e presa a prestito da quella di Urano-Varuna per trasposizione verso l’alto; analoga cosa dicasi per la seconda funzione (trasmissiva, o trasmettitrice), assegnata alla coppia  Crono-Kala, ma concessa  pure alla coppia Saturno-Savitar per estensione verso il basso del loro dominio simbolico
Vi è inoltre nel folclore siciliano un certo Cola Pesce (115), che può essere considerato l’equivalente italico del Glauco greco.  La Seppilli (116) lo ha paragonato pure ad altri soggetti della mitologia pagana o della fede cristiana, coi quali sembra in qualche modo in contatto tanto da un punto di vista filologico come da quello culturale; tra di essi ricordiamo Poseidone (117), Odino (118), San Nicola e Santa Klaus (119).  Si tratta però di identificazioni piuttosto sommarie, che andrebbero meglio specificate, per le quali rimandiamo in ogni caso al bel libro dell’autrice.
Circa Glauco (dal gr. glaukós = ‘verde-azzurro’), va innanzitutto specificato che i vari personaggi della mitologia ellenica i quali portano siffatto nome sono con tutta probabilità dei doppioni d’un unico personaggio divino.  Il Kerényi (120) c’informa a questo riguardo che secondo i racconti cretesi in origine egli era un leggendario <pescatore> trasformatosi in seguito, dopo aver gustato il <fiore> d’una Pianta Miracolosa conferente l’Immortalità, in una divinità marina.  O se preferiamo in un dio-pesce, descritto figurativamente col busto umano e la coda pescina.  Il Graves (121) dal canto suo riassume diversamente la storia, asserendo – sulla base di Ateneo Gramm. (vii. 48 ss), Tze-tze (Sc.- vs.754 ss), Ovidio (Met.- xiii. 151 ss), Pausania (Per. – ix. 22, 6 ss) e Servio (in Verg., Georg.- i. 437 ss) – che Glauco Antedonio (figlio di Antedone e Poseidone, ma talora senza il matronimico è figlio di Doride e Nereo) notò un dí le virtú curative di un’Erba Miracolosa seminata da Crono nell’Età Aurea; siccome un ‘Pesce Morto’ (emblema dell’Ignis Primigenus ormai quasi spento), adagiato su quell’Erba (la Gnosi intesa come Alimento, corrispondentemente al detto indiano Jñana Anna, di valore universale), subito riprendeva vita.  A nostro parere tale personaggio viene da lui erroneamente troppo differenziato rispetto all’omonimo figlio di Minosse e Pasífe.   Lo stesso studioso però, nonostante la mancata omologazione tra le due suddette forme di Glauco – alle quali riteniamo se ne debbano aggiungere anche altre due, ossia Glauco il Vecchio (figlio di Sisifo e padre di Bellerofonte) e Glauco il Giovane (nipote di Bellerofonte) – giustamente considera tale Magica Erba analoga all’Erba d’Oro dei Druidi (122).  Il che appare assolutamente inoppugnabile.               



f)      Il duplice aspetto ittico e piscatorio
di Glauco e di Minosse

Facciamo notare altresí che pure l’italico Cola Pesce possiede non meno di Glauco una natura parimenti ambigua, per metà umana (era figlio di pescatore) e per metà animalesca (diventa pesce)(123).  Ciò significa che ci troviamo di fronte tanto in Grecia quanto nella Magna Grecia, non troppo diversamente dall’India, al mitologhema del Grande Pesce e del Re Pescatore; il primo dei quali dai connotati semiumani ed il secondo, invece, dai tratti semizoomorfici.  Ricordiamo, a titolo comparativo, che il Pesce Aureo indiano è un <pesce parlante>, sebbene Manu (svolgente la parte nella nostra ipotesi, che convalideremo soltanto nelle conclusioni finali, di Re Pescatore) non abbia alcun tratto ittico.  Per tale motivo si comprende bene la ragione onde Glauco in una diversa versione del mito (124) sia <figlio>, in altre parole un alter-ego, di Minosse – cfr. con Matsyendra e Mīna, i personaggi tantrici illustrati nel precedente capitolo (§s), chiamati appunto ‘Padre’ e ‘Figlio’ – ovvero di quel Sacerdos-rex greco delle origini successivamente demonizzato – al modo dello Yama indiano – che non per nulla Omero (Od.- xi. 791-5) descrive in occasione della Discesa all’Ade di Ulisse quale ‘Giudice dei Morti’; egli tiene in mano uno Scettro d’Oro, comparabile all’(Aurea) Verga impugnata da Iānus e all’(Aureo) Daṇḍa di Yama, che evidentemente lo caratterizza similmente al suo duplice corrispettivo latino ed indiano come ex-signore dell’Età dell’Oro.  Tale Scettro, ponendo l’inevitabile equazione Re Minosse = Manu-rāja, è ovviamente tutto ciò che perdura nelle tradizioni dell’Età del Ferro dell’Aurea <Canna> – ammesso e non concesso che fosse già in auge questo sistema di pesca – del Re Pescatore primevo; o, se si vuole (invertendo i contrassegni fra l’Uomo e il Pesce), dell’Aureo Corno del Grande Pesce Unicorne.  L’etimo ci aiuta del resto a ricostruire l’unità originaria perduta del simbolo in questione.  Secondo quanto abbiamo rilevato in precedenza pigliando a prestito quel che è stato postulato da Padre Heras, il gr. Μίνως corrisponde difatti etimologicamente al scr. Manu; nonché, attraverso la sua piú arcaica forma cretese, al paleo-dravidico Mīn (poi sanscritizzato in Mīna).  In altre parole, ai nomi dei due personaggi essenziali dell’equivalente hindu di codesto mitologhema greco, imperniato sulle figure di Minosse e Glauco.  I tratti vicendevoli di Re Pescatore e Pesce non sono ben marcati in terra egea, appaiono sfumare l’uno nell’altro rispetto all’ambiente brahmanico indiano; un po’ come avviene, nell’India medesima, in ambiente tantrico.  Eppure nel complesso abbiamo a che fare con un parallelismo tematico notevole fra India e Grecia, come avremo modo di delineare piú chiaramente ivi di seguito.
In un’ennesima versione dello stesso tema Glauco, o meglio Glauco il Vecchio, viene definito ‘Melicerte’ (125) – nome minoico correlato al fen. Melkarth = ‘Guardiano della Città’, ebr. Moloch (126) – ed in questo caso egli è considerato il figlio di Sisifo o di Atamante (127).  Costoro unitamente equivalgono al doppio aspetto appena evidenziato di Glauco Antedonio e di Minosse, come vedremo tra poco.  Essi fan riferimento infatti dal punto di vista ciclico alle due metà (Grandi Anni) dell’Età Aurea, presiedute simbolicamente la prima dal Grande Pesce e la seconda dal Re Pescatore.  Anche se i due emblemi, abbiamo già visto, possono essere in realtà invertiti; alternativamente si ha, secondo quanto abbiamo altrove mostrato (128), un vero e proprio sdoppiamento simbolico fra un Pesce Maschio e un Pesce Femmina o supposti tali oppure addirittura fra le due metà grafiche della sagoma ideale del Pesce medesimo.



g)  Eolo e i Tre Eolidi

È noto che Sísifo, figlio di Eolo ed Enarete nonché consorte di Merópe (uno dei molteplici epiteti greci della Settima Pleiade)(129), individua un’arcaica figura titanico-solare connessa specialmente all’aspetto primaveril-annuale e mattutin-giornaliero del Sole in tempi pre-olimpici; tant’è che dopo la sua demonizzazione, avvenuta senza dubbio in tempi eroici, codesto titano è stato ritratto agl’Inferi (ibid., vv. 829-40) nei panni di un dannato intento per contrappasso – nei confronti evidentemente d’una consimile ma piú positiva funzione ancestrale di nume solare – a riportare continuamente un aspro e perfido <macigno> sulla cima d’un <colle>, da cui esso è destinato presto a rotolare giú, ciò rendendo vano ogni ulteriore sforzo da parte del protagonista della pena (130). 
Mentre Atamante, considerato talvolta figlio di Minía (sc. A.Rh.- i. 230), è alternativamente noto quale fratello dello stesso Sisifo insieme a Salmoneo e quindi nella veste del secondo dei Tre Eolidi (131).  Cotal Atamante va ricordato pure per la sua pazzia, provocatagli dalla Regina degli Dèi.  A causa di siffatto impazzimento quegli aveva finito per dilaniare con una freccia il proprio figlio Learco, generatogli da Ino al pari di Melicerte, avendolo scambiato per un <bianco cervo> (132). Abbiamo già commentato simbolicamente l’episodio fin dal nostro primo articolo (133), in cui veniva suggerita la possibilità di una comparazione tra il mitema testé citato e quelli similari di altre tradizioni.  Segnatamente, si faceva colà riferimento alla leggenda ebraica di Lamek saettante Caino, nonché a quella indo-ellenica di Apollo-Orione e Rudra-Prajāpati.  Si badi che Atamante è sicuramente da connettere ad Issione.  Giacché Frisso (il ‘Ricciuto’) ed Elle (la ‘Cerbiatta’), prole che l’Eolio avrebbe avuto da Νεφέλη – connesso a νφος = ‘nuvola’ – quale figura allotropica di Era simboleggiante a giudizio di Graves la Luna Piena, sono alternativamente concepiti per l’appunto quali <figli> di codesto titano (134).
Ma chi è questo Issíone, oltreché lo sposo di Dia?  Il Graves (135) lo ritiene una personificazione assiale-zenitale del Sole.  Siccome un noto mito lo descrive legato sulla schiena, per punizione del Signore dell’Olimpo, ad una ‘Ruota di Fuoco’ alata che corre perpetuamente per l’aere senza posa.  Tale condanna è insomma parallela a quella di Tàntalo, che ne è difatti per certi versi un alter-ego, costretto com’è a reggere sul proprio capo il Sole a  guisa di <pietra ardente>(136).  La punizione inferta ad Issione è legata, in modo piú specifico, ad un tentativo di connubio con la paredra di Zeus da parte di quegli; parimenti a quanto avvenuto nei confronti della medesima da parte di altri in occasione della Discesa della dea agl’Inferi, presso Oceano e i Titani.  Piú verosimilmente essa è da spiegare mediante l’assunzione, nell’ambito d’un meno vetusto trimorfismo divino (vide infra), di un ruolo supremo da parte di Zeus; in conformità ad un’anteriore e pressappoco equivalente sovranità solare e celeste, appartenuta ad un piú antico nume d’origine chiaramente pre-eroica (137).  A conferma di tale ipotesi, è possibile dedurre un’analoga interpretazione riguardo la funzione essenzialmente mediana di Issione analizzando un’immagine riportata dal Cook (138); trattasi di un’icona presente nella decorazione, contenente rilievi simbolici sul tema degl’Inferi, d’un sarcofago romano rinvenuto in un monumento sepolcrale in mattoni dislocato sulla Via Appia Nuova.  Il sarcofago è stato successivamente traslato in Vaticano, nella Galleria dei Candelabri.  La rappresentazione in esso contenuta illustra una scena titanica ove in sequenza tre uomini barbuti, egualmente intenti in uno sforzo sovrumano, sono sottoposti ad una triplice e vana fatica.  Il primo di costoro, Sisifo, è inginocchiato su una gamba, mentre con l’altra tenta energicamente di sollevare un enorme ‘Masso’; il secondo, Issione, è vincolato invece ad una ‘Ruota a Sette Raggi’, raffigurata a volte diversamente in forma radiata o fiammeggiante.  Ed infine il terzo, Tantalo, è effigiato ritto nell’atto di sollevare inutilmente verso la bocca dell’acqua che irrimediabilmente cade a terra.  La posizione rispettiva delle prime due figure di tale trimorfia all’interno della scena è una prova ineludibile della veridicità delle nostre precedenti supposizioni circa il ruolo mattutino-ascendente di Sisifo e quello meridiano-assiale, in senso zenitale, di Issione.

La terza delle suddette figure, ossia Tantalo, riserva però qualche difficoltà d’interpretazione; dato che – abbiamo visto prima – il nome di cotesto titano parrebbe già associato a quello di Issione, in virtú d’allotipo di quest’ultimo.  Pertanto avremmo dovuto aspettarci piú logicamente in terza posizione, dopo costui ed in luogo di Tantalo, la figura semmai di Elio-Iperione; il titano solare per antonomasia (139), cui Kerényi (140) attribuisce in modo acconcio un ruolo crepuscolare-discendente.  Infatti si raccontava tradizionalmente che Iperione ogni sera dopo il tramonto entrasse in un’Aurea Coppa, la quale trasferiva il dio dormiente, di certo stanco per le fatiche giornaliere, dalle Isole delle Esperidi al Paese degli Etiopi (cioè da Occidente ad Oriente del mondo allora noto ai Greci); quivi sembra lo attendesse un carro già equipaggiato di veloci destrieri, nonché la Dea dell’Aurora.  La sostituzione di Elio con Tantalo si spiega, tuttavia, in base alle seguenti considerazioni.  La pena da cui è afflitto lo ‘Zoppo’ (141) è testimoniata da Omero nell’Od.- xi. 582 ss: Tantalo è ivi descritto in uno stagno, con l’acqua che gli arriva alla gola; ma egli non può berla, perché altrimenti essa si allontana da lui, quasi risucchiata ai piedi del titano, ed al posto di questa appare l’oscura terra.  Codesto supplizio va compreso palesemente in riferimento al tramonto del Sole nelle acque oltre l’Oceano ed al mito di Iperione, cui abbiamo poco fa accennato.  Onde si può lecitamente affermare che Tantalo, al di là della sua presenza nella raffigurazione citata del sarcofago romano, possa essere inteso quale figura solare in senso lato, come probabilmente in principio accadeva ad Elio medesimo.  Per spiegarci meglio, se l’identificazione di tal personaggio con Glauco Melicerte, figlio di Sisifo, avvicina Tantalo a quest’ultimo in funzione creativa (142); viceversa, l’immagine del medesimo con la ‘Pietra Ardente ‘ sul capo (143) l’apparenta ad Issione, secondo quanto s’è già appurato.  L’epiteto di ‘Zoppo’ tuttavia e l’identità nei confronti di Talo/Tauro, o di Calo/Crono (144), sono tratti che si addicono soprattutto al terzo membro della trimorfia della summenzionata decorazione; il quale dal punto di vista ciclico prima considerato incarna una ‘Seconda Generazione’ di numi, quella titanica vera e propria, facente capo nell’ambito del Grande Eone all’Età Argentea.  Non per niente, l’attributo di ‘Zoppo’ è proprio tanto del Crono ellenico quanto del Saturno latino.  Nella mitologia greca a sentir Platone (Tīm.- 40. XIII/ e) la coppia numinosa Crono-Rhea e gli altri titani apparterrebbero ad una ‘Terza Generazione’ divina, essendo queste divinità ciclicamente precedute dalle coppie Urano-Gea e Oceano-Teti; ma ciò è solamente il frutto d’una diversa suddivisione del Grande Eone, in 5 Grandi Anni anziché in 4 Età mitiche.
Tal attribuzione evidenzia chiaramente in Crono e Saturno (145) un lato oscuramente demonico, relativo al Tempo e alla Morte, sebbene di valore iniziatico (146).  In proposito, si noti che il nome latino del dio romano corrisponde a quello sanscrito del dio  vedico Savitar/Savit; appellativo di Sūrya (‘Sole’), l’Āditya per eccellenza, il cui carattere presenta difatti tratti piuttosto asurici (demonici) che devaici (divini).  Piú o meno come quelli dell’Elio greco.  Se l’uno (Sūrya-Savitar) s’oppone in India ad Indra o a Ka, l’altro (Elio-Iperione) cosí come Crono-Calo o Tauro-Tantalo è solarmente avvicendabile a Zeus o ad Eracle; che a loro volta, al pari di Indra e Kṇa (o Viu, la sua forma divina archetipica) venivano concepiti nell’Ellade quali alternativi signori dei 12 ‘dèi della Pioggia’.  Mentre Ἥλιος e Sūrya disponevano ciascuno d’un un rispettivo dominio sugli altri 6 titani delle sfere planetarie, concepiti anche come titani solari, poiché i 7 Pianeti erano definiti ‘Sette Soli’.  Del resto altre definizioni tipiche quali i 7 ‘Raggi Solari’, i 7 ’Cavalli del Sole’ o le 7 ‘Lingue del Fuoco’ si riferiscono allo stesso soggetto. La distinzione fra gli antichi 6 Numi – o 7 comprenendo quello supremo – e i piú recenti 12 Dei – o 13 per analogo  motivo – accenna ovviamente a calendari diversificati: uno assai vetusto, di tipo bimestrale e planetario, di cui si ha un riflesso ancor oggi nelle 6 stagioni della cronologia annuale indiana; l’altro meno antico, rispecchiantesi nelle 12 stazioni solari dell’anno zodiacale indomediterraneo (147).  Abbiamo buone ragioni difatti per ritenere che il calendario sacro annuale di 360°, diffusosi anticamente presso una vasta area geografica dall’Africa Settentrionale (ove è stato rinvenuto il piú datato esempio)(148) all’Eurasia, debba originariamente essersi basato (almeno, secondo le tradizioni indoeuropee) su un anno solare composto di cicli stagionali di 60° giornalieri; dai quali erano, di fatto, esclusi i 5 giorni intercalari.  Non importa se sia stata nota o meno codesta distinzione astronomica, visto che la cosa non sarebbe comunque cambiata sul piano astrologico, l’Astrologia misurando in gradi giornalieri e non in giorni astronomici (149).  Nel computo in gradi il problema insomma non sussisteva, la gradazione giornaliera non corrispondendo esattamente alle 24 ore diurne e notturne, bensí a cifre standardizzate le quali non si modificavano neppure negli anni bisestili (60° X 6 = 360°).  I cicli stagionali formati da bimestri anziché da trimestri hanno poi evidentemente subito un dimezzamento in unità mensili, per renderle il piú vicine possibile al ciclo lunare (30° X 12 = 360°), secondo quanto c’indica la filologia.  Si noti a tal proposito che il gr. μήν significa tanto ‘luna’ quanto ‘mese’.
È il caso adesso di tornare indietro a Salmoneo, fratello di Sisifo ed Atamante, tenendo conto che la seconda di queste due figure mitologiche costituisce un allotipo – in base a quanto si è già appurato – d’Issione.  Risulta quindi logico presupporre che vi possa essere un qualsivoglia nesso tra Salmoneo, il terzo fratello, ed Elio-Iperione o Tantalo nel senso solar-discendente poco fa spiegato.  In effetti occorre aggiungere che la punizione di Sisifo, concernenete il <masso>, appare concatenata all’antagonismo di tale personaggio nei confronti di Salmoneo; dal momento che quest’ultimo eolide alla morte del padre aveva usurpato il trono, spettante di diritto invece al primo (150).  Codesta titanica contrapposizione tra l’uno e l’altro fratello risulta oltremodo simile all’antitesi presente nell’ambito della mitologia hindu fra Prajāpati e Rudra (151).  Essa non è altro che la distinzione demiurgica, avvenuta nel ciclo argenteo del Tretā, fra un nume creatore incarnante la trasmissione della Tradizione Primordiale ed un altro con valenze opposte.  Il nume antagonista ovviamente rappresenta il divino fattore provocante la frantumazione dell’Unità Divina, personificata dal primo nume; atto cosmico questo per mezzo di cui vengono generati ipostaticamente ‘Sette Figli’ di natura asurica, uno dei quali (Daka) riproduce nel Settenario cosí formato il dio supremo.
In quanto a Sisifo dobbiamo rilevare che costui, al fine di vendicarsi dell’usurpazione del trono da parte del fratello Salmoneo (fuor di metafora del predominio celeste, giacché il padre Eolo – alla maniera del Vāyu indiano rispetto a Varua – è a nostro parere un travestimento funzionale di Urano), compie un incesto colla <figlia> di questi, Tiro.  Nel caso di Prajāpati viceversa l’incesto avviene colla propria <Figlia>(152), non con quella del rivale; ma ciò non cambia molto la scena, l’esito finale degli avvenimenti essendo in fondo il medesimo.  Il che ovviamente allude ad una trasmissione spirituale della Tradizione dall’una all’altra ‘generazione’ di numi attraverso, comunque, il fratello intermedio (Atamante).  Si deve allora desumere da tutto ciò che Sisifo (153) abbia avuto in Grecia lo stesso ruolo tenuto in India da parte di Prajāpati, ovverosia incarni l’aspetto benefico-creaturale di Crono (154); e che Salmoneo, il leggendario <usurpatore del trono>, ne raffiguri per contro l’aspetto malefico-distruttore.  Non meno di Tantalo o di Elio-Iperione, insomma.  La perdita d’attualità mitica avvenuta poi fatalmente per i Sette Titani con l’entrata in scena dei Dodici Dei capeggiati dal “tiranno” Zeus, ovvero la generale demonizzazione in cui essi sono caduti allorché si son trovati di fronte alle nuove prerogative degli Dei Olimpici, ha coinvolto in tutta evidenza anche Sisifo; nonché Issione, o l’alter-ego Atamante.     



i)  Minosse e la figura enigmatica di Minýas

Resta ancora da chiarire chi fosse quel Minía (Μινύας) che, alternativamente ad Eolo, compare quale padre di Atamante. Se Atamante svolge la parte di Issione, è evidente che Minia non può esser altro che una variante di Eolo ossia di Urano.  Nell’induismo egualmente Varua essendo un nume delle acque celesti presenta quale doppione Vāyu, il Dio del Vento o se preferiamo dell’El. Aria, assimilabile metonimicamente al Cielo; ma simultaneamente rappresenta un allotropo di Matsyendra o Mīna, tantricamente alternantisi in veste pescina o piscatoria.  Questi ultimi, infatti, quando uno di contro all’altro incarnano la parte di ‘Pescatore’ svolgono una funzione celeste ed assiale; allorché, viceversa, alludono parimenti al rosso ‘Pesce’ guizzante nell’ambito delle cd. ‘Acque Superiori’ svolgono un parte solare.  Tutti e tre i nomi citati (Varua, Vāyu, Matsyendra/Mīna) sono concepibili in India, naturalmente, come appellativi di Maheśvara (‘Grande Signore’); in riferimento all’aspetto supremo del dio, il quale tende ad equipararlo a Brahmā-Prajāpati anziché a Rudra-Śiva.  Nell’Ellade invece non esiste alcun nume super partes, convogliante in sé tutte e tre le funzioni sopraddette, che le assommi nella propria persona divina.  Perciò gli omologhi Urano, Eolo e Minia, pur apparendo visibilmente sovrapponibili da un punto di vista mitologico, non sono identificabili ad alcun <grande dio> fra i Greci che faccia da consorte mitico ad una <grande dea> (155).  Qualcosa di simile per la verità lo si nota nel pantheon, ma rimane sempre allo stato latente, come fra i Celti.
Abbiamo dunque individuato il solare Minía quale variante funzionale in Grecia di Eolo, signore dei venti, nonché dello stellato Urano; pressappoco come in India Matsyendra/Mīna rispetto a Vāyu, oppure a Varua.  Soltanto la terna di nomi indiana ha una propria reale unità di culto, quale molteplice espressione d’un unico nume, ma è possibile forse che anche in Grecia un tempo le cose stessero cosí.  In questo caso non si tratta di titaniche trimorfie solari proprie dell’Età Argentea come quelle di Sisifo-Issione-Tantalo, od in alternativa di Sisifo-Atamante-Salmoneo (156), ma qualcosa di piú elevato in senso aureo; sebbene si abbia a che fare con semplici denominazioni, non aventi una particolare relazione tra di loro, al di fuori di quanto riferito.  Resta ancora da chiarire tuttavia se la relazione apparente fra le voci di Minía e Minosse – attestata tanto dal nome quanto dalla parentela con Glauco  – sia qualcosa di reale, o meno.  Il primo nome è menzionato da Giuseppe Flavio, nelle ‘Antichità giudaiche’ (i. 1. 6), in occasione della descrizione da parte di codesto autore del Diluvio di Noè; inoltre l’Arminni (lett. ‘Alta Terra dei Minni’), ossia l’Armenia, viene esortata dal profeta Geremia (Ger.- li. 27) a porsi contro Babilonia (157).  Questo Minia è ad ogni modo da rapportare, per certi versi, all’Oannēs mesopotamico (158).  Necessita alfine rilevare che Glauco al di là del suo aspetto piú specifico di discendente di Poseidone, il signore del mare in epoca olimpica (uno dei 3 Dei del Triregnum, nei cui confronti si nota la classica semideificazione d’un titano, posto in posizione subordinata), viene talora presentato quale figlio di Minosse e talvolta quale nipote di Minia.  Sicché non ci pare azzardato a nostro giudizio avvicinare codesti due capostipiti mitici greci, rispettivamente, alle figure indiane omologhe di Manu e Mīna.  Glauco (159), inserito nell’una o nell’altra linea genetica, viene comunque a configurarsi quale nume equivalente ad una delle due divinità hindu appena citate (delle quali è forse una forma intermedia, simile al Matsyāvatāra).  Lo stesso accade per Minosse e Minia, ma con delle differenze (160).
Minosse, ripetiamo, è sicuramente un personaggio connesso all’Età dell’Oro, non, meno di Manu.  Anche se non funge esattamente da re-pescatore, bensí da traghettatore d’anime, poiché non meno dello Yama hindu e del Giano latino è stato demonizzato.  Colla sua Aurea Verga, c’informa Omero (161), giudica i defunti che ne fan richiesta attraversando le ampie porte dell’Ade e li assegna al posto che loro spetta.  I commentatori contemporanei dell’Odissea vedono delle incongruenze in questa descrizione (162), sospettando la solita interpolazione, sennonché Virgilio (Aen.- vi. 638-41) al pari di Omero riporta la stessa immagine di Minosse portiere dell’Averno.  Che in un’urna, al modo dei giudici istruttori romani (quaesītores), tiene i loro nomi ed esamina le loro vite.  È il giudice della Campagna del Pianto, il primo regno infernale; dove stanno i pargoletti morti in tenera età coi loro teneri vagiti, che Enea subito ode appena entrato oltre la Porta dell’Erebo (Tramonto), dopo aver addormentato il cane tricefalo (Cerbero) con un’apposita focaccia a base di mele ed erbe soporifere.  E poi ancora tutti gli altri infelici: i condannati ingiustamente, i suicidi per amore (fra i quali Didone, di cui Enea piange la sorte), i guerrieri morti ingloriosamente.  Altre funzioni di Minosse, in senso divino anziché infernale, sono esaminate piú oltre (163).   Il viaggio di Enea nel mondo sotterraneo dell’Averno prosegue fino al Tartaro, “di Radamanto il tristo regno” (vs.840 ss).  Nel secondo regno infero vengono puniti i rei a causa delle colpe commesse in vita, ma si trovano pure per paradosso tutte le divinità dell’Età dell’Argento”; ossia “gli antichi Titani” (vv. 805-6).  Nel terzo regno stanno infine i Campi Elisi, nei quali vaga Orfeo coll’eptacordo per trastullare i beati.  Quivi Enea, dopo aver depositato il Ramo d’Oro sulla soglia di Proserpina (regina degl’Inferi), incontra il padre Anchise predicente le glorie future di Roma.  Da tutto ciò si deduce una cosa a conferma di quanto prima sostenuto, cioè che Minosse non funge nel contesto da dio aureo, bensí da dio bronzeo; cosí come Radamanto da nume argenteo ed Orfeo, è ovvio, da nume aureo.  Che Minosse sia inteso quale Zeus infero non fa meraviglia, la cosa essendo accaduta anche per Giano, identificato a Quirino (164).
Riguardo Μινύας, è chiaro che costui ha avuto sin dall’inizio un ruolo meno importante di Minosse, diremmo argenteo anziché aureo.  Proprio come il Mīna indiano.  Oltreché con questi, si può tracciare un parallelo col Mīn egizio, circa il quale vide infra (165).  Notevole il fatto che codesta divinità sia identificata dal Fontenrose a Perseo (166) e che a sua volta Perseo venga equiparato dal punto di vista funzionale ad Apollo (167) nonché all’ugaritico Baal (168).



