Cap.
VI
Il Delfino
Monocero cretese
ed altri
unicorni ellenici
a)
Apollo in sembiante di Delfino
Volendo di poi ricordare altri
aspetti della simbologia ittiomorfica, sarà bene riesaminare quelli riguardanti
il greco Apollo; dio che non solo possiede il Delfino quale proprio veicolo,
secondo quanto si è già appurato circa il suo allotipo tarantino, ma che
detiene a sua volta siffatto pesce quale propria ipostasi teriomorfica. Sotto codesto aspetto è menzionato in un
frammento della letteratura dell’Egitto greco-romano (fine I sec. a. C.),
accreditato al geografo Artemidoro di Efeso (1). Apollo – sostiene Heras
– nella sua funzione di patrono dei marinai e dei coloni era concepito dai
Cretesi nell’atto di solcare i mari, appunto, sotto forma di grosso cetaceo;
tale arcaico credo, secondo quanto suggerisce in aggiunta il gesuita spagnolo (2), deve aver lasciato un segno
profondo nella mitologia ellenica posteriore, dal momento che riappare piú
tardi nella letteratura omerica. Vide infra.
Un’ulteriore apparizione del
nume, in forma di Delfino non meno di Poseidone, è quella che lo associa a
determinate figure leggendarie di “salvati dalle acque” (Enalo, Fineide,
Falanto, Icanio) (3). Il mito di Enalo, personaggio che il Graves (4) interpreta come un’allegoria
dell’Anno Nuovo, era da Plutarco messo in rapporto altresí con il culto del
Polpo; ma è ovvio che la cosa vada intesa, come sempre in casi del genere, non
qual fatto meramente calendariale bensí da un punto di vista simbolico-rituale.
Circa il musico Arione (5), portato
in salvo anche questi dal Delfino come i precedenti eroi solari, occorre invece
distinguere; poiché a nostro parere costui è una controfigura di Poseidone in
relazione alla costellazione circumpolare della Lyra.
L’argomento sarà ripreso in ogni
caso nei dettagli piú avanti, allorché affronteremo in maniera diretta le
tematiche ittiomorfiche concernenti il dio ellenico munito di tridente.
b) Il culto ellenico di Apollo Delfinio:
una placca d’avorio cretese colla sacra immagine
d’un Delfino Monodono ed un’Arca
Del culto di Apollo Delfinio e
del rapporto del nume coll’isola di Creta – in particolare colla “minoica
Cnosso” – è data d’altronde notizia in un inno omerico dedicato a codesta
divinità (Hom., Hymn.- iii. 388-502),
ove si parla per l’appunto d’una mirabile metamorfosi del dio in delfino. In cotale sembiante il nume “dall’aurea e
folta chioma” balza con un prodigio sul ponte d’una “nera nave” di commercianti
ed avventurieri cretesi, scuotendo lo scafo per pigliarne possesso, onde
guidare magicamente i marinai fra le dense nebbie del mare verso l’approdo di
Delfi. Siffatto racconto, alquanto
sorprendente e bizzarro, serve nel testo omerico da pretesto per la fondazione
d’un rituale basato sull’offerta di farina bianca (ibid., vv. 503-12) in
onore dell’Apollo delfico; di lì in poi promulgatore ai richiedenti di responsi
oracolari tramite la Pizia, che divinava “dal luogo del Lauro, sotto le gole
del Parnaso”. A lui è peraltro
consacrata tutta la seconda parte dell’inno in questione (6).
In proposito occorre sottolineare
che Padre Heras ha reperito alcuni decenni or sono (7) l’immagine straordinaria d’un Delfino Monodono (reggente col
dente, conficcato a mo’ d’asse centrale di sostegno, un Forcone Tetradentato) a
fianco di quella che parrebbe un’Arca, di cui è posto numinosamente alla guida,
in una placca d’avorio cretese d’incerta datazione (8); ma connessa sicuramente al culto celebrato in favore
dell’Apollo di Delfi, o meglio di una prefigurazione cretese dello stesso
iddio. Per la verità il gesuita ispanico
ha suggerito (9), con molto acume,
d’interpretare cotale forcone quale pittogramma; ossia intendendolo
attributivamente, al modo del sum. gal
o del proto-ind. per. Codeste due voci infatti, oltre a possedere
entrambe nelle rispettive lingue il significato di ‘grande’ – ciò che, se
avvalorato, trasformerebbe automaticamente il Delfino cretese in un parallelo
mediterraneo del ‘Grande Pesce’ (scr. Mahāmatsya) indiano
del nostro dibattito – sono rappresentate in esse da un pittogramma
analogo. Talora pare che i Rebbi del
Forcone compaiano in numero di 5, anziché di 4; tuttavia la cosa non riveste
un’eccessiva importanza, dato che le valenze del segno rimangono comunque
immutate, in relazione probabilmente ai 5 Elementi universalmente conosciuti.
c) Relazioni fra Delfi, Creta e l’Egitto
Il reperimento in Creta (10) di tripodi oracolari tricolori e
della placca d’avorio appena illustrata, coll’inusitata immagine del delfino
monodono, avente a ben vedere un immenso valore ico- nografico, dimostra l’esistenza
nell’isola fin dal primo periodo minoico di un’arcana cultura a sfondo
magico-divinatorio. Non solo, ma la
triplicità di colori rituale delle gambe dei treppiedi cretesi rende assai
presumibile che il culto di Apóllōn Delphínios
racchiudesse in sé degli aspetti esoterici, di tipo alchemico-astrale; e ciò
forse da antica data, considerando l’assoluta universalità di tali contrassegni
simbolici. Che poi i rapporti fra Creta
e la regione delfica, la Focide, non risalgano in verità né al momento dell’edificazione
del Santuario di Delfi (XV sec. a.C.) né tanto meno all’Antico Minoico (in cui
sembra che codesto centro non esistesse ancora), bensì ad un periodo piú tardo (fra il IX e l’VIII sec.)(11), poco importa. L’essenziale è che l’Inno Omerico in Apolllinem, il quale come tutte le
fonti tradizionali non si occupa delle datazioni minuziose tanto care agli
storici (che al contrario amano cavillare), stabilisce un nesso indiscutibile
di carattere culturale tra i due centri qui in discussione.
Ben ha visto dunque taluno in
passato allorché ha ipotizzato che sia avvenuto un ruolo di mediazione da parte
della cultura cretese tra l’Egitto e la Focide, segnatamente tra il culto del
cd. ‘Tumulo di Osiride’ e quello dell’Omphalós
delfico. Siccome il Tumulo d’Osiride, è
arcinoto, rappresenta all’interno della cultura egizia l’aggancio simbolico
colla Rivelazione Primordiale, possiamo interpretare la Pietra Ombelicale di
Delfi (che è dichiarata essere difatti la ‘Pietra Tombale’ di Dioniso, o di
Pitone se preferiamo) un emblema altrettanto manifesto della Thoúlē Yperboréā.
d)
Aspetti esoterici del culto in
questione
Ecco, dunque, che per via dell’Omphalós (equiparabile al ‘Corno Unico’
del Delfino in quanto entrambi ricoprono il ruolo di alterne figurazioni dell’Axis Mundi), è possibile riscontrare un
ricollegamento del rituale delfico con quello egizio; e per il tramite di
questo, ancora una volta, colla simbolica del mondo indiano (12).
Ora, è chiaro che l’Omphalós –
benché il termine significhi propriamente ‘Ombelico’ – debba esser inteso come
una sorta di Fallo (della vittima sacrificale, cioè di Dioniso-Pitone), secondo
quanto indica l’etimo stesso del vocabolo greco; dal momento che esso svolge in
ambiente delfico il ruolo, per cosí dire, di ‘Quarto Piede’ nei confronti del
Tripode apollineo. Insomma, il classico Phallus Dei, o, per esser maggiormente
precisi dell’Antenato titanico; ivi in funzione primeva, alla maniera di
Osiride. Analoga funzione è
attribuibile, del resto, al Corno Pescino (vuoi del Delfino o di qualsivoglia
altro esemplare della fauna marina) rispetto al Tridente di Poseidone o di
qualche altro nume affine (13).
A dimostrazione della veridicità
della nostra tesi, vi è da aggiungere che la Guarducci (14) ha riconosciuto in Creta l’esistenza, durante i tempi
pre-ellenici, di un culto arcaico del Delfino come ‘Protettore dei Marinai’;
tale culto avrebbe in seguito sviluppato delle proprie propaggini presso certe
località della Grecia, nonché in determinati luoghi d’espansione della civiltà
egea. Uno di questi ultimi, ci preme
sottolineare, è senza dubbio la Sicilia (15);
ove il Delfino è stato venerato sino ad età storica, in base a quel che viene
apertamente testimoniato dall’antica
numismatica siracusana (16). Ma in proposito è da ritenere che, tanto
nelle colonie quanto nella madrepatria, codesta venerazione del cetaceo celasse
dei risvolti esoterici; la qual cosa evidentemente comportava che siffatto
cetaceo fosse assunto dalle popolazioni marinare (17), insulari o rivierasche che fossero, a contrassegno del
‘Nocchiero Celeste’ ed in stretta corrispondenza coll’omonimo asterismo del Delphís.
Il problema da un punto di vista microcosmico riguardava la ‘rotta’ (il
metodo) che avrebbe dovuto addirsi al ‘navigante’, o per esser piú aspliciti all’iniziato ai misteri, al fine
del raggiungimento da parte di costui d’una ‘meta’ (o stato interiore) la quale
ovviamente non poteva che risultare di natura metempirica. La prossimità siderale del Delphinus al Caper ha favorito, inevitabilmente, un’associazione tra le due
costellazioni. Donde è facile
comprendere come il Delfino abbia potuto, di poi, esser concepito quale veicolo
zoomorfico del ‘Signore dei Naviganti’ (con tutte le conseguenze indirette
concernenti i veicoli divini piú in generale); cioè di una divinità
pre-olimpica di cui Apollo e Poseidone non erano probabilmente che ipostasi
funzionali, l’una con attinenza specifica verso il luminare diurno e l’altra
viceversa nei confronti del pianeta Saturno, in veste naturalmente antisolare.
Un’ulteriore interpretazione, assolutamente compatibile colla precedente,
sarebbe quella di valutare il binomio considerato non sotto un profilo
antagonistico; ma, viceversa, alla luce di una complementarietà Sole-Cielo. Cosí il simbolo del Delfino, fruendo
intrinsecamente per la ragione ora spiegata di valenze solstiziali (18), ha finito per assurgere a modello
di ‘Nauta’ oltremondano nel gran mare delle passioni terrene.
e) Corrispondenze culturali egeo-egizie
nella simbologia della Barca Solare
A proposito delle corrispondenze
cultuali egeo-egizie relative al simbolismo della Navicella Solare, abbiamo in
precedenza segnalato – appoggiandoci al prof. Godart – il costume cicladico di
raffigurare il Delfino sula prua delle imbarcazioni, indi accennando vagamente
a certe affinità tematiche di tali raffigurazioni con altre equivalenti
rilevate dall’Evans nell’arte dell’Egitto.
Il solito ed immancabile Padre Heras (19), da parte sua, ha offerto nel saggio da noi piú volte
menzionato un importante contributo alla risoluzione del problema iconografico
in tal modo formulato; siccome, attraverso un’interessante serie di dipinti
parietali del Wâdi Hammamât e
d’insegne marittime tratte dal vasellame egizio di epoca protostorica, egli ha
provveduto a dimostrare l’esistenza di un perfetto parallelismo tra le Teste di
Serpi (in un altro caso di Uccelli) poste a prora e a poppa delle antiche
barche del mondo nilotico e le altrettanto vetuste sagome, a forma pescina o
meno, delle insegne delle imbarcazioni egee.
