martedì 27 marzo 2018

Il Re Pescatore e il Pesce d'Oro, Note al Capitolo I (1-304)






Note al Cap.I


1)         Ādip., lxiii. 69-85.  Facciamo presente fin d’ora che il testo del poema cui abbiamo grandemente attinto e che avevamo studiato attentamente ai tempi della prima tesi di laurea è The Mahabharata, nella traduzione inglese di K.M. Ganguli, in 12 voll. pubblicati a N.Delhi nel 1970 dalla Munshiram M.; per l’analisi di singole frasi in lingua sanscrita ci siamo rifatti invece a The Mahābhāratam, col comment. di Nīlkantha, pubblicato in 6 voll. a N.Delhi nel 1979 (II ed.) dalla Oriental Books R.C.  Abbiamo avuto peraltro a disposizione, onestamente senza doverla mai consultare (ma un’occhiata sarebbe meglio dargliela da parte di chi conosce bene il sanscrito, a conferma delle nostre supposizioni, specialmente per i passi decisivi quali la questione del Re Pescatore o delI’Isola Bianca), l’edizione critica del poema in 19 voll.; tre dei quali in 2 tomi, piú il supplemento dello Harivamśa e le 2 concernenti Appendici, per un totale di 24 voll.  Quando avevamo iniziato questo scritto, nel 1993, eravamo freschi di studi avendo frequentato ‘Indologia’ all’Univ. di Torino col prof. Botto per docente e non avevamo difficoltà a consultare un testo sanscrito; ma cogli anni e l’allontanamento forzato dagli studi accademici, a causa d’un maledetto malanno che ci ha colpiti nel ’96, le nostre certezze in campo linguistico si sono alquanto attenuate.  Chissà che in futuro qualche sanscritista non si prenda la briga di offrirci la traduzione dell’edizione critica in  una lingua occidentale, sarebbe un gran giorno!  Forse qualcuno è già all’opera, a nostra insaputa, ma ci vorranno parecchi anni prima che essa eventualmente possa giungere a compimento.  Questo tipo di testi d’altra parte non ha un valore sacro, come tutte le edizioni critiche ha esclusivamente un significato per gli studi approfonditi sulla materia.   
2)         Il nome di Parāśara, già conosciuto nei Veda (vii. 18, 21), sembra designare un doppione di Ka Dvaipāyana (lett. “Nato-nell’Isola”); dato che gli è attribuita miticamente la compilazione del Viu Purāa (cfr. il comm. del Wilson – riveduto dal Singh – in The Viu Purāa- Nag, Delhi 1980, pp. 6-7, n.12), cosí come al figlio.  Vide n.5.
3)         Ādip., lxiii. 86-8 e cv. 14.
4)         Sui Purāa come «Quinto Veda» cfr. Ch.U.- vii. 1, 2 e G.B.- i. 10.  I due passi sono segnalati da O.Botto, Origini e sviluppo dell’epica indiana- Acc. dei Lincei, Roma 1970, p.659, n.15.
5)         Mt.P.- liii. 9.  Il passo menziona, inoltre, il Dvāparayuga quale epoca di promulgazione dell’unico Purāa originario.  Ciò implica che esistesse sul suolo del Deccan una lingua indiana perfettamente formata fin dal Mesolitico e che la leggenda di Dvārakā, mitica patria insulare di Ka, non sia puramente una leggenda ad uso dei devoti.  Come d’altronde i recenti studi nei primi anni di questo nuovo secolo da parte del vecchio archeologo Rao intendono dimostrare, seppur contestati dai giovani e presuntuosi archeologi indigeni occidentalizzati.
6)         R.Guénon, Il quinto Vêda- R.S.T. (gen.-mar. ’66, N°18), p.31; ed.or. in I.T. (ago-set. ’37).  L’art. è raccolto nel libro postumo – trad. con imprecisione dall’Anzaldi – Studi sull’induismo- M.Basaia, Roma 1983, p.85 (ed.or. Études sur l’Hindouisme- Ed.Traditionnelles [V. & B.], Parigi 1966, p.91).
7)         Ogni attribuzione mitica indica in realtà un’appartenenza ciclica sotto l’aspetto dell’elaborazione ideale.  Nel caso di Vyāsa il riferimento è logicamente ancora al Dvāparayuga, insomma pressappoco al Mesolitico degli archeologi, come gli ultimi ritrovamenti subacquei – segnalati in un efficace documentario televisivo dall’ormai famoso G.Hancock – hanno del resto confermato.  [Per una perfetta comprensione di quanto affermiamo vedi piú avanti il ruolo di K.Dvaipāyana quale doppione omonimo, in forma di compositore epico, del celebre auriga di Arjuna.]
8)         Ādip., cv. 6-13.
9)         Ibid. come alla 1, vv. 1-68.
10)        Se identificassimo Vasu a Vāsudeva,  il patronimico krishnaita, anziché – come sarebbe piú corretto – a Vasudeva, l’equipollenza risulterebbe valida, altrimenti no.  Anche su tal problema torneremo piú innanzi con maggiori dati a disposizione per l’adeguata identificazione del personaggio.
11)        Ib., lx. 1-2.
12)        Ib.
13)        Xcv. 48.
14)        Tale soprannome ricorda quello di Matsyaderi, la  ‘Fanciulla-pesce-liberata dall’Orma di Hanumat’ – tema che dovremo riprendere in seguito.
15)        Matsyakālī in un’altra versione del racconto (Ādip.- cclxxviii. 28-9) compare quale figlia di Girikā, anziché di Adrikā.
16)        Ibid. come alla n.9, vs. 82.
17)        Cfr. M.Vettam, Purāic Encyclopaedia- Motilal B., Delhi 1985, s.v. ŚAKTI I, §2.i, p.668/ col.a.
18)        D.O’Flaherty, Śiva: The Erotic-Ascetic- Oxford U., Oxford-N.York-Toronto-Melbourne 1981, C.IV, p.113 (n.14 inc.); I ed. (con altro titolo), Oxford U., Londra-N.York 1973.  Nel contesto specifico tutti i tre membri della Trimūrti  commettono incesto, ma l’autrice forse non s’è resa conto del ruolo colà rappresentato da Parāśara.
19)        Vide nn. 2 e 5.
20)        L’identità di Parāśara con Visnu spiega le ragioni della filiazione simbolica del primo da Śaktideva, a propria volta disceso da Vaśistha ed    Arundhatī; dato che il padre di Parāśara ossia ...Śiva appartiene alla ‘Seconda Stirpe’ dei numi rispetto al nonno, vale a dire Brahmā...  Sicché   Parāśara, alias Viu, rappresenta necessariamente nella sua effigie la ‘Terza Stirpe’ numinosa.  Cfr. per questa triplice successione divina il Mt.P.- cliv. 351-3.
21)        Vide  Mhbh., Śāntip.- cccxxxv. 17-22.
22)       Nella cultura greco-latina non esiste purtroppo una leggenda cosmografica analoga, quella relativa all’Isola di Thule non equivalendo sul piano cronologico al mito dell’Età dell’Oro, diversamente da quel che si è spesso immaginato da parte di autori vari.  Cfr. ad es. L.G. De Anna, Thule. Le fonti e le tradizioni- Il Cerchio, Rimini 1998, sebbene lo studioso si mostri incerto se attribuire il luogo all’Iperboride od al Settentrione.  L’identificazione invero non è del tutto errata.  Stanno la letteratura, l’arte ed il folclore a dimostrarlo.  Diciamo che è intervenuta ad un certo punto una confusione o meglio una sovrapposizione fra i due miti (delI’Isola Bianca e della Terra degli Eroi), testimoniata parallelamente dalla convergenza nella landa britannica della leggenda dell’Albion (il termine è connesso al lat. albus = ‘bianco’) con quella dell’Avallon; insomma, della ‘Terra Bianca’ colla ‘Terra delle Mele’.  Quest’ultima è associabile al ‘Giardino delle Esperidi’ e, quindi, al Vespero od Occidente che dir si voglia.  Trovandosi sul lato del tramonto era senza dubbio altra cosa in origine rispetto alla prima, prettamente artica; ma l’identificazione successiva ha spazzato via pian piano i 40.880 anni c. di separazione temporale fra l’una e l’altra.  Ciò non è avvenuto solamente in ambiente greco-latino o celtico, si badi bene; si rinviene infatti un pari errore di prospettiva pure in Iran (vedi l’identificazione illogica fra Pairidaēza ed Airyanəm Vaēǰah) e in India, ove il posto della ‘Terra-nascosta’ (Ilā-vta) è stato talora preso dal ‘Nordico-paese’ (Uttarā-kuru).  Si noti che il primo composto è formato da due termini agglutinanti, mentre il secondo è dato da un nome preceduto da un attributo.  Circa la prima terra, occorrerebbe chiedersi: nascosta da che, dal mare o dal ghiaccio?  Un vero enigma cosmografico.  La storia di Manu opta però, chiaramente, per la prima soluzione.  Il che significa che era già in partenza un continente semighiacciato, lo Śvetadvīpa equivalendo all’Albion, di poi sommerso dal mare in un evento diluviale.  La seconda terra invece, che gl’Iranici hanno chiamato Airyanəm Vaēǰah, è stata abbandonata a sentir costoro per un cambiamento di clima.  Il scr. Ār-y-a, ir. Air-y-a, rimanda d’altronde a giudizio di Guénon e di molti altri al lat. ar-o (‘arare’), gr. ἀρ-ό-ω; il che esclude che gli Ari abitassero in un paese di per sé semighiacciato, ma semmai in uno al principio verdeggiante durante la buona stagione, seppur alfine travolto da lunghi rigidi inverni.  Evidentemente per un cambiamento di clima, dovuto al variare dell’asse polare e magari anche all’influenza di determinate correnti oceaniche.  Quale terra possa rispondere a tali requisiti non è facile da stabilire, ma secondo le indicazioni cicliche dovrebbe trattarsi d’una terra nordamericana, non nordeuropea come in genere si crede per confusione fra l’ultima e la penultima terra di passaggio. Si noterà altresí come l’Eden biblico, benché per certi tratti sia da appaiare al Paradeśa o Pairidaēza  (‘Estremo-distretto’) indo-iranico, per altri s’avvicini al termine Iran, vale a dire la ‘Terra degli Ari’.  Per la prima identificazione si consideri peculiarmente il mito biblico di Eva tratta dalla costola di Adamo, cosa che rammenta da presso quello analogo vedico (x. 86, 23) della figlia-sposa dell’incestuoso Manu, Parśu significando appunto ‘Costola’; la seconda, risalente a  C.Dupuis,  fa derivare invece il nome del luogo ove la vicenda mitica si svolge da ‘Eren’ per uno scambio consonantico fra la Resh e la Daleth (lettere alfabetiche che in ebraico si scrivono quasi uguali graficamente e potevano quindi essere trasmutate per errore dai copisti di manoscritti l’una nell’altra).  Anche l’anatema del frutto proibito, guardacaso la ‘Mela’, detiene una doppia valenza; da un lato si ricollega alla Gnosi Primeva, dall’altro alla gaelica ‘Terra delle Mele’.  L’intera questione è inoltre complicata dal fatto che nella seconda metà del V Grande Anno (Mahāyuga) il centro tradizionale di cui favoleggiano le varie culture s’è spostato direzionalmente da una posizione nordoccidentale ad una strettamente nordica (ossia dall’America all’Europa), secondo il senso solare che è proprio di tutto il Grande Eone (Manvantara).  Ciò spiega perché mai nella mitologia celtica si allluda all’Avallon come ad una terra nordico-occidentale od, alternativamente, nordico-europea (G.Acerbi, Le magie e gl’incantesimi di Merlino e Morgana nell’ambito del folclore eurasiatico- Viator, A.VII, Rovereto 2003, p.264, n.57).  In tal caso il passaggio considerato non è dall’Albion all’Avallon, bensí dall’Avallon alla Britannia (il secondo Avallon in certo senso, o se si vuole perfino il terzo, identificando il primo all’Albion…), le cui attribuzioni dell’un epiteto all’altra terra provano sia stata trasformata in un dato momento – presumiamo all’inizio della mitica Età del Ferro – in un nuovo centro tradizionale.  Visto che, come ci tramandano gli antichi, i Druidi della Gallia solevano inviare i giovani sacerdoti in Britannia proprio per ricevere un’adeguata formazione spirituale.