l)  Ruolo del Delfino e della Seppia
nell’iconografia di Glauco Melicerte, Apollo ed Eros

Dal punto di vista iconografico è reperibile un’unica immagine di Glauco a cavallo del Delfino, in base ad una leggenda eziologica narrata da Pausania (Per.- i. 44, 8)(169), storico pagano della seconda metà del II sec. d.C.   Il Kerényi  al riguardo compie un’interessante distinzione iconologica fra la suddetta  rappresentazione di Glauco Melicerte e quella, del tutto similare, di Eros su Delfino.  La differenza fra tali raffigurazioni consisterebbe a parere dell’autore austro-ungarico (170), poi vissuto e morto in Svizzera, nel fatto che Eros diversamente da Glauco dovrebbe stringere fra le mani la Seppia; norma che, in genere, è ben lungi dall’esser applicata (171).  L’effigie identica delle due divinità marine permetterebbe, invece, di cogliere in entrambe i tratti del ‘Divino Fanciullo del Mare’; è probabile, ad ogni modo, che l’una (del nume su Delfino) si riferisse in origine al Solstizio Invernale e l’altra (pure su Delfino, ma colla Seppia in mano) al Solstizio Estivo.  Ancora il N. ci rammenta come in ambiente dionisiaco, ad es. a Corinto, Melicerte ovvero Palemone (172) fosse considerato un secondo Dioniso.  Per quanto codesto dio nella sua forma marina piú recente sia stato altrimenti ritratto (vedi coppa del pittore Exechia, ora al Mus. di Monaco di Bav.) nell’aspetto consueto d’un essere barbuto, boccheggiante come un ubriaco e semidisteso sul dorso, colla testa china in avanti e le mani all’indietro; sul ponte d’una barca a vela, il cui albero maestro appare trasformato in tralci di vite, con 7 grossi grappoli d’una che fanno pendant con altrettanti delfini guizzanti nel mare tutt’attorno (173).
Mentre in ambiente apollineo (ad es. a Taranto) la medesima rappresentazione del Divino Fanciullo su Delfino pare alludesse ad un secondo Apollo, il quale riceveva l’epiteto di Taras (174).
Per ciò che concerne l’iconografia di Eros Fanciullo dobbiamo segnalare che a Pompei (Casa dei Vetti) troviamo un Eròtio aleggiante sule Acque, colla Verga in mano a guisa di frusta e le Redini d’una Biga trainata da 2 Delfini nell’altra (175).   Nell’ansa d’un vassoio di Bondonneau d’epoca romana (III sec. d.C., Mus. del Louvre, Parigi) si può altresí notare una scomposizione della suddetta figura numinosa in 2 Amorini; ciascuno dei quali sta in piedi su un Delfino, in contrapposizione araldica all’altro, e fiancheggia una coppia di Tritoni sorreggenti la Conchiglia di Venere distesa nel mezzo (176).  Altrove (177) viceversa i 2 Amorini sono disposti a cavallo del Delfino, in maniera egualmente antagonistica.  In tal caso però li vediamo entrambi stringere in mano un Laccio (sul tipo del Pāśa dei numi indiani), il simbolo prima considerato delle due opposte fasi cicliche del Divenire essendosi quivi condensato in un emblema che è in effetti il segno d’una avvenuta duplicazione delle stesse fasi; in altre parole, ci troviamo dinnanzi ad un’enfatizzazione del medesimo motivo tematico.  Notiamo, infine, che in un cammeo in onice della Collez. appartenente al Mus.Arch. di Firenze campeggiano 3 Eroti trastullantisi con 2 Delfini (178); uno di loro è ritratto sulla schiena di codesti cetacei, a loro volta intrecciantisi per le code.  Mentre gli altri Amorini sono immersi per metà nell’acqua, ciò che denota ovviamente un dimezzamento del loro valore simbolico.  Ivi il motivo dei 2 Delfini prima analizzato assume un’evidenza senza dubbio maggiore, essendo raffigurato assieme ai fattori di opposizione/complementarietà anche un fattore unificante intermedio, dato dall’Eròtide al centro della scena.  Lo si confronti coll’Erotio pompeiano sulla Biga trainata da 2 Delfini (vide supra), nella cui immagine scenica in luogo dei 2 Amorini laterali stavano le 2 Redini impugnate dall’unica figura alata dell’Eros Fanciullo.         



m)  Aspetti marini di Afrodite

La Madre Terra per vendicarsi dell’eccidio dei 24 Giganti (179) giacque col Tartaro, generando il mostro Tifone, dotato d’una spaventosa <Testa d’Asino> e con teste serpentine in luogo delle gambe (180); che – come abbiamo già visto in precedenza – costituiscono per un verso un rimando a Canopo, e per l’altro al Dragone del Nord, i due asterismi opposti facenti da perno polare rispettivamente antartico ed artico (181) durante il VI Ciclo Avatarico.  Di fronte allo spettacolo orripilante della presenza di Tifone, ecco gli Dei trasformarsi in animali.  Zeus in Ariete, Era in Vacca, Artemide in Gatto, Apollo in Corvo, Hermes in Ibis, Ares in Cinghiale, Dioniso in Capra e Afrodite in Pesce (182).  Secondo quanto attesta la poesia latina (Ov., Met.- v. 50):

     Giove in monton, – dic’ella [l’egizia terra] – onde ritratta
S’è con le corna la testa d’Ammone;
In negro corvo Apolline s’appiatta,
In giovenca bianchissima Giunone;
La suora a Febo si trasforma in gatta,
Il figliuolo di Semele in caprone;
Mercurio in ibi si nasconde, e mesce
Venere il suo bel corpo in sozzo pesce.

A parte questo motivo simbolico, non vi sono altre forme ittiche di Afrodite.  La natura pelagica della dea del desiderio, denominata non a caso Pelagia, è dimostrata comunque da altre raffigurazioni; innanzitutto, da quella effigiante l’occasione della nascita di costei (183).  Padre Urano la genera dai propri genitali, o meglio dalla schiuma (φρός) delle onde attorniantisi al suo fallo caduto nel mare, che il figlio Crono aveva reciso.  In una variante lei esce direttamente dal <Fallo> di Urano (184).  L’epoca di tale versione mitica, variante compresa, non combacia però col momento di gestazione dell’equivalente dea indiana, Varuṇānī (o Vāruṇī), paredra (o figlia) di Varua.  Secondo un’altra leggenda, probabilmente piú veritiera dal punto di vista cosmologico, era emersa nuda dalla spuma del mare e, cavalcando una conchiglia, s’era diretta all’isola di Citera, poi nel Peloponneso ed infine a Cipro; per stabilirvi la sua residenza definitiva, rimasta immutata fino ad oggi (185).  Di qui il suo nome ed i soprannomi arcinoti di ‘Citerea’, dal capo ornato di viole, o di ‘Cipride’.  Vi è chi invece come noi suppone un’etimologia diversa, sia per il nome greco (186) che per il secondo appellativo (187).  Una terza leggenda (188), questa volta mesopotamica (relativa ad Aštoret/Ištar), narra che dei pesci avevano trovato un uovo molto grande nell’Eufrate e lo avevano spinto sulla riva; dopodiché una colomba lo aveva covato e da qui era nata la Dea dell’Amore.  Quest’ultimo racconto la mette in parallelo con Eros, considerato in genere il figlio del suo connubio con Hermes od Ares, ma tale paternità spiega esclusivamente il carattere androginico.  Questi infatti è ritenuto altrimenti il primo nume, nato senza padre né madre dall’Uovo Cosmico (189).  Quindi Afrodite potrebbe risultarne la figlia, non già la madre; dal momento che a seguire nella serie di Generazioni Divine, per gli Orfici, è proprio Urano.

Ora tratteremo degli aspetti propriamente iconografici del tema, in base alle varie posture della dea ed ai dettagli delle icone che la raffigurano, al fine di sviscerarne gli ulteriori segreti che la caratterizzano.  Soprattutto quelli connessi al mare e alle acque.  Il prof. Becatti (190) ha distinto 2 tipi e 2 sottotipi di Afrodite Anadiomene, o Venere Marina; il tipo maggiormente rappresentato sarebbe quello a torso nudo, appoggiato a un pilastrino, su cui svetta un vaso perpendicolarmente sulla destra (191) talvolta in posizione obliqua (192) o talaltra diritta (193).  Il sottotipo mostra l’aggiunta d’un chitone, tunica stretta in vita da una cintola, indossato dalla Venere (194).  Il tipo meno rappresentato è caratterizzato viceversa dal torso nudo e da un delfino appoggiato ad uno scoglio (195), il suo sottotipo in questo caso essendo dato da un erotio adagiato prono sul delfino (196); ma vi sono 2 sottovarianti, stabilite una dal chitone (197) e l’altra dal putto nudo senza delfino (198).      
Il Becatti da ottimo studioso qual era (è scomparso nell’ormai lontano 1973) ha svolto una complessa indagine per spiegare al meglio l’iconografia ed il senso proprio delle varianti, visto che la diffusione di molte copie in varie grandezze provava l’importanza del soggetto.  Pur tenendo conto del fatto che dal Cinquecento in poi i restauratori hanno modificato gli attributi originari delle statue monche con altri attributi secondo il gusto del tempo, rendendo il terreno della ricerca iconologica molto insidioso.  La suddivisione tematica principale, al dire dell’autore (199), sarebbe insomma fra l’Afrodite seminuda al bagno – con accanto il Vaso (non esattamente un’idria) e ricoperta nella metà inferiore da un panno frangiato retto dalla mano sinistra – e l’Afrodite emergente dalle onde ovvero Anadiomene col Delfino (200).  A parte dunque l’Afrodite vestita dalle Ore, di cui abbiamo già trattato in relazione ad Ορανία e che secondo il Burkert è la piú bella raffigurazione della dea (cosa che senz’altro condividiamo, anche se la preoccupazione stilistico-estetica è l’ultimo problema che ci affligge in questa nostra disamina), il Becatti cita quali esempi decisivi dei 2 motivi sopraddetti vicendevolmente la Cnidia marmorea di Prassitele (prima metà del V sec. a.C., secondo altri del IV)(201) e l’Anadiomene perduta del pittore Apelle (IV sec.).  Di quest’ultima rimane una copia, colla dea che si strizza i capelli, in una pittura pompeiana del I sec. a.C. (202); ne seguono altre, simili, nei primi secoli dell’E.V.  Della Cnidia perdurano molte copie romane, la migliore delle quali è considerata l’Afrodite Colonna al Mus. Pio-Clementino (203).  Un terzo tema è stabilito dall’Afrodite Pudica nuda, col braccio destro  piegato e la mano su un seno, mentre la sinistra copre la zona pubica (204).  Anche in tale icona compare il Delfino, a volte cavalcato da un Erotio (come nella bellissima Afrodite Medici, Gall.Uff., copia del I sec. a.C.)(205), oppure il Vaso col panno (vedi ad es. l’Afrodite Capitolina, Mus.Capit., Roma)(206) od il Tronco d’albero.  La Felletti Maj ha supposto (207) che la tipologia della Pudica sia stata ideata alla fine del IV sec. a.C., in ambiente post-prassitelico, rilevando la presenza alternativa accanto dell’Amorino senza Delfino (208).  L’originale dell’Afrodite Medici risalirebbe d’altronde, secondo vari studiosi, alla prima metà del III sec. a.C. (209).  Onde si può immaginare col Becatti che la Pudica costituisca un tipo misto fra l’Afrodite-nuda-al bagno e l’Afrodite-emergente-dalle acque, in altre parole fra l’icona scultorea di Prassitele e quella pittorica di Apelle.  Al riguardo rimarchiamo da parte nostra che un modello di Pudica di foggia arcaica, non nuda ma con addosso una veste, è rintracciabile in un bronzetto di c.20 cm dell’arte samia (Olimpia, VI sec. a.C., ora al Mus.Naz. di Atene)(210).  Ragion per cui è possibile che da Prassitele ed Apelle nel modello della Pudica sia stato presa solamente la nudità ed il bell’aspetto di stile classico, non ieratico.  Il Becatti fa palesemente derivare dalla Cnidia (211) il concetto di Anadiomene sul mare, elaborata a suo parere sciogliendo il gesto della mano e trasformando la nudità dalla preparazione al bagno in acque sorgive a quella in acque marine, ottenendo in tal modo un’Anadiomene diversa da quella di Apelle (212).  Le Afroditi di Cirene (213) non differiscono di molto da quelle del tipo dell’Afrodite Capitolina (vide supra), ma al posto del Vaso col panno hanno il Delfino cavalcato dal piccolo Eros.  In un caso si trova invece il drago, in un altro l’Ippocampo.  La Felletti Maj pensa, comunque, che l’attributo originario di codesto modello afroditico sia il Vaso col Panno (214); mentre per il Becatti, all’opposto, il tipo primario è quello dell’Afrodite Medici (215).  Non si conoscono d’altronde esempi classici di Anadiomene, il piú antico essendo per l’appunto l’Anadiomene Medici del I sec. a.C., il cui originale risalirebbe – come detto sopra – al III sec. a.C. e sarebbe stato ottenuto nel modo supposto dal Becatti (216).  Vi è inoltre da osservare che la Pudica talora detiene simultaneamente il Vaso col Panno ed Eros ritto su Delfino, come nella copia del Mus.Arch. di Venezia (217); oppure, come in quella del Mus.Conservatori di Roma (218) è il Putto ergentesi sul Delfino che versa direttamente il Vaso d’Acqua.  Non bisogna d’altra parte dimenticare che questo Hūmor, gr. Ὕδωρ, altro non è che Soma cioè Acqua di Grazia; la quale può esser intesa primordialmente come Luce immortale in relazione ad Eros oppure, sacrificalmente, come benefica Pioggia in rapporto al tema della fecondità e della fertilità. 



n)  Afrodite e la Conchiglia

Un tipo particolare di Pudica è l’Afrodite Landolina del Mus. di Siracusa (219), reggente colle mani la Conchiglia innanzi al grembo (220).  Al di là delle interpretazioni estetizzanti, sicuramente valide ma limitative, non si può non tener conto di ciò che la Conchiglia significa a livello simbolico.  Non è solamente l’emblema acqueo del Femminino (221), della Natura Naturante ovvero della Provvidenza, un concetto in realtà pagano e quindi pre-cristiano; ma piú profondamente il contrassegno dello Zero Metafisico (222), dato che contiene la Perla.  La Perla, infatti, è legata al potere creativo o salvifico delle Acque.  Ha una valenza talvolta lunare, connessa alla Gran Madre in quanto datrice di vita; ma talora rimanda all’Embrione siccome momento primo dell’esistenza animale o, addirittura, al Caos che la precede emblematizzato dall’Oceano (223).  La pittura della Doppia Pudica dipinta nella Casa di Romolo e Remo, a Pompei (224), illustra l’utilizzo della Venere come fontana in senso decorativo; in mezzo alle 2 statue, inquadranti un’esedra, compare infatti il Vaso d’Acqua zampillante accanto all’Airone.  La presenza d’un Fauno mollemente sdraiato su un’arcata al di dietro di loro, per la verità non ben rilevabile nei contorni dell’immagine in BN riportata dal Becatti (225), accentua la trasformazione o quasi delle 2 suddette figure in Ninfe.  Anche la femmina reggente un bacile per l’acqua in mezzo a 2 cespi in fiore,  raffigurata a torso nudo e lembo obliquo del mantello attorniato alle gambe, della pittura del viridario nella Casa della Caccia di Pompei (226) viene interpretata dal compianto Professore come una Ninfa (227); ma gli attributi aviari che la fiancheggiano (una civetta ed una colomba) e la sormontano nel riquadro soprastante (un maschio ed una femmina di pavone immersi in una verzura ed araldicamente contrapposti ai lati d’un fusto arboreo) parrebbero spingere in tutt’altra direzione, piú prossima alla visione d’una vera e propria dea della fecondità e della fertilità del giardino – ossia ad una Venere, col Bacile in luogo della Conchiglia (cfr. la Landolina) – che non ad una semplice ninfa dei boschi o delle sorgenti termali.
Secondo il Becatti (228) il pilastrino d’appoggio di eredità fidiaca (V sec. a.C.) che caratterizza la raffigurazione scultorea tanto di Afrodite quanto delle Ninfe suggerirebbe di per sé l’idea della sorgente.  Per questo esso è rintracciabile financo nella figura del Bel Narciso, che appoggiandosi allo stesso inclina il capo di lato con efebico sguardo come se si specchiasse in una fonte per rimirarsi e compiacersi della propria immagine (229).  Non si dimentichi a tal proposito, a scanso d’equivoci, che il tema del Narciso concerne il Principio della Creazione; e che le Acque sottostanti, di conseguenza, alludono segretamente alle forme immateriali procurate dalla Natura Naturante.  Altra cosa a giudizio del nostro autore sarebbe invece il pilastrino con base e capitello sagomati su cui è depositato il Vaso della Venere Marina, in questo caso costituendo insomma a differenza del precedente un mero elemento architettonico (230).  Non siamo però d’accordo su questo punto e, forse, non del tutto neanche sull’altro.  L’Iconologia delle Religioni c’insegna a questo riguardo un fatto importante, a smentita dell’asserzione in apparenza logica del Becatti; ovvero che, posta una data icona, ogni elemento che fa parte di essa deve esser interpretato alla medesima stregua.  Ciò avveniva almeno nell’arte tradizionale, simbolica per eccellenza, all’insaputa degli artisti stessi.  E persino nell’arte moderna si potrebbero scoprire fattori che, nonostante la volontà del compositore dell’opera, tradiscono determinate idee.  Quindi se il Vaso, il Delfino ed Afrodite ricoprono un determinato significato simbolico ossia rappresentano una scala di valori a seconda della capacità intuitiva e culturale di chi li contempla nel loro assieme, non può essere che un ulteriore elemento facente parte integrante della medesima scena a livello compositivo (tale è il Pilastrino, benché a volte possa mancare) e solidale cogli altri sia da interpretare in maniera diversa da questi.  O tutto il contorno della figura è simbolico, o niente lo è.  Una figura mitologica è un simbolo, dunque tutto l’insieme della scena è simbolico.  Donde si può ricavare che il Pilastrino di necessità raffiguri in entrambi casi qualcosa di fisso, non di convenzionale, crediamo da parte nostra esattamente l’Axis Mundi.  Che poi la coscienza di codesto rapporto col cosmo sia venuto meno ed abbia finito per fungere da elemento semplicemente decorativo, cioè estetico, è assai probabile; ma allora in entrambe le icone, non in una sì e nell’altra no.  Inoltre la cosa varrebbe pure per gli altri elementi, benché la natura profonda delle rappresentazioni tradizionali faccia in modo che delle menti deste possano scoprire in essi principi che magari gli autori delle opere avrebbero persino smentito se fossero stati interpellati al riguardo.  I cantastorie moderni e contemporanei nulla sapevano dei valori enunciati nelle fiabe da loro tramandate, eppure in queste gli studiosi di tradizioni popolari hanno scovato un nucleo di idee che le riporta ad uno shamanismo ancestrale.  Simile cosa accade coll’arte.  Tant’è che nell’icona di Afrodite colla Tartaruga, caratterizzante in modo specifico Afrodite Urania secondo Becatti (231), ritroviamo un riferimento al II Ciclo Avatarico o Ciclo Nord-orientale; il cd. ‘Ciclo della Tartaruga’, nel quale è posta in ambito hindu la nascita della figlia-sposa di Varua, l’equivalente indiana di Ορανία.  Di poi divenuta, fra i Greci, la Musa dell’Astronomia; ma evidentemente connaturata colla fase primordiale di Afrodite, le cui sculture ellenistiche non sono che una tarda raffigurazione basata su concezioni piú filosofiche che misteriche; altrettanto non si può dire, tuttavia, per la piú classica Urania di Fidia o di chi per lui (232).  Anche la Tartaruga, in fondo, non è che una variante della Conchiglia e viceversa.
Nel rilievo votivo dedicato alle Ninfe Nitrodi ad Ischia, ora traslato al Mus.Nazionale di Napoli (233), osserviamo 2 Ninfe Laterali a gambe incrociate; disposte in maniera simmetrica, ciascuna con Pilastrino e Vaso, affiancano una Ninfa Centrale reggente colle mani la Conchiglia alla maniera derll’Afrodite di Siracusa.  Parecchie sono le varianti formali ad Ischia ed altrove (234).  Le Ninfe, ad es., possono avere il panneggio della Pudica e non tenere le gambe incrociate; oppure può differire la posizione del pilastrino o la disposizione, verticale anziché rovesciata, del Vaso.  La tipologia tipica delle Ninfe a gamba sinistra incrociata compare anche nei sarcofaghi romani, ove sono scolpiti altri mitemi legati alle sorgenti; oppure esse appaiono accanto a Satiri e Sileni (235), od anche nella libera composizione statuaria d’una singola Ninfa con vaso e Pilastrino (236).     
Riassumendo, si possono delineare 3 tipologie di copie di rilievi creati per decorare giardini, ninfei e fontane (237).  La piú diffusa è quella dell’Afrodite Anadiomene, ritenuta maggiormente antica per le sue caratteristiche stilistiche (238).  Da questa sembra sia derivata la seconda, col mantello discendente sulla gamba sinistra e la pezzuola sul capo, dotata in sostanza di forme piú aggraziate ed uno stile più mosso (239).  La terza è data dalla gamba flessa, con accentuazione ulteriore del dinamismo della figura; vedi la statuetta con diadema del Mus. del Bardo, a Tunisi (240).  Il mantello non è piú stretto sotto l’ascella, ma poggiato sulla spalla sinistra.  Tutte e tre queste tipologie mostrano per attributo generale il Vaso col Pilastrino, ma a volte le prime due propongono il Delfino, con o senza il Putto.  Il terzo tipo figurativo, esclusivamente con Vaso e Pilastrino, è quello proprio per rappresentare le Ninfe.  L’Asta ed il Putto attorno ai quali s’avvolge la Coda del Delfino (241) non è peraltro un particolare irrilevante e nemmeno incongruente, come pretendeva il Becatti (242); ma significativo del ruolo svolto dal Delfino quale signore della ‘Superficie delle Acque’, in senso zodiacale, ed in opposizione complementare alla Conchiglia od altri equivalenti emblemi invece del ‘Fondo delle Acque’ (243).
Non condividiamo minimamente la tesi manicheistica di chi, facendo di tutte le erbe un fascio, vorrebbe riportare tutti i modelli esaminati a quello delle Ninfe o di Ino-Leucotea (244). 