Il confronto colla Mesopotamia e la Valle dell’Indo prova l’ampia
estensione di codesta tematica. Fra le
insegne riscontrabili nell’artigianato egizio protostorico spiccano un emblema
solare, il Tridente (o gli omologhi di siffatto strumento rituale) ed il Pesce.
f) Confronto fra il Grande Delfino Monodono
cretese
ed il Mahāmatsya Ekaśṛṅga indiano
Portando a termine alfine il
discorso sul Mégas Delphís Monódous cretese, che potremmo
tranquillamente interpretare come prefigurazione dell’Apóllōn
Delphínios Monókerōs
(20), se ci è concesso d’applicare
la teonomastica greca ad una divinità del mondo cretese (21) dal nome a noi purtroppo ignoto, eppure affine indubbiamente
alla figura ellenica di Febo (22),
va osservato che il dio ci ridesta memoria inevitabilmente del Mahāmatsya Ekaśṛṅga hindu (23). Un po’ forzato forse,
almeno in apparenza, ma in verità abbastanza suggestivo appare per contro
l’accostamento – sempre da parte del sunnominato Padre Heras – a tale Aureo
Corno del Matsyāvatāra (vedi connessione del medesimo col
‘Rostro’ del Pescesega, che erroneamente egli scambia per il Pescespada) dell’Aurea Spada di Febo-Apollo (Phoíbou Apóllōnos Chrysāórou)(ib., vs.395); da lui reputata, in ciò essendo però nel giusto, un
attributo piuttosto singolare ed inconsueto del nume titanico-solare (24).
g) Suggestiva rappresentazione su un treppiede
olimpico dell’agone mitico, denso di significati,
tra
un Eracle Bicorne ed un Apollo Unicorne
Sulla gamba di un treppiede
bronzeo risalente all’VIII sec. a.C., ed ora al Mus. di Olimpia, incontriamo
una strana versione del tradizionale agone fra Eracle ed Apollo per il possesso
del Tripode Delfico, concepito per l’occasione in forma di coppa (25). Il particolare di maggior rilievo della scena
ivi ritratta è costituito senza dubbio dall’aspetto parzialmente teriomorfico
dei due contendenti. Entrambi sono
infatti interamente taurocefali, se non andiamo errati, o meno probabilmente
elafocefali. Ma l’uno [Eracle, sulla
sinistra], il quale cerca in modo furente di strappare il Sacro Tripode
(secondo una consuetudine iconografica abbastanza diffusa nei secoli
successivi) dalle mani del suo potente avversario – si analizzi il mitologhema
riguardante la contesa fra i due (26),
che non rientra tuttavia nelle emblematiche ‘Dodici Fatiche’ (27) – è bicorne; mentre l’altro
[Apollo, sulla destra] è, sbalorditativamente, unicorne. Ora, vana è la speculazione dell’Akurgal (28), che fa risalire le pretese
acconciature arcaizzanti dei due numi a degli elmi di provenienza
ittito-assira; giacché la scena mostra, in maniera inequivocabile, che la testa
dei due contendenti è completamente di natura zoomorfica. Valga qui, a titolo esemplificativo, quanto
già spiegato in nota (29). Ovvero, che un motivo simbolico concernente
una porzione limitata della figura oggetto di simbolismo sacro, è
immancabilmente in linea colla simbolica dell’intera figura. Non ci può essere una raffigurazione di una
divinità che rispecchi per un verso la simbologia che di norma la
contraddistingue e, per un altro, rimandi a dei significati storici estranei al
contesto di quella rappresentazione. Non
sarebbe un oggetto sacro, poiché questo di necessità risulta in tutte le sue
parti eminentemente simbolico, indipendentemente dalla consapevolezza intuitiva
di chi lo realizza sul piano artistico o lo prende in considerazione sul piano
intellettivo.
In altre raffigurazioni analoghe,
ma piú recenti, notiamo che la fisionomia dei due contendenti è del tutto
antropomorfica. Si trovano 3 esempi
dello stesso motivo nella Grecia fra il VI e il V sec. a.C.: un primo esempio
in un altorilievo d’arte ionica (Tesoro di Sifno, Delfi, frontone orientale,
sec.metà del VI sec.)(30), un
secondo in una terracotta pressappoco coeva d’arte attica (Finzia, anfora a
figure rosse, Tarquinia [Etr.]; Mus.Naz., Roma, sec.metà del VI sec.)(31) ed un terzo in un’altra terracotta
attica un poco posteriore (“Pittore di Berlino”, anfora a figure rosse, Vulci
[Etr.]; Würzburg, M. von Wagner Mus., pr.metà del V sec.)(32). Nel primo caso la
testa di uno dei contendenti è compromessa, ma si capisce dalla testa
dell’altro che il simbolismo utilizzato è di natura completamente
antropomorfica. Idem dicasi per le
pitture delle due anfore etrusche, anche se nell’anfora del museo bavarese
Eracle porta attorno al capo la Pelle di Leone, emblema della I ‘Fatica’ e
quindi una chiara allusione allo Zodiaco Solare (33).
Tirando le somme, in sostanza,
l’Apollo Unicorne e l’Eracle Bicorne della raffigurazione menzionata parrebbero
un unicum.
h) L’immagine di un Minotauro Unicorne,
quale avversario di Eracle, in un altro rilievo di
Olimpia
Il presunto Apollo Unicorne (ma
personalmente non dubitiamo minimamente che lo sia), il quale non compare piú
nell’iconografia posteriore riguardo il medesimo agone mitico, dovrebbe esser
accostato ad un Minotauro pure unicorne di un altro rilievo di Olimpia (34).
Esso illustra sulla curvatura d’uno scudo due importanti episodi della mitica lotta fra
Eracle, figura eminentemente eroico-solare (per la quale si differenzia dal
titanismo solare di Apollo)(35), ed
alcuni ‘avversari’ (Minotauro, Leone) dalla chiara valenza zodiacale; che
tratteggiano evidentemente una sorta di conflito celeste per la conquista di
determinati domini ultramondani, corrispondenti ai Segni del Toro e del
Leone. Nell’antagonismo mitico
(extra-zodiacale) fra Febo ed Eracle – “vinto” da quest’ultimo – si deve allora
constatare la presa di coscienza da parte della tradizione ellenica di un
avvenuto trapasso ciclico dalle gesta simboliche d’un nume solare, per cosí
dire ‘argenteo’ (appunto Apollo, caratterizzato tipologicamente da un culto
calendariale di valore settenario) (36),
alle imprese d’un eroe solare viceversa ‘bronzeo’ (distinto rispetto alla
precedente divinità per il carattere duodenario del proprio culto calendariale)(37).
Orbene, è chiaro che l’antagonismo col Minotauro ed il Leone rappresenta
una fase successiva alla precedente, l’Epoca Ferrea; in cui a sua volta è
Eracle a risultare “perdente” rispetto ad Apollo (38), a meno d’un riadattamento all’età seguente (39), fatta salva la distinzione fra i
Grandi Misteri (indicati dal Leone) ed i Piccoli (contrassegnati dal Minotauro)(40).
Adesso val la pena d’esaminare
due altri motivi che comprovano, seppur in maniera indiretta, quanto sopra
postulato. Dapprima uno strano tripode
mobile a 3 ruote, rinvenuto nell’arte subminoica. Poi un mitologhema parallelo alla storia del
conflitto fra Eracle ed Apollo, quello che narra cioè della lotta fra Eracle ed
Acheloo.
Cominciamo col tripode mobile in
terracotta (1.200-1.000 a.C., ora al Mus. di Hiraklion) rinvenuto a Karfi (41), nel massiccio centro-orientale
del Lassithi, rassomigliante ad un carro trainato da 3 tori e guidato da un
auriga; il carro tuttavia è ridotto a 3 piedistalli circolari sovrapposti e gli
animali alle loro epitomi, sul prolungamento delle quali si regge in piedi il
conducente (42). Crediamo che i 3 Piedistalli debbano esser
interpretati alla stregua dei 3 Gradini che a volte sottostanno al Tripode delfico,
come abbiamo spiegato al Cap.III, §a. Anche in questo caso lo schema ternario
appare raddoppiato: nel Tripode di Delfi era il Serpente a ripeterlo, ivi sono
le epitomi taurine a determinarne un secondo.
Esaminando il reperto si nota subito che cosí come il piedistallo piú
piccolo domina gli altri 2 in altezza, la stessa cosa accade colla testa
centrale e di minor grandezza rispetto alle altre 2 laterali. Quale sia il significato dell’insieme non è
facile da delineare, ma ci proveremo egualmente. Spicca su tutto il resto la figura
dell’Auriga, che a nostro parere possiede un significato solare ed ontologico,
poiché domina sia sui 3 Tori che sui 3 Piedistalli. Se il <Tripode fisso> delfico faceva
riferimento alla ‘Ruota dei Segni’ ed alle ‘Stelle Fisse’, oltreché al
Trimundio, il <Tripode mobile> cretese potrebbe costituire un simulacro
dell’Ebdomade planetario, rimandi alchemici inclusi. In altre parole i Tori raffigurerebbero i 3
pianeti rapidi (Luna, Mercurio, Venere), regolati dalle supposte briglie della
figura solare, di stampo apollineo o pre-apollineo; mentre i Piedistalli
indicherebbero la natura fondamentalmente statica o quasi dei 3 pianeti lenti (Marte, Giove,
Saturno). Infine, le 3 Ruote
alluderebbero non solo al Trimundio ed alle 3 arti ermetiche, ma parimenti alla
maggior mobilità dei pianeti rispetto alle costellazioni. Rileviamo infine che l’Asse Centrale del
Tripode, nel reperto in terracotta evidenziato dall’Auriga, ha analoga valenza
del Corno Unico; entrambi i simboli, infatti, stanno in rapporto macrocosmico
coll’Axis Mundi, nonché in rapporto
microcosmico colla Colonna Vertebrale.
In quanto all’agone fra Eracle ed
Acheloo, in cui questi si trasforma prima in Serpente e poi in Toro cui l’Eroe
divelle un corno (43), sarebbe avvenuto
al dire del mito per la mano di Deianira.
L’episodio si svolge presso il fiume omonimo, che è il maggiore della
Grecia. La spiegazione piú elementare
della vicenda, sul piano letterale ovvero storico-geografico, è quella
menzionata dal Tocci (44); il quale
interpreta il fatto sulla scorta degli antichi commenti in ragione della
tortuosità del letto del fiume (la metamorfosi in serpe) da un lato e
dall’altra in relazione agli argini posti dagli abitanti del luogo per fermare
le inondazioni, ciò che avrebbe favorito alfine la confluenza dei due rami
dello stesso in un unico alveo (la metamorfosi in toro, con un corno
divelto). Ovviamente noi non ci
accontenteremo d’una spiegazione cosí banale, seppur possibilmente veritiera
sul piano letterale, specialmente nei confronti d’un eroe eziologico quale
Eracle; onde capire gli aspetti criptici di codesto simbolo bisognerà tuttavia
allinearlo al Makara indiano, suo
corrispettivo, pur con qualche differenza iconologica. Questo terribile mostro caratterizzato non
meno di quello greco da una natura composita viene reputato da Coomaraswamy
l’incarnazione dell’Essenza delle Acque, ed è ritratto spesso (vide Cap.I, n.195) bicorne, o forse con
2 zanne rivolte verso l’alto; le quali contrastano in maniera innaturale col
corpo di rettile e la coda di pesce, oltreché colla proboscide elefantina. Abbiamo già spiegato, piú addietro (45), la correlazione esistente tra
siffatta proboscide ed il corno aureo del pesce avatarico; tanto piú che, come
si è visto in altra occasione (ibid.,
n.136), un demone cosí effigiato in un testo puranico adempie da controparte
asurica del Matsya. Gli aspetti iconologici principali di Achelôos,
preannunciati in breve alla n.25 del Cap.V, non sono molto diversi da
quelli del Makara. Tra gli elementi comuni ad entrambe le figure
sono infatti il corpo di rettile, le due corna (nel caso della figura greca di
toro anziché d’antilope) – quantunque il Makara
porti a volte zanne di pachiderma e la coda di pesce. Il <Corno> divelto al dio fluviale da
Eracle, che lo trasforma inevitabilmente in una bestia unicorne, fa il paio
invece colla <Proboscide> (a mezzo fra le Corna o le Zanne) in funzione
assiale del mostro indiano e perciò diviene la Cornucopia. Ma il simbolo è ripetuto, invero, attraverso
la trasformazione di Acheloo in un animale unicorne; giacché, proprio come
avviene nell’iconografia iranica (46),
l’Eroe compie un sacrificio cosmogonico.