23)        G.Acerbi, Introduzione al Ciclo Avatarico. Da Matsya a Kalki – He- liodromos N.S. (Pri. 2000-Pri. ‘02), NN. 16-7, Catania 2000-2, pp. 15-24 e 15-24 sgg.
24)        Stirpi divine ed umane, Caste e Razze, Ecumeni e corrispondenti Temperamenti sono tutti argomenti correlati a quello piú generale dei Grandi Elementi, per il quale rimandiamo ad un nostro scritto attualmente ancora in fase d’elaborazione: La concezione delle Caste nel mondo indoeuropeo; che avremmo dovuto pubblicare quasi un trentennio fa grazie al patrocinio del compianto dott. Del Monte, presso la Sear.  Comunque, ne è già stato pubblicato uno stralcio sotto forma di art. per la Riv.Convivium.  Vide n.125.
25)        La leggendaria Età dell’Oro è denominata in India anche Satyayuga, lett. ‘Età della Verità’ (Satya).  Si noterà l’omofonia del termine col nome della figlia adottiva della figura primigenia del ‘Re Pescatore’, appunto Satyā.  Codesto personaggio maschile dell’epica induista ha qualcosa in comune, peraltro, coll’omonimo personaggio dell’epica celto-cristiana; che non a caso costituisce una riattivazione in panni medievali di Bran, il Signore dell’Età Aurea in ambito celtico, esattamente come l’equivalente hindu lo è di Brahmā.  Cfr. in proposito G.Acerbi, Il Re Pescatore, sovrano universale delle acque, nella letteratura indo-europea.  Paralleli fra Bran e Brahma, nonché fra Varuna e Urano– Alle pendici del Monte Meru, blog (13-12-14), pp. 1-2 (aggiornanamento d’un art. pubblicato il 22-07-07 in un vecchio blog oggi cancellato, Ritorno al Paradiso Perduto, sotto pseud. di H.Mriga). 
26)        Il D.Bh.P.- ii. 5 paragona difatti senza mezzi termini Re Śāntanu ed il “figlio” generatogli da Gagā, dea che è solitamente una delle due consorti di Śiva e si oppone complementariamente ad un’altra divinità fluviale (Adrikā, dimorante nella Yamunā), rispettivamente a Mahādeva e al figlio Kārtikeya.  Questi è il secondo figlio di Śiva, essendo giunto dopo Bhairava e prima di Ganeśa.
27)        Non a caso Ganeśa, il terzo simbolico figlio di Mahādeva, coadiuva Vyāsa nella stesura del poema mahabharatiano in veste di scriba.  Per il fatto che ne è un doppione, o meglio viceversa, essendo lo shivaismo ciclicamente piú vetusto del vishnuismo.  Ganeśa colla sua solare proboscide svolge in tale funzione un ruolo di tipo bronzeo, eroico-produttiva diremmo, alla maniera vishnuita; in rapporto, perciò, al tema della fecondità e della fertilità.
28)        Śiva, non meno di Saturno-Crono ha doppia funzione; normalmente argentea, ma talora aurea per trasposizione all’indietro.  A seconda che sia tratteggiato come pauroso signore del tempo e della morte (Kāla, identificabile al secondo figlio del nume, il dio della guerra Skanda-Kārttikeya), o quale benefico signore dei geni e delle creature (Gaapati, assimilato a Gaeśa, ma in un senso nettamente superiore a quello indicato nella n.prec.).  L’interpretazione aurea è applicabile anche a Daka-Prajāpati, la forma shivaitica equiparabile a Brahmā, per quanto la distinzione fra l’una e l’altra di esse sia sempre piuttosto complessa e contradditoria.  Tant’è che nella forma di Bhairava l’eclettico Mahādeva incarna la Morte (Θάνατος), non però  in senso argenteo-saturnino e dissolutorio ma aureo-solare ed ascetico, sebbene non primevo; in contrapposizione a Kāma (ρως), di cui pure è incarnazione.  È proprio questa dualità fra eros e ascetismo archetipicizzata nell’insieme da Bhairava e Kāma, a mezzo fra l’aureicità di Gaapati/Prajāpati e l’argenteicità di Kāla/Kārttikeya, che è la vera natura di Śāntanu.  Non per niente qualcuno (E.W. Hopkins, Epic Mythology- Motilal B., Delhi 1974 [ I ed. Strassburg 1915 ], p.121, Cap.V, §65) sulla base dello H.V.- 2989 f  identifica questi ad Aikvāka Sāgara, l’Oceano (figlio di Ikvāku, alter-ego di Manu), ossia l’equivalente induista del greco Ώκεανός; chiamato pure Samudra e considerato attendente di Varua, dal momento che i due (Śāntanu e Sāgara/Samudra) hanno in comune la consorte, Gagā.  Costei, d’altronde, è tanto la madre di Skanda quanto la genitrice dell’allotipo Bhīma.
29)        A.K. Roy & N.N. Gidwani, A Dictionary of Indology- Oxford & IBH Publ., N.Delhi-Bombay-Calcutta 1985, s.v. PURU, Vol.3, p.237.
30)        Ibid., s.v. KURU, Vol.2, p.343.
31)        Se intendiamo correttamente l’affidamento a costui di Satyā.
32)        La datazione tradizionale del conflitto, che compare nel testo medesimo, non è neanche presa in considerazione dagli studiosi contemporanei, che la pongono anno piú anno meno sempre nell’ambito del I millennio av. l’E.V., facendone una semplice guerra civile.  Vedi B.P. Sinha, Archeology & Art of India- Cap.6 sgg.  Ciò per il fatto che secondo la tradizione, non ci pare sia specificato dall’autore se orale o scritta, il Jaya Kāvya ovvero la prima versione in c.8.000 Śloka del Mahābhārata sarebbe stato composto “non molto dopo l’evento ma dopo la composizione dei Veda”.  Dal punto di vista della datazione dell’orientalistica ufficiale la cosa non fa una grinza, però adottando la cronologia trasmessaci dal poema – che abbiamo fatto nostra per rispetto del sacro testo – ne consegue che il Veda risalga almeno nella sua formulazione primaria (sicuramente orale) ad epoca mesolitica (c.6.000 a.C.), mentre il poema (sempre in forma orale, crediamo) ad epoca neolitica (c.4.000 a.C.).  A conferma di quanto precisato, notiamo che il gveda viene tradizionalmente attribuito a Ka, ma quale Ka?  Siccome il primo dei due è collocabile all’incirca all’inizio dell’XI mill. a.C., è evidente che si tratti del secondo Ka, il protagonista del Mahābhārata; ed evidentemente anche formulatore dei sacri testi hindu, anche se la prima promulgazione del testo rigvedico sembra risalire ad uno o piú millenni precedenti la venuta terrena del IX Avatāra, poiché l’intero IX Ciclo (10.960-4.480 a.C.) gli è attribuibile per definizione.
33)        Per una chiarezza maggiore sull’argomento cfr. V.Pisani, Mahābhārata. Episodi scelti- Utet, Torino 1968, pp. 60-2, Introd., Cap.III; oppure, piú sintetico ed aggiornato, G.Acerbi, La concezione della Patria nel  Mahābhārata- Arkete, A.II, N°3, Roma 2001,  p.18, n.1.
34)        Hop., op.cit.,  Cap.I, §1, p.1.