o)  La Conchiglia nel mondo indiano, da Varua a Viu

Śakha (245), l’avversario del Matsyāvatāra recante il Veda (lett. il Caturveda) – alfine da questi recuperato – sul ‘Fondo dell’Oceano’ (cioè nel Caos precedente alla cosmogonia)(246), è la personificazione della Conchiglia nel I Ciclo Avatarico.  Ogni avatara e quindi ogni avversario divino presiedono ad un intero ciclo di manifestazione di 6.480 anni, sebbene visibilmente appaiano soltanto alla fine del ciclo.  L’induismo insegna non per niente che dallo Śakha (‘Conchiglia’), appaiato microcosmicamente all’Orecchio (ove, una volta tappato, secondo la Mait.U.- vi. 21-3 è possibile ascoltare il Paraśabda ovvero il ‘Suono Supremo’), fuoriesce l’Au; e l’Au, identificato al Sole (ibid., 4), conduce all’Aśabda ossia al ‘Non-suono’.  La Conchiglia d’altra parte è sinonimo di Perla e la Perla (Mukta, lett. ‘liberata’, s’intende… dalla conchiglia dell’ostrica) è assimilabile al Bindu (lett. ‘punto, puntino; goccia, macchia; zero’), l’Immanifesto donde per cristallizzazione si forma il Principio da cui si sviluppa la Manifestazione.  Ossia il summenzionato Au, che ne è come un’ipostasi sonora.  Alter-ego di Śakha (247) è sicuramente Bali (Orione), figlio di Varua, anche lui effigiato in funzione di mitico <avversario> del I Avatāra; viene ritratto come tale nell’atto di fuoriuscire dalla Conchiglia, in altre parole nel compimento dell’Ātmāyajña.  Come ben ci mostra una miniatura popolare del Jammu (248), dove il nume ha corna di capra (l’animale sacrificale per antonomasia) e coda di leone ad evidenziarne il carattere apollineo-solare, insomma shivaico.  Ad assistere alla scena rituale del combattimento col Matsyāvatāra, reggente in una mano fra l’altro lo Śakha (al modo di Viu) e dipinto a spada sguainata, sta sornione il Veda.  O forse, come vogliono K.C. Aryan e S. Aryan, Brahmā in forma dicefala (249).  Altre volte, viceversa, la terza figura manca.
Come Viu si sia impadronito di tale arma è narrato nel Mahābhārata.  In un passo (Ādip.- xxi) si racconta che l’Oceano vasto e profondo, oscuro ed immutabile, pieno di pesci sufficienti a nutrire la balena e reso inaccessibile dalla presenza di altri terribili mostri, dimora del fuoco subacqueo oltreché di Varua, dei Nāga e degli Asura, era il genitore della grande conchiglia chiamata Pāñcajanya.  In un altro passo (Droap.- xi) si chiarisce che fu Hikeśa (Ka) a donarla a Keśava (qui Viu) dopo aver vinto Varua nelle profondità oceaniche ed aver annientato il dānava Pāñcajana, possessore di tale conchiglia.  Secondo taluni (250) lo Śakha, a volte, costituisce un attributo pure di Śiva.  Da notare che il termine Śaku, del resto con opposto significato (251), è un nome di Mahādeva oltreché di Kāma (252).  Ad ogni modo lo Śakha apparteneva primieramente a Kāma (253), o  se vogliamo  a Varua (254).  Dato che il primo corrisponde ad Eros ed il secondo ad Urano, il gioco è fatto.  Abbiamo dimostrato, praticamente, l’equivalenza della Conchiglia di Venere con quella del corrispettivo maschile indiano (Varuna) della dea greca, anche se il corrispettivo maschile greco (Urano) per la verità non dispone di codesto attributo.  Il problema semmai è che nemmeno la figlia-consorte del nume hindu, Vāruṇī-Varuṇānī,  dispone della Conchiglia; ma ce l’ha in dotazione comunque la vera sposa di Varua e cioè Gaurī, o meglio Jagadgaurī (la ‘Gauri del Mondo’), omologa indiana di Γῆ (ion. Γέα/Γέη).  In apparenza non sembrerebbe esserci nulla in comune fra la devī hindu e la dea ellenica, quantunque l’etimo (soprattutto la var. ep.ser. Γαῖα, dor. Γᾶ) dia a pensare, eppure l’identità è data dal colore della prima.  Infatti Gaurī significa ‘Gialla, Giallognola’ e questo è il colore della Terra nell’iconologia, non solo induista, anche buddhista.  Nelle pitture nepalesi di foggia tibetana il maschio posto in amplesso (yab-yum) colla Terra nei panni d’una femmina dalla pelle gialla – nei dipinti il color di Prajñaparamitā (255), ad esser sinceri, risulta ocra – è Vajradhara (256), identificabile a Vajrakāla o a Kālacakra, di color blu a simboleggiare il Cielo nel suo continuo Divenire.  Da notare che tale amplesso non indica solamente un rapporto di tipo cosmologico, come quello fra Purua e Prakti; bensí l’Unità Divina, colla Sua Presenza manifestata in senso shaktico (257).  Un’ulteriore conferma di quanto appena da noi sostenuto, la ricaviamo dal fatto che in realtà Vāruṇī riceve la Conchiglia per condivisione dell’attributo quand’è unita in forma composita a Cāmuṇḍā, ipostasi di Kālī caratterizzata appunto dallo Śakha (258).
Da Varua (o Kāma), come suddetto, la Conchiglia passa a Viu.  Di Viu, cosí come di Brahmā, non si sono trovate tracce nel mondo preistorico a livello archeologico.  Che esistessero già tuttavia queste due deità all’inizio del Kaliyuga sono i testi vedici stessi a darcene notizia.  Certo la cronologia dell’Orientalistica ufficiale differisce alquanto da quella tradizionale, ma noi è su quest’ultima che facciamo affidamento in codesto libro.  Dell’altra, stilata appositamente per sviare i falsi sapienti (coloro che fanno dell’erudizione un fine anziché un mezzo, come dovrebbe essere), poco c’importa; poiché, detto con tutta sincerità, lascia il tempo che trova.  Ad ogni modo le prime immagini giunteci su Viu, tanto per stare al metodo storico, risalgono esclusivamente al III sec. d.C.  Il primo tempio vishnuita di cui si abbia conoscenza pare essere invece quello di Badarī (259), alle fonti del Gange. La radice della formazione di tale culto è da porre, sicuramente, nella venerazione degli Eroi (260).  La prima forma di Viu descritta nel Mahābhārata (precisamente nell’Ādiparva ed in riferimento alla sua ipostasi di Nārāyaa), possiede soltanto 2 mani, reggenti mazza (gadā) e ruota (cakra); mentre le prime forme a 4 braccia, una mezza dozzina, risalgono al Periodo Kuāṇa e sono preservate ora al Mus. di Mathurā (261).  La Conchiglia iconograficamente appare piú tardi, a partire dal Periodo Gupta (262), nella mano sinistra inferiore.  È divenuta ben presto una delle 4 armi fondamentali del dio assieme alla Mazza (in alto, a destra), alla Ruota (in alto, a sinistra) e all’Abhayamudrā (in basso, a destra). Non ha importanza qui stabilire se l’icona di Viu si sia evoluta o meno da quella del Bodhisattva (263), stilisticamente parlando, essendo un fattore estetico di cui per l’occasione non teniamo conto.  Quel che conta per noi in questo momento è l’origine concettuale dell’arma in questione.  Nel IV sec. la mano destra inferiore è posta in varadamudrā (264), ma l’arma caratteristica di tal posizione sarà in seguito il Loto (Padmā)(265).  Tutte e quattro le principali armi in dotazione al dio si trasformeranno nel XII sec. (al dire del Desai, ma noi non siamo per nulla d’accordo) in āyudapurua (lett. ‘arma-persona’, cioè personificata)(266), ossia in personificazioni di divinità ausiliari del nume.  Saranno unicamente i testi tardi ad offrir spiegazioni circa il significato delle varie armi, ma è supponibile che come per il resto esse rispecchino idee collaudate da parecchio tempo, cioè pratiche antiche tramesse dalla tradizione per via orale.  Il Desai cita in proposito il V.Dh.P.- iii. 85, 16-8.  Su codesta base iconologica pian piano s’innesteranno altri caratteri indigeni, una fisionomia del genere ricorrendo un po’ in tutte le divinità d’origine vedica, è ovvio.
Rimane da segnalare il fatto che la Conchiglia già nel Mhbh., Sabhāp.- 10, 38/b viene presentata quale tesoro (nidhi) di prosperità, in relazione a Kuvera (o Kubera), con queste parole: “I piú belli fra tutti i gioielli, le regine fra tutte le gemme (267) nell’ambito del Trimundio, ovvero Śakha e Padmā, in forma personificata, accompagnati da tutti i gioielli della terra (pure loro alla stessa maniera) ossequiano Kuvera.”  Kuvera altro non è che l’ennesima forma di Maheśvara, come d’altronde il corrispettivo greco Dioniso – sia in veste epictonia che in quella ipoctonia – lo è di Crono.  Interessante rilevare ancora, per quanto esuli dal nostro programma di ricerca, che nel V.Dh.P.- iii. 85, 2-11 è offerta una dettagliata descrizione iconografica delle armi dei 4 Vi-Vīra (268) o discendenti di Vi (principe del Regno Yādava nell’India Nord-occidentale) nel quintuplice culto bhāgavata-pāñcarātra (di Para-Vāsudeva alias Puruottama, Vāsudeva alias Ka, Sakarsana alias Baladeva, Aniruddha alias Sāmba e Pradyumna alias Kāma)(269).  Para-Vāsudeva, si noti, è identificabile anche a Nārāyaa.  Ciascuno dei 4 vyūha (‘porzioni’) dell’Essere Supremo tiene in mano delle armi proprie: a parte  Ka–Vāsudeva, che possiede quelle consuete di Viu (Conchiglia compresa), Balarāma-Sakaraa – inventore in tale funzione, a volte ricoperta dal gemello, dell’agricoltura e come tale rapportabile al culto degli Ārya oltreché identificabile al Noè giudaico-cristiano – detiene il Pestello e l’Aratro; mentre Aniruddha-Sāmba ha la Mazza, Pradyumna-Kāma Arco e Freccia.  Senza star ad analizzare tutti gli sviluppi del culto vishnuita che qui non ci riguardano segnaliamo una peculiare raffigurazione di Viu, questa sí importante, che anziché 4 armi ne ha in dotazione solo 3.  È una scultura di Nālandā (VIII-IX sec. d.C.), nella regione del Magadha (all’incirca l’attuale Bengala) caratterizzata dalle solite armi (Mazza e Ruota) tenute nelle mani superiori; sennonché le mani inferiori sono insolitamente congiunte davanti al petto nell’atto di voler suonare ritualmente lo Śakha a mo’ di selvaggio corno (270), quasi a voler radunare i fedeli vaiava.  La Conchiglia era difatti usata quale richiamo alle adunanze sacre, come successivamente i buddhisti hanno adoperato la campana.  Il suo uso bellico non sarà ivi preso in considerazione, basterà esclusivamente rammentare che ciascuno degli eroi mahabharatiani possedeva uno Śakha personale, diverso da quello degli altri.  



p)  Ninfe, Oceanine, Nereidi e Tritoni

In greco il termine Νύμφη significa oltreché ‘Ninfa’ anche (al minusc.) ‘sposa, giovane donna’.  Le Ninfe erano le giovani e graziose abitanti dei luoghi piú ameni del mare (Oceanine e Nereidi), dei fiumi (Potàmidi) e delle fonti (Nàiadi).  Vi erano poi anche le Limniadi (271), presiedenti alle acque stagnanti.  Mentre le Driadi abitavano i boschi e le Amadriadi eran preposte agli alberi, le Napèe alle valli, le Orèadi ai monti (272) e le Meliadi ai frassini (273).  Il culto delle Ninfe ha comportato l’edificazione di santuari chiamati ninfei, quelli appunto ai quali abbiamo accennato sopra (274). 
La miglior disamina d’insieme del mito delle Ninfe e del loro culto è quella offertaci in sintesi dal Kerényi (275).  Giustamente l’illustre grecista le connette a Hermes (276), ma a nostro parere non l’Ermete argenteo, che ha per parallelo in India il Vāmanāvatāra; quanto piuttosto l’Ermete aureo (277), figlio della Ninfa Maya (278) ed imbattentesi nella Tartaruga (279), il cui guscio egli impiega una volta morto l’animale per creare lo strumento musicale della Lira (280).  Similmente al cinese Fu hsi (281), che la utilizzò per creare i Trigrammi.  La Tartaruga indicava – almeno per i Cinesi (vedi anche il doppione P’an Ku) – la suddivisione dello spazio nella diade spirituale Cielo-Terra, colla quale l’Uomo costituiva nei primordi una Triade; le scritture hindu non molto diversamente (Śat.B.- vi. 1, 1, 12) interpretano il simbolo come un’immagine del Trimundio (Cielo, Atmosfera, Terra) nato dal Brahmāṇḍa (‘Uovo di Brahmā’), talora facendo delle 4 <Gambe> del rettile un’allusione al Caturveda nella sua pienezza ovvero ai 4 Punti Cardinali (282).  Il Mārk.P.- cviii. 74 su questa base – a  cui si sottintende il Punto Intermedio, identifica il Kūrma con Nārāyaa, “in cui ogni cosa è stabilita”.  La Tartaruga di Hermes prova dunque che pure le Ninfe si richiamano, sostanzialmente, al Ciclo della Tartaruga; infatti esse sono per altro verso, ecco un nuovo elemento onde confermare la loro dipendenza da quel ciclo, appaiabili ad Afrodite Urania (283).  La dea, non a caso, in una speciale icona posa il piede sinistro sul carapace a placche cornee di tale animale.  Ciononostante come insegna Kerényi (284), “sia anticamente che piú tardi le Ninfe appaiono anche a sé stanti” rispetto ad Afrodite, senza peraltro l’accompagnamento classico dei Satiri oppure dei Sileni (285): “con bei volti e vesti lunghe, guidate da Ermes e per lo piú in numero di tre.”  Subito di seguito aggiunge che “il tre sembra sia stato il loro numero fondamentale, quello delle Cariti e delle altre note triadi [meglio dire terne, N. dell’A.] femminili che costituivano, tutte, la forma disgiunta di una grande dea triforme.” Ciò valendo anche per le Ninfe, potremmo quindi dedurne che codeste figure femminili – non meno d’altre terne del genere – non sono che una triplicazione di Afrodite in relazione alle Direzioni.  Non si dimentichi, del resto, che la dea è la figli a-consorte del signore dello spazio cosmico.  E a tal proposito si spiega il ricorso alla Conchiglia quale simbolo di riferimento ciclico (286) anche per le Ninfe (287), non meno che per Afrodite, come abbiamo visto ad Ischia ecc.  Se relativamente tardi, di certo dopo l’ellenizzazione della Grecia, sono divenute le figlie di Zeus (288) è perché sono andate incontro inevitabilmente a quella forma di olimpizzazione subita da tutti i numi pre-olimpici; probabilmente in origine il mito le faceva discendere dalle gocce del sangue di Urano evirato da Crono, non meno delle Meliadi, alle quali esclusivamente questo significativo mitologhema è rimasto fissato per mano di Esiodo 289).      
Fatto quest’inciso, torniamo all’illuminante visione del Kerényi, rispetto a cui dissentiamo solamente sull’eccessiva distinzione fra le Nereidi, le Naiadi e le altre (290); le une a suo dire sarebbero perenni e le altre no, come le fonti di provenienza.  A nostro giudizio trattasi in ogni caso di ninfe, da porre sullo stesso piano, nonostante la diversa durata della loro apparente esistenza fenomenica.  La fine d’una fonte o d’un corso d’acqua non significava la fine della loro esistenza, ma il trasferimento in altra sede, visibile od invisibile che fosse.  Mentre concordiamo pienamente sul loro ruolo di nutrici piuttosto che di madri, come dimostra la vicenda amorosa di Anchise con Afrodite.  Nell’Inno Omerico a costei dedicato (Hom., Hym.- v. 250-80) la dea rimpiange d’aver commesso la grave debolezza d’essersi unita ad un mortale,  lei che era abituata altrimenti a soggiogare la volontà altrui.  Viceversa, spingendosi gli Dei immortali a congiungersi con donne mortali, aveva finito anch’ella per concepire un figlio, Enea, giacendo con un mortale.  E pensa a quando il figlio di Anchise avrà visto la luce del sole e sarà affidato alle Oreadi dimoranti sul Monte Ida (291).  Ad esse si uniscono in amore i Sileni, ed Hermes, nella prondità delle grotte.  Alla nascita delle Ninfe germogliano meravigliosamente sulle zone inaccessibili delle montagne abeti e querce, che talora gli uomini tagliano col ferro (292).  Ma allorché giunge il loro destino di morte comincia tutt’attorno la corteccia ad inaridire e cadono i rami, intanto che le anime delle Ninfe abbandonano la luce visibile.  Nel caso di Enea, il cui nome è lasciato in incognito, le Ninfe invece lo alleveranno; e quando Afrodite tornerà col bambino simile ad un dio lo affiderà ad Anchise, che lo condurrà ad Ilio (293) battuta dal vento.  Per concludere il discorso sull’argomento, va ricordato sulla scorta del Kerényi che Satiri e Sileni, alla medesima stregua delle Ninfe, rappresentavano la maschilità feconda al plurale (294). 
Fra le deità pre-olimpiche si annoveravano anche le Nereidi (le ‘Umide’), figlie di Nereo, una delle numerose varianti del ‘Vecchio del Mare’; oltre alle Oceanine, figlie a loro volta di Poseidone ed Anfitrite.  In base ad altra versione queste ultime erano figlie di Oceano e Teti, costituendo insomma un allonimo delle prime.  O forse, delle titanidi addirittura maggiormente vetuste.  Le Nereidi, 50 di numero secondo Esiodo, in ambiente terrestre venivano raffigurate sempre in maniera antropomorfica (295); mentre in ambiente acqueo erano poste a cavallo di tritoni, ovvero d’imprecisabili se non fantasiosi sauri marini (296).  In quanto ai Tritoni, bisogna aggiungere che in teoria avrebbero dovuto esser effigiati in forma di esseri umani nel busto ma con coda pescina dietro un corpo serpentiforme (297), essendo delle moltiplicazioni di Tritone (298), figlio pure di lui di Poseidone e consorte.  In verità ciò non avviene, i Tritoni hanno fisionomia a parte (299).  A questo gruppo di divinità va associato Nereo, di cui non esistono molte raffigurazioni.  In una tazza etrusca a figure rosse di stile attico rinvenuta sul Monte Abetone (300) si scorge Nereo senza particolari attributi lottare contro Eracle, con in testa la pelle di leone ed in mano il Delfino (c.510-505 a.C., Mus.Naz. di Villa Giulia, Roma), evidentemente strappato al dio marino.  Da una seconda immagine dello stesso tipo si vede chiaramente che il Pesce è in mano a Nereo (301), non ad Eracle, secondo logica; perciò ne deduciamo che nella coppa etrusca il pittore abbia mal disposto le mani dei due personaggi, oppure abbia commesso un imperdonabile errore d’attribuzione.  Sempre che la prospettiva fotografica non tradisca.  L’agone è un episodio dell’XI Fatica.  Racconta R.Graves (302) che il figlio di Zeus non conosceva la via per giungere al Giardino delle Esperidi ed allora si era recato al Po, dimora eletta di Nereo, attraverso l’Illiria; quivi le ninfe del fiume lo condussero dal dio del mare, che giaceva addormentato, ma l’eroe l’agguantò e lo tenne ben saldo costringendolo nonostante le metamorfosi attuate dal nume onde sfuggirgli di mano a rivelargli profeticamente il segreto per appropriarsi delle Mele d’Oro.  Nereo allora gli consigliò di non coglierle colle proprie mani, ma di servirsi di Atlante, cosa che ovviamente egli fece e con degli stratagemmi (prima uccise il Drago Ladone, poi accolse sulle spalle il peso del globo celeste, per ridarlo infine al precedente reggitore con una scusa dopo che questi gli aveva procurato i fatidici pomi) lo beffò ottenendo l’agognato premio.  Un sembiante con gambe ofidiche gli è diversamente assegnato nel fregio ovest del Grande Altare di Pergamo (180-180 a.C., ora al Mus.Stat. di Berlino), ritraente la Gigantomachia e fiancheggiante la scalinata; in questo caso il Vecchio del Mare, figlio di Ponto e di Gea, ha accanto la sua consorte Doride (303).  Il Graves (304) lo identifica a Proteo per la straordinaria capacità, come questi, di mutar forma; segnala in aggiunta una pittura vascolare molto arcaica in cui il nume ha coda di pesce (305) e 3 animali (Cervo, Leone, Serpe) gli fuoriescono dal corpo, a simboleggiare il mutamento stagionale.  Gli animali menzionati debbono essere intesi quali emblemi, vicendevolmente, della Primavera (per il cambio di corna), dell’Estate (a causa della terra riarsa) e dell’Autunno (per via dell’entrata in letargo, sottoterra, degli animali).  E naturalmente il normale aspetto del nume, di canuto vegliardo, deve esser concepito quale emblema dell’Inverno (306).  Delle Oceanine non conosciamo alcuna rappresentazione artistica, mentre per quel che concerne Oceano e Teti, Poseidone ed Anfitrite ed altre deità marine parallele rimandiamo ai paragrafi ed ai capitoli successivi.  Dei due personaggi ultimi diremo solo qualcosa, tra breve, per completare il quadro sin qua delineato.    




q)  Poseidone ed Anfitrite

In Epoca Classica Poseidone veniva scolpito nei rilievi a tutto tondo quale nudo atleta barbuto dotato di Tridente.  Iconologicamente quest’attributo poteva esser tenuto in posizione eretta, colle punte verso l’alto; come nel bronzo di Creusa (c.480-470 a.C., Mus.Naz., Atene), in Beozia, trovato in mare (307).  Oppure brandito al modo d’una lancia, come avviene  appunto nel bronzo d’Istiea (Eubea); ripescato da una nave sprofondata (c.460, Mus.Naz., Atene) ed assegnato a Calamide, scultore beota od attico della prima metà del V sec. (308).  Vi è una terza icona, che oltre al Tridente riporta anche il Delfino; a titolo di esempio citiamo la copia di opera bronzea di Lisippo (IV sec. a.C.), conservata al Mus.Lateranense di Roma (309), ma di tale tipo d’icona parleremo meglio nel prossimo capitolo.  Una quarta e diversa posa, questa volta senza Tridente, è quella del fregio-est del Partenone (Mus. dell’Acropoli, Atene); dove Poseidone è seduto a concilio cogli Dei, non piú nudo ovviamente, accanto ad Apollo ed Artemide (310).  In Epoca Ellenistica il Tridente è stato impugnato obliquamente, ma è in Epoca Romana che s’è sviluppata un’iconografia del dio unito alla paredra.  Prima di analizzarla vogliamo però citare un importantissimo altorilievo di Ostia a carattere votivo, oltreché denso di simboli.   A parte la nave colle vele istoriate ed il faro, rilevati dal Bianchi Bandinelli (311), si distingue nella scultura Nettuno col Tridente in posizione eretta; alle cui spalle stanno il suo tipico tempietto (312) ed una seconda nave, evidentemente suoi emblemi secondari.  Ma spicca, fra tutto il resto, il possente Occhio Frontale (313).  L’autore parla (314) di “grande occhio apotropaico che sorge nel rilievo senza alcuna connessione formale col resto”.  Invece le cose stanno esattamente all’opposto, a dimostrazione della scarsa vena degli ‘specialisti’ a comprendere per davvero il materiale a loro disposizione.  Non è unicamente un occhio apotropaico, benché ques’interpretazione possa valere sul piano semplicemente letterale, bensí un Occhio Frontale o Ciclopico (315), il cui significato è legato alla Barca e al Tridente.  La Via è talvolta descritta, esotericamente, come una navigazione sopra il mare delle passioni al modo di Ulisse; che non per nulla ha costantemente quale avversario Poseidone, di cui ha offeso il figlio Polifemo, orbandolo con un <palo rovente> dopo averlo ubriacato (316).  Poseidone prima di diventare un dio olimpico era sicuramente un nume titanico del tipo del Kāla indiano, una versione indonesiana del quale ha conservato l’aspetto oceanico.  Nella storia greca di Perseo (317) Poseidone ricopre il ruolo di strenuo oppositore saturnino del titano medesimo, la cui valenza solare è già stata da noi sottolineata attraverso la comparazione con personaggi vari (318).  Paraśu, corrispettivo hindu di Perseo, ha per padre una figura (Jamadagni) solitamente raffigurata col tridente sul capo, alla maniera di Śiva.  Il Tridente allude, fra le altre cose, anche al ‘Terzo Occhio’.  Questo vale tanto per i numi indiani quanto per quelli greci.  In tale ottica si comprende perché mai dalla testa recisa di Medusa fuoriescano Pegaso e Crisaore, i figli che Poseidone aveva concepito colla bella fanciulla prima che Atena (omologa alla Minerva romana) la trasformasse in mostro.  Pegaso, il cavallo alato, ha lo stesso valore del ‘Terzo Occhio’; e Crisaore (‘Colui che ha la Spada d’Oro’), rappresenta il ‘Settimo Raggio’ in senso apollineo.  Quanto poi a Medusa, basta pensare che dopo la decapitazione il Γοργόνειον  funge in mano a Perseo da strumento pietrificatore; poiché il ‘Terzo Occhio’ ha doppia valenza, eternizzante nei confronti di ciò è alto spiritualmente o distruttiva nei confronti di ciò che è basso.  Infine Perseo dal suo canto aveva ricevuto dalla madre l’appellativo “di Eurimedonte, come se egli fosse anche un «sovrano del mare» e sposo di Medusa (319), non soltanto il suo uccisore (320).”  Insomma, un alter-ego di Poseidone medesimo.  Circa l’associazione del Tridente di Poseidone con la sua Aurea Corona Tripuntata rimandiamo al Cap.VII.  Il fatto che l’Occhio si trovasse in un rilievo votivo in marmo della necropoli di Ostia (adesso è al Mus. di Torlonia, a Roma) è per un semplice motivo; indicava, in tutta evidenza, un indirizzo spirituale preciso nel post-mortem da parte dell’interessato.  L’opera appartiene all’incirca al 180-190 d.C. 
Per quel che concerne la paredra, Anfitrite, occorre rammentare che raramente ella viene rappresentata da sola; in genere compare al fianco del suo paredro (Nettuno, anziché Poseidone, presso i Romani), su un carro trainato da cavalli marini, che possono variare di numero.  In un mosaico di Costantina (tipico esempio d’arte romana africana, ora al Louvre) vediamo 2 putti sorreggere un drappo sotto il quale campeggiano come in trono i guardiani del mare aureolati (321), nudi sino alla cintola (in acqua sarebbe incoerente trovarli vestiti), lei col manto che le ricopre deliziosamente le gambe e lui che – sebbene faccia sfoggio per intero della sua virilità – tiene il manto regale appoggiato alla spalla sinistra (322).  I Putti sono una variante degli Erotidi alati che avevamo preso in considerazione in precedenza (323), trattando dell’iconografia di Eros Fanciullo in rapporto alla Venere su Conchiglia (324).  Nella diversa scenografia d’un bassorilievo marmoreo dell’Ara di Domizio Enobarbo – un esempio d’arte conservato alla Coll.Stat. d’Antichità di Monaco di Baviera, comunque assai piú antico (c.100 a.C.) di quello appena esaminato (seppur maggiormente difficile da collocare con precisione cronologica) – riconosciamo la coppia Poseidone-Anfitrite stancamente seduta su un carro in riposo, non trainato da alcun animale, anziché da quattro cavalli come nella precedente scena frontale; dinnanzi e dietro di loro stanno tuttavia delle Nereidi, accovacciate su tori o cavalli marini, che si può immaginare adibiti al numinoso traino.  Su una zampa e sulla coda ofidica d’un cavallo retrostante al divino cocchio si notano anche 2 Erotidi Alati, ma su tutti domina il Tritone semiumano nel tratto superiore al centro della scena, mentre suona la terribile buccina (conchiglia ritorta donde proveniva un suono ordinatore o pacificatore delle tempeste) (325).