Benché nel caso greco l’animale composito non venga del tutto
annientato, poiché a differenza che nella scena rituale dell’unicorno iranico
nell’agone con Acheloo non abbiamo a che fare con un un pentamorfo (47); ma semplicemente con un’immagine
dei due archi annuali del cammino solar-zodiacale, a partire dall’Equinozio di
Primavera (Toro-Serpente, cioè Toro-Scorpione, essendo l’asterismo del Serpente
un paranatéllon dello Scorpione), con
ovvio riferimento al tempo in cui l’Anno Sacro (48) cominciava col Segno presente al Punto Vernale. Seppur riadattato, chiaramente, alle esigenze
cicliche dell’Età del Ferro; altrimenti Acheloo avrebbe assunto Testa di Leone
e Corpo d’Aquila (49). Osserviamo, inoltre, che il corpo ofidico di
Acheloo non è troppo diversificato da un punto di vista comparativo rispetto al
soma altrettanto di rettile del mostro hindu; in aggiunta, la coda pescina
costituisce certamente un particolare, comune ad entrambi, da non
sottovalutare. Visto che la <Coda
Ittiomorfica> del Makara ricopre
in India, per via della sua unicità, la medesima parte simbolica dell’<Unico
Piede Caprino> – in verità una singola zampa elefantina –
nell’immagine figurativa dell’Ajaikapāda (50); ecco che il Pūrṇakhumba di
costui, assimilabile ad un Nidhiśṛṅga
(‘Corno dei Tesori’), è facilmente riconducibile alla <Proboscide
Elefantina> (talora effigiata a mo’ di corno) del cd. ‘Mostro delle
Acque’. In Grecia, analogamente, si può
comparare la Cauda Piscis di Acheloo
coll’Aigípous (51) di Egipan; nonché equiparare codeste due deità unicorni,
benché la seconda abbia perso in apparenza tale natura (52), colla Cornucopia. E
come Ajaikapāda ovvero il Makara costituiscono una variante morfologica – od una
manifestazione, se preferiamo – di Ahirbudhnya
(53), parimenti Egipan ossia
Acheloo lo è di Pitone (54). Dunque, tenendo conto che il Makara-rāśi
governato da Śāni dell’astrologia indiana corrisponde
zodiacalmente all’Aigókerōs (‘Capricorno’) dell’astrologia ellenica
dominato da Crono, sarà possibile a tal punto scovare una parentela filologica
di carattere indoeuropeo fra il gr. A-chel-ô-os ed il scr. A-kāl-a; dovuta al fatto che il pref.a- possiede valore privativo in entrambe le voci riportate, la base
*kāl/chel- essendo il loro vero tema. Nella letteratura indiana antica,
precisamente nella Mai.U.- vi. 15,
scorgiamo che il concetto di Akāla
(l’<Atemporale>) si fonda sull’idea rigorosamente affine di Avyakta (l<Immanifesto>); ma
relativamente ad esso non s’incontra alcunché a livello figurativo, anche se è
del tutto ragionevole ritenere che pure il <Corno Unico> di Acheloo possa
sottintendere l’Axis Mundi, su cui
s’impernia il movimento della Ruota Celeste o Ruota del Divenire. Se il nostro ragionamento risulta corretto
allora è chiaro che la controparte umana del Mostro, l’inesorabile Avversario
dell’Oceanide, debba svolgere il compito dell’Eroe Solare che sprona il Cielo
sotto forma di Serpente Unicorne (ossia nella duplice veste temporale ed
atemporale), a manifestare. Si esamini
in parallelo Jamšīd, sorta di
Giano-Saturno o Adamo-Seth, e lo Zurvān Akārana (Chrónos Ápeiros) iranici prima
considerati; costoro rientrano a pieno titolo nel quadro delle divinità solari
in agone con quelle monocere dal profilo ofidico-saturnino, sempre che si
faccia una distinzione fra sacrificio cosmogonico (con valenza di Ātmāyajña) e
sacrificio annuale (con sola valenza di yajña,
o yasna per dirla nella lingua dell’Avesta).
i) La pazzia di Eracle
ed il senso legittimo delle 12 ‘Fatiche’ di Eracle
Per capire meglio il valore del
combattimento rituale di Eracle contro Apollo ed il Minotauro, occorre
precisare meglio la natura dell’Eroe.
Bisogna ricordare a tal proposito come Eracle (chiamato in principio
Palemone, cosa che lo identifica in parte col Melicerte corinzio) sia figlio
illegittimo di Zeus, nato da Alcmena una notte dopo – o secondo altre fonti una
notte prima – rispetto al gemello Ificle (55). Per questo la gelosa Hera, non sopportando le
sue Imprese, quali la Vittoria sui Mini o la Discesa al Tartaro, decise di
farlo impazzire; tanto che l’Alcmenide uccise sei dei suoi figli, oltre a due
figli di Ificle. Recuperata la ragione,
si recò ben presto a Delfi onde domandare all’oracolo il da farsi. La Pizia, chiamandolo per la prima volta Ἡρακλῆς (‘gloria di Era’) in base al
nome conferitogli da Apollo, lo spronò a recarsi a Tirinto per compiere tutte
le ‘Fatiche’ che Euristeo gli avrebbe ordinato. Cosa che lo avrebbe reso
immortale. Seppur con scarso entusiasmo,
ritenendo Euristeo a lui inferiore, alla fine acconsentí a seguire il consiglio
della Sibilla (56). Di conseguenza è necessario interpretare
tutti gli ‘Avversari’ di Eracle come delle ipostasi solari del medesimo, la
loro apparente contrapposizione all’Eroe avendo una ragione solo rituale;
legata al concetto di Autosacrificio, in senso cosmico-annuale. Circa le cd. ‘Fatiche’ occorrerà, però,
specificare quanto segue.
Già fin dalla Tarda Antichità –
si veda in particolare Servio (57) –
ci si chiedeva se le ‘Dodici Fatiche’ (Dōdékatlos) di
Eracle avessero un senso astrale generico, in rapporto al cammino annuale del
luminare diurno attraverso i 12 mesi del calendario solare; oppure se, piú
precisamente, vi fosse una diretta correlazione tra ciascuno degli Herculei Lābōres ed un dato asterismo zodiacale (58). La risposta al quesito
è sempre apparsa problematica per il fatto che, a parte il momento d’inizio dei
Lābōres (chiaramente in Leo),
il resto è a prima vista quasi del tutto incomprensibile. Ma, ad un esame attento della questione, si
possono rintracciare inattese concordanze tra ciascuna delle ‘ Dodici
Fatiche’ ed i 12 Segni Zodiacali.
Cominciando dal Leone Nemeo,
ritenuto il fratello della Sfinge di Tebe, c’imbattiamo poi nell’Idra di Lerna,
accanto alla quale giace un poderoso Granchio, i.e. Cancer). Sin qua è facile
trovare le corrispondenze, dopodiché il compito diventa piú arduo. Non tanto per la seguente Terza Fatica ovverosia
la cattura della Cerva di Cerinea (sacra ad Artemide), la qual cosa si
trasforma alfine in un alterco fra Eracle e i Gemelli Divini (Gemini), cioè Apollo ed Artemide; quanto
per le successive imprese, dato che il Toro di Minosse (ovvero Taurus) non viene di seguito alla Cerva,
bensí come Settima Fatica. Orbene, ciò
dimostra a nostro avviso che il ciclo duodenario in esame è ripartibile in
quattro sezioni ternarie, ciascuna capeggiata da un cd. ’Segno Fisso’
(Scorpione, Aquario, Toro, Leone) (59). Risulta palese dunque che l’ordine dei Segni,
nel modo in cui questi appaiono nel ciclo eracleo, non solo viene esposto in
senso retrogrado (dal Leone al Cancro ecc., anziché dal Leone alla Vergine e
cosí via); ma, addirittura, presenta un’incoerente inversione della prima terna
di Segni rispetto alla terna successiva ovvero del I Quadrante nei confronti
del II (60). Il che implica, per un verso, che forse la
variazione retrograda al Punto Vernale era una volta tenuta in maggior
considerazione rispetto al semplice e periodico trascorrere annuale dei Segni;
bisogna d’altronde rammentare in tal senso che molti millenni or sono, vale a dire c.12.000 anni fa, all’inizio
della Primavera sorgeva in base alla legge della precessione equinoziale la
costellazione del Leone (61). Per un altro verso va tenuto conto, ipoteticamente,
che la confusione fra le terne potrebbe essere stata compiuta appositamente;
onde mantenere il segreto delle 12 Fatiche solamente fra gli iniziati,
stornando cosí i non-iniziati dal loro legittimo significato, dei quali non per
niente son eredi i Massoni coi loro tipici ‘Lavori’. Ragion per cui adesso troviamo nel I
Quadrante il Leone Nemeo (Leo),
l’Idra di Lerna (Cancer) e la Cerva
di Cerinea (Gemini); nel II il
Cinghiale di Erimanto (Scorpio), le
Stalle di Augía (Lībra) e gli Uccelli Stinfalici (Virgo); nel III il Toro di Minosse (Taurus), le Cavalle di Diomede (Ariēs) ed il Cinto d’Ippolita (Pisces); nel IV il Bestiame di Gerione (Aquārius),
il Drago Ladone (Caper) ed in ultimo
il Cane di Ade (Sagittārius). Ma è evidente che l’ordine vero è quello
zodiacale normale, sia pur in senso retrogrado, cominciando però dal Leone
(Leone Nemeo) e finendo colla Vergine (Uccelli Stinfalici).
l)
Aggiuntive precisazioni in
proposito
Forniremo ora qualche breve
spiegazione delle nostre scelte, stigmatizzando d’altronde gli elenchi inesatti
di alcuni studiosi (è fra questi il
grande Kerényi, che pure stimiamo), i quali aggiungendo confusione a confusione
riportano male persino l’ordine normale delle ‘Fatiche’ (62). Fa eccezione in questo
il Graves (63), che offre invece il
loro ordine esatto (64), cui ci
siamo difatti attenuti nella nostra analisi; sebbene alcune di esse,
soprattutto la Cerva di Cerinea, siano spiegate meglio dall’autore
ungherese. Ad ogni modo chi volesse
studiare il problema, magari tenendo benevolmente conto anche delle nostre
considerazioni quale base di partenza, dovrebbe analizzare per bene tutte le
variazioni principali riportate dai testi cercando d’inquadrare il problema
meglio di quanto non si sia da parte nostra qui riusciti a fare (65).
Ora di seguito, però, proveremo a fornire ulteriori dettagli su ciascun Labor (da labō = ‘vacillare,
piegare’ sotto un peso).
Circa il Leone vale ancora la
pena di ricordare che la lotta contro tale animale, nella forma del Leone della
Valle di Nemea, costituisce la Prima Fatica assegnata all’Eroe da parte di
Euristeo (lett. il ‘largamente potente’); costui era il protetto di Era, ossia
un personaggio che Fontenrose (66) non
esita a paragonare al Re degl’Inferi (Ade).
Il suddetto leone d’altra parte costituiva il figlio incestuoso di
Ortro, un cane generato da Echidna, e di costei. Ciononostante l’animale funge da allomorfo,
in senso zodiacale, di Eracle medesimo.
Non solo, ne incarna pure la catarsi finale, se consideriamo la
Tredicesima Fatica quale riproposizione teleologica della Prima nell’Anno
Nuovo. A questo aggiungasi che l’Herculeum astrum veniva da M. Valerio
Marziale concepito come un epiteto della costellazione del Leone (67).
Sul principio dell’Età del Ferro (4.480 a.C. c.) codesto asterismo
zodiacale dominava il cielo mattutino al Solstizio Estivo, o come si dice in
gergo segnava il sorgere eliaco, sicché non c’è da meravigliarsi che lo stesso
abbia potuto valere annualmente da emblema del ‘Trionfo finale della Luce’ in
quei relativamente lontani tempi. A
conferma di questa tesi, svolta primieramente da Bunt (68), ecco che ad Eracle è sempre stata associata quale consorte
Ebe. Si confronti il ruolo di costei con
quello di Ganimede, il celeste fanciullo che fa da controparte maschile alla
medesima in funzione di divino coppiere: entrambi presiedono, com’è noto, alla
costellazione dell’Aquario (69). Cotesto asterismo innalzavasi infatti in
cielo all’epoca surriferita, durante l’alba del Solstizio Invernale, mentre il
Leone tramontava. All’opposto, cioè, di
quel che accadeva al mattino del Solstizio Estivo.