35)        A.T. Embree & F.Wilhelm, India. Dalla civiltà dell’Indo fino all’inizio del dominio inglese- Feltrinelli, Milano 1968, apud Storia Universale, Vol. 17 (ed.or. Indien. Geschichte des Subcontinents von der Induskultur bis zum  Beginn der englischen Herrschaft- Fischer Weltgeschichte, Francoforte sul Meno 1967), Cap.3, p.24.
36)        R.L. Beals & H.Hoijer, Introduzione all’antropologia fisica- Il Mulino, Bologna 1970 (ed.or. An Introduction to Anthropology- The Macmillan C., N.York 1965), Cap.VII, §2, p.281.
37)        Per intenderci cfr. M. & J. Stutley, Dizionario dell’Induismo- Astrolabio-Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A Dictionary of Hinduism- Routledge & Kegan P., Londra 1977), s.v. ĀRYA, pp. 30/ coll.a-b e 31/ col.a; s.v. BHARATA, pp. 62/ col.b e 63/ coll.a-b.

38)       Sino a non molto tempo fa, essendo gli Ari associati all’utilizzo bellico del cavallo, veniva considerata una prova archeologica indiretta della loro mancata presenza in India prima del 1.500 a.C. il fatto che fra i reperti dell’antica Civiltà della Valle dell’Indo non si rinvenissero ossa equine.  Invece poi si è scoperto, ad una miglior osservazione, che queste ossa sono presenti, sebbene qualcuno ne contesti la provenienza reale dalle antiche popolazioni dell’Indo: cfr. on line ad es. P.Priyadarshi, The Horse and the Indian Aryans per la prima tesi e per le argomentazioni opposte M.Witzel, Harappan Horse Myths and the Science.  La maggior parte degli studiosi autoctoni sono convinti della prima ipotesi, quasi tutti gli orientalisti europei ed americani della seconda.  Di piú, gli uni (cfr. soprattutto A.K. Biswas, The Aryan Myth; presso AA.VV., Historical Archeological of India. A dialogue between archeologists and historians- Books & Books, N.Delhi 1990, Cap.3 sgg) cercando di sfatare quello che considerano lo pseudomito indoeuropeo, sostengono che la civiltà harappana era coeva al Veda o addirittura post-vedica; gli altri, per contro, lo negano.  Parrebbe in ogni caso che un cavallo indigeno, tipicamente asiatico (l’Equus Śivalensis), preesistesse nel Deccan fino a c.10.000 anni fa; ossia poco prima dell’introduzione del cavallo domestico (l’Equus Caballus), evolutosi geneticamente da esso entro pochi millenni, sino a formare il cavallo del sudest asiatico, quello arabo, quello europeo di razza, il purosangue ecc.  Mentre il cavallo della steppa centrasiatica, dalla quale gl’indoeuropeisti come la Gimbutas fanno discendere gli Ario-europei, non risalirebbe che ad una cinquantina d’anni dopo l’inizio dell’E.V.  Aggiungasi che dagli studi sul Dna appare ora chiaro come tracce di addomesticamento equino compaiano in India già a partire da 8.000 anni or sono, sicché è palese che siffatta pratica deve esser cominciata parallelamente in zone tra di loro separate; dato che nuclei di cavalli selvaggi erano presenti un po’ duvunque in Eurasia, ma non è visibile un’interconnessione fra i reperti sudasiatici in materia e quelli analoghi delle zone dell’Europa Orientale.  Tutto il contrario, insomma, di quel che si pensava prima.  Tanto che Priyadarshi (ibid.), dopo aver citato il .V.- i. 163, 1-4 e spiegato che l’attribuzione del simbolo equino al dio oceanico Varuna tradisce una continuativa osservazione dalla fine dell’ultima glaciazione in poi di mandrie di cavalli allo stato brado galoppanti ai bordi delle spiagge, come peraltro fanno ancor oggi in Gujarāt, giunge ad affermare codeste sacrosante parole: “Examination of archaeology and geology shows that the common notion among the historians that India did not have horse before 1.500 B.C. is more than an untruth spoken thousand times taking shape of a fact.”  Perciò il quadro di civiltà sinora tracciato dagli storici dovrebbe esser rivisto, completamente, alla luce dei risultati paleontologici e genetici di recente elaborazione.  Priyadarshi ritiene che lo Śivalensis  non si sia estinto per cause naturali, bensí per via della forte antropizzazione avvenuta in India 10.000 anni fa, essendo quell’equino stato fatto probabilmente oggetto di caccia nonché d’addomesticamento.  Rileva inoltre che le pitture parietali di Bhimbetka, di carattere prettamente mesolitico, risalgono a c.8.ooo anni fa o forse piú, ma vengono assurdamente datate al 1.500 a.C. a causa dei disegni di cavalli effigiati sulle pareti rocciose.  Egualmente, a nostro giudizio, il rito dell’aśvamedha cui si fa cenno in i. 162 – cfr. l’ottima ricostruzione che ne fa V.Papesso in Inni del gveda- Ubaldini, Roma 1979 (I ed. Zanichelli, Bologna 1929-31, 2 voll.), pp. 99-103 – presenta aspetti cruenti (ecatombe d’animali, soffocamento del cavallo) e connotati magici (ad es. il fallo del cavallo sacrificato disposto sui seni della regina durante la prima notte post-sacrificale) tipici della mentalità centrasiatica o addirittura sudasiatica. 

39)        L.B.G. Tilak, La dimora artica nei Veda. Nuova chiave per l’interpretazione di numerosi testi e miti vedici- Ecig, 1986 (ed.or. The Arctic Home in the Vedas. Being Also New Key to the  Interpretation of Many Ve-dic Texts and Legends – Tilak Bros., Poona 1971, I ed.1903; ed.franc. Origine polaire de la tradition védique- Arché, Milano 1979).  Lo scrittore non va né esageratamente esaltato, né scioccamente snobbato.  Essendo passato oltre un secolo dalla data di composizione del libro, è chiaro che nel testo andrebbero riviste parecchie cose.  Pur se si tratta a nostro giudizio di un’opera comunque validissima, paragonabile per portata a quella del Warren, il fondatore dell’Università di Boston, sul Paradiso Terrestre.  Cfr. nn. 60-1.

40)        Ibid., Cap.XIII, p.372.  Datando il diluvio atlantideo al 9.600 c. a.C., come fa Platone, si può prendere l’8.000 a.C. o persino prima come tempo di trasferimento delle genti arie; codesta data essendo grosso modo in linea cogli studi paleontologici, benché questi invertano la rotta del flusso migratorio da Occidente ad Oriente.  Vide n.114.  Il 5.000 a.C. è invece troppo prossimo al conflitto mahabharatiano, in base al quale si deve supporre che i contendenti fossero già presenti sul territorio da qualche millennio.  Perché altrimenti la notizia d’un trasferimento recente nell’area sarebbe stata un fatto non trascurabile da parte dei complilatori tradizionali dell’opera (simboleggiati da Ganeśa), che ovviamente non coincidevano col gurudeva formulatore (simboleggiato da Ka D.).

41)        Va fatta innanzitutto chiarezza su cosa s’intenda per Ārya, non potendo piú valere evidentemente l’idea ottocentesca degli Ari come razza, idea antitradizionale benché purtroppo accettata a suo tempo da Tilak e da altri autori di valore come lui (cfr., in proposito, I.Taylor, Origins of the Aryans. Prehistoric Ethnology and Civilization of Europe- Fine Oppset Pr., N.Delhi 1980, rist. del 1889, passim); in quanto, semmai, gli Ari andrebbero classificati come stirpe (scr. jāna, lat. gēns, gr. γένος).  Non è la stessa cosa.  Le razze dipendono dal colore della pelle, anche se l’antropologia ha apportato confusione all’argomento, aggiungendo altri fattori come quello cranico che hanno fatto perdere ad esse il comun denominatore dato dai Pañcabhūta (i 5 Elementi); viceversa le Generazioni Umane, appaiate a quelle Divine, stabiliscono l’ordine ciclico d’entrata in scena delle varie Stirpi.  Seppur parallelo a quello delle Razze, non coincide con questo.  D’altronde – è bene esser chiari su questo punto – la confusione fra le due serie di dati ha uno scopo occulto ben preciso, allacciato ai fini impropri della ‘Sinarchia’ fondata da A.Saint-Yves d’Alveydre.  La quale difatti oltre a manipolare l’ordine naturale delle Razze mira a porre gli Ari (ciò avendo un indubbio riflesso storico sulle pretese egemoniche dell’allta borghesia contemporanea a livelllo globale, attorniata dai rami cadetti della monarchia europea), per le convenienze risultanti dal suo progetto politico-sociale definito M.S.E., sul piano che è proprio della Razza Bianca; ma non è il piano corretto, gli Ari od Eroi che dir si voglia corrispondendo alla Quarta Generazione Umana, secondo quanto insegna Esiodo.  Quindi nello schema diversificato delle Razze andrebbero equiparati semmai alla Razza Rossa, una razza di per sé impura.  Tant’è che l’autore degli rga (vv.159-60), pur elogiandoli quale θειόν γένος (‘divina stirpe’) li reputa non meno di Platone μιθεοί (‘semidei’) e non θεοί (‘dèi’).