r)  Ino-Leucotea, Melicerte-Palemone, Matuta e Portuno

Ivi affronteremo la leggenda di νώ (figlia di Κάδμος e sposa di Ἀθαμάς uno dei 3 Eolidi), che impazzita gettasi in mare col figlio Μελικέρτης, ma viene salvata miracolosamente da Ποσειδάων (o da Ζεύς secondo altra versione) e trasformata in Λευκοθέα.  Su Melicerte – una delle 4 forme di Glauco –  abbiamo fatto cenno in precedenza (326), non su Ino.  La pazzia di Ino è conseguente a quella del marito, che già le aveva uccis o il figlio Learco (327).  L’intera storia, però, è quella che narreremo ora di seguito (328).  Atamante aveva avuto quale prima consorte Neféle, sorella di Seméle (329), la madre di Dioniso.  Ripudiatala per Ino, aveva generato colla figlia di Cadmo Learco e Melicerte; dopodiché era stato convinto dalla seconda moglie con delle falsità a sacrificare Frisso, il figlio della prima.  Una volta posto tuttavia in salvo dalla vera madre, Hera aveva rivelato in sogno al padre il disegno perverso di Ino.  Sicché Atamante preso dal furore aveva ucciso Learco, figlio in seconde nozze, e s’era avventato sulla stessa Ino costringendola a fuggire.  Giunta al mare, costei s’era gettata in acqua coll’altro figlio, Melicerte, per la disperazione.  Ma una divinità, Zeus secondo una versione o Poseidone in base ad un’altra, l’aveva salvata per mezzo del Delfino trasformando lei in Leucotea ed il figlio in Palemone (330).                 
Adesso cercheremo d’analizzare piú approfonditamente il mito, ripreso da Pausania (Per.- i. 44, 7-8), sviscerandone gli aspetti figurativi ancora una volta sulla scorta del Becatti (331).   Il sofista Filòstrato di Lemno (II-III sec. a.C.)(332), nelle sue Immagini (ii. 16) descrive una pittura esistente nei portici d’una villa napoletana ritraente l’arrivo di Palemone.  Il divino fanciullo del mare al suo arrivo all’Istmo di Corinto veniva accolto nel tempio di Poseidone.  Nella descritta pittura si scorgeva il Delfino “scivolare lentamente nelle acque senza disturbare il sonno di Palemone”.  Poseidone veniva effigiato sorridente nell’atto d’accoglierlo.  L’Istmo, personificato, era adagiato al suolo accanto a 2 Fanciulle, alludenti ai mari congiunti presso di esso.  Il Becatti (333) ritiene la pittura “forse immaginaria”, ma è chiaro che la descrizione di Filostrato coglie immancabilmente nel segno.  Il conio corinzio, in età romana, s’è ispirato attraverso numerosi esempi (334) alla suddetta leggenda.  Scorgiamo in alcune monete la dea che con in braccio il figlio sta per gettarsi in acqua, ove fa capolino un delfino (335); in altre compare Palemone prono su Delfino (336), talvolta il tutto essendo collocato su un’ara od altrove (337).  Il Divin Fanciullo ricorre alternativamente in piedi  (338) o a cavalcioni del mammifero salvatore (339).  Il culto di Ino rimane in ogni caso ancorato all’aspetto terrestre della dea ed all’ambiente beotico, mentre quello della miracolata Leucotea quale protettrice della navigazione diventa invece panellenico e si estende all’intero ambiente egeo (340).  In Asia Minore la venerazione di Leucotea giunge sino alla Colchide, ma anche le coste occidentali del Mediterraneo conoscono tale culto ed altrettanto le coste italiche (campane, laziali, etrusche).  L’Od.- v. 457-85 celebra il salvataggio di Ulisse, naufrago durante la tempesta provocata dallo sdegnato Poseidone, da parte della signora del mare (Θαλασσομέδοισα)(341) col proprio velo, che lo tiene a galla  (342) e gli permette in tal modo di giungere all’Isola dei Feaci; Nonno (Dion.- ix. 81 ss e x. 121 ss), invece, descrive Leucotea come nereide (343).  A questo proposito bisogna notare che, in realtà, non solo Leucotea ma anche le sue sorelle fungevano da nereidi.  (344).  Leucotea veniva d’altronde ossequiata quale procuratrice della bonaccia  e guida dei marinai che avevano perso la rotta.  Anche in senso spiritualmente trasposto, è chiaro.  Statue marmoree o bronzee della nereide vengono segnalate da Pausania, ma non ne è sopravvissuta alcuna (345).  Qualche simulacro di figura marina è sospettata di esserla, ma non è dato di sapere con certezza.  Il Becatti (346) cita comunque un esempio iconografico rilevabile in un cammeo viennese del XVI sec., il quale non sembra aver riscontro nell’Antichità, nonostante l’arcaismo stilistico evidente che lo carattterizza.  Sicuramente antica è viceversa l’effigie della dea, con stretto il figlioletto nelle braccia, nel mosaico dei Cavalli di Cartagine (347).  Altri erroneamente ha intravisto in questa raffigurazione la poetessa Saffo, ma si vedono probabilmente a lato della figura femminile dei tritoni (o marinai invocanti protezione?).
Nel processo di ellenizzazione delle dee indigene italiche rientra l’antichissima Mātūta Māter, identificata da Servio a Leucotea (in Verg., Georg.- i. 437).  Cicerone, Plutarco e tutta la tradizione pagana e cristiana sino a Sant’Agostino confermano (348).    Matuta era la dea laziale dell’aurora, ossequiata a Roma già in tempi regi.  Un tempio a Satrico (349), a lei dedicato, risale infatti al VI sec. a.C.  Nell’Urbe medesima è presente ancor oggi un tempio, architettonicamente datato all’ultimo periodo repubblicano (350), ma secondo il Becatti subentrato ad un sacello edificato in onore della dea al tempo di Servio Tullio (351).  Essa veniva raffigurata in trono con un bimbo in braccio, come nel Medioevo certe Madonne; sono state rinvenute molte statuette di tal genere, seppur appartenenti ad una fase piú recente.  Matuta era l’indigena e rosea dea dell’alba, la perfetta equivalente dell’Eos ellenica “dalle rosee dita“ nella definizione omerica, di cui l’Aurora latina non costituiva che un doppione letterario senza particolare culto (352).  Il Becatti nel descriverla dimentica un fatto importante ossia che fungeva da controparte di Giano, in quanto Mātūtīnus Pater (353), alternativamente a Iāna (354), poi parificata a Diāna, od alla Ninfa Venīlia (madre di Turno).  Il che, immancabilmente, fa di lei una deità primordiale.  Ciò è sufficiente a spiegare parimenti la sua posteriore equiparazione a Ino-Leucotea, dato che Giano dopo esser stato in origine il dio degli inizi (prīma) – comprendendo la mitica Età dell’Oro siccome avvio dei cicli umani ed i solstizi in quanto passaggi da un settore all’altro del cielo in senso solare, ovviamente pre-planetario e pre-zodiacale – è stato riciclato in un secondo momento ad uso della classe produttiva quale Iānus Quirīnus ed identificato a Romolo (355) divenendo in veste di divinità presiedente all’artigianato il signore delle porte (ianitor) e necessariamente anche dei porti.  Benché di quest’ultimo aspetto ci sia giunta scarsa testimonianza, forse perché si trattava d’un attributo debole, piú teorico che reale.  Lo deduciamo dalle prerogative del <figlio> di Giano e Matuta, Portuno (356).  La mitica ’Arca’ attribuita a Giano ed ereditata dal cristianesimo come la ‘Barca’ della Santa Romana Chiesa non era la Nave di Saturno, bensì l’Arca del Diluvio primevo (357).  Nel cattolicesimo si è trasformata in un’Arca Zodiacale, visto il numero degli Apostoli; cosa che non può non esser riportata al culto solare essenico, d’origime evidentemente noaica.  Il che fa pendant cogli altri attributi trasmessi al Papato dal sacerdozio romano, quantunque simultaneamente in linea cogl’insegnamenti giudaici (Anello del Pescatore, Mitria, Chiavi ecc.), ognuno dei quali conserva perciò un doppio richiamo simbolico.  Saremmo tentati di dire, al Monte Sion e all’Eden (358); o, piú limitatamente, all’Isola Bianca e all’Isola Verde (359).  Perfino l’etimo del nome Mātūta, da māne (s.ind. col senso di ‘mattino’, donde l’a.mātūtīnus) rinvia alla prima luce mattutina, l’alba essendo naturalmente intesa quale immagine del principio della vita.  A lei al dire di Varrone venivano elargite in dono rustiche focacce (testūācia) cotte in vasi di terracotta (testū) dalle matrone romane durante le feste dette Mātrālia.   Anche in Grecia, c’informa puntualmente il Becatti (360), erano offerte focacce ad Ino a scopo oracolare, ce ne dà notizia Pausania (Per.- iii. 23, 8).  Nella fase arcaica del culto della Māter non era però contemplato alcun riferimento al mare.  Resta quindi problematico, nella visione accademica, il motivo dell’identificazione alla nutrice dionisiaca greca.  Da parte nostra crediamo invece d’averlo sopra spiegato.  Il Becatti (361) risolve comunque magnificamente il problema dal suo punto di vista, che in fin dei conti è convergente col nostro nei risultati se non nelle premesse, mostrando l’affinità fra il concetto di candore proprio a Λευκοθέα (lett. la ‘Bianca’) e quello di mattutinità attribuibile alla Māter romana.  Di qui discenderebbe indirettamente, per associazione logica fra le idee di alba e di inizio, il significato propiziatorio conferito alla nereide in relazione alla navigazione e ad ogni altra attività marittima.  Sebbene altre attività come la pesca non siano invero menzionate da alcuno in rapporto a Leucotea o a Matuta.  Riferisce Plutarco che l’espulsione d’una schiava dal tempio ogni anno al tempo delle Matralia fosse un carattere comune ai due culti (362), ma non ne conosciamo di preciso la motivazione.  Si può solo supporre che, essendo le due dee associate ai parti ed alla prole, fungessero da richiamo all’infanzia dell’umanità; al tempo cioè in cui non esisteva nel mondo alcuna forma di schiavitù, donde la concretizzazione dell’interdizione all’ingresso nei templi ad esse dedicati, quasi che l’esser divenute schiave rappresentasse un’offesa alla natura incorruttibile della donna.  La donna è tentatrice ed agente di corruzione presso l’uomo, come Ino nei confronti di Atamante, ma è capace subitamente rinunciando a tutto di risorgere spontaneamente purificandosi nelle acque al modo di Leucotea.  Non ha bisogno dell’intero processo di purificazione che al contrario deve subire l’uomo per riottenere la Grazia Divina, essendo meno complessa ed artificiosa.  Potrebbe sembrare un controsenso dal punto di vista sociale quanto appena affermato, ma non lo è; poiché sicuramente le antiche matrone presso i Latini come presso gl’Indiani non appartenevano di per sé ad alcuna casta, dato che queste erano unicamente riservate agli uomini e le donne vi partecipavano per riflesso attraverso i loro mariti od i loro padri.  Questa concezione potrebbe parere limitativa per le femmine, ma costituisce viceversa il ricoscimento d’un privilegio naturale rispetto alla situazione del maschio.  Lo stato incontaminato della femmina lo s’intuisce all’istante, essendo simile a quello degli animali, che pur colle loro debolezze ed i loro forti istinti sono rimasti perpetuamente nella condizione paradisiaca originaria.                
Il Becatti (363) analizzando il contrasto fra il furore dionisiaco della tebana Ino, che si getta in mare col figliolo trascinandolo seco nel proprio suicidio, e del tratto all’opposto squisitamente materno di Matuta sottolinea l’estrema vaghezza dell’intervento di Poseidone.  Rimanendo incerto il luogo di riemersione della dea sotto la rinnovata forma di Leucotea, si spiega il resto della leggenda colla Nereide Πανόπη/Πανοπεία (364) che assieme alle sue 100 sorelle la raccoglie dalle acque e la trasporta alle foci del Tevere.  Ciò è attestato financo in Virgilio (Georg.- i. 436-7): “… e i naviganti sulla spiaggia incolumi scioglieranno i loro voti a Glauco e a Panopea e ad Ino Melicerta.”  Dopodiché sarà ospite della Profetessa Carmenta (365), che le paleserà il suo destino prossimo, ovvero quello di divenire Matuta; quasi che fosse subentrata in lei una doppia trasformazione: da Ino a Leucotea, da Leucotea a Matuta.  Ed un santuario le sarà riservato a Roma, accanto al tempio della Fortuna Virile (366).  Aggiunge peraltro il Becatti (367) che l’ellenizzazione della dea latina presuppone l’espansione romana in campo marittimo, ciò che non sarebbe potuto accadere prima del II sec. a.C.  Ellenizzandosi, il culto di Matuta si sposta dall’interno verso la costa, verso cioè i centri portuali sia del Tirreno (Napoli, Marsiglia) che dell’Adriatico (Pesaro, Aquileia).
Anche Portūnus appare conneso agli antichi culti, dato che pure a lui era dedicato un apposito flamine e le Portūnālia non meno delle Matralia sembrano risalire molto addietro nel tempo (368).  A giudizio di Varrone (in Verg., Aen., V. 241) Portuno fungeva sia da signore delle porte che da signore dei porti (369), suoi attributi essendo la Clāvis (‘Chiave’) ed il Clāvus (lett. ‘chiodo’, met. Il manubrio a forma di chiodo del timone della nave, quindi ‘timone’), secondo quanto viene testimoniato anche da altri scrittori latini (370).  In proposito Becatti (371) ipotizza che Portuno fosse in principio un semplice dio delle porte e che l’opzione portuale si sia aggiunta solamente da quando Roma cominciò ad affacciarsi al traffico marittimo (372), che però divenne ben presto dominante rispetto all’altro aspetto.  La trasformazione del culto ebbe delle conseguenze perfino sul piano iconografico, con la sostituzione dell’Ancora al Timone, come si nota nel bassorilievo di stile ellenistico del pannello del pilone destro dell’Arco di Benevento (II-I sec. a.C.)(373).  Non esiste, che si sappia, un’anteriore iconografia sul piano figurativo.
Inoltre Becatti (374), rifacendosi fiduciosamente a G. De Sanctis ma a nostro parere gravemente sbagliando, dichiara che in principio “non vi era alcun rapporto tra la primitiva ‘Mater Matuta’, divinità della prima luce, e il primitivo Portuno, dio delle porte…; forse la ‘Mater Matuta’ era piuttosto collegata con un probabile ‘Pater Matutinus’, figura parallela a Giano con cui fu poi assimilato…” (375).  L’assimilazione fra due deità non può esser dovuta alla vicinanza casuale fra di loro di due templi, sarebbe troppo banale, dato che non vi è prossimità senza causa (376) nella strategia antica di suddivisione dello spazio.  Inoltre, siamo convinti, secondo quel che già abbiamo sopra congetturato, che la figura di Portuno abbia funto da <figlio> di Giano fin dall’Alta Antichità.  O, come altri ha sostenuto, da suo alter-ego in qualità di portinaio; per esser addetto, in un secondo tempo, al porto tiberino (377).  Perché separare, poi, Giano da ‘Matuta’ se è la tradizione stessa che ne fa due consorti?  Circa la questione del Padre Mattutino è chiaro che, se la Madre Mattutina è una delle 3 spose di Giano, il Padre Mattutino non può che esser lui medesimo in un suo appellativo particolare; assolutamente coerente colla propria fisionomia di dio aureo e degli inizi, che rappresentano la natura essenziale del nume.  Si potrebbe asserire tuttavia, volendo cavillare, che il Mattino rimanda alla Primavera e all’Equinozio; non al Solstizio, che è per contro correlato all’Inverno ed alla Mezzanotte.  Ciò parrebbe, perciò, incoerente colla sua signoria del mese di Gennaio.  Se si pensa comunque che nella ‘Terra Nascosta’ alla quale rimanda etimologicamente il nome del Lazio, di cui non certamente a caso egli era mitico sovrano, il lungo giorno artico  escludeva tanto i solstizi quanto gli equinozi, è ovvio che il simbolismo quaternario a lui attribuito in tal senso non può che essere per forza di cose un’applicazione posteriore.  In altre parole, la quadrifrontalità aveva in origine un significato direzionale, pre-annuale e pre-giornaliero; le 4 Facce al modo delle 4 Teste di Brahmā ne nascondevano evidentemente una quinta (378), invisibile sia nell’icona latina che in quella indiana, (benché la si ritrovi in pratica esclusivamente nel simulacro di Śiva o Ganeśa), di carattere supremo.  Col che torniamo al tema degli inizi, il quale è la caratteristica fondamentale di Giano (379).  Poiché il Centro, direbbe Guénon (380), oltre ad essere un’immagine dell’Immanifesto “è il punto di partenza d’una irradiazione assimilata a quella della luce”.    



s)  Iconografia di Glauco Antedonio e di Scilla

Nelle Metamorfosi (xiii. 151-3) Ovidio descrive Glauco Antedonio, da lui distinto nettamente rispetto a Glauco Melicerte, in questi termini (381):

Ecco fendendo il mar Glauco s’avanza
Del pelago novello abitatore
Che in Antedon testé mutò sembianza;
E veduta colei n’arde d’amore
Seco s’adopra ogni dire, ond’ha fidanza
Di farle indugio e rammollirle il cuore;
Pur ella fugge, e impaurita arriva
In vetta a un monticel presso la riva.

Innanzi a un golfo sopra al mar sospesa
Nuda rupe s’appunta in un cacume:
Qui fermossi; e dal loco ardua difesa
S’affisa in quel non sa se mostro o nume:
Ammirane il colore e della stesa
Chioma lungo le spalle il gran volume
E dagl’inguini in giú come decresce
In strana forma di ritorto pesce

 Ei se n’accorge e da un ronchion vicino
 Vergin, – disse – non son mostro né fera;
  Son dio del mar; né Proteo o il figliuol d’Ino
  Né Triton piú di me nell’onde impera.
  Mortal già fui, ma pur dato al marino
  Studio in quel mi piacea da mane a sera;
  Or a trar reti, or dalla riva inteso
  A moderar il fil su canna appeso.

L’innominata vergine cui Glauco tenta, ahinoi invano, di far bella mostra è ovviamente Scilla (ibid., 150), che dopo aver ascoltato dalla bianca Nereide Galatea la storia del suo amore per Aci, schiacciato per gelosia da Polifemo sotto un masso, se ne va da sola e nuda al suo solito riparo; poiché non si fida del mare, temendo un inganno, a differenza delle Nereidi che s’allontanano a nuoto.  Non appena la vede Glauco se n’innamora.  A lei, cercando d’intenerirla, spiega di essersi traformato in un uomo dalla verde barba e dalla coda di pesce dopo aver gustato determinate erbe dal magico potere (ib., 157-9).  Ciò è avvenuto dopo aver visto i pesci da lui pescati nell’atto di toccare certe erbe riprender vigore e comportarsi sull’arena come in mare, ciò che lo spinge ad imitarli (155-6).  Non si dimentichi ad ogni modo il senso esoterico di questa metamorfosi (382), che altro non rappresenta se non il consumarsi della natura mortale e profana nella divina natura per mezzo dell’amore per Scilla, vale a dire per la sapienza segreta.  


Mentre ammiro e ristò tutto lo stuolo
Fugge nell’onde, ed abbandona il lito,
E in esso me tra lo stupore e il duolo,
Che ne cerco il perché e smarrito.
Opra è questa d’un dio? pensava; o solo
Virtú che da natura erba ha sortito?
Pur qual erba fu mai tanto potente?
Dissi; ne colsi, e ne saggiai col dente.

Non appena io gustai del succo ignoto,
che i precordi sentii nel petto mio
Rimescolarsi di subito moto,
E avermi altra natura, altro desio.
Né star potendo ivi medesmo immoto,
      Addio, terra! – esclamai – per sempre addio! –
Balzai nel mar; gli Dei del salso regno
De’ suoi i fanno e d’onoranza degno.

E pregan l’alma Teti e l’Oceano
Che mercé lor si tolga e si consumi
Quanto è in me di mortale e di profano:
E me da capo a piè purgan quei numi;
Che detto nove volte un carme arcano,
Soppor mi fanno il petto a cento fiumi:
Ecco in me piú cader fonti diversi,
Qual tutto in capo il mar mi si riversi,

Ciò che avvenne fin qui narrarti io posso
Senso alcun non serbai del rimanente.
Me poi trovai, qual da sopor riscosso,
Da quel che fui di corpo altro e di mente.
Questa allor verde barba, e il largo dosso
Vidi e i ceruli bracci, e la pendente
Chioma ch’io traggo a fior d’acqua, e l’estrema
Parte che in pesce si ricurva e scema.

Accorgendosi di non piacere a Scilla, Glauco si duole della sua trasformazione ed irato se ne va allora in cerca della dimora incantata di Circe (160).  Colà – nella Sicana terra – le domanda mercede, richiedendo sollievo tramite le arti magiche ad un amor che oltrepassa ogni misura (xiv. 2-4). E Circe soddisfa la richiesta di “formare con sacro labbro arcani accenti”, sennonché essendosi invaghita del nume marino – vuoi per vizio o per maledizione di Venere – prova a spingerlo a ricambiare col disprezzo chi non l’ama ed offrendogli il proprio talamo lo invita a vendicarsi di quel tacito rifiuto pigliando piacere con lei (5-6).  Ma Glauco, disimpegnandosi dalla profferta amorosa della maga, le confida esser piú facile che il mare si riempia di fronde e i monti si ricoprano d’alghe piuttosto che lui ami altra donna all’infuori di Scilla.  Vedendo l’assoluta preferenza del nume per la rivale la sdegnata Circe, non potendo rivolgere verso l’oggetto del suo desiderio l’odio provocatole dalla pur garbata ripulsa, comincia a tritare e mescere erbe pronunciando nel contempo misteriose formule magiche; dopodiché lascia la propria dimora vestita d’un ceruleo manto, seguita da un corteo di belve, e camminando sulle acque si reca presso l’insenatura ad arco ove è solita ritirarsi Scilla dal sole meridiano (7-8).  Giunta sul luogo (383), lo cosparge di nero veleno, prima appositamente preparato.  Non appena la ninfa arriva sul posto, avviene la sua terribile trasformazione in un orrido mostro a 6 teste e a 12 gambe, ciò provocando il pianto disperato di Glauco (9-11).    

Curvo in arco s’apriva un piccol seno
Grato ricetto ove solea ritrarse
Scilla al calore e alla marea, nel pieno
Meriggio, allor che il sol l’ombre fa scarse.
Questo infettò la Dea d’atro veleno,
Qui di radiche ree succhi cosparse,
E in ciò mormorò tre volte nove
Magico carme in voci oscure e nuove.

Scilla viene, ed insino all’alvo è scesa.
Quando mostri latrar presso a sé vede:
Fugge, li caccia di terror compresa,
Che parti di suo corpo esser non crede;
Ma fuggendo li attrae; cerca, e sorpresa
Trova ceffi di can per gamba e piede,
Rabbiosi cani, al tronco inguin soggetti
Col tergo, e uniti all’imo ventre e stretti

Glauco pianse e aborrí sempre la rea
Che usò tanto ostilmente erbe efficaci.
Restò Scilla, e involò (ciò sol si potea),
Di Circe in odio…