In quanto all’Idra trattasi d’una
figlia di Tifone ed Echidna, secondo Fontenrose lei medesima chiamata col nome
della madre (70); tanto per
cambiare, la sorella della Chimera, di Cerbero ed Ortro era stata addestrata da
Era per ostacolare il cammino rituale di Eracle. L’Idra fruiva d’una tana sotto i sacri
platani del bosco di Lernia, vicino ad Argo (71). Nei pressi scorreva la
settemplice sorgente del fiume Amimone,
aggirandosi nella Palude Lernea; è evidente il significato recondito di tale
sorgente a livello macro- e micro-cosmico, se si pensa ai Sette Centri
interiori della simbologia ermetica (72),
rimando nel corpo umano delle Sette Sfere planetarie. L’Idra aveva varie teste (7, 8, 9, 50, 100 o
10.000), delle quali una al centro immortale (73), artisticamente raffigurata talora in sembianza umana. Il suo respiro risultava letale. Perciò, aiutato da Atena, l’Eroe fece uscire
il Mostro dalla tana e poi lo colpí a raffica con frecce infuocate: indi,
assalitolo colla clava, trattenendo il fiato, s’accorse che da ogni testa
spaccata ne ricrescevano delle altre (74). Il nipote Iolao lo soccorse ed affinché non
crescessero nuove teste cauterizzò le ferite con rami infuocati, impedendo il
flusso del sangue. Alla fine Eracle si
mise a tagliare l’Aurea Testa Immortale, svettante in posizione centrale sul
capo dell’Idra; ma Era volle premiare egualmente il Granchio (75) venuto in aiuto del suo malefico
disegno e schiacciato dai piedi dell’eroe tebano, elevandolo fra i Segni dello
Zodiaco (76). A parere del Graves (77) questo mito era sorto in attinenza alle Danaidi, antiche
sacerdotesse delle acque di Lerna; e l’uccisione del mostro potrebbe aver a che
fare, sul piano storico, colla soppressione di tale culto della fecondità. Il numero di 50 Teste sarebbe perciò da
collegare, in particolare, con quello delle sacerdotesse del collegio addetto
al culto della Sacra Seppia; che a sua volta, rispecchiava, il numero analogo
delle sacerdotesse dedite alla venerazione della Sacra Foca. In campo numismatico, comunque, le teste
raffigurate erano soltanto 7 (78);
ma, oltre al numero delle teste, è importante iconologicamente stabilire la
forma del Mostro. Infatti, talora è
quella d’un polpo; o meglio d’una piovra, come avviene in una terracotta romana
d’imprecisata datazione, ora appartenente ai Musei Vaticani (79).
Ciò conferma peraltro la nostra interpretazione in chiave zodiacale,
giacché Granchio e Polpo sono gli emblemi per eccellenza del Cancro. Servio, pur essendo il maggior autore antico
a propendere per una possibile interpretazione zodiacale delle ‘Fatiche’ (vedi
§ prec.), riguardo il parallelo significato storico dell’eroica impresa pensa
ad un’opera forzata di canalizzazione (80). Sinceramente parlando, la tesi del Graves ci
pare maggiormente valida, anche se al livello interpretativo minimo del simbolo
niente di tutto questo possa essere escluso.
Viene poi la Cerva di
Cerinea, in Arcadia. La Terza Fatica
implica la cattura ed il trasporto a Micene del mitico animale. Mitico, dato che – secondo quanto sottolinea
Kerényi (81) – possedeva auree corna e piedi di bronzo, ciò significando a nostro
giudizio che la sapienza da essa simboleggiata (82) proveniva nel suo nucleo essenziale dall’Età dell’Oro e nei suoi
rituali dall’Età del Bronzo. Alcuni
antichi autori ne facevano un cervo, ma questo non cambia molto le cose; poiché
se il cervide è femmina si riferisce alla Luna e/ o ad Aldebaràn, se è maschio
al Sole o ad Orione. La storia della
Cerva in questione si rifà ad un episodio della fanciullezza di Artemide,
allorché la dea vide 5 splendide Cerve pascolare beatamente in riva ad un
fiume. Inseguitele, ne catturò solamente
4 e le aggiogò al suo Carro (83). Il ‘Carro di Artemide’ (84), ovviamente, non è
che lo Zodiaco Lunare; basato sulle 4 fasi del luminare notturno, vale a dire
le 4 ‘Cerve’ (Lune) incorporate in esso ed assegnate al ciclo mensile. La ‘Quinta Cerva’ fuggita presso la Collina
di Cerinea ovvero l’aspetto quintessenziale della Luna per forza di cose va
collocata sul piano cosmologico al Centro dello Zodiaco, perno della rotazione
assiale (85); mentre, sul piano ontologico, rimanda macrocosmicamente al ‘Cuore del
Mondo’ (il Paradiso Terrestre) oppure al ‘Cuore del Cielo’ (il Paradiso
Celeste’). Tra l’altro il simbolismo del
Cervo, piú in generale, appare correlato microcosmicamente nell’ambito di
svariate tradizioni al Cuore quale centro spirituale dell’essere umano (86). Il Quaternario incorpora molti significati,
su vari piani, quello illustrato essendo soltanto uno dei tanti; ma potremmo
intendere le 5 Cerve, nell’insieme, come allusioni alle tradizioni (87) provenienti dai 5
Grandi Anni. Per cui la Cerva di Cerinea
raffigura, in sostanza, la Tradizione Primordiale; cioè la Tradizione della
seconda metà del I Grande Anno, in altre parole del II Ciclo Avatarico. Intendendola invece come maschio,
evidentemente identificabile ad Apollo
anziché ad Artemide, sarebbe l’effigie della Rivelazione Primordiale; ossia
della Rivelazione attinente alla prima metà del I G.A., vale a dire del I
C.A. Rimane una spiegazione da
dare. Perché inserire tal mitema nei Labōres? La risposta è semplice. Nella sequenza di mostri che l’Eroe deve
debellare la Cerva figura quale devastatrice di campi coltivati. Circa la cattura della Cerva da parte di
Eracle va precisato che Artemide possedeva un bosco sacro in Istria (88), dove era chiamata Rezia (lat. Raetia o Reithia)(89); inseguitore ed
inseguita eran giunti là dopo esser passati per il Paese degli Iperborei (90), sacro ad
Apollo. Però, come afferma Kerenyi (91), riesce davvero difficile
distinguere l’animale sacro dall’eroina in cui talora esso si trasforma o dalla
dea che l’incarna (92). L’associazione con il
Segno dei Gemelli è stabilita comunque dalla relazione di Artemide, sotto forma
di cerva, con gli Alòadi: Oto ed Efialte.
Infatti i due Giganti, non appena è apparsa a loro, cercano di
ucciderla; ma, anziché colpirla colle frecce, finiscono per annientarsi l’un
l’altro. Il fatto è sottolineato
unicamente da Kerenyi (93), eppure la Cerva che appare loro è la medesima inseguita da Eracle,
ciò che giustifica la Terza Fatica.
Oltre all’incontro già citato dell’Eroe coi fratelli divini, Apollo e
Artemide, uno dei quali tenta forzatamente di strappargli la Cerva di dosso
mentre la porta a Micene e l’altra lo rimprovera d’aver catturato l’animale a
lei sacro (94).
Il Cinghiale della
Quarta Fatica (ma è in realtà la Decima) rappresenta viceversa una metamorfosi
di Ares, come succede del resto nel mito di Adone con Apollo, equivalendo alla
Serpe di Ade; l’incontro con cotale fiera, ed altrettanto con suddetto rettile,
viene considerato tradizionalmente un incontro dell’Eroe colla Morte (95). Il Cinghiale Erimanzio infestava il Monte
Erimanto (96), sacro ad Artemide. Secondo
Graves (97) il nome del monte derivava da quello del figlio di Apollo, il dio
della luce, ucciso da Afrodite perché l’aveva scorta nuda; onde per
vendicarsi Apollo (= Sole) tramutatosi
in cinghiale aveva a sua volta annientato Adone (= Orione), l’amante della dea,
ivi identificabile alla Settima Pleiade.
Allorché Artemide si adirava cogli uomini inviava il suddetto cinghiale
a distruggerne i raccolti (98). Eracle, dopo aver sterminato i
Centauri (evidente allusione al Segno del Sagittario, seppur di difficile
interpretazione)(99), s’impegnò a catturare il cinghiale e a trasportarlo sulle spalle a
Micene; ove lo mostrò ad Euristeo, che terrorizzato come dinanzi alla morte si
nascose in un píthos (‘grosso vaso’,
tipo giara)(100).
Le sozze ‘Stalle’ di
Re Augía, figlio di Elio, erano il luogo ove le ‘Mandrie Celesti’ del Dio-sole
– fuor di metafora, …i Giorni e le Notti – andavano a riposare. Metaforicamente il figlio di Elio, o di
Poseidone in base ad altre versioni, era ricco di mandrie e di greggi ed Eracle
le dovette pulire interamente. Mediante
uno stratagemma egli deviò allora il corso di due vicini fiumi, l’Alfeo ed il
Peneo, ripulendo le stalle senza sporcarsi.
La chiave di questo ermetico mitologhema crediamo sia da rinvenire
nell’importanza degli stalloni, i quali rimandano al vecchio Segno del Cavallo (101), ossia alla
Bilancia. Infatti Kerényi (102) dichiara al
riguardo a proposito di Augia: “Il suo regno sulla costa occidentale del
Peloponneso era piuttosto una signoria del Sole al tramonto, un governo sul
mondo degli Inferi, che non sul paese di Elide.” Lo sterco raffigurerebbe insomma il sudiciume
del Mondo Intermedio, almeno del Tartaro.
Naturalmente il simbolo delle Stalle ha pure valenza annuale.
Mentre gli Uccelli
Stinfàli (Στυμφάλιοι) hanno a che fare con Pallade Atena (su cui vide infra), l’inviolabile vergine ellenica, palese sostenitrice
della Sesta Fatica. Codesti rapaci
dimoranti presso il paludoso Lago Stýmfālos si nutrivano di carne umana e danneggiavano i
raccolti coi becchi e le ali di bronzo, defecando in maniera immonda un
escremento velenoso essicante le messi (103). Il Lago Stinfalo, in Arcadia,
è ora circondato da una fitta boscaglia.
Eracle utilizzò nacchere di bronzo, donategli da parte di Atena e
fabbricate da Efesto; sfregando le nacchere da un’altura del Monte Cillene,
sovrastante il suddetto lago, riuscì a far fuggire gli uccelli (secondo alcuni
donne del tipo delle Arpie, ovvero le Sirene)(104). Alzatisi in volo, i volatili
vennero colpiti dalle frecce del figlio di Zeus (105). Sono proprio tali uccelli a
comprovare la loro affinità col Segno della Vergine, un tempo probabilmente
simboleggiato dalla Sirena di tipo pescino (106). Il lago divenne dimora pure di
Era, dopo che costei ebbe ripudiato Zeus per i continui tradimenti (107).
La Settima Fatica
costituisce la rappresentazione teriomorfica di un mitologhema che si presenta
in altre 2 forme: emi-teriomorfica ed antropomorfica (108). Nel primo caso abbiamo a che fare con una
versione in cui il Toro di Minosse è un vero e proprio animale, seppur
d’origine divina. Si tratta del Toro
sorto dalle onde, che Minosse aveva promesso di sacrificare a Poseidone, ma
avendolo trovato particolarmente bello l’aveva inviato ai suoi armenti
sacrificandone un altro al posto suo.
Cosa che ovviamente – parimenti a quanto succede nella versione
implicante l’innamoramento per esso di Pasife – fece adirare Poseidone, il
quale gliel’aveva donato a scopo di sacrificio.
Nella versione teriomorfica è Eracle a catturare la sacra bestia, che
nell’interpretazione artistica viene presa con una corda oppure stordita con una mazza od in altro modo (109). In un’anfora attica a figure nere del V sec.
(Mus. di Belle Arti, Boston) l’animale viene, infatti, semplicemente domato con
un bastone (110). Il Toro secondo la leggenda
vagò libero per il Peloponneso, ma arrivò infine nella Piana di Maratona dopo
aver passato a nuoto l’Istmo di Corinto e ricominciò a diventare furioso. Non si dimentichi che era un Bianco Toro
Marino, od una Foca a giudizio di altri.