42)        In fondo, neppure Tilak medesimo ha saputo indicare con precisione l’area di provenienza di questa stirpe.  Si è limitato a propugnare una dimora circumpolare, ma non esattamente artica come il titolo del libro da lui scritto parrebbe supporre, poiché questo in parte sarebbe stato in contrasto coi dati da lui raccolti.  Visto che i passi dei testi avestici da Tilak menzionati narravano dell’avvento d’un freddo eccezionale recato ad opera di Aŋgra Mainyu (lo Spirito del Male) in una regione ove l’inverno durava 10 mesi e l’estate 2.  Questo freddo sarebbe dunque caduto sugli Airya ad un certo punto della loro storia, non prima.  Ciò dimostra che quel fatto nulla poteva aver a che fare colle glaciazioni dei tempi paleolitici e che in precedenza essi vivevano su un suolo diverso, sicuramente verde, con ogni probabilità anche rozzamente arativo; se è plausibile l’etimo che quasi tutti adottano (vide Stut., op.cit., s.v. ĀRYA, p.30/ col.b), ricollegando il loro nome a vari termini degl’idiomi europei: celt. ar (‘suolo coltivato’), lat. ar-v-um (‘suolo arabile’), gr. ρ-οσ-ις (‘campo arativo’.).  Bisogna definitivamente sgomberare dal campo l’idea che gli Ārya come generazione umana possano essere equiparati a quella dello Śvetadvīpa: sono i miti, assolutamente, a negarlo.  Insomma, gli Ārya  non sono i Gandharva.  Essendo dei semplici ‘signori della terra’, secondo quanto ci conferma il significato del scr. arya, sinonimo di vaiśya (‘artigiano’), la loro saga non è per nulla in relazione col simbolismo ittico-paradisiaco del Dāśarāja.  Anzi i Dāsa sono loro nemici, stando al gveda.  L’identificazione risulterebbe quindi impropria.  Del resto il termine ārya, scritto questa volta colla vocale iniziale lunga, designa in sanscrito unicamente un rispettabile abitante dell’Āryāvarta, ossia dell’India Settentrionale e Centrale.  Non un nobile in senso regale vero e proprio, bensí un signore praticante un qualsivoglia modus operandi: scr. ar-tha (‘modo, maniera; arte, mestiere), germ. ar-t (‘modo, maniera’), lat. ar-s (‘arte, mestiere’).  Ecco la ragione per cui Aryaman, l’antenato divinizzato degli Ari, viene venerato nel gveda assieme a Mitra o a Bhaspati in veste di uno dei 12 Āditya (Deva); vale a dire i 12 Soli, equivalenti ai Semidei della tradizione ellenica.  Cos’abbia tutto ciò a che vedere colla primordialità sarebbe bene saperlo.  Piuttosto, abbiamo qui a che fare colla famosa ‘Terza Funzione’ di duméziliana memoria, che secondo le scritture ha cominciato a dominare nel mondo durante la ‘Terza Epoca’.  Guardacaso, esattamente l’epoca in cui è ambientata la Guerra del Kuruketra.  Ed è significativo che la borghesia illuminata europea del mondo contemporaneo,  giunta al culmine del suo potere politico, abbia inventato lo pseudomito della ‘razza ariana’ mediante un’iperbolica identificazione di sé cogli antenati primevi della specie umana.  Benché anche gli Ari prima di essa, lo si era già rilevato alla n.22, abbiano praticamente mostrato una “presunzione” analoga.

43)        Til.,op.cit., Cap .XI, pp.  319-20.
44)        Cfr., sull’argomento, G.Acerbi, Il Paradiso Iperboreo quale Terra di Luce e di Tenebra; è il Cap.I (già concluso) di Viaggio verso la Luce e le Tenebre, collage d’articoli indipendenti ancora in fase di preparazione.
45)        Vedi sul tema G.Acerbi, Kālacakra. La Ruota Cosmica- Univ. “Ca’ Foscari”, Venezia, 1985 (tesi di laurea), Vol.I, P.II, Cap.V, p.400; inoltre pp. 518-20, n.60.
46)        Til., op.cit., Cap.XIII, p.373.
47)       Questa teoria storico-culturale, cosí come quella antropologica della razza caucasoide è manifestamente condizionata dalla leggenda biblica dello sbarco dell’Arca di Noè sull’Ararat dopo il Diluvio e la diffusione dei figli di Noè in zone circostanti.  La storia biblica trova conferme in altre tradizioni dislocate su entrambe le coste dell’Atlantico (Haida, Sumeri).  Se per Noè intendessimo, come voleva taluno – R.Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici- Mediterranee, Roma 1974 (ed. or. Formes traditionnelles et Cycles cosmiques- Gallimard, Parigi 1970), p.40 – in conformità colla Chiesa del Medioevo, la popolazione atlantidea e nel contempo il messaggio spirituale che attraverso una determinata figura spirituale da colà proveniva; ecco che i suoi 3 figli di conseguenza verrebbero a rappresentare, nel modo metaforico che è tipico delle leggende e dei miti, 3 diversi ceppi di quell’etnia e le loro culture incluse.  Guénon medesimo non ha tuttavia ben riflettuto su questo, tant’è che condivideva con P.Le Coeur la possibilità d’una duplice suddivisione dell’Atlantide: una nell’Atlantico Settentrionale, identificata alla Tula vagheggiata dai Toltechi, ed una nell’Atlantico Meridionale (ibid., Cap.II, p.29).  Di certo la posizione dell’America attuale, dove la parte centrale risulta costituita solo da un istmo, può farci considerare le cose in codesta maniera; ma gli studi dell’ing.Allen, teorizzanti un’Atlantide caraïbo-andina parzialmente sprofondata nell’Oceano Atlantico, parrebbero spingere in altra direzione.  Ossia, testimoniare la presenza d’una ulteriore Atlantide fra le 2 vagheggiate dai due suddetti autori.  Riguardo la durata del Ciclo Atlantideo crediamo, invece, avesse ragione Guénon ad accreditargli quella d’un Grande Anno: 23.920-10.960 a.C.  In abbinamento collo sviluppo cruciale in fatto di direzioni simboliche, aggiungiamo noi, del Sudovest e dell’Ovest.  Siccome Platone ci narra che il Diluvio Atlantideo non è avvenuto esattamente alla fine del IV G.A., ma oltre un millennio dopo (ammesso, e non concesso, che questa data sia esatta), è evidente che era già cominciato un nuovo ciclo; il Nono all’interno del Grande Eone, abbinato direzionalmente al Nordovest.  Ciò significa che questo ciclo, pur avendo quale centro d’irradiazione una regione nordica del mondo, si è sviluppato in terre occidentali.  Interpretando dunque i 3 fratelli come delle figliazioni delle 3 Atlantidi di poi ibrididatesi, nel Vecchio Continente, con ceppi decaduti della Razza Bianca (Paleo-asiatici, Proto-mongolidi, Proto-europei) e della Nera (Austronesiani, Paleo-negriti) – non per nulla in Francia il cabalista cristiano del XVI sec. G.Postel voleva chiamare Iapezia l’Europa, Semia l’Asia e Camia l’Africa – avremmo un quadro abbastanza veridico della situazione.  Benché qualcosa del genere sia stato probabilmente pensato nei secoli passati, in epoca contemporanea si è finito per invertire la situazione identificando praticamente Iapheti e Razza Bianca, vale a dire il ceppo piú antico a quello piú recente; indi li si è svincolati dalla leggenda noaica, chiamandoli su base linguistica ‘Indoeuropei’, sebbene con qualche cautela.  Se invece tornassimo alla leggenda biblica, che non vi è assolutamente ragione di tralasciare, ci accorgeremmo che la tripartizione dei discendenti noaici può giustificarsi solo con una suddivisione etnica già all’origine sul suolo atlantideo od americano che dir si voglia; tripartizione la quale, in tutta evidenza, si è poi ulteriormente accentuata in terra eurasiatica in varie maniere.  Cfr. n.106 e 116.
48)        L’autodenominazione di ‘Celti’, al dire di Cesare una delle 3 suddivisioni di quel popolo barbarico oltre ai Belgi e agli Aquitani, si è estesa all’intera popolazione che i Romani chiamavano ‘Galli’.  La loro sede primaria, secondo gli archeologi, era forse l’Alto Danubio.  Il nome che li contraddistingue a nostro parere non deriva propriamente dall’ambito indoeuropeo, benché la loro lingua a giudizio di taluno (T.G.E. Powell, I Celti- Il Saggiatore, Milano 1959; ed.or. The Celts- Thames & Hudson, Londra 1958) sia formalmente ricollegabile alla zona anatolica indoeuropea.  Infatti a differenza del gruppo germanico, dal quale probabilmente il nucleo primario di cavalieri dispersi non differiva di molto se non per quegli ostacoli accidentali determinati dagli stanziamenti tribali presso i grandi corsi fluviali quali il Reno (cfr. R.Hachmann, I Germani- Nagel, Roma-Ginevra-Parigi-Monaco di Baviera 1975, Cap.I, p.29 ss), il gruppo celtico originario non si è conservato relativamente puro.  Sebbene i cavalieri celtici mostrino affinità con quell’antico strato germanico di tipo ambro-cimbro-teutonico – disceso dallo Jutland e dintorni verso la Gallia nel II sec. a.C. – che gli antichi romani nell’atto d’affrontarlo nella parte nordoccidentale della nostra penisola ancora vagamente giudicavano “barbarico” e che potremmo considerare, rispetto ai flussi barbarici meglio definiti dei primi secoli dell’E.V., delle semplici orde in avanscoperta, la corrispondente casta sacerdotale rivela nei propri culti una propensione arcaica interpretata dagli esperti (J. de Vries, I Celti- Jaca Book, Milano 1981 [ed.or. Keltische Religion- W.Kohlhammer, Stoccarda 1961], P.sec., Cap.sec., §2.d, p.137) come un richiamo a culti preistorici indigeni diffusi in tutta l’Eurasia.  Segno che la popolazione, in generale, aveva subito commistioni con genti pre-indoeuropee.  Che i Celti fossero un ceppo misto è provato persino dal nome etnico, il quale altro non era invero che un appellativo della casta sacerdotale, vale a dire una sineddoche (figura retorica indicante una parte per l’intero) ad indicare tutto il popolo; nel contempo il termine equivale nell’etimo a quello dei sacerdoti sumeri, i “Caldei” della tradizione greco-romana.  Guènon, dando ragione di ciò (Gué., op.cit., Cap.III n.num., p.40-1), spiega a proposito del congiungimento d’una corrente nordica di diretta discendenza iperborea coll’altra occidentale di discendenza atlantidea avvenuto nell’ultima parte del Manvantara (non precisa però se in tempi preistorici o protostorici) che, volendo “indagare sulle condizioni nelle quali tale congiungimento si operò, bisogna dare una particolare importanza alla tradizione celtica e a quella caldea; il nome delle quali coincide poiché designava in realtà non un popolo particolare, bensì una casta… [cors. dell’A.]”.  Da parte nostra riprendendo codesta nozione guénoniana abbiamo altrove segnalato la parentela ulteriore fra il nome dei sacerdoti celti, i Druidi, e quello etnico dei Drāvida, dai Greci definiti Tέρμιλαι.  Vedi G.Acerbi, La terra mitica dei Dravidi- Algiza (Nov., N°13), Chiavari [Ge] 1999, pp. 11-2; cfr pure la nostra fonte, cioè H. Heras, Studies in Proto-Indo-Mediterranean Culture- I.H.R.I., Bombay 1950, App. al Cap.V sgg.  Anche in tal caso si tratta d’una sineddoche, ove all’inverso di prima l’intero sostituisce la parte.  Non vi è contraddizione naturalmente nella doppia identificazione, dato che i Sumeri erano camiti non meno dei Paleo-dravidi dell’antica Civiltà dell’Indo.  La loro etnogenesi è probabilmente comune, visto che entrambi dichiarano quale patria antecedente un’isola dispersa dell’Oceano Indiano: il Dilmūn (confuso da taluni con l’Antartide) da parte dei primi e Dvārakā da parte dei secondi.  Il che ovviamente non esclude una loro precedente provenienza oltreatlantica, come per gli Egizi.  Cfr. n.115.