Nell’iconografia contemporanea il vecchio Glauco, ovvero un Glauco senza specificazione ulteriore, si mostra con pelle e barba color smeraldo e coda pescina; insomma, come una specie di solitario sireno, che in mano stringe un ciuffo di erba magica.  Non si tratta, in ogni caso, d’una raffigurazione tematicamente troppo recente.  Già nel XVII sec. ne è rintracciabile una analoga, a parte il rosato di sottofondo dello scenario fantastico, ne Le Temple des Muses di B.Picart (Parigi 1725)(384).  Non conosciamo alcuna immagine antica di questo tipo di Glauco, le prime risalendo al periodo rinascimentale, barocco od arcadico; da quando insomma, in opposizione alla visione dominante cristiano-medievale, si cominciò a rivalorizzare i testi e gli autori greco-latini antichi.  Il motivo preferito tuttavia è il desiderio vagheggiato per Scilla, una Scilla naturalmente seminuda e prosperosa come si addiceva a quei tempi di ridondante voluttà; la magia verde del cambiamento shamanico di forma in tali composizioni passa in secondo piano rispetto alle icone del Glauco solitario cui abbiamo sopra accennato.  Ovviamente in tale corteggiamento Scilla non si è ancora trasformata in mostro, Circe non avendo parte alcuna nel ritratto artistico.  Nel Cinquecento troviamo anche un’opera iconologicamente a sé stante, creata dall’architetto napoletano P.Ligorio (1510-83): il rilievo del Glauco-Proteo (385) nel Parco dei Mostri di Bomarzo, presso Viterbo.  Il parco, chiamato anche Bosco Sacro, fu realizzato in stle grottesco su commissione del Principe P.F. Orsini; che lo dedicò alla moglie Giulia Farnese, omonima della concubina di Cesare Borgia (Papa Alessandro VI).  Ivi il nume ha forma interamente ittica e la sua bocca è splancata come una Bocca degli Inferi, il tutto rientrando forse in un percorso ermetico a tappe, fatto di splendide raffigurazioni scultoree, disperse architettonicamente in un giardino che con esse si confonde.
In un piatto ovale decorato del XVI sec., da Urbino (386), contempliamo il soggetto da un altro punto di vista: Scilla seminuda, legata a un albero per un braccio se non è un’illusione ottica, sta per esser ghermita dal furente innamorato che si leva a braccia aperte sulle onde.  Dietro alle spalle un villaggio parrebbe alludere al villaggio omonimo della nereide.  Sempre nello stesso secolo (1597) troviamo il Glauco e Scilla (387) di A.Carracci (c.1583-1618), raccolto dalla Gall.Farnese di Roma; la pittura ritrae due amanti nudi sensualmente abbracciati, tutt’attorno circondati da uno stuolo d’Amorini.  Uno di questi, con arco e freccia puntata su di loro, celebra l’evento; ai lati stanno un Tritone sulla destra che suona la buccina e 3 Nereidi, sulla sinistra, che guardano ammirate.  Pittoricamente è da segnalare come affine quantunque piú recente d’oltre un secolo il Glaucus et Scylla (388) di Jacques Dumont (c.1701-81), figlio d’uno scultore.  La tela ad olio, del 1726 c., appartiene al Mus. delle Belle Arti di Troyes.  Glauco appare mollemente adagiato su uno scoglio mentre mira rapito la bella Scilla su un altro di fronte, assai vicino eppure troppo lontano; intanto sopra di lui, che sogna ignaro l’incontro amoroso colla bella, un Erotide gli lancia una freccia al cuore ed un gruppo di Nereidi sulla superficie del sottofondo marino paiono sorridere compiacenti in lontananza.  Poco prima del Seicento un’opera analoga tratta dalle Metamorfosi ovidiane è stata composta da parte del pittore fiammingo B.Spranger (1546-1611), che ebbe una funzione di primo piano presso la corte imperiale di Vienna e di Praga.  Il quadro, ora al Mus. di Storia dell’Arte di Vienna, evidenzia un Glauco quasi implorante; seppur questa volta piú prossimo a Scilla, la quale dall’alto del suo scoglio non pare troppo curarsi di lui (389).  Dello stesso tenore delle precedenti è l’opera secentesca di Laurent de la Hyre (1606-56): sotto un cielo lievemente rosato Glauco è uscito fra il verde da un mare brumoso che sembra in realtà un grande fiume e mira inebriato sopra di lui una Scilla prosperosa mollemente adagiata a petto nudo su un lastrone di pietra, mentre Cupido gli lancia una freccia.  Il dipinto francese, in olio su canapa (c.1840-44), sta nel Padiglione Sud al Mus. J.P. Getty di L.Angeles (390).  Nello Scylla et Glaucus di P.P. Rubens (1636 c.)(391), olio su tela del Mus.Bonnat  (Bayonne, Aquitania),  Scilla disperata non è ancora trasformata in mostro canino; sebbene dei cani l’assalgano come fossero demoni che vogliono penetrare in lei, mentre Glauco assiste a braccia aperte, impotente di fronte al maleficio.  In pieno Seicento troviamo ancora un dipinto, assai intimamente tetro nei colori, del pittore e poeta napoletano Salvator Rosa (1615-73).  L’artista, un romantico ante-litteram, veniva attratto dai paesaggi malinconici e fantastici.  Il suo Glauco e Scilla (392) non rispetta la leggenda, ma sembra ritrarre la donna nell’atto di concedersi spontaneamente allo spasimante; la si vede infatti con una gamba all’indietro, appoggiata contro di lui, l’intero corpo reclinato eroticamente su un fianco e colla mano destra appoggiata allo scoglio come per aprirsi meglio all’amante, la veste sollevata da dietro in attesa di una difficile ma non impossibile penetrazione.
Un’altra immagine, ambientata in una pozza fra le rocce ove lo spasimante cerca di ghermire la donna colla rosa sopraveste slacciata ed un seno scoperto fuoriuscente in modo scomposto dalla sottoveste azzurra, mostra Glauco nudo ed eroticamente eccitato (393).  È un’opera barocca di Filippo Lauri (1623-94), figlio del paesaggista fiamming B.Lauwers dal nome poi italianizzato. Troviamo la ninfa per intero in forma umana e senza armi simboliche solamente in un dipinto tardo, databile al’inizio del XVIII sec., di N.Vaccaro (394).  Il pittore napoletano (1640-1737), ammiratore di Salvator Rosa e discepolo di N.Poussin,  ritrae una Scilla che fugge da Glauco, mentre la guarda dall’alto la dea Diana.  In tale ottica il pittore esclude il pensiero profondo, perdendosi nelle storie avventurose e sentimentali, come ha fatto del resto nella sua vita d’artista abbandonando l’arte pittorica per fare l’impresario teatrale d’una cantante di cui s’era innamorato.  Un’ulteriore immagine pittorica del medesimo motivo (395), di stile meno ricercato delle precedenti e d’epoca contemporanea (1841), appartiene a W.Turner (1775-1851).  Descrive la scena del rifiuto nel fortuito incontro fra i due in maniera un po’ anticonvenzionale, con dei bagliori di luce e di colore, ma sembra perdersi in una romantica vaghezza.  La coppia, immersa vulcanicamente in un mare rosso e giallo da parere lava, è intenta nel solito trantran amoroso; in cui lui tiene la destra piegata sul petto e la sinistra aperta a mano tesa, ma lei lo respinge senza pietà allungando le braccia in avanti con le mani in atteggiamento di noncuranza.  Chiudiamo l’analisi come l’abbiamo aperta, con un rilievo a tutto tondo del Novecento, detta ‘Fontana delle Naiadi’ (Roma, P.za Esedra, poi spostata a P.za della Repubblica)(396); quest’’opera, la maggiore dello scultore monumentale M.Rutelli (1858-1941), contempla un Glauco dai connotati piuttosto ambigui.  Ci troviamo di fronte difatti ad un essere informe, ricoperto d’alghe e di salsedine (come lo descriveva Platone), che tiene in braccio una misteriosa creatura (Scilla, Arianna o chi altro?)(397) sollevando in alto la gamba sinistra come per muoversi nell’acqua della fonte.  Un ulteriore Glauco – oppure Tritone? – (398) di G.L. Bernini (1598-1680) compare fra le gambe d’un irato Nettuno: il primo suona la buccina ad evocare forze ignote, mentre il dio del mare muove il Tridente possentemente verso il basso nell’atto di suscitare una terribile tempesta.  La scultura è stata realizzata nel 1620 per il Card. A.D. Peretti, facendo parte d’una fontana creata per la peschiera di Villa Montalto a Roma (399).  L’originale si trova al Victoria and Albert Museum.  Esiste anche tra le famose fontane del Bernini, tutte collocate in uno scorcio panoramico di notevole effetto, la Fontana del Tritone (1642-3) in P.za Barberini.  Richiesta da Papa Urbano VIII (400) è stata realizzata in travertino e reca nelle code dei 4 Delfini delle Api, emblema del Casato Barberini.  Il Tritone, che suona la Buccina, poggia sulla Conchiglia e questa è sostenuta dalle 4 Code intrecciate dei Delfini, sulle quali sono collocati gli stemmi araldici dei Barberini coll’emblema delle Api.    
È senza dubbio al figlio di Antedone o di Doride che tale simbologia ricorre, non a Melicerte; sempre correlato alla madre Ino e comunque mai con sembianze semittiomorfiche, bensí a cavalcioni del Delfino.  Riguardo le altre 2 forme di Glauco, del figlio di Minosse non conosciamo alcuna interpretazione artistica, mentre del nipote di Bellerofonte, ne citiamo una in nota (401).  Sono in parecchi però che sospettano essersi trattato all’origine del mito delle 4 forme di Glauco d’un unico personaggio dedito in complesso a varie avventure, non fosse che per il motivo delle erbe magiche; le quali compaiono tanto nella leggenda del Glauco figlio di Poseidone o di Nereo, in questo caso in doppia veste dapprima positiva e dopo negativa, quanto in quella del Glauco figlio di Minosse e di quello figlio di Sisifo o di Atamante (in ogni caso nipote di Minia).  Negli ultimi due casi la valenza è egualmente doppia, ma la positività e negatività dell’erba si desumono dalle due storie separate.  Infatti, se Glauco figlio di Poseidone o di Nereo si trasforma a causa delle erbe magiche in un nume marino, questa sua metamorfosi agirà da repellente nei confronti di Scilla (a parte l’applicazione malefica ulteriore nei riguardi della ninfa); mentre, per quanto concerne l’omonimo figlio di Minosse e quello altrettanto omonimo di Sisifo, l’erba incantata libera rispettivamente dalla morte o la determina.  L’uno difatti coll’erba che ha ridato vita ad una serpe rinasce dalla ‘Giara del Miele’ (Mondo Infero), l’altro invece coll’erba ippomane è divorato dalle cavalle imbizzarritesi, abituate dallo sciocco cavaliere a mangiar carne credendo di poterle rendere cosí maggiormente agili nella corsa.  Dietro quest’evento stava il disprezzo da parte del padre di Bellerofonte verso il potere di Afrodite, che vendicandosi – col permezzo di Zeus – aveva condotto nottetempo le suddette cavalle ad abbeverarsi ad un pozzo a lei consacrato oltreché a mangiare un’erba che le faceva ammattire.  Glauco, amante delle corse coi cocchi, non sapendo nulla dell’accaduto le aveva legate ignaro; ma, avvolto nelle redini dal loro imbizzarrimento era stato trascinato nella pista di corsa per poi esser mangiato vivo.  In tal modo pagò il fio per non aver fatto coprire le sue cavalle (402).  Quel che è piú difficile da capire è cosa mai colleghi tale figura a Melicerte.  C’informa il Graves (403) che Glauco il Vecchio, secondo altre fonti, si gettò in mare per la morte di Melicerte, il figlio di Atamante; ovvero che il nome di Glauco gli fu applicato dopo la sua morte, ma era lui stesso a chiamarsi Melicerte.  Ciò rende assai complicato tutto il quadro dei personaggi con nome Glauco sinora  analizzato, dato che la figura di Glauco Melicerte, di cui si veda al §r, non pare aver niente in comune con costui. Ed oltretutto quest’ultimo è l’unico dei vari Glauchi a non aver a che fare con un’erba magica, positiva o negativa negli effetti che fosse.  L’unico aggancio possibile, ma è un parallelo debolissimo, è la natura titanica d’entrambi.  Vide n.126.
Circa Scilla, figlia di Forco e di Cheto (od Ecate), una delle piú antiche icone a noi nota è la placca in terracotta di Melo appartenente al V sec. a.C. e depositata al Mus.Britannico londinese.  Ritrae la ninfa titanizzata nella forma consueta semiumana di donna dalla coda serpentina, con scaglie da sauro, mentre dal ventre spuntano 2 o 3 teste canine (404); indossa sul capo un berretto frigio ed è nuda sino al gonnellino, che le ricopre pudicamente il ventre.  Un’altra icona di poco piú recente, ma sempre comunque del V sec., è un cratere campaniforme beota a figure-in rosso su fondo nero.  La titanessa ha lo stesso sembiante umano dalla testa in su, colle solite teste canine inguinali e la coda di dragonessa acquatica, ma questa volta impugna la Spada nella sinistra (405).  Una successiva icona, del IV sec., vede Scilla fiancheggiare una Nereide a cavalcioni di 2 Delfini; si tratta di un rhyton apulio a figure-rosse foggiato a testa arietina, appartenente alla Collez. di Antichità di Kiel, ma dall’immagine riportata (406) non è chiara la fisionomia della figura a fianco.  La Scilla dell’urna funeraria  in alabastro della fine del III sec. a.C. c. (Mus.Guarnacci, Volterra)(407) non presenta caratteri particolari se non per il fatto di fungere da <Regina degl’Inferi>, presso cui è seduta una donna nuda (la persona scomparsa, una donna o forse l’anima d’un uomo).  Una seconda urna in travertino proviene da Castiglion del Lago (loc. Castellano) e risale all’inizio del II sec. a.C. c.  Mostra la peculiarità di Scilla con 2 Code Pescine, ma a differenza della posteriore Sirena Bifida le ha piú lunghe e ritorte (408).  Nella numismatica la presenza della demonessa del mare è notevole.  Un’icona del 415-06 a.C., su moneta siracusana, la tratteggia col Tridente sulla spalla sinistra sotto la quadriga guidata e incoronata da Nike (409).   In un’altra pressappoco coeva (420-380) rinvenuta a Cuma (Campania) si vede Scilla, come di consueto, con coda pescina e teste canine alla cintola (Collez. Schonwalter)(410).  Sul retro si osserva una testa femminile diademata.  Su una moneta lucana di Eraclea (M.Grecia), risalente al periodo 390-40 a.C., Scilla – adagiata sul capo di Atena – è intenta a scagliare una pietra colla mano sinistra (411); similmente appare in uno statere lucano di Thurium, ma questa volta tiene in pugno un timone, mentre sul retro una Nike incorona un toro (412).   In un denario del 42-38 a.C. (Epoca di Sesto Pompeo) si ha da un lato Scilla, impugnante un timone a mo’ di clava, con 3 interi cani che le fuoriescono dal pube e 2 code pescine araldicamente contrapposte (413).  Sull’altro lato della moneta si nota Nettuno sulla Columna Rhegina (il promontorio calabrese piú prossimo alla Sicilia) e ai lati rispettivamente un uccello su una verga ed uno scettro.  L’uccello viene di solito interpretato come un’aquila, ma a nostro parere potrebbe essere un picchio (414).  Sotto la Colonna Reggina vi è inoltre uno strano essere, pressoché indecifrabile, impugnante il tridente colla sinistra come fa talora Scilla.  Si potrebbe pensare anche a Cariddi, a volte effigiato come un mostro simile, ma non esiste alcuna immagine di Cariddi tridentato.  Codesto conio ha segnato la vittoria di Sesto Pompeo, figlio minore di Pompeo Magno (l’altro era Gneo Pompeo, già morto come il padre), dopo la vittoria navale su Ottaviano nelle tormentate acque dello Stretto di Messina.  Il figlio sopravvissuto del grande nemico di Cesare si era infatti rifugiato dapprima in Spagna e poi in Sicilia, dove dopo le tragiche Idi di marzo del 44 a.C. era riuscito a radunare un ingente flotta, che bloccava i traffici nel Mediterraneo. 
Personalmente non conosciamo raffigurazioni precedenti a quelle menzionate.  Graves (415) ha citato tuttavia un sigillo minoico, di certo assai piú arcaico delle icone appena esaminate, nelle quali asseriva di vedere un mostro dalla testa canina che dal mare spaventava un uomo su una nave; da ciò si può dedurre che il simbolo fosse in principio cinocefalo e che alludesse sul piano cosmologico alla presenza vernale di Sirio, ovvero in tempi precedenti a Canopo (in alternanza all’immagine di giumenta da parte di altre dee). 
Bisogna peraltro far attenzione che la leggenda di Scilla ha delle varianti, in una non essendo il figlio di Antedone a recarsi da Circe, bensì la figlia di Forco.  In una seconda variante Scilla viene “avvelenata” in maniera similare a quella della versione principale della storia, cui si è rifatto Ovidio, ma dalla gelosa Anfitrite anziché dalla gelosa Circe.  La <gelosia> d’un nume e la conseguente demonizzazione dell’altro, siano essi maschi o femmine, trasmette l’idea da un lato d’un immancabile decadenza del mito riguardante il primo di essi e del relativo culto; dall’altro, della comparsa conflittuale d’un secondo nume, di piú recente tradizione.  Di Circe si può dire che le uniche raffigurazioni ricorrenti sono in rapporto al ruolo sostenuto nell’Odissea o, meno, alla storia coinvolgente Pico e Canente; qualche volta di piú ella è mostrata in veste d’oppositrice di Scilla, ma mai lo è al posto di lei Anfitrite.  In siffatto ruolo Circe compare in una raffigurazione pittorica (olio su canapa, 1886) del pittore pre-raphaelita J.M. Strudwick (416), oggi al Mus.Nazionale di Liverpool.  Ivi la maga, fuori della porta di casa, è intenta ad avvelenare l’acqua con un intruglio e Scilla è un’avvenente giovane ignara del pericolo.  La versione cui l’autore pare abbia attinto è quella della fanciulla che si reca al bagno (ma è una strana acqua metaforica, diffusa fra le case e i giardini come in un’inondazione); dato che nella scena manca Glauco, l’oggetto della disputa amorosa.  In precedenza tuttavia, in un piatto decorato di Urbino del 1535, F.X. Avelli (417) aveva descritto la scena fra Circe, Scilla e Glauco in maniera dissimile: Circe osserva maligna dall’alto d’uno scoglio erboso Scilla immersa nuda in una vasca d’acqua presso Glauco, sdoppiato ed intento alla pesca.  Piú accentuata in senso magico è l’ambiente pittorico immaginato e realizzato dall’olandese E.H. van der Neer nel 1695 (418); questi pone i due amanti nello specchio d’acqua d’una spelonca, ma li sorprende l’incantatrice che senza indugio manovra beffardamente la sua Verga sulla rivale Scilla.  In questo filone s’inserisce anche la Jealous Circe (olio su canapa, 1892) di J.W. Waterhouse, una pittura ove la maga si erge solitaria con una coppa di fluido magico fra le mani e lo lascia cadere nella pozza all’interno d’un antro in cui è solita andare a bagnarsi Scilla (419) . 

Un’ulteriore iconografia relativa a Scilla è quella che l’affianca a Cariddi, il mostro maschile – figlio di Poseidone e di Gea – ancor piú temibile che l’accompagna nell’Odissea quale personificazione del gorgo dell’altra riva dello Stretto di Messina.  La storia della rivalità fra Circe e Scilla rientra nelle Metamorfosi ovidiane ed è evidentemente piú antica rispetto alla coppia omerica di mostri Scilla-Cariddi, seppur di per sé indichi un momento di decadenza del culto rispetto al mito del semplice amore ricambiato nei confronti di Glauco, visto che dà la trasformazione orrenda della fanciulla già per scontata.  Un rilievo a tutto tondo di epoca adrianea, copia del II sec. d.C. d’una scultura del II a.C., (Villa Adriana, Roma) mostra un compagno di Ulisse tutto contorto essendo azzannato da una grossa testa di cane – Scilla evidentemente – dalle unghie affilate al pari d’un felino (420).  Non molto diversamente, in un affresco rinascimentale del 1575 di F.Allori (1535-1607) Scilla fronteggia invece Cariddi: ma anche qui è ridotta a gigantesche teste canine nell’atto di ghermire dei compagni di Odisseo, che passano accanto ad essa per evitare il peggio dall’altro lato dello Stretto (421).  Nella messinese Fontana di Nettuno, opera di G.A. Montorsoli del 1557, la coppia di mostri è posta sul basamento al di sotto del dio del mare (422).  Parecchio suggestiva nell’estetica, ma non altrettanto palese nel contenuto, è la rappresentazione di H.Füssli (1741-1825) Odisseo dinanzi a Scilla e Cariddi, composta nel periodo 1794-6 (423).  Ulisse alza lo scudo per ripararsi dall’orrore della vista e la sua tribolazione è immiserita a livello d’una povera zattera.  In alto, sulla roccia della gola, campeggiano 2 mostri dai non ben chiari connotati.  In un folio miniato del 1475 (una foglia dorata colorata a tempera) osserviamo da un lato Scilla con 2 Teste Canine presso l’omonimo promontorio e, dall’altro, 3 Sirene colle ali e la metà inferiore d’uccello (424).  Le Sirene tengono in mano rispettivamente una Cetra, una Campana ed un manoscritto, evidentemente uno spartito musicale.  L’opposto promontorio, Cariddi, non è invece accompagnato in questo caso da alcuna raffigurazione mostruosa.
Circa Doride, la sposa di Nereo e madre di Glauco allorché questi non riceve l’appellativo di Antedonio, oltre alla sua già segnalata presenza nel fregio dell’altare di Pergamo è da ricordare quella nell’altorilievo dell’altare di Domitius Ahenobarbus; situato alla base della statua di Marco Antonio, seconda metà del II sec. d.C., ora nella Gliptoteca di Monaco di Baviera.  Doride, a cavalcioni d’un ippocampo, reca nelle mani due fiaccole onde illuminare la processione delle nozze della figlia Anfitrite con Pos eidone.  L’attorniano degli Erotidi.  In quanto poi a Nereo, vide il §p.  Mentre per altri dati su Anfitrite vide supra il §q e, infra, i Capp. VI-VII.  Come abbiamo già rilevato in questo stesso paragrafo, comunque, mai la consorte di Poseidone viene ritratta nel ruolo di Circe quale femmina gelosa di Scilla.  Il Fontenrose (425) fa di Scilla una variante mitica di Échidna-Delphýne, vale a dire della dragonessa di Delfi, mettendo in rilievo soprattutto la storia che la connette ad Eracle nell’XI Fatica (vide Cap.VI, §l)(426); nella quale viene annientata, ma il padre Forco la rigenererà. 



t)  Il motivo delle Sirene e dei Sireni

La Sirena (almeno la Mermaid) costituisce l’equivalente del Glauco semipescino, ma quest’ultimo non è ritenuto di fatto un sireno, benché ne abbia tutte le caratteristiche: fascino dell’anziano (sí da suscitare un’indicibile gelosia in Circe verso la rivale), forte propensione erotico-sentimentale nonostante l’età avanzata, coda di pesce.  Rappresentazioni figurative dei Sireni, a parte l’iconologia letteraria, non ci sono note, e se esistono sono rare.  A differenza di quelle delle loro controparti femminili, che invece sono assai numerose; però è plausibile che le due raffigurazioni semiantropomorfiche debbono aver avuto una genesi comune, dalla quale si sono differenziati i due sessi.  Forse il primo Sireno o la prima Sirena aveva natura androginica.  Donde sono nate, allora, i Sireni e le Sirene (427)?
Di norma le Sirene vengono reputate le figlie di Achelòo oppure di Forco, al pari di Scilla (428).  Per capire chi siano veramente è quindi indispensabile comprendere la loro paternità e le ragioni della loro mitica nascita.  Acheloo è figlio di Oceano, l’uno con corna di toro e l’altro con corna di granchio.  Oceano è posto da Platone nell’ambito del II Grande Anno, dopo Urano; perciò Acheloo, con coda di pesce serpentiforme (429), va assegnato alla seconda metà dello stesso ciclo che bibiblicamente chiameremmo evaico.  La Coda Serpentina testimonia che è una divinità pre-orticola, ma non ancora post-paradisiaca, d’origine insomma per cosí dire ‘melanesiana’.  Come sia stata trasmessa da quella plaga (quand’era un continente insulare non ancora parzialmente sommerso, al pari dell’Hawaiki nel ciclo precedente) alla Grecia è questione archeologica, ovviamente di difficile risoluzione (430).  La Coda Pescina indica in generale il richiamo paradisiaco, la metà superiore del corpo umana (non meno di quella dei primi 2 Avatara hindu) si richiama in particolare al I G.A., allorché la natura divina ed umana si trovavano in armonia; tuttavia la metà inferiore del corpo serpentiforme e le corna taurine certificano l’avvenuta degenerazione del culto, scaduto a pratica pre-sacrificale.  Di qui prenderà avvio un poco piú tardi (all’inizio del III G.A.) il vero e proprio culto sacrificale, legato antropologicamente alle pratiche orticolo primitive, che la Genesi (iii. 17-9) descrive come la ‘Caduta dell’Uomo’.  In altre parole, χελῷος corrisponde concettualmente all’Akāla upanishadico (Mait.U.- vi. 15), contrapposto a Kāla, cioè a Κλως (varr. Κρόνος e Χρόνος).  Non a caso si trova in area austronesiana, precisamente a Giava, un vecchio nume marino indonesiano di nome Kala.  Non può essere un lascito della colonizzazione induistica, giacché in India l’equivalente nome di Shiva (con allungamento della prima a, a differenza dell’altro) non assume mai funzione oceanica, benché abbia conservato il Tridente quale emblema  temporale (vedi Trikāla).  Fontenrose (431) per la verità identifica i due personaggi mitici di Oceano e Acheloo, il che a grandi linee non è scorretto, ma la figliolanza mitica va interpretata quale riproposizione in tono minore d’un principio spirituale; minore per il contenuto sacro, anche se talora maggiore per lo sviluppo culturale.   Si esamini per un confronto al riguardo la serie paterna greco-ellenica Urano-Crono-Zeus-Pan, divinità vicendevolmente preposte alle ‘Quattro Età’ esiodee, sebbene la prima di esse sia in certi casi sdoppiata come fra gli Orfici; che pongono prima Eros e poi Urano quali numi primevi, mentre Platone piú correttamente distingue fra Urano ed Oceano (432).
Il fatto che Eracle stacchi un corno ad Acheloo, come vedremo piú innanzi (Cap.IV, §l), ne fa un unicorno; ma questo è un tema che non possiamo trattare al momento, prima di aver esaurito la simbologia ittica.  Diremo tuttavia, fin d’ora, che l’Unicorno –nonostante la cosa sia da certuni negata (Cap.VII, §v) – costituisce lo sviluppo iconografico del Pesce Monodono e cioè del Narvàlo.  La trasformazione da pesce monodono in pesce unicorne serpentiforme possiede una sua logica, risalente alla diversità fra la natura umana perfetta delle origini e quella un po’ degenerata dei tempi immediatamente successivi alla ‘Caduta’.  Similmente alle Erinni le Sirene erano nate dalle gocce di sangue versate da Eracle nel divellere il <secondo> corno di Acheloo (433).  La loro nascita assomiglia a quelle delle Ninfe, delle quali condividono a volte la triplicità; sebbene in principio fossero due, come nell’Odissea.  Ma anche delle Ninfe è lecito pensare la stessa cosa: al pari di esse, crediamo fossero una volta soltanto appaiate.  In fondo le Sirene altro non sono che delle ninfe marine, non meno delle Nereidi.  Siamo convinti che le prime nella loro primitiva formulazione alludessero alle anime delle genti paradisiache.  Probabilmente la loro danza, cosmologicamente parlando, rimandava a quella mattutina delle Aurore polari nella Terra Iperborea.   Mentre le Nereidi si richiamano, coerentemente, alle anime delle prime genti dedite all’orticoltura.  Ma Eracle è figura mitica abbastanza recente.  Si può dire altrettanto anche per le Sirene?  Certamente no.
La tesi di Kerényi et al., tesi che personalmente condividiamo solamente in parte, è che il loro aspetto ornitomorfico sia precedente a quello ittiomorfico (434).  Per questo egli le apparenta alle Arpie, ma ciononostante sottolinea un’ulteriore affinità colle Muse, poiché esse suonano strumenti musicali (lira, flauto) accompagnandosi col canto; fattore che ci fa ricordare i Gandharva (‘Musici’) indiani, donde la Musica in quella tradizione è chiamata Gandharvavidyā.  Sono gli equivalenti dei Gandarewa dell’Avesta (435).  Essi costituiscono i consorti numinosi delle Apsaras, vale a dire delle Sirene induiste.  Nel gveda compaiono un solo Gandharva ed una sola Apsaras, questo essendo probabilmente il numero anche dei Sireni e delle Sirene prima della loro posteriore duplicazione, triplicazione ecc. (436).  La coppia funge da guardiana del Soma, da intendere come Bevanda di Luce, Elisir di Lunga Vita, Bevanda d’Immortalità.  Sotto tale aspetto presiedono anche all’Amta, che è in fondo un altro nome del Soma, insomma favoriscono l’Amore in senso celestiale.  Ovviamente tuttavia esiste una controparte negativa a tale tipo di influenze, potendo essi causare malattie ed in particolare la pazzia o la perdizione, ciò che corrisponde piú o meno nella mitologia greco-romana ai mali causati dall’ascolto del canto delle Sirene.  Nelle tradizioni europee i Sireni sono invece figure secondarie, di essi non si parla quasi mai, non avendo lo stesso ruolo pregnante delle loro corrispondenti femminili.  L’interpretazione storicistica di Kerényi pretenderebbe che dalle raffigurazioni sui monumenti funerari le Sirene siano passate alle fiabe raccontate dai navigatori.  Codesta interpretazione, lo diciamo apertamente pur nel massimo rispetto del grande storico delle religioni, appare troppo semplicistica; oltretutto, non spiega come tali icone siano giunte a far parte del simbolismo funebre e come si siano generate.  Evidentemente Kerényi pensava in questo modo di giustificare la sua tesi del passaggio dalla forma aviaria delle medesime a quella pescina.  Ma la cosa non ci convince affatto.  Riteniamo, viceversa, che la ricostruzione del significato del loro culto debba passare per altre vie; non fosse che per il nome di una delle due incantatrici menzionate da Omero nell’episodio dell’incantamento di Odisseo, Imeropa, da Ἵμερος (‘Desiderio’)(437).  L’accostamento possibile del nome citato a quello di Eros proviene non solo dall’etimo, ma anche dalla comparazione con Kāma, l’omologo dio del desiderio hindu raffigurato a cavalcioni del Pesce.  Ciò è significativo, dal momento che gli Erotidi fanno spesso da contrappeso funzionale alle Sirene.  E gli Erotidi, nonostante la loro apparente giovanissima età (ma è esclusivamente una metafora ad indicare la loro primordialità come categoria sociale o, intendendo in riferimento alle singole anime, la loro natura pre-natale di anime del Regno del Morti desiderose di rinascere), possono senza dubbio essere paragonati ai Σειρῆνοι od ai Gandharva indiani.  Anche se gli uni s’accompagnano costantemente al Delfino o ai Delfini (piú raramente ai Coccodrilli o al Coccodrillo), mentre gli altri possiedono code pescine oppure ali e zampe d’uccelli.
La tesi del Kerényi basasi sull’evidenzia iconografica, ma questa è pericolosa, giacché testimonia semplicemente lo stato attuale dei ritrovamenti e non la ciclicità cosmologica in cui s’inseriscono necessariamente tutti i numi.  In pratica, se analizziamo il materiale archeologico oggi a nostra disposizione effettivamente parrebbe sostanziata l’idea che le Sirene fossero delle donne-uccelli, visto che in tal modo le raffigurava l’Antichità.  Il mito della trasformazione in uccelli è narrato da Ovidio (Met.- v, 555-63)(438): le Sirene erano delle vergini, le quali chiesero agli Dei di poter subire la metamorfosi in uccelli onde poter cercare meglio Proserpina, rapita da Ade (439).  Questa versione sembra la forma edulcorata dell’altra nella quale è Demetra a punirle, trasformandole evidentemente in demonesse, per non aver difeso la figlia mentre assieme raccoglievano dei fiori.  La scena è ricordata anche da Ovidio, ma l’intento idealistico del vate sulmonese lo spinge a trovare una spiegazione maggiormente elevata, spiritualizzante anziché punitiva, al medesimo fatto.  La spiegazione alternativa della punizione da parte di Afrodite, essendo stata criticata dalle vergini per la sua lascivia (Scholia ad Od.- xii. 168)(440), lascia il tempo che trova; sebbene, in qualche modo, tracci un legame indiscutibile fra la dea dell’armonia cosmica e le Sirene.  Non per niente la loro madre risulta essere, a seconda delle versioni, Tersicore (musa della danza e del canto corale) o Melpomene (musa del canto e della tragedia), insomma una delle 9 ninfe montane dette Muse; e costoro sono nate da Urano e Gea secondo il siciliota del I sec. a.C. Diodoro Siculo (Bibl.- iv. 7) oppure da Armonia, figlia ed ipostasi di Afrodite (441).  Sul che interviene un passo di Plutarco (Quaest.conv.- ix. 14, 6)(442) conciliando Omero con Platone, a sentenziare che il “suono di miele” di codeste creature non ha significato mortifero se non in rapporto  a ‘Questo Mondo’; che è il Mondo Fenomenico, ove tutto è limitatato dagli ostacoli terreni e dai legami carnali.  Per cui la <cera nelle orecchie> dei compagni di Ulisse si deve intendere appunto come l’incapacità dell’uomo comune a lasciarsi trasportare dall’armonia delle Sfere per giungere in un Aldilà non condizionato e non condizionante.  L’iniziato, invece, che come Ulisse vuole egualmente ascoltare quella musica ultraterrena è preso da folli slanci d’amore che i comuni mortali non possono comprendere.  Platone descrive nella Resp.- 617/b-c le 8 Sirene preposte all’Ebdomade e al Cielo delle Stelle Fisse.  Ciascuna emana una nota e tutto risponde all’Anágkē (‘Necessitas’), madre delle 3 Moire (443).  Il canto straziante delle Sirene, al dire di Giamblico (De misteriis Aeg.- xv. 65), veniva affidato difatti da Pitagora ai propri discepoli a scopo meditativo quale compito serale prima del sonno affinchè si purificassero dagli accidenti gornalieri (444).   Le Upaniad (Mait.U.- vi. 22) pongono a questo proposito la tecnica dell’ascolto dell’Au, attraverso i padiglioni auricolari, fra i mezzi per raggiungere le 2 forme del Brahman, lo Śabda e l’Aśabda (il ‘Suono’ e il ‘Non-suono’).  E l’Au, si deve rammentare, è ciò su cui meditavano in uno splendido silenzio gli esseri umani del Satyayuga (445). 
Alcune delle immagini piú antiche a noi note sulle Sirene sono figurine alate dell’VIII sec. a.C, con teste e seni di donne, ma senza braccia (446).  Una di esse è addirittura bifronte (447).   In fondo è cosí che dovette concepirle pure Omero, benché figurativamente non ne descriva le fattezze fisiche.  Ma tutte le opere artistiche concernenti l’episodio di Odisseo mostrano sempre donne alate, mai delle mermaid.  Ciò significa che le raffigurazioni della donne-pesci hanno origini diverse da quelle locali, per esempio nordiche.  Ciò spiegherebbe meglio, che non la tesi del Kerényi riguardo le storie raccontate dai marinai, la trasformazione di una forma composita nell’altra.  A meno che, ed è quel che realmente pensiamo noi, la doppia forma coesistesse fin dapprincipio per poi sdoppiarsi a seconda dei luoghi e delle circostanze temporali.  Il problema tuttavia rimane legato a cosa si debba intendere realmente per quel “dapprincipio”.  Ci spieghiamo meglio.  Siccome le Sirene vengono associate anche in Grecia alla figlia di Urano, Afrodite (come in India le Apsaras a Vāruṇī, dea del vino e dell’ebbezza estatica), sia dal punto di vista letterario-mitologico che artistico-figurativo, ecco che rispecchiano financo nel nome la loro dipendenza da quella dinastia divina primeva.  Ossia discendono da quella generazione umana che abitò lo Śākadvīpa durante il Ciclo Nordorientale, insomma il II ciclo Avatarico.  Infatti è durante il Rimestamento dell’Oceano di Latte (lo sconvolgimento dell’Oceano Artico, avvenuto c. 49.000-50.0000 anni fa secondo i dati puranici) che è nato il mito di Varua (lett. Varuna e cioè Urano, checché ne dicesse Eliade, il quale erroneamente lo paragonava a Vtra).  Il fatto quindi che abitassero il cielo o le acque le connota, distintivamente, come donne-uccelli o donne-pesci fin dai primordi.  Indi hanno finito per rappresentare l’armonia delle Sfere, dei Sette Pianeti e dei Nodi (uno vale per 2), donde la cosmologia trasmessa shamanicamente alla Grecia e raccolta tardivamente da Platone  da tempi remoti.  In seguito, dopo l’incontro in Eurasia fra Ari e Turi, a causa probabilmente dell’associazione zodiacale fra Marte e Venere le Sirene sono passate ad indicare l’accompagnamento dopo la morte ed è per questo a nostro giudizio che le ritoviamo raffigurate nelle steli funerarie o nel vasellame assieme alle Sfingi (448).  Kerényi, viceversa, non offre alcuna spiegazione a tal fatto.  Lo dà per scontato, ma non era questo sicuramente il senso primario del simbolo in origine prima della loro olimpizzazione.  L’idea che anche le Sirene di Odisseo svolgessero questo compito è presumibile, ma vale esclusivamente sul piano exoterico.  Del resto, anche le Ninfe avevano a che fare colle anime dei defunti, anzi secondo l’interpretazione del De Antro Nympharum (449) erano le anime dei defunti (cadute nella generazione); ciò non toglie che la loro funzione funeraria costituisca un’applicazione posteriore, divenuta preponderante rispetto all’altra nel momento in cui si sono persi i legami fra i vivi e i morti, un tempo assai meglio percepiti dagli uomini.  Quale fosse invece la loro natura originaria lo abbiamo già dimostrato al §p, dove è stato sottolineato il loro carattere spazial-direzionale anziché annual-temporale.  Per le Sirene valga un analogo discorso.  In questo caso, però, non è la strategia di suddivisione primordiale dello spazio a contare, bensí il valore armonico  del loro canto silenzioso e monotonale.  Inutile aggiungere che questo produce l’incantamento di cui necessita la mente umana per raggiungere mete oltremondane.  Sotto tale profilo, si potrebbe dire che le Sirene rappresentino in sé lo sviluppo antropomorfico della Conchiglia di Venere, che è simbolicamente una variante della Tartaruga; rettile al quale pur esse si connettono ermeticamente, non meno delle Ninfe, secondo quanto mostra il loro accompagnarsi canoro collo strumento della Lira (450).
Non vale la pena di analizzare altre icone di tipo ornitomorfico, giacché non aggiungono nulla al nostro discorso.  Diciamo che dal IV sec. a.C. le Sirene cominciano a possedere le braccia (451), ma le gambe umane spuntano solamente dal I sec. a.C. in poi (452).  L’applicazione funebre, invece, è presente già a partire dal periodo classico tardo. Solamente nella pittura dell’Ottocento tali creature assumeranno l’aspetto interamente umano di stuzzicanti fanciulle sulle rive dei mari od immerse in acque vorticose.  Con qualche eccezione, dove l’aspetto aviario non le ha abbandonate (453). Passiamo allora alle Sirene di tipo pescino, le cd. Mermaid.  Uni- o bicaudate esse non si trovano nell’arte antica, ma unicamente nell’arte medievale, alternate alle vecchie forme di sirene ornitomorfiche (454).  Tuttavia sono presenti nel folclore di varie genti in tutti i continenti, il che le riporta ad un contesto sacrale estremamente arcaico o addirittura ancestrale e quindi pre-letterario, se non adirittura pre-figurativo.  La piú antica raffigurazione di Mermaid che conosciamo, almeno cosí è specificato da parte degli studiosi eurocentrici, parrebbe quella della dea assira Atargatis, che si era trasformata in sirena vergognandosi d’aver determinato la morte del suo amante.  Ma le cose non stanno affatto cosí, basta pensare a Sedna (455), la leggendaria fanciulla-foca eschimese dai tratti gorgonici; a dimostrazione che tal tipo di creature si rifanno ad un contesto marino-fluviale, ma non esattamente pescino, il quale da un continente all’altro può peraltro mutare a seconda del mammifero acquatico preso di mira nel simbolismo.  Vedi, ad es., il dugongo od il lamantino rispettivamente nei Mari del Sud o nell’Atlantico.  Per quel che concerne la suddetta divinità mesopotamica, definita altrimenti Dirceto o Dea Siria e sposa del dio della folgore accadico Hadad (analogo al Tešub hurrita e all’omonimo nume hittita), occorre precisare che le erano sacri pesci e colombe.  Ciò che potrebbe spiegare l’iconografia delle Sirene come pesci od uccelli, al di là delle semplificazioni introdotte a livello storico ed interpretaivo da studiosi pur validisssimi per altro canto quali Kerényi.  Sul piano dell’etimo la dea viene considerata una specie di agglomerato culturale fra la dea del mare Airat, la dea lunare Anat e la dea dell’amore Atart (456); i pesci che le sono sacri alludono alla fecondità, le colombe all’eros (457).  La controparte maschile di questa dea, sotto forma di sireno, è senza dubbio l’assiro-babibolese e cananeo Dagon o Dagan/Zagan (fen. ed ebr. Dāgôn)(458); assimilabile, peraltro, al mesopotamico Oannēs (459).  Questi è stato presentato da Berosso (Βήροσσος) nelle ‘Babiloniche’ (Βαβυλονιακά), durante il IV sec. a.C., quale eroe culturale e civilizzatore.  Insegna le scienze, le arti e le lettere ed è trasmettitore del Libro sacro.  Vien in genere considerato un dopppione di Ea (460), signore dell’Abisso (Apsū) e dio della sapienza.  Si può ipotizzare che, essendosi il culto di Dagon diffuso in tutta l’area vicino orientale, essendo stato fatto conoscere dai Fenici ai Greci, costoro l’abbiano adottato chiamandolo Tritone.  Il problema però è che figurativamente Tritone non assomiglia a Dagon, dal momento che il nume greco ha scaglie di rettile più che non di pesce, a parte la coda.  A differenza di Dagon-Oannes il dio Ea ha per emblema la Capra-pesce, in altre parole il Segno del Capricorno, ma ciò non è facile da spiegare; dato che Ea equivale a Giove, non a Saturno.  Veniva venerato ad Eridu, dove era collocato un tempio alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate.  Similmente al dio di Noè, avvisa il nocchiero Pirnapištim (Zitnapišti) di costruire un vascello per affrontare il prossimo diluvio (461), recando seco il seme d’ogni vita per poi ricostruire il mondo distrutto dall’inondazione.  Qualcuno indica questo racconto come la possibile fonte della storia biblica, ma potrebbe anche esserci stata una fonte orale comune precedente.  Poggiandosi sugli studi del prof. Robertson Smith, i coautori Mackenzie e Squire (462) ricordano che in una serie di narrazioni legate al culto di Atargatis e comuni all’Egitto (Hierapolis) e alla Mesopotamia la dea e suo figlio – cfr. con Afrodite ed Eros – si gettano nella santa vasca del tempio oppure nell’Eufrate tramutandosi in pesci; ciò per ribadire che il senso divino della vita nelle acque era incarnato dal Pesce, l’animale sacro che le abitava.  Ecco il motivo onde Ea, il signore delle acque dalla forma di Capra-pesce, veniva ritenuto un dio della fertilità e della fecondità.   D’altronde, i due doppioni di Dagon e Oannes sono stati iconograficamente appaiati alla Spiga, che simbolicamente era ritenuta alternativa al Pesce (463); egualmente accadeva nell’America Precolombiana, ove però il ruolo della Spiga di Grano era coperto dalla Pannocchia-di-Mais (464).  Non per niente alcune deità egizie come la dea-madre di Mendes, Hatmehit, e Rem sono da reputare divinità ittiche: la dea porta il Pesce in testa ed è associata a Hathor e Iside, mentre il dio è una divinità del grano.  Quest’ultimo non è diverso da Remi, un aspetto di Sobek, il dio acquatico col capo o l’intera sagoma di coccodrillo; il quale a sua volta rimanda a Nun, l’impersonale nume dell’Oceano Primordiale (465).   