Allora fu inviato Teseo da Atene per catturarlo di nuovo e sacrificarlo
sull’Acropoli ad Apollo, non essendo altro che un emblema del Toro Celeste di
natura zodiacal-solare, dato che la leggenda era stata formulata ai tempi nei
quali la costellazione trovavasi al Punto Gamma. Della versione emi-teriomorfica trattiamo al Cap.VII. Rimane da analizzare la terza versione,
quella antropomorfica, riportata soltanto dal Graves (111). Tauro era un generale delle truppe di Re
Minosse, avente relazione adulterina con Pasife”, donde nacquero due gemelli; è
ovvio, i Gemelli Celesti. Teseo lo vinse
nei giochi funebri cretesi, indetti a favore di Androgeo (112), impedendo che i
fanciulli e le fanciulle rinchiusi nel labirinto e posti in palio al vincitore (113) venissero
sacrificati.
La cattura delle 4
Cavalle selvagge (Cavalli indomiti secondo una variante) del tracio Diomede,
figlio di Ares nonché re dei Bistoni, rimanda per forza di cose
all’Ariete. Gli animali del sovrano
venivano nutriti con carne umana ed erano pertanto talmente feroci che Diomede
era costretto a tenerli legati a catene di ferro e mangiatoie di bronzo. Sopraffatti gli stallieri, Eracle nell’Ottava
Fatica condusse i furiosi equini sulla riva del mare e tornò indietro ad
affrontare i Bistoni, lanciatisi all’inseguimento. Riuscí a vincerli tagliando un canale e
facendone affluire le acque verso la bassa pianura. Indi li raggiunse e li finí a colpi di
clava. Fra costoro uccise anche il
crudele Diomede e ne diede le carni alle bestie in riva al mare, riuscendo in
qualche modo a placarne la fame (114). Esiste anche qui un’altra versione, che fa di
Diomede il figlio di Hermes, ma non va presa in considerazione per capire il
senso dell’impresa. Come al solito
Graves, appassionato al Myth and Ritual,
ne approfitta per richiamarci ad una realtà cerimoniale sottostante al mito
fatta di sacerdotesse con maschere equine possedute dionisiacamente capaci di
divorare il re sacro al termine del suo regno (115). Pure Kerényi le intende quali
‘Cavalle della Morte’ descrivendole, da come appaiono nei dipinti vascolari,
munite di ali. In effetti la storia
implica una sosta di Eracle presso Admeto, doppione al pari di Euristeo del re
degl’Inferi (116). Si suppone che l’Eroe abbia
combattuto, oltre a Diomede, pure gli altri 2 figli di Ares: Licaone e Cicno (117). Quest’ultimo, in effetti, interviene in un
episodio dell’Undicesima Fatica. Vide infra.
La Nona Fatica –
concernente il ratto del Cinto d’Ippolita, ricevuto in omaggio da padre Ares –
è un vero rompicapo, ma la risoluzione di questa impresa ci porta a comprendere
il senso nascosto di tutte le 12 altre.
Il punto focale della narrazione in tal senso è il Grosso Pesce inviato
da Poseidone, sorta di mostro marino svolgente in tal ambito pressappoco la
parte della Balena nella storia di Giona.
Entro il <Ventre> di codesto sacro mostro Eracle trascorre 3
fatidici giorni, che sono un classico
emblema del percorso iniziatico. Se
pensiamo che nel normale ordine zodiacale questa Fatica corrisponde ai Pesci
(vedi mito di Esione e di Laomedonte, inserito nella vicenda principale quale
punto essenziale di chiarimento), allora comprendiamo il significato della meta
finale; ovverosia, raffigurando Ippolita la sapienza segreta, lo slacciamento
del cinto della veste di costei indica il trovarsi a tu per tu con essa. Non bisogna dimenticare infatti che Ippolita
fungeva da regina delle Amazzoni e che le Amazzoni erano donne di difficile
conquista anche sul piano semplicemente amoroso, onde la sottomissione ultima –
sessuale e non – della loro sovrana simboleggiava la caduta d’ogni remora
nell’ottenimento del perfezionamento interiore.
Rimanendo strettamente al mito, ci accorgiamo che l’Aurea Cintura di
Ares era portata o da Ippolita o dalle sue sorelle; la madre delle quali era
Armonia, invero un nome di Afrodite. Le
Amazzoni ammettevano socialmente soltanto la discendenza materlineare,
costringendo i loro maschi ai lavori domestici e dedicandosi all’arte della
guerra tramite la cavalleria (118). Vestivano pelli d’animali
feroci e, colle loro conquiste belliche, s’impadronirono ben presto di gran
parte dell’Asia Minore. Provenienti
dalla Scizia (119), si erano stanziate presso il fiume (lago secondo altre fonti)
Termodonte (120). Secondo una versione della
leggenda Ippolita donò spontaneamente il suo cinto ad Eracle, giunto in nave
alla foce del Termodonte, quale pegno d’amore; ma Era, assunta la veste d’un
amazzone, sparse la voce che gli stranieri avevano intenzione di rapire
Ippolita. Eracle pertanto, temendo il
tradimento la uccise, dopodiché le strappò di dosso bipenne (λάβρυς) e cintura (ζώνη)(121). Indi fece fuori ad una ad una
tutte le Amazzoni, ch’erano salite a cavallo per difenderla (122). Varie altre versioni (123) non meritano
d’esser menzionate per lo scopo ivi prefisso, ma val la pena di citare invece
l’episodio – incluso nel filone principale del Cinto dell’Amazzone – di Eracle
veleggiante verso Troia (124) allo scopo di liberare Esione (125)
dal Mostro Marino (126). Il Cinto (127) fu dunque portato a
Micene e consegnato ad Admeta (128), la figlia d’Euristeo. La
Doppia Ascia d’Ippolita fu offerta ad Onfale (129), regina di Lidia. Le Amazzoni
superstiti si rifugiarono ai piedi del Caucaso (130). Le Amazzoni del Mar Nero vanno
tuttavia distinte dalle Amazzoni libiche, che vivevano un tempo ad Esperia,
un’isola del Lago Tritonide (131), ricca di greggi e di alberi da frutto. Poi, dopo il prosciugamento del lago in
seguito ad un cataclisma naturale, invasero la Libia sconfiggendo i loro vicini
nomadi. Non solo, dopo aver fondato la
città di Chersoneso, attaccarono gli Atlanzi dell’isola di Cerne,
nell’Atlantico. La loro regina mitica si
chiamava Mírina o Mirína (gr. Mýrīna/Myrînē), nome che il Graves (132)
identifica alla sumera Ma-ri-enna (‘Grande-fruttifera-madre’), nonché alla dea-madre
dell’Asia Minore Marian (varr. Marianne, Ay-Mari, Mirina) dalle
chiare valenze lunari. Il Morelli (133) concorda in generale con Graves
pur distinguendo una Mirina dei Greci
da una Mirinna venerata dai Troiani
in Asia Minore, nota anche coi nomi di Mariamne
o Ay-Mari e citata da Omero (Il.- ii. 814) quale “agilissima” dea cui
questi ultimi tributavano un culto di tipo lunare. Anche il Morelli rintraccia un prototipo
sumerico in Ma-ri-enna, appellativo
che traduce similmente ‘Grande-fertile-madre’.
Cosa che si spiega , crediamo, paragonando i primi due monosillabi
attributivi della forma agglutinante sumerica rispettivamente al lat. mā-gna (‘grande’) od al scr. mā-ha (id.) ed al longob. ri-hhi (‘ricco’?)
o all’a.nord. rī-kr (‘potente’); donde l’ingl.m. rich,
il ted.m. Reich e l’it. ricco. Per questo il termine andrebbe tradotto ‘Grande-ricca (di
frutti)-madre’ oppure ‘Grande-ricca-signora’, volendo mettere il s.f.-enna (134) in rapporto all’antico epiteto di Venere, ossia Ana (135). Donde si è sviluppato per raddoppiamento
della consonante (Anna) (136) il concetto di Amma (‘Madre’)(137), che è chiaramente un’interpretazione lunare – con rimando
alla fertilità ed alla fecondità – della precedente signora dell’armonia
cosmica; in relazione ovvia ad An(u), il
nume uranico primevo, divenuto alla fine dell’Età Aurea un deus otiosus. Mirina (138) è anche il nome d’una città omonima fondata dalla Regina delle Amazzoni
libiche.
La Decima Fatica
consisteva nell’impossessarsi della mandria di Gerione, sorvegliata dal
mandriano Eurizione (figlio di Ares) e dal cane Ortro (figlio di Tifone),
dicefalo e con coda ofidica. Gerione era
re di Tartesso, in Spagna, ma dimorava nell’isola di Erizia (od Eritea, nel
Golfo di Gades), presso il fiume Oceano (139). L’impresa risultava assai
difficile. Il titano possedeva infatti
una forza straordinaria, avendo 3 teste, 6 braccia e 3 busti che si univano
alla vita (140). Viaggiando attraverso
l’Europa, Eracle giunse a Tartesso ed innalzò le famose due colonne sulle rive
di quello che è oggi lo Stretto di Gibilterra.
Dopo aver navigato fino ad Erizia, con mezzi varianti a seconda della
fonte presa in considerazione (141), giunto colà abbatté colla clava cane e guardiano. Trovatosi di fronte a Gerione annientò anche
lui con tre frecce che trapassarono tutti e tre i corpi del gigante (142). Invano accorse Era per cercare di
difenderlo. Il Figlio di Zeus riuscí
cosí a portar via incolume il bestiame da Erizia (143). Nell’ambito di codesta impresa
sono collocate la spedizione in Libia, che vide l’Eroe affrontare Anteo e
vincerlo (144), la spedizione in Egitto ove uccise l’immaginario Faraone Busiride;
nonché una terza avventura nel Nordafrica, durante la quale attaccò Amazzoni e
Gorgoni. Da notare che sullo scudo di
Gerione era effigiata l’Aquila (145), un paranatéllon fungente da
chiaro emblema dell’Aquario (146). Il significato del nome,
alludente ad una signoria sulla ‘Vecchia Età (da gérōn = ‘vecchio’) ossia sull’Età dei Titani
(dell’Argento), richiama d’altra parte il personaggio greco di Crono; signore
per l’appunto dell’Aquario, di cui troviamo un corrispondente induista nel
puranico Kāla o nel vedico Rudra (entrambi
nomi di Śiva-Mahādeva). I suoi
rossi buoi pascolavano al tramonto, giacché nell’Era del Leone l’Aquario
trovavasi all’opposto (cioè al Discendente) del Punto Vernale. Dopodiché Eracle passando per la Gallia
Transalpina, la Liguria, la Gallia Cisalpina e l’Etruria, arrivò sino in
Sicilia; ma, tornato sui suoi passi, incontrò Re Evandro, esule d’Arcadia. La leggenda attribuisce all’Eroe tante
vicende che sarebbe fuori tema ivi analizzare: l’uccisione di Caco, un gigante
tricipite (figlio di Vulcano, cioè il greco Efesto) sputante fumo e fiamme
dalle sue 3 bocche, il quale gli aveva rubato gli armenti e li aveva nascosti
in una grotta; la triplice sfida vinta con Erice (sovrano degi Elimi), che gli
aveva rubato un giovane toro fuggito dalla mandria, indi buttatosi a mare e legato
alla fondazione di Reggio nonché al nome della nostra penisola (Italia, da Vitalia, strorpiatura di vitula = ‘vitella’); l’annientamento di
Scilla, che aveva fatto suoi dei bovini per divorarli; la paternità di Latino
tramite la vedova di Re Fauno, dopo averlo soppresso siccome sacrificatore di
stranieri; la fondazione di Pompei e di Ercolano (147) e la soppressione dei sacrifici umani presso l’Albula (poi
Tevere). Per non parlare della
fondazione di Crotone, del ritorno in Sicilia, della risalita dell’Italia fino
all’Istria, del tentativo infruttuoso di scendere in Epiro, della dispersione
del bestiame verso la Tracia e la Scizia dovuta ad un tafano inviato da Era,
dell’unione colla donna-serpente (la versione scitica di Echidna) e dei 3 figli
avuti da costei. Costoro sarebbero i
capostiti leggendari delle 3 principali tribú degli Sciti (148). Graves (149) interpreta il gr. Γερυών come una forma logora del celt. Trigaranus, con allusione al mitico Tarvos Trigaranus (il Toro Tricorne
appaiato a 3 Gru)(150), siccome nella tradizione irlandese le Gru venivano associate ai
segreti dell’Alfabeto (151). Egli insomma sostiene che
Gerione alluderebbe al vetusto ‘Alfabeto di Crono’ custodito dai Dattili (152), cui sarebbe stato
sostituito nel 400 a.C. il cd. ’Alfabeto di Eracle’ (o meglio di Ogma, gr. Ogmios, forma celtica del semidio).