49)        Anche in questo caso la definizione di ‘indo-iranici’ non è del tutto rispondente alla realtà, giacché risulta valida solamente se applicata all’Iran e all’India in quanto nuove regioni di stanziamento del ramo di popolazione migrante, ma non lo sarebe se la s’intendesse in rapporto all’Indo; visto che il termine, derivando dalla scurezza del limaccioso fiume, connota gl’indú non già come un popolo di pelle chiara bensí di pelle scura.  Cosa che, certamente, non sarebbero stati i nuovi arrivati da regioni nordiche prima di produrre quella fusione etnoculturale che si suole definire ‘induismo’.  A meno di accettare la loro supposta presenza in Asia Minore da parte accademica come un dato effettivo.  La tesi della provenienza centroasiatica di queste genti primieramente formulata dal Warren e poi ripresa da Tilak (cfr. nn. 61 e 22) non è infatti piú percorribile, visto quanto precisato alla n.38 sull’introduzione tarda del cavallo in quell’area.  Sia che ci si ponga in posizione agnostica rispetto alle origini indoeuropee, come si fa di norma, sia che si accetti la leggenda biblica dello sbarco sulle coste mediterraneo-orientali di genti provenienti da oltreatlantico (iaphetiche).  La Genesi lascia tutto nell’indeterminato, non ubica la dimora di Noè e dei suoi 3 allegorici figli in alcuna zona geografica precisa; però il Libro dei Giubilei (apud ‘Apocrifi dell’Antico Testamento’- Utet, Torino 1981, p.238, a c. di L.Fusella & P.Sacchi), una Piccola Genesi redatta in ge‘ez (etiopico classico) circa nel II sec. a.C., riporta al passo iv. 24 le seguenti parole: “E (il Signore) mandò il diluvio su tutta la terra di Eden.”  Subito dopo, al 25, si menzionano 4 Monti consacrati al Signore nella Nuova Creazione: il Giardino dell’Eden, ad ovest; il Monte del Sud, su cui sta Enoc, cioè il Sinai secondo il prof.Sacchi; il Monte dell’Est ed il Monte Sion, localizzato dall’A.T. nel,’Estremo Nord.  Questa altro non è che una sintetica cosmografia, a riprova che Noè proveniva da una terra occidentale; e che l’Eden non era l’originario paradiso (vide supra), identificabile viceversa collo Siyyōn, equivalente ebraico del Sineru o Sumeru.  Quindi si deve arguire che la tappa nordica, indubbia siccome stabilita dalla cosmografia indiana relativamente all’ultimo ciclo avatarico, si sia svolta in modo un po’ differente da quanto troppo approssimativamente teorizzato in precedenza sulla scorta di Tilak, pur correggendone l’errata impostazione warreniana.  Il che s’accorderebbe colla testimonianza di Snorri, il quale fa discendere etnia e cultura norrenica da Iaphet.  Cfr., pure, nn. 50 e 77. 
50)        Molti pescatori del Mare del Nord da quando avevano cominciato ad utilizzare le reti a strascico avevano rinvenuto sul fondale marino sempre parecchi oggetti preistorici, che a partire dalla metà degli Anni ’80 sono stati collezionati nei musei da qualche paleontologo.   Essi ci rivelano che durante il Mesolitico (c.9.000 a.C.) vivevano sulle coste baltiche dei cacciatori-pescatori capaci di costruire imbarcazioni persino di una decina di metri.  Tre millenni dopo un flusso migratorio proveniente da sud ha recato in zona l’allevamento e l’agricoltura. Erano questi ultimi dei gruppi iaphetici venuti in contatto in tempi tardo-mesolitici con popolazioni d’origine nordico-polare?  E da parte loro gli autoctoni facevano parte del ceppo paleo-asiatico, di per sé appartenente alla Razza Bianca originaria, oppure appartenevano ad una sottorazza di pelle chiara piú arcaica di quella paleo-siberiana?  Le tradizioni norreniche per la verità, come abbiamo visto alla n.prec., parlano unicamente dell’etnia venuta da sud per popolare il nord; poiché evidentemente questa divenne dominante, ma sono ora parzialmente smentite dai dati archeologici.  Dumézil et al. già prima avevano egualmente ipotizzato la presenza di due diverse popolazioni, attribuendo ad una (gl’Indoeuropei) la cultura degli Æsir e all’altra (indigena, ma non ben definita) quella dei Vanir.  La nostra personale supposizione invece è che i primi abitatori delle zone nordiche e veneratori dei Vani (notare il bisticcio dei termini), sicuramente dei numi boschivi (cfr. il lat. venator = ‘cacciatore’ ed il scr. vana= ‘foresta’), fossero dei proto-germani o dei proto-celti (l’idea della Scandinavia come vagina gentium – ci ha segnalato una volta il prof. A. Grossato – si è protratta nella letteratura britannica sino al Tardo Medioevo); ma che gli altri, i cultori degli Asi, fossero degli Iapheti.   Importante sarà nei prossimi anni stabilire, con certezza, il carattere etnico dei 2 gruppi.  Siamo convinti che la popolazione aborigena, a nostro parere pre-iaphetica, fosse di diretta discendenza iperborea; seppur detentrice della cultura ancestrale dei Vanir, in principio a nostro avviso probabilmente dei semplici geni della foresta alla maniera paleo-siberiana.  Quel che si sa con certezza al momento tramite la geologia è semplicemente che alla fine dell’era glaciale il Doggerland, la terra d’unione fra la le due sponde del Mar Baltico nell’attuale Canale della Manica, fu sommerso a causa dello scioglimento d’un grande lago ghiacciato nordamericano appaiato dall’onda provocata da un altro grave fatto geologico accaduto sulla costa norvegese.
51)        Ai Greci noto come Diluvio di Deucalione.  Non è possibile immaginare che tutti gli Ari nel loro assieme abbiano compiuto questo saliscendi storico.  Evidentemente, solo un loro ramo ha raggiunto l’Europa in epoca preistorica per popolare il Settentrione, il ramo germanico.  Gli altri sono rimasti a sud, nella zona fra il Mar Nero ed il Caspio, da dove nel III millennio (M.Gimbutas, I Baltici- Il Saggiatore, Milano 1967; ed.or. The Balts- Thames and Hudson, Londra 1963) in parte si sono spinti ad occidente per popolare l’Europa Orientale e Meridionale; in parte, invece, hanno colonizzato l’Asia Centrale e Meridionale.  Al dire della Gimbutas (ibid., Cap.II sgg), non meno di Tilak ancorata all’idea dell’Asia Centrale come madrepatria indoeuropea benché su base archeologica anziché mitica, il flusso suddetto coinciderebbe colla cd. ‘cultura dei tumuli’ (rus. Kurgan); reperibile dapprima nelle steppe asiatiche e poi in altre aree (anatolica, egea, baltica).  L’idea della studiosa lituana era che il popolo dei kurgan, impiantato su base familiare paterlineare ed utilizzante veicoli per gli spostamenti, avesse surclassato le civiltà matriarcali, piú deboli.  Coll’utilizzo peraltro dei metalli, appreso nel Vicino Oriente.  Il solito cliché indoeuropeistico, insomma, quantunque meglio argomentato di quello d’altri colleghi.  Il problema è che per spostarsi e combattere il popolo dei kurgan avrebbe avuto bisogno del cavallo.  Come si concilia tale teoria con quanto postulato alla n.38 e ripreso alla 49?  Cercheremo piú innanzi di offrire una risposta sensata.