Riguardo l’iconografia vale la pena dapprima di citare una scultura di Dagon-Oannes intento a nuotare fra le onde rinvenuta da P.É. Botta nel 1843-4 durante gli scavi a Khorsābād (Iraq, presso Mossul), sede dell’antica Dur Šarrukīn, capitale dell’Impero Assiro.  Da essa lo scrittrore anglicano S. Baring-Gould (XIX-XX sec.) ha tratto un’illustrazione, pubblicata in Curious Myths of the Middle Ages (P.II, p.495).  Un’altra immagine di Dagon che indossa una veste pescina, colla testa fungente da copricapo a mo’ di mitria papale, è stata ricavata da un’incisione d’un cilindro assiro e pubblicata dall’archeologo inglese A.H. Layard (XIX sec.), continuatore degli scavi pionieristici di Khorsabad, in Ninveh and Babylon (1882, p.168).  Accanto al dio sta una figura alata (divina) ed insieme venerano l’Albero della Vita coi suoi 13 Frutti, oltreché l’emblema dell’Occhio Solare Alato di Aššur.  Cfr. coll’emblema di Ahura Mazdāh.  Una terza icona in veste ittica, questa volta reggente la Borsa dei Semi della Vita (466) nella mano destra, è presente in un’illustrazione di E. Wallis in Illustrerad verldshistoria utgifven (1875, Vol.I)(467).  Circa l’iconografia di Atargatis è presto detto (468).  La vediamo ittiforme in una moneta in cui sulla faccia opposta sta il busto di Demetrio III (I sec. a.C.), pretendente al trono dell’Impero Seleucide, il quale comprendeva oltre alla Siria e alla Mesopotamia la Persia e l’Asia Minore.  Altre volte la dea – sempre in un conio – viene effigiata di schiena (ci pare almeno, non di fronte, come pretenderebbe il commento) ritta su Tritone, reggente la Cornucopia colla sinistra e la Colomba colla destra, mentre lei tiene viceversa nella mano sinistra la Colomba e nella destra l’Asta del comando (469).  Sull’altra faccia è effigiato il busto dell’imperatore laziale Antonino Pio (II sec. d.C.), in parte d’origine gallica.  Di Ea potremmo ricordare l’impronta di sigillo cilindrico accadico (c.2.300 a.C.) del Museo Britannico (470), ove si scorgono i due fiumi Eufrate e Tigri, ripieni di pesci, spuntare dalle sue spalle; in alto si vede l’uccello Zū che piomba sulle acque e in basso si fa strada fra le montagne con una coltella il dio-sole Šamaš, desideroso di sorgere.  Mentre ai lati stanno da una parte Ištar alata e dall’altra il bifronte Isimud (Usumu), messaggero ed emissario del dio della sapienza (471).  Si consideri inoltre il bassorilievo d’una lastra ornamentale in granito posta su una vasca cultuale e e ritraente 2 Capricorni opponentisi in posizione araldica (Periodo Elamita Medio, 1500-1100 a.C.), di proprietà del Louvre (472). 
La mermaid (dall’a.ingl. mere = mare) nel contesto dell’Europa Settentrionale non ha un’equivalente sotto forma aviaria, ma è probabile che l’abbia avuta in passato (473), come è avvenuto in Grecia e in India.  Ad essa s’affianca il Merman, come il Sireno alla Sirena.  Entrambe le coppie possono risultare, naturalmente, benevole o malevole.  Negli ultimi secoli esse – specialmente le femmine – sono state sovente oggetto d’ispirazione artistica, soprattutto a livello pittorico (474), essendo personaggi del folclore nordico.  Si rammenti, a titolo d’esempio, La Sirenetta (1837) di C.H. Andersen (475) o la protagonista femminile de Il pescatore e la sua anima (inclusa ne La casa dei melograni, 1891) di O. Wilde (476).  Entrambe – benché vengano chiamate ‘sirene’ sono delle mermaid – hanno un problema: non posseggono un’anima e soltanto l’amore d’un uomo innamorato di loro può conferirgliela.  In entrambi i casi la vicenda si svolge affinché alla fine la fanciulla dalla coda di pesce possa ottenerla, o per partecipazione come nel caso del racconto irlandese oppure per motivi etici in quello danese.  In questo caso, addirittura, parrebbe addirittura che la fanciulla si unisca quasi direttamente a Dio, avendo negato il proprio ego per amore del principe. Nella tradizone popolare italiana, in particolare abruzzese, abbiamo invece La sposa sirena (1956)(477); che Calvino raccolse da G.Gigli in quel di Taranto, ed avendola trovata in un linguaggio lirico, ha cercato di renderla in un lingua piú popolare.  Ivi è una fedifraga che viene buttata dal marito in mare ed accolta nel Palazzo delle Sirene sul ‘Fondo delle Acque’, dove danza con loro ma è triste per la lontananza da casa, sino al ritorno inatteso dal marito pentito sulle ali d’un Aquila (la Scopa della Strega del Mare, attestata anche in Andersen (478), nell’originale)(479).  Il tema delle Mermaid (o Sirene che dir si voglia), si noterà, è comunque sempre legato ad uno scrittore dotto.  Trattasi d’un motivo decisamente poco popolareggiante.  Nel caso della fiaba pugliese, ove chiaramente l’influenza greca appare notevole, riemerge il simbolo della schiuma in cui vanno a finire le Sirene dopo la morte anche secondo le fiabe nordiche.  Ivi è il nome stesso della protagonista, la moglie adultera, a chiamarsi Schiuma.  Onde capire in profondo il significato di questo concetto si pensi all’Afrós (appunto ‘Schiuma, Spuma’), generato dal Fallo d’Urano precipitato nelle Acque (della Manifestazione, s’intende), donde è nata Afrodite Urania; la quale, perciò, raffigura l’Armonia Celeste.  (Cfr. con Atargatis e alla sua trasformazione in sirena dopo l’uccisione involontaria del maschio, il deus otiosus di tipo uranico).  Di contro alle sue parziali incarnazioni, le Mermaid appunto, ma il termine in greco – come vedremo piú innanzi – ha il medesimo senso di quello anglosassone.  Ciò spiega perché figure quali la sorella di Alessandro Magno, Thessaloníke, si siano tramutate in mermaid; secondo la leggenda la principessa era stata bagnata dal fratello coll’acqua d’un fiasco ottenuto presso la Fontana d’Immortalità.  Al momento della morte, non potendo morire si era gettata in mare, ma in tal modo era avvenuta la sua trasformazine in sirena.  Raccontavano i marinai che per avere una felice navigazione, una volta incontrata, bisognava rispondere alla domanda da lei formulata sulla sorte del fratello che Alessandro regnava come prima.  Atrimenti scatenava procelle e rendeva la rotta difficile e perigliosa. 
Le mermaid sono presenti soprattutto nel folclore delle Isole britanniche e in quello europeo (480).  Una delle rappresentazioni artistiche maggiormente antiche, reperibile sul capitello d’una colonna, è quella della Cappella normanna del Castello di Durham. nel nord dell’Inghilterra.  Nel folclore britannico le mermaid sono divenute veicolo di presagi infelici per i marinai, affermando loro che non avrebbero toccato mai terra, oppure al contrario avvisando le barche che erano prossime alla spiaggia.  Vi sono mermaid selvagge od interessate ad insegnare agli umani la cura delle malattie.  Talora nuotano nei fiumi o nei laghi, salvano gli uomini e le donne dall’annegamento; o magari al contrario tirano giú nel profondo, come nel testo d’una celebre canzone inglese.  Seppure in questo caso riferito, per trasposizione geografica, al Nilo (481).  I merman vengono descritti piú estranei al mondo umano, che rigettano ostilmente.  La merrow, la ceasg e la ben-varrey sono le equivalenti della mermaid anglosassone rispettivamente in Irlanda, Scozia e nell’Isola di Man.  Nella Cattedrale anglicana di San Brendano a Clonfert (nel centro dell’Irlanda), sul pilastro sud dell’arco del cancello, è raffigurata una merrrow con specchio e pettine (482); tratti tipici anche delle Sirene, che M. Bulteau (483) riporta alla Lilith ebraica (la Lilitū sumera, affine alla Lamia greca) L’altorilievo allude ad un passo dell’anonimo Viaggio di San Brendano, in cui è descritto il comportamento dei monaci nell’udire il languido canto delle mermaid: irresistibilmente essi cadono addormentati, dimentichi di sé.  In Irlanda questo tipo di sculture, peraltro abbastanza raro e limitato a 5 esemplari, ha preso piede a partire dal XIII sec.  Le ben-varrey, viceversa, offrono tesori agli uomini.  Pure nel folclore dell’Europa continentale si conoscono alcuni personaggi femminili che possono essere annoverati fra le mermaid nordiche: la Melusina in Francia, la Lorelei in Germania, la Nissa in vari paesi.  Un discorso a parte meritano però le Rusalka slave, la controparte delle Sirene e delle Mermaid nell’Europa Orientale.
Al dire del Bulteau (484) la storia tardo-medievale di Melusina comincia nel 1387 (485) a Lione con Le Roman de Mélusine di Jean d’Arras, commissionato da parte del figlio del re di Francia, duca di Berry e Auvergne.  Altri per contro fanno dipendere la storia dalla mitologia pre-cristiana e la dipingono quale spirito delle acque del tipo della nota Dama del Lago nei romanzi graalici.  Presenta coda di pesce al modo delle Sirene oppure coda di serpente come le Nereidi.  La sua leggenda è diffusa nel nord e nell’ovest della Francia, in Olanda e Lussemburgo (486).  Risulta essere la figlia di Elinas, vedovo re d’Albania, e della Fata Presina, che il sovrano aveva intravisto presso una magica fonte ed avendola inseguita e ritrovata aveva finito per unirsi a costei.  Tuttavia, affinché la fata acconsentisse a sposarlo, aveva dovuto giurarle che non avrebbe mai assistito alla nascita dei loro figli.  Siccome però era venuto meno al giuramento allorché Presina aveva generato tre gemelle, tra le quali appunto Melusina, la fata lo maledisse e l’abbandonò.  Avvisandolo peraltro che un discendente della propria sorella, regina dell’Isola Perduta, l’avrebbe vendicata (487).  Anche la figlia Melusina dopo avere partecipato assieme alle sorelle ad una spedizione punitiva nei confronti del padre, da loro detronizzato, finí per subire simile sorte.  Dopo essere andata a dimorare presso la Fontana-delle-Fate, infatti, sposò il Conte Raimondino  (488), ma da questi ebbe figli deformi.  Sulla roccia donde sgorgava la fonte fu costruito il Castello dei Lusignan, un’imprendibile fortezza.  La donna-serpe o pesce è chiaramente un contrassegno di Potenza, alla maniera della Śakti hindu, dato che alcune casate reclamano la discendenza da lei (489).  Nel suo aspetto benefico era paragonata alla Vergine e venerata quale costruttrice di torri e torrioni, ma in quello malefico pigliava forma di vecchia o di serpente e veniva temuta come distruttrice di fortezze e di castelli (490).  La sua iconografia varia da donna-pesce (491) a donna-serpente (492), nel primo caso apparendo talora da sirena bifida (493); ma a volte possiede sembiante esclusivamente umano, pur avendo in mano non meno delle Mermaid lo Specchio ed il Pettine, intanto che zampilla acqua dai seni (494).  Il Bulteau ipotizza lontane origini orientali, sulla base della somiglianza con l’Echidna scitica, coniugata ad Eracle e madre dei 3 <Figli> donde sono state generate le 3 tribú originarie di quella popolazione (Sciti propriamente detti, Saci e Shaka)(495).  Non meno delle Apsaras indiane d’altra parte Melusina ha a che fare colla pioggia, apportatrice di benessere alla terra riarsa.  Sua sorella Palatina custodisce il tesoro del Re d’Albania al modo di una celeste dea delle acque, sovrana d’abbondanza; l’altra sorella, Mélior, detiene in un castello armeno lo Sparviero, messaggero celeste conduttore del Lampo.  Dal che si comprende quale sia il vero ruolo delle 3 sorelle, o meglio delle 3 antiche dee sopravvissute all’ecclissi del mondo pagano sotto il giogo cristiano.  Il suddetto autore con un salto pindarico davvero notevole le pone in rapporto a Varuna (496), ma non ha tutti i torti, anzi ha ragione; non abbiamo noi asserito la stessa cosa in relazione alla Sirene, facendole derivare da Afrodite, ossia dalla <Schiuma> provocata dalla caduta del <Fallo> di Urano (Axis Mundi) nel mare?  Dato che Afrodite Urania (Venere) equivale biblicamente ad Eva, non fosse che per il mito della <Mela> (Imago Mundi), è chiaro che codeste <Tre Sorelle> corrispondono simbolicamente alle <Tre Spose> di Adamo.  Il che è come dire ai 3 aspetti della Shakti.  L’autore ha dimenticato infatti che  è Eva medesima in certe circostanze (497) ad esser raffigurata con coda di serpe, alla maniera di Eleusina e che tale simbologia composita trovasi anche in Grecia (le Nereidi, Echidna stessa o Medusa) e in India (Ulūpī).  Ulūpī è una  nāginī, figlia di Kauravya, il re dei Nāga.  Arjuna ha terminato di allestire il rituale dedicato all’acqua e sta per venir fuori dal Gange per allestire il rituale del fuoco, quando viene trascinato sul fondo del fiume da un essere sconosciuto, che si presenterà poi a lui come la figlia del Nāgarāja.  Risaliti a galla, costei gli confida di essere stata presa dal desiderio per la sua mascolinità dopo averlo visto bagnarsi nella corrente e di non essere stata capace a resistergli, non essendo ancora maritata.  Dopodiché l’eroe, pur trovandosi in stato di purità, acconsente ad acccondiscendere ai desideri della nāginī, anche perché lei minaccia il suicidio altrimenti.  Alfine, egli viene condotto nel palazzo di Kauravya, ubicato laddove il Gange entra nella pianura.  Vide Mhbh.- i. 214 (216 ediz. Calc.). 
In quanto alla Lorelei (ted. Loreley), costei è la figlia d’un pescatore di nome Leonore, abbreviato in Lore.  La giovane abitava in una casa di marinai presso il Reno, vicino alla quale il fiume formava un gorgo determinato da una grossa roccia a strapiombo sull’acqua.  Il passaggio perciò risultava pericoloso per le imbarcazioni.  Di qui a divenire un luogo maledetto di convegno fra gli spiriti sotto la luna il passo fu breve.  La bella diciottenne amava passeggiare da quelle parti.  Alla festa della Vergine nel vicino centro il curato scelse Lore per recitare una preghiera alla Madonna.   Sennonché la volta celeste improvvisamente si oscurò ed un lampo la squarciò.  Quel fatto convinse i fedeli che era la collera di Dio contro tale creatura, che intratteneva contatti cogli spiriti.  Avventatisi contro di lei, volevano gettarla dalla rocca.  Ma, essendo apparso un cavaliere nero armato, la sottrasse alle mani malevole della folla e la portò via.  Questo cavaliere era il conte Udo, il quale essendosi disperso una volta per la foresta col suo cavallo  era sta aiutato dalla ragazza a trovare la strada; naturalmente era rimasto affascinato da lei e la considerava quasi una fata per il suo vestito bianco.  Avvvicinanandosi la festa del paese e sapendo delle dicerie che ne facevano una strega, s’era tenuto pronto a intervenire in caso di necessità.   Cosí l’aveva salvata dalle grinfie dei fanatici.  Dopo essere rimasti per alcuni giorni in una capanna dentro la foresta, il conte tornò al suo castello, benché ogni  tanto venisse indietro a vederla; ma allorché il nobile cominciò a diradare le sue visite, la giovane si disperò.  E fece ritorno alla sua rocca nei pressi del Reno.  Stava a riflettere seduta a guardare l’acqua scorrere fino a che il Dio del Reno, attratto dal pianto disperato della fanciulla, si levò dal suo palazzo cristallino in fondo al fiume coll’aurea corona, i bianchi capelli e il mantello blu dagli argentei ricami.  Reggendo lo scettro incastonato di diamanti le domandò di aiutarlo a vendicare l’abbandono del proprio culto da parte cristiana: il dio l’avrebbe resa ancor piú bella e avrebbe donato un fascino irresistibile alla sua voce.  In questo modo lei avvrebbe attirato gl’ingrati fedeli sulla rocca e sarebbero precipitati nel gorgo.  Ella giurò allora fedeltà al nume, essendo rimasta di fede per metà pagana.  Decise di farli morire tutti e Udo per primo.  La Lorelei da quel giorno divenne un essere malefico, che attraeva i sedotti colla barca fino alla rocca, dove annegavano.  Una volta che il canto della fanciulla raggiungeva le orecchie degli uomini, nessuna forza umana era capace di sottrarli al desiderio di dissolvimento che li prendeva.  Colla loro barca si precipitavano inesorabilmente verso la morte per annegamento, ma nel mentre mai il loro sguardo abbandonava l’incantevole fanciulla.  Ad ogni vittima precipitata nei flutti gli occhi di Lore divenivano piú seducenti, sebbene lei ovviamente attendesse solo il conte, che nel frattempo s’era sposato e viveva felice.  Il rimorso del tradimento lo prese e volle rivedere la fanciulla che l’aveva amato, onde farsi perdonare, pur essendo venuto a sapere dello sciagurato patto di Lore col Dio del Reno.  Non appena la rivide, costei avendolo riconosciuto cantava colla voce piú melodiosa che poteva e lui cadde nella trappola che gli stava tendendo.  Diede una borsa d’oro ai pescatori, affinché lo portassero dov’era la rupe.  Un giovane pescatore gli propose il proprio battello.  Arrivato sul punto pericoloso, successe che Lorelei provò pietà per chi l’aveva salvata in passato e avrebbe dato la sua vita per salvarlo a sua volta, ma era troppo tardi.  I due uomini perirono nel gorgo.  A quel punto spuntò fuori di nuovo il Dio del Reno accusandola d’aver rotto il patto.  Ora era finita per entrambi.  Il nume sarebbe sparito e lei pure.  Infatti Lore gettò nell’acqua l’arpa che il Reno le aveva donato e si buttò a capofitto nel gorgo (498).  