L’Undicesima Fatica
implicava l’ottenimento degli Aurei Frutti d’un Melo donato a Era da Gea per le
sue nozze con il Signore dell’Olimpo.
Era l’aveva posto nel proprio giardino, alle falde del Monte Atlante,
sul versante occidentale del mondo allora noto (153). Accortasi che le Ninfe
Esperidi, figlie del titano omonimo, intendevano coglierne i frutti mise il
Serpente Ladone a guardia dei Pomi. Il
Serpente, figlio di Tifone ed Echidna (var. Forco e Ceto), s’attorcigliò dunque
attorno al Sacro Albero (154). Inutile specificare che questo
mitologhema risulta affine a quello narrato nella Genesi. Infatti, come
insegna Guénon (155), l’Eden biblico non è la Terra Iperborea propriamente detta; bensí l’Eiren iranico (156), insomma l’Airyana Vaēǰa
(157), vale a dire l’Atlantide Iperborea di guènoniana
memoria (158). Sebbene nella leggenda eraclea
si parli di piú figure femminili, 3 generalmente, ma potevano venir raddoppiate
e cosí paragonate alle Atlantidi ossia alle 6 (o 7) Pleiadi (159); anziché di una
sola (160), Eva, come nella ‘Bibbia’. Non
si tratta però che di una tipica
moltiplicazione del tema, la sostanza essendo data dal ‘cogliere il
Pomo’, vale a dire fuor di metafora dal conoscere il Mondo; cosa che consiste
soltanto al minimo livello del simbolo di farsi un’esperienza mondana, al
livello maggiore rappresentando la Gnosi per eccellenza ovvero il
raggiungimento di una distinzione fra l’Uomo e la Divinità. Le 6 o 7 Pleiadi rimandano del resto ai 6 o 7
centri di raccoglimento interiore onde è possibile riacquistare in sé la Luce
dello Spirito. Le Mele appaiono ‘auree’,
essendo sfere di conoscenza spirituale.
In principio tuttavia le Ninfe Esperidi, figlie di Érebos (lett. ‘Regno dei Morti’, ma vale per ‘Tramonto’) e di Nýx (‘Notte’) oppure di Átlas ed Hesperís od in alternativa
di Phórkys e Kητώ, erano 3 e prima ancora una sola, appunto
Esperide (161). In definitiva, costei
corrispondeva ad Eva e cioè a Venere (Vespero, la ‘Stella della Sera’, era una
denominazione di Afrodite in rapporto al pianeta Venere) oppure alla Settima
Pleiade (162). Gli appellativi di Egle ed
Eriteide, ovvero delle altre 2 Esperidi, sarebbero infatti secondo Graves delle
semplici aggiunte; dato che Esperide era un epiteto di Afrodite risplendente al
tramonto, personificato in Espero (163). Espera viceversa è una
metamorfosi di Eos (Aurora), che dapprima si trasforma in Emera (Giorno) e poi
in Espera (Sera)(164). Da Eos ed il cacciatore
Cefalo, allotropo del cacciatore Orione secondo Fontenrose et al., vien generata la ‘Stella del Mattino’ (165); altro aspetto di
Afrodite in relazione allo splendore mattutino del pianeta Venere, volto
distinto da parte degli antichi rispetto a quello della sera. Il mito della Mela d’Oro, posta in palio da
Paride per volere di Zeus fra una delle 3 dee elleniche designate a riceverla
(Afrodite, Athena ed Era), riproduce in una diversa prospettiva quasi la
medesima storia. La Mela d’Oro in questo
caso è la Rivelazione Primordiale, che spetta ad una dea sorta durante l’Età
dell’Oro; non ad una rifacentesi all’Età dell’Argento (Atena, sorta di Kali
greca), o addirittura all’Età del Bronzo (Era, corrispettiva della Lakshmi
indiana nonostante le assai diverse prerogative numinose). Afrodite otterrà la Mela d’Oro, siccome
incarnazione dell’Armonia cosmica vigente nella ‘Prima Età’ ciclica. Lo sdoppiamento di Afrodite nelle 3 dee,
comunque, non è diverso da quello di Esperide nelle 3 Esperidi; ossia, Egle ed
Eriteide sono un doppione in qualche modo di Atena ed Era. Oltre a quanto rilevato sul piano temporale
in relazione alle Quattro Età del Grande Eone, seppur l’ultima (quella di
Paride) sia esclusa in apparenza dal mito d’assegnazione, il 3 fa riferimento
sul piano spaziale al Trimundio ed anche qui si esclude il quarto gradino
rappresentato ovviamente dagl’Inferi sotterranei. La triplicità dei numi femminei rimanda
ulteriormente alla triplicità delle fasi lunari (Luna Crescente, Piena e
Calante) raffigurata plasticamente da Artemide Trimorfa (Core, Persefone ed
Ecate) o da Diana Trivia, con esclusione della quarta forma (la Luna Nuova,
cioè Demetra), identificata alla Terra in quanto luogo degl’Inferi demonici (166). Altre triplicità come quelle delle Moire,
delle Gorgoni, delle Graie o delle Muse non fanno che ripetere ad infinitum il medesimo motivo delle
Esperidi (167) applicandolo a particolari settori della vita e del cosmo. Da tale triplicità proviene, come suddetto,
l’Ebdomade planetario in sede macrocosmica ed il suo corrispettivo microcosmico
a livello interiore. Il calendario
lunare di Re Soma colle sue 27
<Spose> costituisce l’ennesima applicazione, in campo kaliyughico
induista, dello stesso concetto. Non si
tratta in fondo che di moltiplicazioni degli aspetti del luminare notturno
concepito a sé stante per le sue principali fasi celesti, i giorni della
settimana e gli asterismi attraversati durante la rivoluzione mensile: 1, 3, 7,
27. Il calendario lunare è sparito dalle
tradizioni elleniche tramandateci dalla cultura classica, ma ha lasciato
traccia nel mito, come ha mostrato a suo tempo il grande Tilak; vedi le
leggende di Orione, Eos ed Artemide da lui opportunamente commentate in un
confronto illuminante con quelle indiane.
Nell’uno e nell’altro caso sono il residuo di ciò che costituiva una
volta l’unità culturale indoeuropea, o per meglio dire la tradizione unica
delle genti iaphetiche. Tornando alla
‘Fatica’ in questione Eracle per la verità non sapeva ove fosse ubicato il
Giardino di Era e si recò presso il Po, attraverso l’Illiria, affinché Nereo
(il profetico nume marino) gl’illustrasse la via da percorrere onde giungere
alla meta. Nel tragitto però incontrò
Cicno, figlio di Ares, col quale egli avrebbe duellato a lungo se Padre Zeus
non avesse separato i contendenti con una folgore (168). Tale duello, come abbiamo già
specificato (169), s’inserisce nella cornice dell’opposizione ai figli di Ares. Giunto al Po, le Naiadi del fiume condussero
il figlio di Zeus da Nereo, che giaceva addormentato; afferratolo perciò colle
braccia, non se lo lasciò sfuggire nonostante le proteiche metamorfosi del
nume, finché Nereo fu costretto a rivelargli la tattica da adottare allo scopo
di procurarsi gli Aurei Pomi. Nereo
consigliò all’Eroe di non coglierli colle sue mani, ma di devolvere il compito
ad Atlante con uno stratagemma. E cosí
fece. Arrivato al Giardino, domandò al
titano la cortesia suggeritagli dal dio del mare, promettendogli di reggere il
Globo del Mondo sulle spalle in sua vece; sennonché Atlante temeva Ladone,
tanto che l’eroe fu costretto ad ucciderlo con una freccia. A questo punto Eracle si pigliò sulle
spalle il Globo e l’altro, contento d’essersene liberato, inviò le figlie a
cogliere i frutti dell’Aureo Melo. Una
volta che che le Esperidi furono tornate dal Giardino colle 3 Mele (170), Atlante gli fece
sapere che avrebbe recato lui stesso i Sacri Pomi ad Euristeo; ma Eracle,
essendo stato avvisato da Nereo di non accettare una proposta del genere, finse
di accettarla domandando tuttavia ad Atlante di reggere di nuovo il Mondo solo
per poco, in maniera da potersi fasciare il capo onde resistere allo
sforzo. Pertanto Atlante cascò nel
tranello, riassumendo il ponderoso carico sulle spalle, dopo aver depositato a
terra i Pomi; in men che non si dica, Eracle raccattò da terra i preziosi
frutti e salutò ironicamento l’ingenuo reggitore del cosmo (171). Le Mele furono alfine portate ad Euristeo, ma
poi restituite alla Regina degli Dei.
Eracle si sentiva stremato dalla sete per la titanica impresa e,
battendo con un piede sul terreno, ne fece scaturire un fiume che avrebbe tolto
la sete agli Argonauti allorquando si sarebbero trovati tremendamente assetati
nel bel mezzo del deserto libico (172). Intanto Era, dolente per
l’uccisione di Ladone lo innalzò fra le stelle e questi divenne l’asterismo del
Serpente (173). Dopodiché Eracle si recò in
Libia ad incontrare una nuova avventura.
Colà in una grotta viveva il Titano Anteo, figlio di Gea, nutrendosi di
carcasse di leone e sfidando alla lotta tutti gli stranieri di passaggio. Ogniqualvolta toccava terra riprendeva una
smisurata forza, vincendo in tal modo ogni agone. I crani delle vittime venivano da lui
conservati per servire da tetto nel tempio eretto dal medesimo in onore di
Poseidone. E Gea era molto orgogliosa di
codesto figlio, piú di quanto non lo fosse di Tifone (174) e di altri. Avendo però Eracle steso al suolo
l’avversario, cominciò ad accorgersi ben presto della fenomenale prerogativa di
quest’ultimo, poiché lo vide rialzarsi da terra rinvigorito in tutte le sue
membra. Poi di nuovo il titano si buttò
a terra, questa volta senza che Eracle lo stendesse, ed allora risultò chiaro
quale fosse l’intento d’Anteo. Lo
sollevò quindi da terra e tenendolo alto colle braccia gli fracassò le costole,
sordo ai gemiti di Gea (175). Seguono due strani
episodi. Uno si svolge in Egitto, dove
Eracle massacra il fantomatico faraone Busiride e tutto il suo seguito sacerdotale,
che voleva renderlo oggetto di sacrificio per allontanare la carestia del Regno
egizio; l’altro è l’incontro con Prometeo sulle cime del Caucaso, in tal caso
l’Eroe svolgendo la parte di liberatore del malcapitato dalle sofferenze
inflittegli da Zeus. Un avoltoio
infatti, figlio di Tifone ed Echidna, gli divorava perennemente il fegato
mentr’egli era incatenato ad una roccia; Eracle con una freccia colpí al cuore
il terribile Avvoltoio ed, infine, la Freccia divenne la Sagitta della costellazione del Sagittario (176). La vicenda di Prometeo testimonia che le 12
Imprese posseggono valore zodiacale e che il punto di vista preso in
considerazione a tal proposito è quello siderale, non tropicale. Visto che la storia appena narrata non è che
un rimando all’Era del Leone, con Eracle ad incarnare il Segno omonimo e
l’Avvoltoio a fungere da Aquila, paranatéllon
dell’Aquario (177). Se Ladone è stato innalzato in
cielo a fungere da Serpente e la <Freccia> di Eracle da Sagittario, a
quale Segno potrà allora corrispondere quest’impresa in toto? Non è facile ivi
capire quale sia l’elemento essenziale da mettere in rilievo, a differenza che
nelle precedenti Fatiche. Soltanto lo
schema da noi introdotto di terne precessionali retrograde – l’intero schema è
tale, nonostante lo spostamento enigmatico delle terne, ad eccezione della
prima – ci aiuta a comprendere che all’Aquario (l’Aquila di Gerione) può
seguire unicamente il Capricorno.