52)        Cfr. in proposito R.Graves, I miti greci- Longanesi, Milano 1979 (ed. or. Greek Myths- Penguin B., Harmondsworth 1955), passim.  Inoltre Gim., op.cit., Cap.III sgg.  Quest’ultima spiega (p.52): “L’ambra era richiesta dalla nascente cultura di Únĕtice nell’Europa Centrale e dalla Grecia dei periodi medio e tardo elladico.  Quando i popoli di Únĕtice iniziarono le loro relazioni commerciali con i Micenei, un po’ prima o attorno al 1600 a.C., il commercio dell’ambra raggiunse un sorprendente volume.”  Pare infatti che i Centroeuropei dell’Austria Meridionale importassero ambra dai Germani dello Jutland e dai Baltici.  La via che dalla Prussia Orientale conduceva in Italia (ibid., Cap.VI, pp. 141-2) sarebbe stata solcata sino ad epoca gotica.  La teoria della discesa verso il Mediterraneo di genti nordiche attraverso le ‘Vie dell’Ambra’ parrebbe conciliarsi colla stessa indoeuropeizzazione dei Liguri, chiamati alternativamente Ambrōnes.  Quest’ultimo nome rimanderebbe appunto allo stanziamento tribale nel Mare del Nord (R. del Ponte, I Liguri- Ecig,  Genova 1999, Cap.IV, p.166 ss), le cui coste è risaputo siano ricche d’ambra.  Il Professore cita al riguardo R.F. Avieno, scrittore latino del IV sec. d.C. in possesso tuttavia d’informazioni reperite da un navigatore marsigliese del VI sec. a.C.; quegli attesta che i discendenti dei Liguri assieme a quelli dei Draganes, genti iberiche scacciate da Cempsi e Sefes (tribú celtiche?) ed assimilabili ai Trmilai erodotei (op.cit., pp. 484-5), sub nivoso maxime Septentrione conlocaverunt larem.  Onde spiegare il suddetto epiteto d’Ambroni s’affida però al Capovilla, che lo fa risalire ad Am(b)run, isola ad ovest dello Jutland.  Anche il Semerano (ibid., p.168, n.36) collega l’appellativo ai giacimenti d’ambra baltici, ma interpreta incoerentemente il termine come ‘genti delle paludi’.  Il Del Ponte prende spunto da questi per riallacciare parallelamente l’etimo di Lyges/ Ligures, sulla scorta d’un altro glottologo (il D’Alessio), ad una base pre-indoeuropea (*liga = ‘luogo paludoso’).  Da parte nostra preferiamo, viceversa, attenerci ad una diversa risoluzione della questione.  Cfr. L. Charbonneau-Lessay, Le Bestiaire du Christ- L.J. Thoth, Milano 1940 (diff. Arché 1974), P.Qui., Cap.Quarantes., pp. 298-9.  L’autore parimenti riporta il nome Ligures ad un sinonimo di Ambrōnes, ma non alla stregua del Semerano bensí menzionando la voce lyncūrium/ligūrius; designante una pietra preziosa ricercata nell’arte dell’intaglio la quale si formerebbe, secondo il folclore, citato in un’ampia letteratura estesa da Teofrasto a Jean de Cuba, dalla distillazione dell’orina di lince.  La pietra, chiamata ‘ligurite’ e costituita da una varietà di tormalina formata da silicato d’alluminio, ci riconduce infatti al punto di partenza: la resina fossile cui essa rassomiglia, l’ambra.  Se questa tesi è giusta, allora è evidente che il nome di tale popolazione si riferiva al colore dei capelli o della barba che in molti individui è ancor oggi rossiccio, a causa dell’ibridazione fra iapheti e camiti, che è venuta a coprire un sostrato piú  antico, di tipo paleo-asiatico, affine a quello lappone.
53)        Vedi G.Acerbi, I Cicli Avatarici e lo spostamento dei poli geografici- Alle pendici del Monte Meru, blog (prossim.).  Per tanto tempo non si sono sapute dare spiegazioni valide sulla causa delle glaciazioni, ma dopo la formulazione da parte di C.Hapgood della sua teoria sulla dislocazione della crosta terrestre la spiegazione risulterebbe semplice: quando una determinata zona della litosfera verrebbe spinta nello spazio occupato dai due circoli polari opposti si raffredderebbe, congelando a poco a poco, con conseguenze immaginabili.  I Poli rimarrebbero invariati al loro posto.  Il problema in ogni caso sarebbe quello di verificare se queste spinte siano regolari, in altre parole cicliche, oppure caotiche ed irregolari.  Noi crediamo alla prima soluzione, poiché altrimenti salterebbe tutta la visione tradizionale del cosmo; ma non è facile dimostrarlo dati alla mano, ci vorrebbe competenza specifica in materia di geofisica.  Altri (F.Barbiero, Una civiltà sotto ghiaccio- Editr.Nord, Milano 2000, P.I, Cap.VIII, p.90), piú ferrato di noi in materia, sottolinea all’uopo la parziale inattendibilità della teoria di Hapgood ed ipotizza che la fenomenica in questione sia sottoposta ad una ciclicità di c.6.000 anni, in relazione evidente alla precessione equinoziale ed alla variazione dell’inclinazione dell’asse nei confronti dell’eclittica.  Secondo l’ing.Barbiero, che pur accetta l’idea d’un ciclo di 41.000  relativamente allo spostamento dei poli geografici, “l’idea che la crosta si sposti è difficile da condividere da un punto di vista meccanico”.  Solo il variare dell’inclinazione dell’asse polare potrebbe render conto, a parere del nostro miltoniano connazionale, dei dati archeologici di difficile comprensione riscontrabili in epoca glaciale.  La verticalità originaria di quest’asse spiegherebbe la disomogeneità della fauna pleistocenica, ovvero la presenza di un animale quale la renna accanto all’ippopotamo.  Questa apparentemente strana accozzaglia zoologica, si noti, è la medesima che si trova nei graffiti paleolitici; e non solo, anche piú genericamente nelle rappresentazioni sacre del Paradiso Terrestre.  Al riguardo Guénon (op.cit., p.28, n.2) aveva cosí espresso il suo parere: “Tale questione sembra essere collegata a quella dell’inclinazione dell’asse terrestre, inclinazione che, secondo certi dati tradizionali, non sarebbe esistita dall’origine, ma sarebbe una conseguenza di ciò che gli Occidentali chiamano «la caduta dell’uomo».”  Mentre dello spostamento dei poli geografici dichiarava (ibid., p.28) di non avervi mai fatto cenno, trattandosi a suo giudizio d’una questione secondaria.   In merito al problema della caduta del cielo cfr. ad ogni modo R.& R. Flem-Ath, La fine di Atlantide- Pi Emme, Casal M. 1977 (ed.or. When the Sky Fells. In Search of Atlantis, 1955), Cap.IV sgg.  I Flem-Ath rispetto al Barbiero danno maggior peso alle idee di Hapgood sullo scorrimento, ma associano anch’essi altri fattori astronomici al fenomeno: la precessione equinoziale (fattore-Adhemar); l’angolo d’inclinazione dell’asse terrestre, seppur limitatamente fra una pendenza di 21,8° ed una di 24,4° (fattore Croll/Milankovitch); nonché la forma dell’orbita terrestre (fattore-Le Verrier).
54)        All’inizio degli Anni ’60 R.Ghirshman asseriva – in Arte persiana. Protoiranici, Medi ed Achemenidi- Rizzoli, Milano 1982 (ed.or. Perse. Protoiraniens, Mèdes et Achéménides- Gallimard 1963), Intr., p.4  – che 2 vie era possibile avessero seguito gl’Iranici nel loro percorso storico; una proveniente dal Caucaso, in base ad un’assunzione desunta da un’affermazione di Bīrūnī, e l’altra dal Mare d’Aral.  Dalla prima via, continuava, erano infatti transitati qualche secolo piú tardi Sciti e Cimmeri (questi ultimi i portatori della civiltà del Luristān); per la seconda, invece, dovevano esser passati gli Indoari nella loro immigrazione verso l’India attorno  al 1.200-1.000 a.C.  Tale datazione parrebbe abbastanza corretta, ciò confermando però che il Veda sarebbe di compilazione tarda, ma preesistente oralmente.  Dati i contenuti cosmologici degl’inni.
55)        Bis., art.cit., pp.38.
56)        In quanto all’uso del ferro, il Biswas (ibid., p.39) crede che una tecnologia relativa a questo metallo possa essersi diffusa in India provenendo dall’ambiente ittita, indipendententemente dall’invasione o dalle invasioni senza traccia.
57)        Dovrebbe intitolarsi La patria originaria degli Ari ovvero il massimo problema etno-culturale ed archeologico, piú o meno irrisolto, del XIX e XX secolo.
58)        Sugli aspetti molteplici dell’Eden giudaico-cristiano cfr. A.Graf, Il mito del Paradiso Terrestre; sta in Miti, leggende e superstizioni del Medioevo- E.Loescher, Torino 1892.  Inoltre, per un confronto mitologico coi corrispettivi τόποι della letteratura indoeuropea ed in particolare di quella indo-iranica cfr. G.Acerbi, Manu e la leggenda del Peccato Originale- Alle pendici del Meru, blog (27-12-07); in seguito ripubbl. come Yama e la leggenda biblica del Peccato Originale- Alle pendici del Monte Meru (26-11-16).
59)        G.Acerbi, Il Sumeru, la Montagna Polare nella cosmografia hindu- Algiza (Apr., N°7) Chiavari 1997, P.I, §1, pp. 22-3.
60)        Cfr. sul tema K.Rönnow, Some Remarks on Svetadvipa- B.S.O.S., The School of Oriental Studies, Kraus, Londra 1928-30, Vol.V, pp. 253-84; inoltre: W.E. Clarck, Śvetadvīpa and Śākadvīpa- J.A.O.S., 1919, Vol. XL, p.209 ss.; O.Maenchen-Helfen, Svetadvipa in Pre-Christian China- N.I.A., Bombay, II, 1939, pp. 166-8.  Per un commento al primo dei 2 articoli ed al tema in generale cfr. Ac., art.cit. (ago. N°8), P.II, §2, pp. 9-10; inoltre, Id., L’Isola Bianca e l’Isola Verde- Simm. on line (mag., N°41), Roma 2016.  In quanto a riconoscere tracce del cristianesimo nascente nella leggenda dello Śvetadvīpa ce ne guarderemmo bene, benché qualche contatto potrebbe realmente esserci stato fra cristianesimo e vishnuismo tramite l’essenismo – ma forse in senso inverso – oppure da parte cristiana all’epoca dell’espansione di tale dottrina in Malabar.  Piuttosto dovremmo parlare d’una simbologia ittica primordiale tramandata in varie tradizioni e fra queste, ovviamente, va conteggiato pure il cristianesimo.