Diversamente dalle consuete narrazioni sulle Sirene e le Mermaid, la storia della Lorelei racconta la vittoria dell’Amore sulla Morte, o se preferiamo la prevalenza in ambito kaliyughico della Divina Misericordia sul Divino Rigore.  Il contrasto fra cristianesimo (nello specifico la Vergine) e paganesimo (il Dio del Reno) insito nel racconto è soltanto un pretesto in relazione alla sopravvenuta e misericordiosa Età dei Pesci.  Ma che dire della Nissa (ted. Nixie)?  Insegna il Bulteau (499) che, tramite “molteplici travestimenti, le Dame delle acque nordiche hanno raccolto l’eredità tragica delle Sirene.”  La Nissa è riconoscibile per l’orlo della veste sempre bagnato o attraverso l’onda insanguinata.  Come la Lorelei non ha tratti pescini quali la coda, ma usa spesso “un bustino di squame color verde” assieme ad “un grembiule scarlatto”; indossa una collana nera ed ha in mano un bouquet di perle (500).  Non meno delle loro omologhe le Nisse sono perfette danzatrici.  All’equinozio di primavera si dimostrano maggiormente favorevoli, perché “piangono il loro passato splendore” e “le loro lacrime, mescolate con l’acqua, hanno il potere di far ringiovanire…”  Al solstizio d’estate codeste creature risultano maggiormente pericolose e non bisogna bagnarsi nei corsi d’acqua.  L’origano ha funzione apotropaica nei loro confronti.  Dato che, travestite da fanciulle innocenti, tendono a far impazzire i loro compagni inducendoli a buttarsi nei fiumi (501).  Vi è anche un Nisso, dispositore delle acque (502).  Per finire, le Rusalka (o Rusalki) slave – in Russia son chiamate pure Beregine, da intendere quali figure delle sponde (bereg) – sono per metà pesci e le loro braccia terminano una con una mano e l’altra con una pinna.  Per il resto hanno caratteri analoghi, piú o meno, a quelli dei soggetti sopra analizzati (503).  Ossia costituiscono una categoria di spiriti femminei (cfr. colle Samovile dei Bulgari o le Vile dei Serbi) della mitologia slava, legati ai fiumi e ai laghi, i quali danzano alla luce lunare nelle loro candide vesti; hanno fiori intrecciati nei capelli, gli occhi verdi e lunga capigliatura, eppure ciononostante mostrano aspetto cadaverico.  L’albero ad esse sacro è il platano, sui cui rami esse amano sedersi per adescare gli uomini. Essendo associate alla primavera (tanto che in Ucraina e in Polonia durante tale stagione si gettano ghirlande di fiori nei corsi d’acqua), influiscono sulla fecondità femminile, i raccolti, la pesca ecc.; ma, in veste malefica di demonesse fluviali e lacustri, possono anche causare la morte per annegamento ai giovani attratti dal loro canto.  Si tramanda che siano state giovani donne suicide nei fiumi o nei laghi od uccise dai loro amanti o dalle loro madri presso di essi.  Perciò erano rimaste ad infestare quei luoghi, ma se venivano vendicate pian piano scomparivano.  Era possibile pure che alcune donne divenissero Rusalki incontrando un corteo delle stesse, in questo caso al mattino si trovava una ghirlanda di fiori davanti alla loro porta (504).            
In altre parti del mondo (Arabia, India, Cina, Giappone, Thailandia, Africa e America) vi sono analoghe creature (505), ma ivi non le tratteremo, quelle indiane a parte.  Per esse rimandiamo il discorso ad un altro saggio in precedenza menzionato (506).



u)  Le Apsaras, versione indiana delle Sirene,
e la loro controparte maschile, i Gandharva

Il quadro indiano delle ninfe delle acque è in apparenza piú semplice di quello greco, sebbene a ben guardare si constatino nell’induismo parecchie equivalenze mitiche delle forme elleniche.  Cosí, se da una parte troviamo le Apsaras quali omologhe delle nostre Sirene, dall’altra ci accorgiamo che le Nāginī sono equiparabili a loro volta alle Nereidi.  Vi è persino una certa Miliushi, che è stata accostata a Melusina per il suo potere di governare la pioggia e le tempese (507).   Anche in India, inoltre, vi è la doppia fisionomia delle Sirene quali pesci od uccelli semiantropomorfici e pure là non è facile distinguere la maggior vetustà dell’una o dell’altra forma.  Noi rimaniamo dell’idea che entrambe risalgano a tempi ancestrali, benché probabilmente la prima sia antecedente, stando alla tradizione cinese e a quella russa: entrambe parlano d’una trasformazione del Pesce in Uccello.  Comunque nella simbologia paradisiaca hindu troviamo forme aviarie accanto a quelle pescine.  Queste ultime sono rappresentate essenzialmente dal Matsyāvatāra, oppure dalle Apsaras del tipo di Adrikāmatsya (508), donde nascono Matsyagandhī e Matsyarāja, nonché dal Dāśarāja.  Vero che proprio la leggenda di Adrikā sembrerebbe far derivare il <Seme> dal Garua, per poi trasmetterlo al Matsya.  Ma si sa che il Garua è da riportare a Indra (equivalente al lat. Pico Marzio), o tutt’al piú a Vishnu; e nessuno dei due deva possiede caratteri primordiali, nonostante gli adattamenti posteriori a questo ruolo per trasposizione superiore.  Onde si può dedurre che si tratti d’una formula cosmogonica rovesciata, a tutto favore delle genti arie, intese in senso lato.  Gli Uccelli compaiono altrimenti sempre in relazione ad un simbolismo annuale, planetario o zodiacale che sia, insomma in un situazione cosmologica comunque post-paradisiaca; mai prima, giacché le acque celesti venivano in principio intese in continuità con quelle terrene e non c’era posto per il volo degli uccelli nei brumosi cieli artici.  La descrizione biblica del Paradiso Terrestre è stata molto influenzata dai tempi posteriori, diremmo atlantidei, ma la Serpe è una trasformazione del Pesce e non dell’Uccello (509).  Del resto è plausibile che i volatili, anche laddove siano stati scelti per designare esseri o divinità paradisiache (vedi in particolare la simbologia degli Hasa, veicoli di Brahma o meno spesso di Varuna, cosí come della dea del desiderio erotico)(510), alludano non ad una trasmissione tradizionale effettiva di quei simboli dai tempi ai quali sono riferiti; bensí ad una modifica culturale attuata ad un certo momento del percorso umano e considerata, naturalmente, dal punto di vista di chi l’ha perpetrata.  Tanto Brahma quanto Varuna, infatti, avevano quale primitivo emblema il Pesce; se è vero che l’uno veniva interamente raffigurato quale vero e proprio Matsya nella piú antica rappresentazione dell’interlocutore pescino di Manu oggi disponibile nei testi indiani (511) e l’altro possedeva per veicolo il Matsya antecedentemente al Makara (512).  Segno che l’incarnazione ittica primeva della Divinità (I Ciclo Avatarico) sotto forma probabile di ‘Mostro del Mare’ – cioè di qualcosa di simile al’Ys paleosiberiano, che è una sorta di narvalo con denti di orca – si era trasformata dapprincipio (II Ciclo Avatarico) in un veicolo indiretto della Divinità medesima. 
Nel gveda (x. 85, 21-2) abbiamo un unico Gandharva (cfr. coll’av. Gandarewa in aspetto di drago nel Vourukaša), di nome Viśvāvasu, che assumerà nella T.S.- i. 2, 9, 1 forma d’aquila.  Accanto gli sta una sola Apsaras (513). In coppia costoro presiedono al matrimonio, in particolare quello di tipo celestiale, in cui si giura assoluta fedeltà reciproca da parte dei coniugi e il rito – guardando una stella del timone dell’Orsa Minore di notte vicino ad un fuoco da parte della sposa – viene celebrato solo intimamente.  Pena lo scioglimento del matrimonio medesimo, che non ha in ogni caso alcun risvolto sociale.  In un altorilievo in terracotta del X sec. d.C. di stile Tra Kieu (arte Cham, Mus. H. Parmentier, Vietnam), osserviamo appunto un Gandharva sotto aspetto di musico e un’Apsaras attorno nell’atto di danzare.  Una strana Testa Equina, difficile da interpretare, spunta fra di loro (514).  Crediamo che ciò alluda a Gandharvī, l’Antenata dei Cavalli (515).  In seguito i Gandharva e le Apsaras si sono moltiplicati e sono stati posti alla corte di Re Varua, in qualità di esseri addetti alla preparazione del Soma; probabilmente gli uni costituiscono una personificazione dei raggi solari, le altre di quelli lunari (516).  Potendo assumere ogni forma, assumono talvolta quella di Hasa e Hasī.  Quando il dominio delle Acque Superiori è passato da Varua ad Indra, le Apsaras sono state associate al dio degli dèi.  Lo Ś.B.- xi. 5, 1, 4 descrive la loro metamorfosi in uccelli aquatici (āti = ‘anatre’, benché venga tradotto ‘cigni’) e la letteratura post-vedica allude alle loro frequentazioni di laghi e fiumi (specie il Gange), non meno di altre categorie consimili in altre tradizioni (517).  In alternativa, esse dimorano nel Palazzo di Varua in fondo all’oceano, similmente alle Sirene nella tradizione italiota.  In questo caso, naturalmente, il dio del mare è Poseidone o Nettuno.  La loro sfera d’influenza nelle tarde Samhitā si è estesa alla terra e quindi ai sacri alberi, in veste di vṛkaka (‘driadi’) che fanno risuonare i loro cembali o i loro flauti, o persino ai monti.  Specialmente nel Nord.  Forse è in tale estensione che sono passate nella forma aviaria anziché ittica, perché l’uccello passa a nidificare dalla terra all’acqua, dagli alberi ai monti.  Le attività delle Apsaras sono oltre alla danza e alla musica il canto e il gioco, in particolare il gioco a dadi, nel quale recano fortuna ai giocatori.  Nei matrimoni le Apsaras danzano e i Gandharva cantano.  La loro bellezza è proverbiale e, talora, sono anche gli uomini a goderne oltre ai Gandharva.  Le piú celebri sono Urvaśī (518) e Menakā (519), nominate nella V.S.- xv. 16 (la seconda) e 19 (la prima).  Da Urvaśī, che nella storia di Purūravas è scorta in sembiante d’uccello acquatico, nasce il i Vasiṭha (520); Menakā invece per il tramite del i Viśvamitra genererà la madre di Re Bharata, antenato dei Kaurava e dei Pāṇḍava.  Le Apsaras secondo una tradizione, menzionata in Hariv.- 12476, nascono dalla fantasia del Brahman (521).  La loro madre è Prahdā, cosí come Muni è la madre dei Gandharva.  Secondo altre fonti lo è anche delle Apsaras.  Cfr. V.P.- i. 21, 24.  Esse sorgono parimenti a Varuna e consorte durante il ‘Rimestamento dell’Oceano-di-Latte’, essendo non meno dei Gandharva prole di Kaśyapa (‘Tartaruga’), allonimo brahmanico del Kūrmāvatāra.  Il termine che le designa si spiega con il sadhi (‘congiunzione’) dei due sostantivi apsu (‘oceano’) e rasa (‘essenza’), mediante variante eufonica della voc.fin. -u- del primo sostantivo in -a-.  Saras significa, comunque, ‘flusso’.  La loro relazione con Varuna e Varunani equivale a quella delle Sirene con Urano e Venere.  Del resto Rati, la consorte di Kāma, è un apsaras incarnante il piacere sessuale (522).  Nella vicenda di yaśṛṅga (Orione)  l’avvenente Urvaśī (la Luna) si mostra con impudicizia al i Vibhāṇḍaka (il Sole), discendente di Kaśyapa, eccitandolo a tal punto da costringerlo ad emettere il proprio seme presso uno specchio d’acqua (il Cielo); proprio in quel mentre passa da quelle parti una <Daina> (Aldebaran), che essendo molto assetata beve e lo ingurgita, rimanendo gravida.  Donde poi nascerà l’asceta col corno di daino, nell’iconografia artistica trasformato in un corno di antilope o di gazzella sulla fronte (523).  La natura solare di Vibhāṇḍaka risulta palese non solo dal fatto di venir inteso quale “figlio di Kaśyapa, ma anche dall’essere descritto con occhi fulgenti come quelli d’un leone e coperto di peli fino ai piedi, lett. alle unghie  (Mhbh.- iii. cxi).  La bellezza di un’altra loro simile, Tilottamā, costringe Śiva a dotarsi di ‘Quattro Teste’ e Indra a generare i suoi ‘Mille Occhi’.  Indra medesimo comunque, le utilizza per attaccare i santi troppo pii, che minacciano di scalzarlo dal suo trono col loro calore ascetico (tapas).  Nella seduzione esse non si risparmiano mai, utilizzando hāva e bhāva, ossia indumenti decenti o indecenti a seconda delle necessità.  Per di piú aggrottano le ciglia, tengono alti i loro petti e vivacizzano i loro pensieri inebriandoli con sensuali immaginazioni.  Inoltre sono dotate di sguardi civettuoli, sorrisetti smaglianti e atteggiamenti inverecondi.   Spesso proprio per questo debbono rinascere nel mondo corporale in basse forme, essendo state castigate al modo di Adrikā (524): si tramanda a tal proposito che 5 di esse abbiano sedotto un santo e siano state maledette a divenire coccodrilli, fino a che furono liberate da Arjuna.  L’epica sacerdotale tarda riconosce alla loro bellezza e a quella gandharvica dei meriti ascetici antecedenti, tanto che vengono promessi quei doni a chi vi si dedica.  Un’ulteriore apsaras è Puñjikasthalā, madre di Hanumat attraverso Māruta.  Per non parlare di Rambha, la cui vicenda ricorre nel Rāmay.- vii, 26.  In codesto episodio del poema ella recandosi ad una festa religiosa incontra Rāvaa su una collina e costui, attratto dall’incantevole aspetto della femmina, non avendola riconosciuta quale moglie del nipote Nalakūbara la fa sua nonostante le proteste di lei.  Pur essendosi Rambhā palesata per quella che è veramente, il sovrano di Lakā obietta che il rispetto coniugale vale solo per una moglie normale, con un unico marito; non per un apsaras, la quale non appartiene ad alcuno.  L’Hariv.- 11787 descrive le Apsaras come gli occhi del Brahman (525), cioè le stelle (Ś.B.- ix. 4, 1, 9), dal che ritorniamo al concetto delle Sirene quali stelle…  Diversamente le Apsaras hanno la funzione di onorare i morti in battaglia, in maniera simile a quella delle Valkirie germaniche, caricandoli su carri divini.  L’eco di queste onoranze funebri nei campi di combattimento si sussurrava spronasse gli altri combattenti alla battaglia.
I Gandharva posseggono una voce piacevole e appaiono raggianti come soli (526).  Essi cantano sul Meru o negli alti picchi montani.  Molti di loro sono di forme incerte, solo i re vengono nominati dai testi.  Si dividono in 2 categorie: musici divini (gandharva-deva) e umani (semplici gandharva).  I Gandharva guerreggiavano cogli Dei (527).  Il numero dei Gandharva ai tempi vedici era di 27 (528), perciò è evidente che avevano a che fare cogli asterismi lunari, probabilmente per Apsaras intendendosi invece le singole stelle.  Vide supra l’attestazione dello Śatapatha Brāhmaa.  Per questo si dice siano passate dalla corte di Varua a quella di Indra.  Egualmente è avvenuto per i loro omologhi maschili, che di solito in tale funzione suonano il liuto (529).  Le Apsaras, comunque, non  sono da ritenere necessariamente il loro complemento: sono esistite prima di costoro le Gandharvī, anche queste precedute da un’unica creatura omonima.  Tardivamente i Gandharva sono stati considerati pericolosi per gli uomini, non meno dei Rākasa e degli Yaka, allo spuntar della sera; e ancor piú di notte, allorché dominano le ombre e vien meno la coscienza di veglia come nei sogni (530).  Il pericolo per gli uomini era dovuto al fatto che essi erano maggiormente ferrati nel campo della magia e potevano ucciderli.  In qualità di guerrieri dotati d’arco i Gandharva nella persona di Citraratha (Mhbh.- i. 170, 43; in 172 nell’ediz. di Calcutta, in 199 nell’ediz. di Kumbhakonam) insegnano ad Arjuna la ‘scienza del vedere’ in senso spirituale (cakuī vidyā), ottenuta da Viśvāvasu ovvero dal suo alter-ego, il dio lunare Soma alias Candramas (Ś.B.- ix. 4, 1, 9); nella persona di Tumburu (Mhbh.- iv. 56, 12), inoltre, consegnano ad Arjuna l’arma gandharvica (531).  Il dono consiste nei destrieri ad usum belli di Śikhaṇḍin (Mhbh., vii. 23, 20)(532).  Insieme a Citrasena ed altri sta alla corte di Yudhihira (533), poi viene maledetto a diventar un  rākasa.  Benché presenti nelle grotte e nelle foreste, la dimora naturale dei Gandharva sono l’aria, la nebbia e la pioggia (534).  Insomma, tutti i fenomeni evanescenti.  Una tendenza dei Gandharva è quella di divenire veggenti terreni o muni: il saggio Nārada, col suo carattere di musico itinerante e cantastorie, ne è un tipico esempio.  Al pari di Danava e Rākasa i Gandharva venivano raggruppati fra i nemici degli Dei.  Gli studiosi hanno interpretato codesti nomi, storicamente, in riferimento alle tribú anarie e da parte nostra siamo d’accordo con loro.                     
Assieme i due gruppi di esseri descritti, Gandharva ed Apsaras, hanno assunto il ruolo di fautori di fertilità e fecondità.    



v)  Cola Pesce e il Corno di Pescespada

Della leggenda di Cola Pesce abbiamo già accennato sommarimente ai §§ f-g, paragonandolo a Glauco; ma qui vorremmo approfondirne il motivo, il quale risulta estremamente interessante per il nostro studio (535).  Innanzitutto va precisato che Glauco per la sua conformazione fisica, adesso possiamo palesarlo apertamente avendo trattato nei due paragrafi antecedenti il tema delle Sirene, altro non che è un sireno.  Ciò dimostra che anche prima dell’Era Volgare pure in Grecia, siprattutto nella Grecia pre-ellenica, dovette esistere in qualche modo il concetto delle Sirene come donne-pesci.  Vero che Omero non specifica la loro conformazione fisica e che in Epoca Classica od Ellenistica esse assumono la veste di donne-uccelli – come vuole Kerényi – per influenza propriamente ellenica, ma com’erano in Epoca Arcaica?  La storia, che andremo ora a narrare in sintesi, illustra un passato ben diverso: un passato in cui dominavano figure titaniche, o addirittura pre-titaniche, stando agli elementi presenti nel racconto qui a seguire del leggendario Colapisci (536).    
Al tempo di Federico II in un villaggio del Messinese presso Capo Peloro, bagnato dallo Stretto, viveva la moglie d’un pescatore.  La donna, di nome Agata, era triste non avendo figli.  E pensava che al sopraggiungere della vecchiaia sarebbe rimasta sola col marito, senz’aiuto per la famiglia.  Sicché decise di farla finita, legandosi una pietra al collo per annegare.  Giunta alla spiaggia, nell’atto di compiere l’insano gesto, udí una voce che la chiamava: –Fermati Agatina, stai facendo un grosso errore!–  La donna si bloccò di colpo, ma non vedendo anima viva attorno a sé, stava per riprendere il folle gesto; quand’a un tratto vide un pescespada nell’acqua antistante, il quale per farsi notare scrollava la coda.  Sbigottita di fronte al Pesce Parlante, la donna rimase in ascolto, anche se sull’istante non avrebbe voluto credere ai suoi occhi.  Il Pesce le consigliò di prendere la Conchiglia attaccata ad uno scoglio nei pressi ed inghiottirla per intero.  Pur incerta e tremante, Agata fece ciò che le era stato ingiunto dal Pescespada e poi tornò a casa.  Tornato il marito all’imbrunire, la moglie lo informò dell’accaduto.  Non appena ingoiato il guscio della conchiglia aveva sentito un gonfiore al ventre e simultaneamente, come per miracolo, aveva udito il flebile vagito d’un bimbo.  Era dapprima rimasta incredula, ma poi l’aveva colta un senso di gioia.  Il Pescatore pur assai scettico su quanto narrato dalla moglie, vedendola felice una volta tanto, fece finta di crederle onde non contraddirla.  Passarono nove mesi e, di fronte all’evidenza, il marito si era reso conto che la sua Agatina aveva detto la verità.   A gravidanza ultimata, nacque un bel bambino con occhi verdi smeraldo come le acque dello Stretto, e capelli corvini.  I genitori lo chiamarono Nicola per rinnovare il nome dell’avo paterno, ma in seguito il suo nomignolo divenne per tutti confidenzialmente Cola.  Il bimbo crebbe felice e robusto.  Pur frequentando di quando in quando i coetanei, egli era attratto misteriosamente dalle acque dei fondali, nelle quali ogni tanto s’immergeva a causa d’un senso d’appartenenza al mare.  La madre, che aveva intuito benissimo il segreto del figlio, lo mise in guardia dai pericoli che quel mare gli riservava e sperava che non seguisse il mestiere del padre.  Il figlio sembrava ascoltare la madre, ma dentro di sé sapeva che non avrebbe potuto venir meno al suo interiore desiderio.  Infatti veniva di continuo richiamato sulla spiaggia da una forza irresistibile, che lo spingeva a comtemplare la distesa di quell’acqua di cui conosceva ormai il fondale e le cavità marine.  Il mare era lo scopo della sua esistenza.  Allorché s’immergeva nelle profondità, gareggiava a nuoto coi delfini e i pescispada.  Persino le murene giocavano con lui accoglienti e si dilettavano a farsi carezzare dalle sue mani delicate.  Cola intrecciava rapporti di sincera amicizia cogli animali marini, che lo ricambiavano spontaneamente, ne aveva imparato a poco a poco il linguaggio silenzioso e detestava la crudele bramosia degli uomini nei loro confronti.   Perciò ogni volta che il proprio padre tornava a casa col pescato, senza profferir parola, pigliava il pesce e lo ributtava a mare.   Il che provocava la disperazione del pover’uomo, essendo quella l’unica risorsa economica della famiglia.   La mamma, egualmente disperata, non sapeva cosa dire di fronte a quel comportamento che stava provocando la rovina familiare.   Un giorno, presa dallo sconforto, gli lanciò una maledizione: –Visto che ami piú i pesci degli uomini e della tua famiglia, che tu possa diventare un pesce, dato che tutti ormai ti chiamano a questo modo!  Benché la donna avesse detto ciò solo per rabbia, la maledizione s’avverò all’istante.  Cola cominciò a mutare divenendo un mostro marino: al collo spuntarono le branchie, il corpo si riempí di squame, i piedi si fecero palmati, i capelli s’ingrossarono come fossero alghe, la voce divenne rauca, le dita si trasformarono in artigli come quelli dei rapaci.  Vedendo quel che avevano causato le sue parole, la donna inveí tristemente contro di sé e si mise a pregare il buon Dio di farlo ritornare uomo.  Mentre pregava s’accorse però che il figlio era molto contento della sua metamorfosi.  Inoltre, non appena s’allontanava dal mare, riprendeva le sue sembianze umane.  Questo leniva parecchio il dolore di Agata, che cominciò a non interessarsi piú delle assenze del figlio, gli lasciò fare quello che voleva.  E difatti Cola rimaneva sempre maggior tempo in acqua, tanto da star lontano per mesi od anni.  Un giorno annunciò alla famiglia che avrebbe fatto un lungo viaggio, poiché gl’interessava esplorare l’oceano con i suoi misteri.   Dopo che di lui si erano perse le tracce da tre anni, nessuno l’attendeva piú.  Anzi, qualcuno azzardava che forse era stato ingoiato da qualche grande squalo oppure era finito nella pancia d’una balena.  Finché un giorno dei pescatori messinesi lo issarono a bordo dentro una loro rete.  Dapprincipio ebbero la sensazione d’aver pescato un mostro marino, ma vedendo che riprendeva sembianze umane, capirono che era Cola e gli domandarono da dove provenisse e cosa avesse visto.  Sollecitato dalle domande dei pescatori, Cola rispose che le ricchezze dei mari erano talmente grandi da non poterle descrivere.  Narrò d’un drago alato che poteva uscire dall’acqua e volare: con una ventosa risucchiava i pesci dal mare.  Un giorno tale mostro l’aveva paurosamente inseguito, tanto da dover riparare in una grotta marina delle isole eoliche.  Data la sua mole aveva alfine abbandonato la preda e aveva preso il largo, sicché Cola era riuscito a cavarsela.  Dopodiché aveva viaggiato in lungo e in largo, incontrando città sommerse piene d’oro, d’argento e di perle.  I palazzi erano abitati da giganti.  Oltre le Colonne di Eracle aveva osservato alghe d’oro, che non era possibie ammirare, poiché emettevano riflessi luminosi accecanti.   Tornato a casa, si diffuse la voce del ritorno di quest’uomo leggendario e delle narrazioni ch’egli faceva a pescatori e marinai, tanto da esser prodigo di consigli sulle rotte da seguire, sui pericoli dei fondali, sulle correnti marine o le burrasche in arrivo.  Il tutto senza richiedere compenso alcuno.  Insomma, era l’orgoglio dell’intera Sicilia.   Quindi, di voce in voce, d’orecchio in orecchio, giunse notizia al Re di Sicilia delle sue incredibili capacità. Cosí che lo nominò messo del mare per tutto il Mediterraneo, col compito di recare dispacci urgenti a Napoli o in Spagna.  Se riportava monete d’oro dal mare, trovandole dentro i galeoni sommersi, le donava alla Città di Messina.  Successivamente il sovrano volle sincerarsi che quanto andavano dicendo in giro del giovane fosse vero e lo fece venire al proprio cospetto.  Essendone rimasto affascinato, dopo averlo conosciuto di persona gli propose un’impresa e, se l’avesse portata a termine, gli avrebbe concesso volentieri la mano della figlia Costanza.  I due, avendo incrociato i loro sguardi, si erano subitamente innamorati l’uno dell’altro.  Cola infatti, nel suo sembiante umano, appariva bello e prestante.  Accordatosi dunque con Cola, il Re fece allestire una nave esattamente nel posto maggiormente pericoloso nel mezzo dello Stretto.  Una volta tutti a bordo, gettò in mare un’aurea coppa incastonata di diamanti e ordinò a Cola di riprenderla.  Questi si buttò nei vortici dello Stretto e vide che la coppa era finita fra le spire d’una serpe marina, con cui egli ingaggiò una furente lotta, tanto che le onde da loro provocate avevano fatto oscilare la nave.  I pescatori della costa peloritana intanto l’avevano circondata e attendevano col cuore in gola la riemersione del giovane avventuriero, cosa che avvenne di lí a poco.  Cola teneva la coppa in mano e subito un gridò di gioia si alzò alto a celebrazione dell’evento.  Congratulatosi con lui, il Re non gli diede tempo di respirare e la gettò di nuovo in acqua, mentre la Principessa lo guardava ammirata.   Cola si rituffò ancora una volta.  La coppa ora era andata a finire, a causa delle correnti, nelle viscere magmatiche dell’Etna.  Riuscí a recuperarla, ma tornando indietro fu inseguito da un polpo gigante.   Alla fine emerse fra il tripudio generale.  Il Re allora, scorgendo il turbamento che attraversava la figlia Costanza, la rassicurò con un tocco della mano.  Rivolto all’uomo-anfibio, il Re gli chiese autorevolmente cosa avesse visto nelle profondità.  E questi rispose che nell’abisso marino vi erano animali mostruosi.  Inoltre un vena di fuoco sotterraneo si dipartiva dall’Etna ed arrivava sino a Messina, facendo ribollire ed intorbidire le acque soprastanti.  Gli fece anche sapere che la Sicilia era retta da tre colonne: quella sotto Messina, però, era lesionata.  Il Re si complimentò col giovane popolano.  Tuttavia, accorgendosi che la figlia ne era pazzamente innamorata ed intuendo le difficoltà che sarebbero sorte in tale rapporto, decise di metterlo alla prova una terza volta, promettendogli in cambio che alla sua terza riemersione sarebbe stato nominato principe delle acque marine siciliane.  Il compito da svolgere era quello d’ispezionare le fondamenta sottomarine del Regno di Sicilia, ma Cola domandò di esserne esentato, forse perché innamorato di Costanza.  Disse che preferiva rima