Qualcuno obietterà che nessun simbolo all’interno di quest’impresa
spinge in tale direzione. Per quanto ciò
in apparenza sia vero, certamente i Segni del Serpente (Ladone) e del
Sagittario (Freccia) si annullano in sostanza da soli; né può essere
l’Avvoltoio a caratterizzarla, dato che l’Aquila (cioè l’Aquario) in questo
caso sarebbe un doppione inammissibile della Decima Fatica. Ragion per cui l’unica spiegazione da dare è
il reperimento d’un tema che possa fungere da rimando al Segno tifonico del
Capricorno e proprio in questa paternità ladoniana troviamo il bandolo della
matassa. Essendo Ladone il figlio di
Tifone, tramite l’asse padre-figlio risulterà ovvio il collegamento tra il
Segno appena nominato e la vicenda narrata nell’Undicesima Fatica. D’altra parte il Giardino delle Esperidi è il
tratto esenziale di questa, non le imprese minori associategli
dall’affabulazione poetica tarda. E a
guardia del Giardino c’è proprio Ladone.
Tenendo conto dell’equazione Albero = Serpente (178), che di solito si
fa sul piano cosmologico, è palese come
questa equazione possa risolvere definitivamente i dubbi interpretativi;
dato che il Capricorno si richiama al Nord ed, in senso traslato, pure alla
Terra Iperborea. Ora è noto come la
definizione di Avallon o ‘Paese delle
Mele’ si possa applicare benissimo sia ad essa, sia all’Eden
giudaico-cristiano, sia del pari al Giardino delle Esperidi.
La Dodicesima Fatica, concernente
la cattura di Cerbero al Tartaro, non è comprensibile qualora non si tenga a
mente che allorquando la III Decade del Leone signoreggiava il Punto Vernale
parimenti la III dello Scorpione presiedeva al Solstizio Estivo; cosicché la I
del Sagittario, susseguente ad essa nel periodo annuale, dominava la Discesa
agl’Inferi a partire dalla cuspide finale del precedente Segno. Si deve naturalmente considerare che per
evenienze cicliche nella seconda metà dell’Età del Bronzo, in termini
paletnologici durante il Mesolitico, il ‘Trionfo della Luce’ zodiacal-annuale
era situato in Primavera e non in Estate.
Anche la comparazione logica fra il Cacciatore-arciere ed il Cane (179),
in riferimento al Sagittario e cioè allo Zodiaco Solare, comprova quanto da noi
ipotizzato; dal momento che il medesimo abbinamento simbolico sarà posto piú
tardi, durante il Neolitico, nell’ambito del calendario lunare. Ovverosia a contrassegno della Stella Sirio,
insomma l’asterismo detto Canis Maior (180).
I commentatori si sono sbizzarriti però nel tentar di interpretare
quest’impresa come una prova terminale e pertanto piú pericolosa delle altre. Tale logica non porta però a nessun frutto,
poiché se dovessimo partire dalla Prima Fatica – la vittoria sul Leone Nemeo (rimando al Leone
Celeste) e intendere quella come la I Casa in senso oroscopico non arriveremmo
ad alcun risultato utile; giacché la Dodicesima Fatica dovrebbe essere, di
conseguenza, la caccia agli Uccelli Stinfalici (equivalente della Vergine, come
abbiamo visto sopra). No, abbiamo già
spiegato che la XII Fatica equivale alla IX Casa dello Zodiaco Tropicale
(ovvero al Sagittario)(181),
presiedente non a caso all’iniziazione.
Difatti, prima di recarsi all’Ade, Eracle cerca di farsi iniziare ai
Misteri Eleusini. Essendo cotali Misteri
connessi all’Età del Ferro, che è l’Età della ‘Gran Madre’, è chiaro che
siffatto tentativo non poteva far parte delle Fatiche originarie. Il rimando effettivo, come prova lo Zodiaco
Siderale, è alla seconda metà dell’Età del Bronzo. Sia come sia, l’Eroe discese agl’Inferi
brandendo la spada. Lo accolse Caronte
colla vecchia barca fatta di cortecce arboree cucite assieme. Per codesto traghettamento il lugubre
nocchierò finirà per esser punito da Ade, restando incatenato un anno intero (182).
Ad accoglierlo dall’altra parte del fiume paludoso stava Cerbero
Tricipite, uno dei fratelli dell’Idra di Lerna.
Il mostruoso cane era solito scodinzolare allorquando si presentava
un’anima da accompagnare al Re degl’Inferi e divorava le altre anime che alla
sua vista provavano a fuggire. Dinanzi
al Figlio di Zeus tuttavia, spaventato, andò a rifugiarsi sotto il trono di
Ade. Anche le anime fuggirono atterrite
di fronte ad Eracle. L’unico a rimaner
fermo senza provar paura fu Meleagro, morto da poco; perciò Eracle tese l’arco
contro di lui, ma questi spiegò all’Eroe che le anime non erano vulnerabili in
alcun modo. E, narratagli la propria
triste storia, lo convinse indirettamente a sposare sua sorella al ritorno nel
mondo umano. Dopodiché Eracle incontrò
la Testa della Medusa ed ancora una volta sguainò la spada. La ripose presto comunque, avendogli Meleagro
spiegato che era soltanto un’ombra ovvero un’immagine mentale, quindi non
poteva procurare alcun male. Proseguendo
il suo cammino nel Mondo Sotterraneo, Eracle ebbe altri incontri che non stiamo
a ricordare, finché arrivò presso il Re e la Regina degl’Inferi. Quando li vide il Figlio di Zeus scagliò una
pietra contro di loro, facendo scappare Cerbero da un lato e Ade
dall’altro. Solamente Persefone non si
scompose di fronte al fratello, rimanendo ferma faccia a faccia con questi (183).
Riavutosi dallo spavento, Ade gli promise che avrebbe potuto portare via
Cerbero unicamente se fosse stato capace di catturarlo senza usare l’arma che
aveva portato seco. Quindi Eracle andò a
catturarlo all’ingresso degl’Inferi, vicino al fiume Acheronte, dove soleva
stare accucciato in attesa di nuove anime.
Pigliò il Cane per la gola e
l’animale tentò allora di morderlo colla Testa Sepentina situata sulla coda, ma
non riuscendovi desistette e fu costretto a lasciarsi incatenare. In tal modo il Cane fu condotto dall’Eroe
fuori dal Regno Invisibile. Prima di
uscire tuttavia il Prode aveva visto presso la Porta dell’Ade due uomini ancor
vivi, seppur paralizzati: Teseo e Piritoo, condannati a sedere su una pietra. Eracle rianimò il primo, ma non riuscí a far la stessa cosa col secondo a causa d’un
terremoto provocato dai sovrani del Mondo Infero. In compagnia di Teseo, l’Eroe ritrovò alfine
la luce a Trezene, presso Atene. Con
Cerbero incatenato prese dunque la via per Tirinto e Micene (184).
Ci è noto da un dipinto vascolare (185)
che non appena Euristeo scorse il mostro tricipite, per la paura, andò a
nascondersi in un píthos.
m) La figura del Minotauro nata dall’amplesso di
Pasife
con un Toro Marino, ipostasi di Poseidone
Per quanto concerne il Minotauro
dobbiamo alfine rammentare che cotale mostro nasce mitologicamente
dall’accoppiamento inumano tra Pasife, moglie di Minosse, ed il Toro regalato
al marito di costei da Poseidone.
Codesto iddio, a causa d’un torto ricevuto da parte di Minosse, aveva
deciso di vendicarsi e a tal fine aveva inviato a costui in omaggio un toro,
inducendo poi moralmente la moglie dello sventurato a nutrire un’insana ed
innaturale passione per la bestia; sino a spingere la dea ad uno sfrenato
congiungimento carnale con questa, cosa che aveva finito per fruttarle una
gravidanza indesiderata. Da questo
numinoso amplesso era nato, insomma, il terribile Minotauro. A ben vedere abbiamo a che fare ovviamente
con una delle numerose leggende illustranti sul piano simbolico, seppur con
immagini crude d’origine neolitica il noto motivo ierogamico dell’Unione fra il
Cielo (sotto forma dell’animale zodiacale effigiato dalla costellazione che
segnava, all’inizio della mitica Età del Ferro, il Punto Gamma) e la Terra
(descritta nei panni non meno consueti d’una femmina istintiva e passionale,
tesa incessantemente a procreare)(186). Nell’evento ierogamico ora descritto ha una
parte ispiratrice, secondo una determinata variante mitica, anche la stessa
Afrodite. Per venire a Pasife ci pare il
caso di sottolineare che la figlia di costei, l’altrettanto rinomata Arianna
(gr. Ἀριάδνη)(187), paredra del dio Dioniso (188)
ed amante dell’eroe Teseo (189),
dai caratteri chiaramente olimpici, costituisce un allotipo della madre (190).
Anche Anfitrite, la panellenica
‘Signora del mare’ –spiccatamente dell’Egeo o, piú estesamente, del
Mediterraneo – e consorte di Poseidone, è da reputare senza dubbio un altro
aspetto di Pasife (191). Donde ricaviamo indirettamente che Poseidone
possa risultare una figura equivalente al marito di quest’ultima, Minosse. Ed il posto stesso ove aveva sede il celebre
Labirinto (figurazione del Divenire senza meta finale), appunto Cnosso, ci
conferma una volta di piú l’importanza di
Creta quale antico centro culturale e cultuale di tutto l’Egeo. Durante l’Età del Ferro riscontriamo in
Europa e nel Vicino Oriente una preminenza della dea lunare sul dio solare,
esattamente com’è avvenuto nel Medio Oriente durante il Kaliyuga. Alla luce di ciò
si comprende facilmente come il Graves abbia potuto parlare dell’allestimento
in Creta di un’unione rituale tra un re solare (sorta di re-sacro), quale
incarnazione di Minosse o del leggendario Toro di Poseidone sorto dal mare, ed una
sacerdotessa lunare in luogo di Pasife (192). L’ostilità dei nuovi venuti – gli Achei, si
suppone – verso le genti autoctone, nell’invasione a partire dal continente
verificatasi attorno alla metà del II mill. a.C., è tardivamente palesata dai
tentativi antropomorfizzanti come quello di Plutarco (193) di trasformare Tauro in un comandante delle truppe di
Minosse. Ma è piú coerente ritenere che
vi fossero antecedentemente a Creta dei cerimoniali religiosi a carattere
festivo imperniati sul coito con un vero e proprio bovide, tutt’al piú
personificato in determinate circostanze – specialmente in seguito, crediamo,
all’incivilirsi dei costumi – da una figura regale taurinamente mascherata (194).
n) Un’analoga unione fra una Devī triradiata ed un
Toro, prospettata in un antico sigillo vallindo
Indipendentemente dal
presente scritto, abbiamo altrove (195)
cercato di ricostruire un analogo mito, senza purtoppo alcuna fonte letteraria
a farci da tramite; ma, semplicemente, prendendo spunto dalle immagini
riportate in alcuni antichi sigilli della Valle dell’Indo. Però, a distanza di tempo, abbiamo adesso la
conferma che trattavasi in quel caso d’un tema assolutamente similare. Certo è da presumere che una comune leggenda,
databile grosso modo al Neolitico (fenomeno che in India ricorre un poco piú
tardi rispetto all’Ellade), sia giunta in epoca storica un po’ riadattata; o
addirittura alterata nella forma se non nel contenuto, secondo il gusto e lo
scrupolo morale degli scrittori dei millenni successivi. Non è possibile ricomporre il racconto per
intero, stando alla sola illustrazione che di esso si può rinvenire nella
glittica della Civiltà dell’Indo.