61)        Se il Paradiso Iperboreo fosse stato veramente nell’Artide, come sottolinea la definizione che di esso davano Greci e Latini, perché mai le genti che lo abitavano si erano trasferite in un luogo tanto sfavorevole alla vita?  Certo, potrebbero essersi trovate colà, in quelle condizioni, senza averlo scelto; cioè per cause naturali, ma perché poi allora dovrebbero averlo abbandonato?  E come si può credere che in tale impossibilità a condurre una vita naturale normale adottassero un regime alimentare sostanzialmente vegetariano, tale da non “offendere qualsivoglia creatura”?  Il regime alimentare loro attribuito si concilia coll’ahisa e la pratica meditativa, non colla logica.  Quindi, o si tratta d’un mito che si riferisce ad una situazione extra-umana impossibile a viversi sul piano strettamente terreno, ma ciò cozza contro numerosi dati; oppure, si deve ritenere che le condizioni del globo in epoca passata siano state assolutamente diverse da quelle odierne, il che però è difficile da credere e persino da teorizzare.   Qualcuno nel secolo scorso (W.F. Warren, Paradise Found: the Cradle of the Human Race at the North Pole. A Study of tbe Prehistoric World- Houghton, Mifflin & C., Boston 1885, ora anche on line) ha ritenuto che durante i tempi paradisiaci il clima terrestre ai tropici e nelle zone subtropicali fosse in effetti molto piú caldo di quello odierno, tale da non consentire la vita.  Unicamente i Poli sarebbero risultati freschi ed adatti allo sviluppo della catena biologica, sennonché in seguito un improvviso crollo della temperatura ed un imponente sommovimento sismico avrebbero distrutto quell’arcaica possibilità d’esistenza.  La superficie di crosta vivibile sarebbe stata trascinata all’ingiú da un’immane porzione di nucleo sprofondata verso l’interno della Terra e l’oceano avrebbe ben presto ricoperto il tutto, dell’isola paradisiaca rimanendo soltanto il ricordo nella mente dei pochi sopravvissuti.  Accettando per contro la teoria di Hapgood della dislocazione, ci accorgeremmo che 60.000 anni fa l’Artide attuale era libera dai ghiacci, poiché il Polo Nord trovavasi nel Canada Nordoccidentale; fra Groenlandia ed Islanda, non nell’Oceano Artico secondo le pretese del Warren.  Neppure sminuendo la teoria di Hapgood come ha fatto il Barbiero, che ha intravisto nei reperti paleontologici cambiamenti maggiormente repentini di quelli ipotizzati dal geofisico statunitense, il problema cambierebbe.  Non resta altro, quindi,  che dar fiducia alla tesi sull’assenza di stagioni e conseguentemente di variazioni climatiche da una zona all’altra del globo proposta dallo stesso Barbiero quale risultato della nulla o scarsa pendenza dell’asse terrestre in tempi lontani.  Tanto piú che pure in sede tradizionale la si pensava pressappoco cosí, al dire di Guénon (cfr. n.53), il quale però stranamente omette di citare la fonte; menzionata, invece approfonditamente da altri (J.Evola, Rivolta contro il mondo moderno- Mediterranee, Roma 1969, P.II, Cap.3, p.235).
62)        Narrasi in una leggenda degli Okanagan, amerindi di pelle chiara la    cui mitologia al pari di quella dei Kutenai («Uomini Bianchi» in lingua algonchina) s’estende fra l’ovest canadese e quello statunitense, d’un luogo in mezzo all’oceano definito Samah-tumi-whoo-lah (lett. l’«Isola dell’Uomo Bianco») e sprofondato a poco a poco; il che prova che la cosa era accaduta a causa di una grossa inondazione, compatibile collo scioglimento dei ghiacci polari dopo lo spostamento geografico del precedente Circolo Polare Artico dalla zona nordatlantica verso la Baia di Hudson poco piú di 50.000 anni fa.  Sebbene possa riferirsi, nel contempo, ad un analogo fatto capitato in tempi assai piú recenti.  I dati precisi sono riportati in Fl.-A., op.cit., Cap.III, p.37.  Cfr. pure il nostro comm. in Ac., I cic., §d.  Quindi la Terra Iperborea postulata dai miti eurasiatici è esistita veramente, non costituisce una metafora d’idilliche condizioni.  Sia essa stata una tundra od una steppa non si sa bene con precisione, ma certamente l’«Isola Bianca» – cfr. coll’Aztlan delle leggende azteche, rimandi atlantidei a parte – possedeva condizioni in qualche modo favorevoli alla vita, benché il colore che la caratterizzi nelle descrizioni leggendarie parrebbe connotarla quale regione prevalentemente innevata o addirittua ghiacciata.  A meno che ciò si riferisca ad una tappa succesiva, oppure alla carnagione di chi l’abitava.  Narra infatti il mito che su quel territorio insulare abitava una stirpe di ‘giganti’, probabilmente i corrispettivi amerindi dei ‘giganti del ghiaccio’ dei miti scandinavi (aventi nulla in comune coi Giganti propriamente detti della mitologia greca), la quale fu costretta a vivere dopo una disputa interna in un’estremità dell’isola.  Evidentemente per ragioni climatiche, ma dopo un certo tempo la zona sarebbe stata numinosamente separata dal resto dell’isola (allusione evidente ad un enorme iceberg galleggiante), finendo per vagare in mare aperto tormentata dai venti e dalle onde.  Tutti i ‘giganti’ sarebbero pertanto periti, tranne una coppia di loro, che vedendo affondare l’isolotto prepararono una canoa con cui pagaiando d’isola in isola giunsero alla terraferma.  Può questa leggenda conciliarsi con quella di Manu, di Parśu e dell’arca salvifica legata al corno del pesce avatarico?  Crediamo di sí, seppure ivi manchi il Pesce.  Nella leggenda diluviale hindu, d’altronde, manca Parśu… (sic!).
63)        Sul Bianco Monte vide Ac., art.cit., pp. 9-11.  Al di fuori dell’ambito hindu troviamo molte varianti del soggetto un po’ dovunque, dall’Eurasia all’America.

64)        Cfr. per una breve analisi del rapporto degli Ārya od Airya cogli Eroi  greci, G. Acerbi, Uttara Kuru, il paradiso boreale nella cosmografia e nell’arte indiana- Alle pendici del Monte Meru, blog (31-05-13).
65)        Ac., op.cit.,, p.516, n.56.
66)        Cfr. Cap.IV, n.16.
67)        Ibid., n.15. 
68)        Bharata è un secondo nome di Manu, onde la vicenda narrata nel poema epico indiano potrebbe essere intesa in senso lato come l’intera storia umana, relativamente al nostro Manvantara ( il ‘Periodo di Manu’, vale a dire il ciclo umano attuale, che i giudeo-cristiani definiscono ‘adamico).  Il nome di Bhārata o Bhāratavarsa, che da esso probabilmente deriva, era invece attribuito un tempo all’India Settentrionale; ma è poi diventato l’appellativo indigeno di tutta l’India, o addirittura dell’intera ecumene affacciata all’Oceano Indiano durante il Dvāparayuga.  A tal proposito, va specificato che il Mahābhārata parla di un’inondazione generale la quale alla fine dell’epoca testé menzionata avrebbe modificato la geografia marittima della zona in questione.  Una simile narrazione echeggia nei racconti sumero-babilonesi ed egeo-cretesi del Diluvio.  Si analizzino al  riguardo rispettivamente le leggende di Gilgameś e di Deucalione.  Ma non pare avere nulla in comune ciclicamente, se non per analogia e sovrapposizione inevitabile di dati tramandati dalla tradizione orale, con l’inondazione biblico-noaica; che la Chiesa Cristiana medievale metteva difatti in relazione colla narrazione platonica della scomparsa dell’Atlantide, anziché col Diluvio di Deucalione.  Cronologicamente il Diluvio di Bhārata si situerebbe alla fine del Mesolitico, invece il Diluvio di Noè alla fine del Paleolitico.  Tuttavia va tenuto conto che, non meno di Ka ed Eracle, Noè svolge un doppio ruolo; quindi la sua leggenda s’estende, per cosí dire, a 2 grandi anni (yuga).
69)        Un primo approccio al problema lo si trova in Ac., op.cit., pp. 408-12.  Si tenga conto tuttavia che al tempo della prima tesi di laurea, alla maniera tilakiana, non facevamo ancora distinzione fra Ilāvta e Uttarākuru.
70)        Ciononostante gli aspetti tecnici della guerra, a quel tempo, erano assai  diversi da quelli venuti in uso successivamente.  Cfr. a tal proposito B.C. Law, Tribes in Ancient India-B.O.R.I., Poona 1973, Cap.III, pp.26-7.  Le regole di combattimento fra gli Katriya stabilivano che solamente degli uomini di pari dignità od equipaggiamento si potessero affrontare in gentil tenzone.  Era lecito abbandonare la contesa senza per questo venir uccisi, o persino fuggire senza esser colpiti.  In pratica, non si poteva duellare con un genere d’arma diverso, né ci si doveva scontrare con un  guerriero disarmato.  Il fante si faceva sotto al fante, il cavaliere al cavaliere, il conducente d’elefante al conducente d’elefante e via dicendo.  Non bisognava colpire gli avversari in possesso di armi rotte e neppure coloro che cercavano riparo, ritrattavano od erano rivestiti d’armatura.  Eguale rispetto era necessario verso coloro che non partecipavano al conflitto, né direttamente (aurighi, attendenti incaricati di trasportare le armi sul campo di battaglia, suonatori di tamburi o di conche) né indirettamente (quelli che semplicemente assistevano sul terreno di scontro senza offendere ).