v)  Cola Pesce e il Corno di Pescespada

Della leggenda di Cola Pesce abbiamo già accennato sommarimente ai §§ f-g, paragonandolo a Glauco; ma qui vorremmo approfondirne il motivo, il quale risulta estremamente interessante per il nostro studio (535).  Innanzitutto va precisato che Glauco per la sua conformazione fisica, adesso possiamo palesarlo apertamente avendo trattato nei due paragrafi antecedenti il tema delle Sirene, altro non che è un sireno.  Ciò dimostra che anche prima dell’Era Volgare pure in Grecia, siprattutto nella Grecia pre-ellenica, dovette esistere in qualche modo il concetto delle Sirene come donne-pesci.  Vero che Omero non specifica la loro conformazione fisica e che in Epoca Classica od Ellenistica esse assumono la veste di donne-uccelli – come vuole Kerényi – per influenza propriamente ellenica, ma com’erano in Epoca Arcaica?  La storia, che andremo ora a narrare in sintesi, illustra un passato ben diverso: un passato in cui dominavano figure titaniche, o addirittura pre-titaniche, stando agli elementi presenti nel racconto qui a seguire del leggendario Colapisci (536).    
Al tempo di Federico II in un villaggio del Messinese presso Capo Peloro, bagnato dallo Stretto, viveva la moglie d’un pescatore.  La donna, di nome Agata, era triste non avendo figli.  E pensava che al sopraggiungere della vecchiaia sarebbe rimasta sola col marito, senz’aiuto per la famiglia.  Sicché decise di farla finita, legandosi una pietra al collo per annegare.  Giunta alla spiaggia, nell’atto di compiere l’insano gesto, udí una voce che la chiamava: –Fermati Agatina, stai facendo un grosso errore!–  La donna si bloccò di colpo, ma non vedendo anima viva attorno a sé, stava per riprendere il folle gesto; quand’a un tratto vide un pescespada nell’acqua antistante, il quale per farsi notare scrollava la coda.  Sbigottita di fronte al Pesce Parlante, la donna rimase in ascolto, anche se sull’istante non avrebbe voluto credere ai suoi occhi.  Il Pesce le consigliò di prendere la Conchiglia attaccata ad uno scoglio nei pressi ed inghiottirla per intero.  Pur incerta e tremante, Agata fece ciò che le era stato ingiunto dal Pescespada e poi tornò a casa.  Tornato il marito all’imbrunire, la moglie lo informò dell’accaduto.  Non appena ingoiato il guscio della conchiglia aveva sentito un gonfiore al ventre e simultaneamente, come per miracolo, aveva udito il flebile vagito d’un bimbo.  Era dapprima rimasta incredula, ma poi l’aveva colta un senso di gioia.  Il Pescatore pur assai scettico su quanto narrato dalla moglie, vedendola felice una volta tanto, fece finta di crederle onde non contraddirla.  Passarono nove mesi e, di fronte all’evidenza, il marito si era reso conto che la sua Agatina aveva detto la verità.   A gravidanza ultimata, nacque un bel bambino con occhi verdi smeraldo come le acque dello Stretto, e capelli corvini.  I genitori lo chiamarono Nicola per rinnovare il nome dell’avo paterno, ma in seguito il suo nomignolo divenne per tutti confidenzialmente Cola.  Il bimbo crebbe felice e robusto.  Pur frequentando di quando in quando i coetanei, egli era attratto misteriosamente dalle acque dei fondali, nelle quali ogni tanto s’immergeva a causa d’un senso d’appartenenza al mare.  La madre, che aveva intuito benissimo il segreto del figlio, lo mise in guardia dai pericoli che quel mare gli riservava e sperava che non seguisse il mestiere del padre.  Il figlio sembrava ascoltare la madre, ma dentro di sé sapeva che non avrebbe potuto venir meno al suo interiore desiderio.  Infatti veniva di continuo richiamato sulla spiaggia da una forza irresistibile, che lo spingeva a comtemplare la distesa di quell’acqua di cui conosceva ormai il fondale e le cavità marine.  Il mare era lo scopo della sua esistenza.  Allorché s’immergeva nelle profondità, gareggiava a nuoto coi delfini e i pescispada.  Persino le murene giocavano con lui accoglienti e si dilettavano a farsi carezzare dalle sue mani delicate.  Cola intrecciava rapporti di sincera amicizia cogli animali marini, che lo ricambiavano spontaneamente, ne aveva imparato a poco a poco il linguaggio silenzioso e detestava la crudele bramosia degli uomini nei loro confronti.   Perciò ogni volta che il proprio padre tornava a casa col pescato, senza profferir parola, pigliava il pesce e lo ributtava a mare.   Il che provocava la disperazione del pover’uomo, essendo quella l’unica risorsa economica della famiglia.   La mamma, egualmente disperata, non sapeva cosa dire di fronte a quel comportamento che stava provocando la rovina familiare.   Un giorno, presa dallo sconforto, gli lanciò una maledizione: –Visto che ami piú i pesci degli uomini e della tua famiglia, che tu possa diventare un pesce, dato che tutti ormai ti chiamano a questo modo!  Benché la donna avesse detto ciò solo per rabbia, la maledizione s’avverò all’istante.  Cola cominciò a mutare divenendo un mostro marino: al collo spuntarono le branchie, il corpo si riempí di squame, i piedi si fecero palmati, i capelli s’ingrossarono come fossero alghe, la voce divenne rauca, le dita si trasformarono in artigli come quelli dei rapaci.  Vedendo quel che avevano causato le sue parole, la donna inveí tristemente contro di sé e si mise a pregare il buon Dio di farlo ritornare uomo.  Mentre pregava s’accorse però che il figlio era molto contento della sua metamorfosi.  Inoltre, non appena s’allontanava dal mare, riprendeva le sue sembianze umane.  Questo leniva parecchio il dolore di Agata, che cominciò a non interessarsi piú delle assenze del figlio, gli lasciò fare quello che voleva.  E difatti Cola rimaneva sempre maggior tempo in acqua, tanto da star lontano per mesi od anni.  Un giorno annunciò alla famiglia che avrebbe fatto un lungo viaggio, poiché gl’interessava esplorare l’oceano con i suoi misteri.   Dopo che di lui si erano perse le tracce da tre anni, nessuno l’attendeva piú.  Anzi, qualcuno azzardava che forse era stato ingoiato da qualche grande squalo oppure era finito nella pancia d’una balena.  Finché un giorno dei pescatori messinesi lo issarono a bordo dentro una loro rete.  Dapprincipio ebbero la sensazione d’aver pescato un mostro marino, ma vedendo che riprendeva sembianze umane, capirono che era Cola e gli domandarono da dove provenisse e cosa avesse visto.  Sollecitato dalle domande dei pescatori, Cola rispose che le ricchezze dei mari erano talmente grandi da non poterle descrivere.  Narrò d’un drago alato che poteva uscire dall’acqua e volare: con una ventosa risucchiava i pesci dal mare.  Un giorno tale mostro l’aveva paurosamente inseguito, tanto da dover riparare in una grotta marina delle isole eoliche.  Data la sua mole aveva alfine abbandonato la preda e aveva preso il largo, sicché Cola era riuscito a cavarsela.  Dopodiché aveva viaggiato in lungo e in largo, incontrando città sommerse piene d’oro, d’argento e di perle.  I palazzi erano abitati da giganti.  Oltre le Colonne di Eracle aveva osservato alghe d’oro, che non era possibie ammirare, poiché emettevano riflessi luminosi accecanti.   Tornato a casa, si diffuse la voce del ritorno di quest’uomo leggendario e delle narrazioni ch’egli faceva a pescatori e marinai, tanto da esser prodigo di consigli sulle rotte da seguire, sui pericoli dei fondali, sulle correnti marine o le burrasche in arrivo.  Il tutto senza richiedere compenso alcuno.  Insomma, era l’orgoglio dell’intera Sicilia.   Quindi, di voce in voce, d’orecchio in orecchio, giunse notizia al Re di Sicilia delle sue incredibili capacità. Cosí che lo nominò messo del mare per tutto il Mediterraneo, col compito di recare dispacci urgenti a Napoli o in Spagna.  Se riportava monete d’oro dal mare, trovandole dentro i galeoni sommersi, le donava alla Città di Messina.  Successivamente il sovrano volle sincerarsi che quanto andavano dicendo in giro del giovane fosse vero e lo fece venire al proprio cospetto.  Essendone rimasto affascinato, dopo averlo conosciuto di persona gli propose un’impresa e, se l’avesse portata a termine, gli avrebbe concesso volentieri la mano della figlia Costanza.  I due, avendo incrociato i loro sguardi, si erano subitamente innamorati l’uno dell’altro.  Cola infatti, nel suo sembiante umano, appariva bello e prestante.  Accordatosi dunque con Cola, il Re fece allestire una nave esattamente nel posto maggiormente pericoloso nel mezzo dello Stretto.  Una volta tutti a bordo, gettò in mare un’aurea coppa incastonata di diamanti e ordinò a Cola di riprenderla.  Questi si buttò nei vortici dello Stretto e vide che la coppa era finita fra le spire d’una serpe marina, con cui egli ingaggiò una furente lotta, tanto che le onde da loro provocate avevano fatto oscilare la nave.  I pescatori della costa peloritana intanto l’avevano circondata e attendevano col cuore in gola la riemersione del giovane avventuriero, cosa che avvenne di lí a poco.  Cola teneva la coppa in mano e subito un gridò di gioia si alzò alto a celebrazione dell’evento.  Congratulatosi con lui, il Re non gli diede tempo di respirare e la gettò di nuovo in acqua, mentre la Principessa lo guardava ammirata.   Cola si rituffò ancora una volta.  La coppa ora era andata a finire, a causa delle correnti, nelle viscere magmatiche dell’Etna.  Riuscí a recuperarla, ma tornando indietro fu inseguito da un polpo gigante.   Alla fine emerse fra il tripudio generale.  Il Re allora, scorgendo il turbamento che attraversava la figlia Costanza, la rassicurò con un tocco della mano.  Rivolto all’uomo-anfibio, il Re gli chiese autorevolmente cosa avesse visto nelle profondità.  E questi rispose che nell’abisso marino vi erano animali mostruosi.  Inoltre un vena di fuoco sotterraneo si dipartiva dall’Etna ed arrivava sino a Messina, facendo ribollire ed intorbidire le acque soprastanti.  Gli fece anche sapere che la Sicilia era retta da tre colonne: quella sotto Messina, però, era lesionata.  Il Re si complimentò col giovane popolano.  Tuttavia, accorgendosi che la figlia ne era pazzamente innamorata ed intuendo le difficoltà che sarebbero sorte in tale rapporto, decise di metterlo alla prova una terza volta, promettendogli in cambio che alla sua terza riemersione sarebbe stato nominato principe delle acque marine siciliane.  Il compito da svolgere era quello d’ispezionare le fondamenta sottomarine del Regno di Sicilia, ma Cola domandò di esserne esentato, forse perché innamorato di Costanza.  Disse che preferiva rimanere un umile popolano, ma era stanco di nuotare e l’impresa risultava rischiosa.  Nonostante le suppliche della figlia, il Re gli chiese perentorio di tuffarsi una terza volta, onde poter ispezionare i fondali marini della Trinacria.  Al giovane non restava che obbedire al suo Sire, ma prima d’entrare in acqua si fece consegnare un pugno di lenticchie.  Se fossero venute a galla da sole significava che era morto.  Baciò con pudore la fanciulla sulle rosee guance.  Il Re rimase sbigottito, essendo Cola un popolano; comunque non se la sentí di rimproverarlo, avendo promesso dinanzi agli astanti che l’avrebbe reso principe al suo ritorno.  Presto Cola si tuffò e s’inabissò nello Stretto.  La Principessa, ripresasi dalla momentanea sorpresa, non volendo star piú in trepida attesa si tuffò pure lei per la disperazione, lasciando incredulo il padre.  Non appena in acqua l’avvinse un vortice, trascinandola sul fondale.  Avvisato del fatto dai suoi amici marini, Cola non si perse d’animo e ricordandosi dell’effetto avuto su di lui dalla maledizione della madre la tramutò in pesce.  All’istante Costanza divenne come lui, riuscendo cosí a dincolarsi dal vortice.  Cola la raggiunse e la baciò.  Insieme andarono a cercare la loro eterna alcova marina.  Sulla nave intanto aspettavano il Re e i cortigiani, fino a che videro salire a galla le lenticchie ed allora immaginarono che i due erano morti.  Il popolo era convinto viceversa che i due per amore verso la loro terra stessero reggendo la colonna corrosa.  Altri giuravano di averli visti vivere assieme sotto il Capo Peloro.  Altri ancora credevano fossero realmente periti, Costanza nel gorgo e Cola Pesce acciuffato da un famelico mostro per la stanchezza delle precedenti immersioni.

Lo Scolareci c’informa (537) che esistono 18 versioni scritte della leggenda, ma cita soltanto 17 autori non meno di Calvino (538): Fra Salimbene de Adam, G. Pontano, F. Pipino, G. degli Omodei, G. Pitré, B. Croce, F. Schiller, G. Scarcella, F. Lanza, F. Maurolico, G. La Farina, E.G. Boner, F. Bisazza, S. Greco, F. Riccobono, R. Guttuso e G. Cavarra.  Forse uno di costoro ne ha preparate 2.  L’ultimo autore citato ad ogni modo, oltre ad aver amalgato i dati dei suoi colleghi, ha raccolto anche varie versioni orali nel Messinese (539).  La versione scritta riportata dallo Scolareci, e sopra parafrasata, è tratta dal testo di Renato Guttuso.  On line il sito Colapesce riporta versioni di altri autori, oltre a quelli menzionati.  Ad es. una di N. Muccioli, assegna il ruolo di re nella storia a Ruggero II e limita la storia alle immersioni volute dal sovrano.  Ancor meno interessante sono quelle di C.D. Gallo (1758) e di G.F. Degli Omodei, che assegna per contro lo stesso ruolo a Re Ferrando di Napoli ed al posto della Coppa pone l’Anello (1876).  Nella versione del Greco – citato dallo Scolareci – si fa un breve cenno iniziale alla maledizione della madre, ma non al Pescespada, che nella versione completa della storia è invece fondamentale.  Inoltre a parte il Re colla Coppa vi è la Principessa che tira in acqua prima la Cintura, poi la Collana, indi l’Anello.  La versione catanese fa di Colapesce, anzi Pescecola, un semplice palombaro: ciò deve aver ispirato la ballata omonima dello Schiller, ma è totalmente priva d’interesse mitologico.  Nella versione del Lanza non c’è la madre, ma in compenso ci sono sirene con code serpentine a mo’ di nereidi.  La versione del Croce introduce lo stratagemma del viaggiare per mare facendosi ingoiare dai grossi pesci per poi sventrarli col coltello, sennonché appare una delle piú insulse dal punto di vista esoterico; a meno di pensare a Giona, inghiottito dalla Balena  (540).  Che dietro la facciata d’una semplice storiella fantastica, in apparenza strettamente connessa al folclore locale, vi sia del materiale piuttosto arcaico (per non dire ancestrale) è provato dalla presenza ad inizio-storia del Pesce Parlante; persino piú importante, volendo essere espliciti, di Cola Pesce stesso.  Il fatto inoltre che sia un pescespada ad incarnarlo è ulteriormente significativo, in quanto tale creatura marina costituisce un rimando da un lato alla Carpa Unicorne teorizzata dall’Induismo storico quale prima incarnazione del Brahman (poi di Viu) e dall’altra al supposto narvalo che a parere di taluno (cfr. il §z) dovrebbe esser stato il modello iconografico originario del Matsya Ekaśṛṅga.  Benché, per maggior correttezza, dovremmo parlare di Pesce Monodono (541).  Se il Pesce Parlante funge da Puruottama (la ‘Persona Suprema’), il figlio del Pescespada e della Conchiglia ossia Cola Pesce funge da Akarapurua (la ‘Persona Immortale), mentre il sovrano di turno – Federico II o Ruggero II – funge da Karapurua (la ‘Persona Mortale’) stando al linguaggio maggiormente dotto dell’antichissima Trinità hindu (542).  La madre di Cola inghiottendo la Conchiglia si assimila a questa, ecco perché all’istante rimane incinta …del Pescespada; in tal modo infatti funge da Vergine-madre, ovvero da Adiśakti (‘Primordiale Potenza’), e il Pescespada da Spirito Supremo.  Questi due principi possono essere intesi non solo come Prakti e Purua, in senso cosmogonico, ma addirittura quali immagini dello Zero Metafisico (la Conchiglia) e del Grande Uno (l’Assoluto); mentre Cola Pesce, il …Figlio del Pescespada e  della Conchiglia…, va assimilato all’Uno.
È opinione dello Scolareci difatti – cosa da noi senz’altro condivisa – che sulla base dei dati raccolti da Gaspare Scarcella vi sia stato un antenato greco di Cola, antecedente alla Caduta di Troia ma poi perpetuatosi in Epoca Arcaica e Classica, certo Andríttios (543).  Costui portava un corno di pescespada sulla testa ed era padre nonché marito delle Sirene cantate da Omero, sebbene l’iconografia classica ed ellenistica le abbia ritratte in forma d’uccelli (544).  L’autore, rifacendosi al famoso scrittore palermitano Giuseppe Pitré, sostiene che codesto mito è noto anche in Russia e in Giappone.  Giovanni Meji è viceversa dell’idea che Cola – qualcuno suggerisce che di cognome faceva Rizzo – sia stato una persona reale, nata durante il Regno di Federico II; cosa peraltro possibile, nel caso si sia innestato su di lui l’antico mito.  Questo sosteneva che, mentre le Sirene cantavano, Andríttios dirigeva le navi contro gli scogli per farle schiantare, in modo che le Sirene si cibassero dei marinai.  Ma, siccome da parecchio tempo tali fameliche creature non raggiungevano il loro scopo, poiché sia gli Argonauti che l’equipaggio itacense erano sfuggiti al loro canto (Orfeo sovrastandolo colla sua portentosa lira e Ulisse facendo tappare le orecchie colla cera ai membri del suo equipaggio, dopo che si era fatto legare all’albero maestro della nave), si sentivano oppresse.  Oltretutto anche i reduci della Guerra di Troia, grazie al favore dei venti governati da Eolo, avevano potuto ritornare in patria sani e salvi approdando alle loro rispettive dimore.  Sicché le Sirene, esasperate, avevano finito per rivolgersi contro il loro padre.  Ma costui le aveva infilzate colla sua lunga spada frontale, che usava di solito per procurare cibo alle figlie antropofaghe; perciò i mostri Scilla e Cariddi avevano tentato di divorare i loro corpi, che tuttavia si tramutavano in scogli ogni volta che essi le addentavano.  Intanto, preso dal rimorso per avere annientato le figlie, il cornuto sireno si scagliò disperatmente contro la roccia e ne ebbe rotto il corno; essendo svenuto, le Nereidi si recarono nello Stretto di Messina per curarlo.  Quando si riebbe, sconfortato decise di allontanarsi da quei tristi luoghi ove era avvenuto lo scempio, onde raggiungere nuovi lidi.  Però, non avendo trovato quel che faceva per sé, tornò nello Stretto; ove l’attendeva la ninfa Orizia, la sola delle Nereidi che non aveva fatto ritorno alla propria dimora marina essendosi invaghita di lui.  A partire dall’XI secolo il viaggiatore bolognese Francesco Pipino chiamò il personaggio Cola Pesce e questo nome rimase fra i posteri, sia vera o meno l’ipotesi sopra additata del Meji della sovrapposizione fra un tipo leggendario ed una persona realmente vissuta.  Di certo i poeti e i letterati, col tempo, hanno arricchito fantasticamente la storia con aggiunte loro personali.  Sta di fatto che, nell’insieme, è ancora possibile unendo gli elementi della storia in un dato modo ricostruire un significato esoterico alla vicenda (545).  Basta rifarsi al mito indiano dello Śvetadvipa, che nella fiaba in questione diviene la Sicilia; ed appaiare il Pescespada-padre al Brahma, cosiccome il figlio-sireno Andríttios-Colapisci al Matsyāvatāra Ekaśṛṅga.  Quantunque il mostro siciliano (soprattutto nella veste antica) possegga rispetto al mostro indiano un accentuato carattere titanico, che lo fa sembrare un omologo di un’altra tipologia marina, quella d’un essere malefico del quale ora offriremo notizia.  Se è vero che le Sirene sono figlie di Acheloo, lo stesso dicasi per i sireni quali Cola o Glauco, donde si spiega il Corno Unico: in quel caso taurino, in questo pescino, ma la sostanza di certo non cambia.       
Altri di cui abbiamo perso purtroppo traccia ci ha segnalato difatti un parallelo oceaniano, precisamente melanesiano (Is.le Solomon), di Andríttios.  Tal nume chiamasi Adaro ed è una divinità oceanica semiantropomorfica, uno spirito malevolente con coda pinnata e branchie dietro le orecchie non meno di Colapesce; possiede un corno che pare la pinna dorsale dello squalo e ha sulla testa una lancia, simile alla spada d’un pescespada o alla sega d’un pescesega.  È in grado di scagliare contro gli uomini pesci volanti velenosi oppure di viaggiare lungo l’arcobaleno od i tornadi marini.
La differenza fra Glauco e Cola Pesce è dunque soltanto il Corno di Pescespada, caratterizzante l’antenato neo-greco di quest’ultimo e non l’altro.  La Seppilli (546), tuttavia, confrontando i due miti ha ipotizzato una base di partenza ed un contesto culturale comuni (547), cosa sicuramente plausibile.  Non solo, ha anche supposto che le varie versioni del mito di Glauco non siano che varianti multiformi relative ad un unico personaggio (548), ma in questo caso la cosa appare meno evidente.  Per far nostra definitivamente tale tesi, che anche noi abbiamo sostenuto in precedenza seppur un po’ titubanti, dovremmo dapprima equiparare l’Erba Magica (d’Oro) del figlio di Antedone a quella analoga del figlio di Pasife, intendendo quest’Erba quale emblema di Rinascita.  Ciò, per la verità, lo avevamo già fatto spontaneamente.  Ma le altre 2 varianti di Glauco, il figlio di Merope e quello di Ino, appaiono nettamente difformi rispetto alle 2 appena considerate.  L’unica chiave di lettura, per poter concordare pienamente colla Seppilli, è l’interpretazione da un lato dell’Erba Ippomane quale semplice diversificazione della precedente in un contesto incantatorio.  Circa il tuffo nel mare di Melicerte colla madre ed il ringiovanimento cosí ottenuto, a ben ragionare, si tratta in modo palese d’una metafora esprimente lo stesso concetto.



z)  Analogie simboliche tra il Delfino, il Pescespada,
il Pescesega e il Narvàlo

Tradizionalmente i cetacei sono sempre stati considerati dei grossi pesci, non dei mammiferi.  Riguardo in particolare il Delfino, riteniamo che la sacralità di tale animale fosse dapprincipio simultaneamente connessa sia al fatto che esso nuotava a pelo d’acqua, divenendo cosí un emblema delle cd. ‘Acque Superori’’ (nonostante abbia finito poscia per assumere pure la valenza opposta, parimenti al Polpo, mollusco dei fondali marini associato per contro alle ‘Acque Inferiori’); sia alla protuberanza del muso, che poteva esser assimilata iconologicamente ad un corno.  Crediamo inoltre, sulla scorta del Grossato (549), che il Delfino abbia sostituito simbolicamente in ambiente mediterraneo il Narvalo, di area artica; un cetaceo che, com’è possibile documentarsi televisivamente, ha caratteristiche quasi analoghe a quelle del beluga (il delfino bianco) e del mammifero poc’anzi menzionato.  Salvo il fatto che il suddetto mammifero boreale, nuotando poco sotto la superficie marina in ambiente glaciale, tenga il suo lungo e robusto eburneo corno (in realtà un dente, sviluppo speciale – solo nel maschio – d’un canino, lungo sino a 2 metri) puntato verso l’alto; in maniera tale che è lecito presumere abbia in tempi immemorabili affascinato fantasiosamente gli abitanti primordiali di quelle lontane plaghe artiche, sí da venir presto assunto – per via di detto dente d’avorio, con scanalature spiraliche da destra verso sinistra, cioè in senso polare – quale emblema visibile del Polo, o se si vuole dell’Asse Polare.
Il Grossato è difatti del parere, se interpretiamo bene il pensiero di codesto eminente studioso (550), che il Narvalo abbia costituito la base biologica del culto primordiale del Pesce Unicorne (da concepirsi sul tipo del Matsya Ekaśṛṅga hindu) o meglio Monodono; nonché dell’iconografia dello stesso in tempi proto-storici, varianti locali a parte. Tali varianti sono costituite, secondo noi, dal Delfino in ambito mediterraneo (cfr. Cap.VI, §§ a-b) e dal Pescesega nell’area dell’Oceano Indiano; in tempi maggiormente lontani, vale a dire preistorici, soprattutto dal Pescespada.  In particolare nella costa asiatico-oceaniana e, di rimando, durante l’Antichità in Grecia; e nelle colonie greche sparse nel Mediterraneo, specie in ambiente siciliota.  Non meno del Pescesega (pesce cartilagineo dotato di un rostro seghettato con cui dilania le proprie vittime), in onore del quale si celebrano danze rituali in Indonesia ed un culto assai importante in India (vide Cap.IV, §§ a-b), il Pescespada (pesce osseo di assai temibile natura, caratterizzato da un rostro tagliente e durissimo, che talora viene conficcato con furore nelle barche intercettate e talvolta persino nel ventre della Balena) viene ossequiato nel folclore del Pacifico Nord-occidentale e Sud-occidentale, nonché in Sicilia; dove si allestiscono speciali rituali mascherati (ad es. ad Aci Trezza, il borgo del Catanese reso celebre dai Malavoglia verghiani) aventi per protagonista l’Homo Piscis e, nel contempo, si recitano filastrocche che lo menzionano cerimonialmente.  Anche nel folclore ligure è rimasta la definizione di Pesce Emperator (551), ciò che ci fa rammentare il ruolo del Dente del Narvalo nel trono svevo.  Attraverso la figura di Federico II, che copre un ruolo fondamentale nella saga di Cola Pesce, si può quindi tracciare un parallelo fra il Narvalo ed il Pescespada sotto il Casato degli Hohenstaufen (552).  Del resto, a giudizio d’una discendente attuale del rinomato casato (Mad. Jasmine Avril alias Gelsomina Aprile), la quale asserisce d’avere ancor oggi un ruolo fondamentale nell’equilibrio dei sodalizi iniziatici del mondo occidentale, il temine staufen alluderebbe alla ‘Staffa’ in quanto emblema dell’Axis Mundi.  In Estremo Oriente gli Ainu, dal canto loro, allestiscono cerimonie stagionali di danza in suo onore; alle quali fanno eco alcuni costumi melanesiani, oltre a quanto già rilevato al precedente paragrafo a proposito d’un antesignano greco di Cola Pesce, che a propria volta si basa probabilmente sul culto d’un nume oceaniano preistorico munito di spada o sega pescina (553).  Persino il Cristo è stato effigiato, nei primi secoli dell’era cristiana, in veste di pescesega (554) dei mari temperati (555) in una lucerna d’epoca romana (556).  Nel corpo della pittura su terracotta s’intravvedono ai lati 2 Croci di tipo essenico, con legni d’egual misura.
In codesto libro non trattiamo del Narvalo e del Pescespada, né di altri pesci ad essi connessi mitologicamente (Balena, Capodoglio, Orca, Squalo, Dugongo, Lamantino), a parte qualche riferimento sporadico qua e là, dal momento che per farlo in maniera esauriente occorrerebbe uscire dall’argomento principale del nostro discorso; ivi limitato ad una comparazione fra il mondo indo-persiano e quello greco-romano, con qualche importante digressione su Creta e l’Egitto, che hanno fatto da tramite fra quelle due grandi tradizioni.  Nell’ambito di questo discorso abbiamo dato maggior rilievo all’India piutosto che all’Iran e alla Grecia piuttosto che a Roma, ma – a parte il fatto che cercheremo di ovviare a questa mancanza quanto prima possibile, ovvero nel prossimo libro dedicato al soggetto (557) – ciò è dovuto alla maggiore importanza storica da un punto di vista spirituale della cultura indiana o greca rispetto alla cultura iranica o latina.  Invece, se consideriamo da un lato gli sviluppi d’un passato assai remoto in tempi antecedenti all’Iran propriamente detto e relativi alla <Grande Persia> o dall’altro quelli successivi al paganesimo greco-romano, vale a dire inerenti al mondo latino-cristiano, allora le cose si ribaltano del tutto.  Come abbiamo cercato di dimostrare, del resto, all’inizio di questo capitolo e nel penultimo.

Nessun commento:

Posta un commento