Tuttavia, è giusto riconoscere che il mitema egeo della ierogamia tra il
toro e la dea corrisponde perfettamente alla rappresentazione reperibile in
un’impronta di sigillo proveniente da Chanhu
Daro di una devī triradiata (tricorne) coperta da tergo da
un bovide, probabibilmente un
bufalo. Vi sono inoltre delle ulteriori
composizioni figurative che urtano la sensibilità contemporanea, ad es. quella che sembra prospettare un coito
rituale con un antilocapride (196),
quale variante dell’animale taurino (197);
sicuramente con sottile allusione – va precisato – all’asterismo di Orione,
quale parallelo in campo lunare della costellazione del Toro nello Zodiaco
Solare. Sempre nell’articolo menzionato (198) abbiamo da parte nostra rilevato
che le scene sacrali, dianzi delineate, presentano forme assolutamente analoghe
ad altre ritratte nell’arte antica della Grecia, del Vicino e del Medio Oriente
(Mesopotamia, Persia) o dell’Egitto (199);
e pure a certe altre del Medioevo europeo od indiano (vedi nel secondo caso i
templi tantrici di Khajurāho), ove
troviamo una figura femminile appassionatamente abbracciata ad un Leone (200).
È da notare, al riguardo, che il conflitto di un dio o di un semidio con
un animale simbolico è equiparabile esotericamente all’abbraccio – soltanto in
apparenza bestiale, ma invero piuttosto emblematico – di una dea col medesimo
essere. La differenza fra le due
immagini indicate consiste, evidentemente, nel fatto che in un caso (il primo)
si ha a che fare con una via spirituale di caratttere virile; insomma, di tipo śaiva.
Mentre, nell’altro (il secondo), ci troviamo di fronte ad una via
realizzativa di carattere femmineo ossia ad un motivo śakta.
Nonostante non si abbiano in Grecia termini equipollenti per denotare le
2 diverse vie di realizzazione spirituale ora nominate, qualora non si voglia
troppo sottilizzare facendo insensate distinzioni accademiche, è lecito
paragonare la via śaiva a
quella apollinea e la via śakta
a quella demetrica. Ciò per il
semplice fatto che il mondo mediterraneo è sorto da una comune civiltà pre-aria
(201), la quale ha trasmesso per
intero alla civiltà aria susseguente il proprio retaggio culturale. Si spiega cosí l’insorgenza di certi culti
sincretici perfettamente ortodossi in epoca ellenistica, dopo l’invasione in
Oriente di Alessandro Magno; vedi, a titolo esemplificatvo, quello che
giustamente equiparava Herakles a Kṛṣṇa (202). Dobbiamo alfine
precisare che la Corona Triradiata visibilmente ritratta sul capo della Devī degli antichi sigilli della Valle dell’Indo può essere
intesa come un prototipo del Triśūla,
il quale apparirà difatti in mano alla dea nell’iconografia induista
medievale.
o)
Affinità tra Pallade Atena, Pasife ed Amaltea, siccome
triplice versione ellenica della devī triradiata
vallinda
Curiosamente, nella storia
parallela di Pasife (203) non
abbiamo a che fare con alcun Tridente in apparenza; benché tale
personaggio femminile vada
indiscutibilmente collegato a quello di Pallade Atena, a nostro giudizio la
versione ellenica della dea triradiata indiana.
Pallás (204) è nota per essere a
sua volta una figura allegata in qualche maniera ad Amaltheía, la capra-ninfa; sicché ne ricaveremo che anche Pasife
dovrebbe, di necessità, avere alcunché in comune con questa titanessa (205).
Ora, siccome la consorte di
Minosse è talora diversamente descritta quale sposa di Poseidone, il dio
tridentato che può pigliar talora forma taurina, è da supporre logicamente che
pure la paredra di cotale dio disponesse di caratteri iconografici piuttosto
affini a quelli del proprio paredro. A
corroborare la nostra supposizione scopriamo, difatti, che la medesima divinità
veniva ritratta ritualmente in forma alternativa vaccina (206); e dunque ci pare lecito concepirla, in qualche modo,
cornuta.
p) Omologie tra il Minotauro, il Toro di Pasife
e quello di Europa: equivalenze con Dioniso
Correttamente Graves (207) propone un’identificazione fra il
Toro di Minosse, ovvero il Bianco Toro ipostasi di Poseidone inviatogli dal dio
marino, e Tauro; il generale di Minosse sconfitto da Teseo, di cui abbiamo già
trattato in precedenza. Nonché fra il
suddetto Tauro (che detiene pure lui un’ipostasi taurina o semitaurina),
Asterio (il Toro Celeste, rappresentato teriomorficamente secondo Kerényi come
‘Re delle Stelle, oltreché umanamente come fondatore della dinastia minoica in
qualità di gigantesco consorte cretese di Europa)(208) e il Minotauro (209). Ineccepibile è parimenti l’accostamento, da
parte dell’autore d’origine irlandese (210),
del Toro di Minosse (o del Minotauro, concependo coerentemente con ciò che
abbiamo appena postulato, una sostanziale equivalenza tra il divino padre
taurino e l’illecito figlio semitaurino) al dio-toro Dioniso (211); quindi, aggiungasi da parte
nostra, non è da ritenere meno valida un’equiparazione fra lo stesso Minosse –
ché altri non è se non un’ulteriore facies
di Dioniso, di cui quegli è il prototipo umano in forma regale – e Deucalione (212), fratello di Arianna. Pur d’intendere però tali accostamenti in
senso principiale, non ciclico; ché altrimenti le differenze apparirebbero
palesi, nessuno dei personaggi citati essendo un vero doppione dell’altro in
tal senso. Solamente Dioniso, Deucalione
e il Minotauro sarebbero comunque da identificare in questa logica, in quanto
figure tipicamente legate alla Quarta Epoca; non Asterio, Minosse e
Poseidone. Deucalione infatti è una
seconda prole del Re di Creta, nel ruolo specifico di capostipite della prima
generazione post-diluviana all’interno della tradizione ellenica (213), la qual cosa può dirsi per certi
versi pure del Minotauro. Fatta questa
particolare distinzione, va rilevato che – come insegna appunto il Graves (vide supra) – nel mito Astérios è un epiteto pure del Minotauro
oltreché del consorte umano o taurino di Europa (214). Si potrà osservare
che il paredro taurino di Europa è in realtà Zeus, ma codesto Zeus ha una
funzione pre-uranica presso i Cretesi, corrispondendo precisamente all’Indra dei Paleo-dravidi; il quale, come
abbiamo visto nel Cap.I, s’era accaparrato durante la Terza Epoca – stando al Mahābhārata
– non solo la supremazia divina ma anche la primazia. Cioè, il posto spettante in principio a Brahmā, insomma la signoria sul I Mahāyuga; antecedente persino al ruolo occupato da Varuṇa, ovvero la signoria sul II Mahāyuga (215). Nel
contesto cretese è Asterio a svolgere la parte di Varuṇa,
tant’è che genera i 3 tre titani solari, non meno di quanto Varuṇa abbia fatto con Sūrya.
Riguardo Taúros rammentiamo, inoltre,
che siffatto personaggio è già stato da noi avvicinato a Tálos (216); il bronzeo
servo taurocefalo costruito dal demiurgo Dedalo (od Efesto, in una diversa
versione della storia) e denominato in alternativa “Tantalo”, cioè ‘Zoppicante’
(217). Talo era stato offerto da Zeus a Minosse,
affinché custodisse l’isola sorvegliando ogni accesso al mare. La leggenda che voleva il nume recarsi 3
volte al dí (ed all’anno) attorno al’isola per custodirla non è che una visione
poeticamente figurativa del passaggio triplice del Sole attraverso le 3
principali stazioni, giornaliere ed annuali, del proprio cammino astrale. Secondo Esichio, Τάλος era un dio solare; sicché le valenze prettamente titaniche, in
parte solari ed in parte saturnine, le quali si riscontrano nell’ambito della
mitologia peculiare che lo concerne fanno di lui un doppione di
Apollo-Crono. Ciò che proverebbe
altrimenti, se ve ne fosse ulteriore bisogno, l’effettiva rilevanza del culto
di Apollo nell’isola di Creta. Di
piú. Essendo Talo nient’altro che
l’antico dio solare dei tempi pre-olimpici, ecco che Minosse al di là della
propria specificità funzionale, è invero tutt’uno con lui; o, viceversa, se
intendiamo rispettare formalmente la gerarchia, che sottomette il servo al
proprio signore. D’altronde, Minosse
originariamente è probabile fungesse da controparte umana di quel che abbiamo
addietro considerato la prefigurazione cretese di Apollo Delfinio (218); mentre Talo non è che un
allonimo di Calo, cioè di Kar.
q) Identità sostanziale fra Europa, Pasife e
Arianna
(tutte
e tre triradiate ed unicorni), raffigurazioni molteplici della dea
luniterrestre dalla triplice corona
Si noti, ancora, che tanto il
Toro di Europa (Asterio) quanto quello di Pasife sono nel contempo un Toro
Bianco ed un Toro Marino. Del resto,
come si desume facilmente da un’elementare analisi delle loro rispettive
vicende mitiche, Europa e Pasife sono strettamente apparentate esattamente al
pari di Pasife ed Arianna; queste ultime, ribadiamo, per via della perfetta
correlazione tra il Toro quale aspetto zoomorfico di Dioniso ed il Toro di
Minosse inviato al Re di Creta da parte di Poseidone. Relativamente ad Europa e ad Arianna, va
precisato che la loro identità leggendaria con Pasife si spinge a tal punto, da
fare di esse tutte delle dee triradiate (o tricorni) non meno della regale
consorte. È peraltro interessante constatare come siffata tipologia
tricheromorfica – o tricheratomorfica, che dir si voglia – delle tre forme
allotropiche della regina cretese si celi dietro emblemi in apparenza
differenziati, ma invero assolutamente equivalenti. Alludiamo con ciò, da un lato, alla Cornucopia di cui è adornata di solito
Europa, l’amante di Zeus nonché sposa di Asterio; e, dall’altro, alla Corona abbandonata
da Teseo a Dia e donata da Dioniso ad Arianna.
Siffatti contrassegni coincidono sul piano emblematico colla triplice
cuspide posta sul capo di Pallade Atena (figura corrispettiva della dea
triradiata vallinda), che abbiamo visto al §o
equivalere da un lato ad Amaltea e dall’altro a Pasife.
Per affrontare l’argomento è
d’uopo, però, rifarci alle armi simboliche che hanno ricevuto in dotazione i
tre componenti del Triregnum divino
ellenico; vale a dire il Fulmine Tricuspidato (Zeus), lo Scettro Tripartito
(Ade) ed il Tridente (Poseidone).
Infatti, essendo il Toro di Europa una rappresentazione teriomorfica di
Zeus, quello di Pasife un alter-ego di Poseidone ed il Toro di Arianna una
veste zoomorfica di Dioniso (da Eraclito correttamente omologato ad Ade)(219), ne dobbiamo dedurre in
definitiva che la triplice manifestazione taurina cretese prefiguri i tre
principali dèi del pantheon olimpico greco.
La nostra ipotesi al riguardo è che ciascuno di costoro, simboleggiando un
dato regno cosmico, possedesse nella sua iconografia originaria (sicuramente
risalente almeno al Neolitico) un copricapo tricorne o triradiato quale
conveniente contrassegno di regalità; e che poscia esso si sia tramutato in una
corona tripuntata, com’è rilevabile dalle tarde raffigurazioni dei personaggi
divini ivi menzionati.
Orbene, dal momento che ogni dea
incarna a nostro giudizio lo sviluppo iconografico delle potenzialità femminili
latenti nella figura d’una determinata divinità di per sé caratterizzata da una
natura primariamente androginica, se ne
ricaverà che le tre dee facenti da paredre alla succitata terna divina maschile
debbano aver avuto nella loro piú vestusta effigie tratti tipologici analoghi a
quelli dei loro corrispettivi compagni celesti.
In altre parole, siamo convinti che gli attributi di Europa e di Arianna
ai quali s’è fatta poco fa allusione testimonino la validità della tesi sopra
enunciata. Donde si può trarre spunto
per sottolineare come nell’Egeo una prisca mitologia marino-oceanica, di
carattere evidentemente piscatorio e correlata peculiarmente alle figure di
Poseidone e di Minosse nel ruolo ad entrambi attinente di signore del
Mediteranneo, abbia finito per essere scavalcato al principio della mitica Età
Ferrea da una piú recente simbologia di tipo agrario-pastorale concernente il
culto del toro quale incarnazione teriomorfica d’un signore dei campi e delle
mandrie. Ma tutto questo necessita al
momento di essere dimostrato.
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