71)        Per il primo assunto vedi n.prec.  Per il secondo cfr. Ac. La conc., art.cit.,  pp.11-24 passim.
72)        Come insegnano gli storici della letteratura (O.Botto, Letterature antiche dell’India, P.II, Cap.I passim; in Storia delle letterature d’Oriente-    Vallardi, Milano 1969), i 18 Parvan (‘Libri’) del poema assieme al Khila  (‘Compendio’) dello Harivamśa raccolgono piú di 100.000 strofe; in genere śloka, talvolta tristubh.  Soltanto un quinto del poema tratta del conflitto fra il regno kuruide di Hastināpura (sulla Gagā) e quello panduide d’Indraprastha (sulla Yamunā) nel sacro suolo fra i 2 fiumi.  Il resto è materiale ausiliario, di natura eterogenea; concerne temi teogonici e cosmogonici, quando non favolistici ed allegorici.  Oppure tratta questioni religiose, didattiche od iconologiche, evidenziando influenze dei 6 darśana (visuali filosofiche canoniche).  Spicca fra di esso la celebre Bhagavad Gītā, un episodio del VI Parvan, il Bhīma.  Speciale rilievo hanno anche gli episodi narrativi rievocanti le gesta d’antichi sovrani, come il vecchio Yayāti, che per l’avidità di piaceri non aveva esitato a farsi cedere dal figlio Puru la giovinezza.  Altri come quello di Nala e Dayamantī  o di Satyavat  e Sāvitrī, esaltanti la fedeltà coniugale, sono stati ripresi in epoca classica a scopo edificatorio dalla letteratura artistica e da quella drammatica.  Talora si assiste invece alla sovrapposizione dei principî giuridici propri della società hindu, sempre tesi a favorire ciò che è il fine di tutto il vivere indiano: la liberazione dalla catena delle nascite e delle rinascite.  Nella convinzione che al di là d’ogni cosa peritura esista alcunché d’innato cui appartiene una natura immortale.  Non vi è di che lamentarsi, dato che ignoto è il sorgere degli esseri – se pure è nota la vita – ed egualmente ignota la loro scomparsa.  L’eclettismo dottrinale, la disomogeneità dei molteplici insegnamenti e la ripartizione di temi talora diversamente rielaborati (come quello esaminato all’inizio di questo libro) testimoniano la veridicità d’un affermazione dell’Ādiparvan che in origine il poema consisteva di 8.800 strofe; mentre la seconda stesura, chiamata Bhārata, sarebbe poi passata a 24.000.  Unicamente la terza, appunto il Mahā (‘Grande’) Bhārata, avrebbe raggiunto le oltre 100.000 strofe dell’estensione pervenutaci.  Ecco perché la metrica dell’opera oscilla fra arcaismi di tipo vedico ed ornamenti di tipo classico.  Il Botto, cui abbiamo attinto per codeste informazioni, ha intravisto con acume in tale processo di formazione del poema un intento brahmanizzante; sí da creare una sorta d’antica enciclopedia del sapere induista, tanto a livello sacro quanto a livello profano, dedicata al culto di Viu.  Cfr. ad es. la narrazione sullo Śvetadvīpa (Nārāyaīya), luogo inteso come il Paradiso di Nārāyaa (Rön., art.cit., p.256).  Le parti su Śiva sarebbero state inserite tardivamente, durante la diffusione dell’opera in ambiente meridionale; altri si è spinto addirittura a teorizzare che, specie in tale ambiente, sia avvenuta una vera e propria shivaizzazione del poema.  Nonostante il valore predominante di Krsna, cioè della IX Discesa vishnuita (generalmente confusa, non solo dai critici, coll’VIII), nella Gītā; a questo proposito si esamini M.Biardeau, Études de mythologie hindoue- B.E.F.E.O., Parigi 1978 (T.LXV, Fasc.1), Cap.II, P.II, §2.c).  L’autrice si sforza invano di dimostrare come la mitologia dell’infanzia di Ka a Mathurā sia perfettamente aggregabile a quella della vita adulta a Dvārakā; ma, se le cose stessero realmente in questo modo, perché mai porre l’Harivasa Purāṇa quale appendice del Mahābhārata?  Si sarebbe tramandata una storia unica, a partire da Mathurā per arrivare sino a Dvārakā.  La verità è che l’induismo stesso ha perduto il senso originario del racconto, per via dell’ambientazione mitica sul suolo indiano di fatti avvenuti in altra parte del globo (G.Acerbi, I Dieci Avatar e la mitologia induista- Hera (7-03-10, A.XI, N° 122), Binasco 2010, pp. 42-5), l’unica vicenda storica da tenere in considerazione come tale – idealizzazioni letterarie a parte – essendo in tal caso soltanto la saga dell’auriga.  La Biardeau è inoltre del parere, questa volta con assoluta ragione, che l’intero poema rappresenti una specie di vangelo krishnaita; la linea dominante del Mahābhārata, onestamente, indica questo.
73)        Nel suo studio sulla genesi del Mahābhārata un altro grande storico della letteratura sanscrita (Pis., op.cit., Cap.II, p.41 ss) spiega che al suo apparire in Europa la critica filologica ha riversato sul poema di Vyāsa il proprio metodo, prima applicato ai poemi di Omero, teso a vedere ovunque interpolazioni.  Vi era chi come Holtman Sr. o Schröder scorgeva in esso il frutto di molte redazioni successive, mentre altri come Hopkins o Winternitz ravvisavano che delle parti originarie avessero agglomerato nei secoli parti aggiuntive.  Il Winternitz, soprattutto, giudicava il Mahābhārata un assurdo letterario compiuto da teologi amanuensi senza poesia.  Fa tuttavia osservare il Pisani, a loro parziale smentita, che la ricerca delle fonti narrative non coincide colla storia del poema.  Sono due cose distinte.  La materia trattata sarebbe insomma antichissima, cosí come pure gli upākhyāna (spunti di mitologia o novellistica) inseriti in esso e tutto il resto, ciò esistendo prima dell’inserimento nel poema.  L’idea del Pisani per spiegare ripetizioni ed incongruenze è che gli amanuensi allorché una redazione giungeva in dato posto riadattassero il testo ad includere materiale rapsodico locale, che poteva essere in una metrica differente dall’altra.  Per materiale rapsodico il Pisani intende episodi singoli di eroi e dei loro antenati, provenienti dalle corti principesche, ove i bardi magnificavano questo o quel personaggio.  Gli upākhyāna provenivano invece dai tīrtha (luoghi sacrali), dalle tradizioni dei santuari degli eremi selvaggi, nei quali abbondavano le storie di i (veggenti).  Le digressioni su argomenti sacrificali o giuridici potevano viceversa discendere da tradizioni familiari dei maestri brahmanici.  In sostanza nel Mahābhārata sono stati posti, culturalmente e linguisticamente, i fondamenti per gli sviluppi futuri dell’induismo.
74)        Un’interpretazione simile alla nostra è quella fornita da G.Dumézil, La Légende des Pāndava et la substructure mythique du Mahābhārata; in  Jupiter, Mars, Quirinus–Bibliothèque de l’Ecole des hautes études. Section des sciences religieuses, Paris 1948, pp. 37-53, Cap.IV (Explication de extes indiens et latins); trad. Da S. Wikander, Pāṇḍavasagan och Mahābhāratas mystiska förutsättningar- Religion och Bibel, 1947, Vol.6, pp.   27-39.  Cit. nell’Encyc.Iran., s.v. DUMEZIL, Georges, on line.  L’idea-base parrebbe essere – purtroppo non abbiamo letto la trad. del testo, come avremmo preferito – quella d’assegnare ai 5 fratelli panduidi le tre funzioni indoeuropee in questa maniera: a Yudhihira, figlio di Dharma, il sacerdozio; ad Arjuna e Bhīma, filiazioni rispettive di Indra e Vāyu, la funzione guerriera; ai due gemelli, prole degli Aśvin, quella produttiva.  Non vi è dubbio che l’interpretazione abbia una sua logica, in fondo la stessa che noi abbiamo applicato ad altri personaggi, ma va tenuto conto nell’applicarla che si tratta in ogni caso d’un riconoscimento a posteriori d’una attitudine castale che rientra nello schema vaiava tipico dei vaiśya.  In altre parole, è confacente al Triregnum del tipo Giove-Marte-Quirino, l’ossessione propria del Dumézil.  Il vero rappresentante del sacerdozio fra i latini è insomma Iānus, cosiccome Brahmā lo è fra gl’indiani; i divini reggenti, Iuppiter ed Indra; ne fanno soltanto le veci in chiave produttiva.  Prima erano stati Sāturnus e Śiva, aureizzati, a svolgere tale superiore compito.  Del pari è Saturno e non Marte il sostegno vero della regalità romana.  Eguale cosa dicasi  di Śiva, anziché d’Indra, in India.
75)        Ciò è quanto avevamo già ipotizzato nella nostra tesi universitaria.  Cfr. n.69.  Ovvero che già in epoca remota, insomma durante l’immigrazione mesolitica di cui si dà conto alla n.114, fossero arrivati in India dei proto-ari alla stessa stregua dei paleo-dravidi e che costoro fossero rappresentati dai Kuru.  Sebbene allora fossimo incerti se considerare la tribú di Duryodhana, in alternativa, d’origine anaria (dravidica od austronesiana che fosse) oppure ibrida.  Questo in verità è stato un primo approccio al problema, condiviso dal prof. Parpola (a nostra insaputa) nel primo caso, ma vedremo nel prossimo capitolo che per quanto piú soddisfacente della tesi che ne fa dei semplici anari non parrebbe la soluzione migliore.
76)        Tale tappa potrebbe esser stata favorita dalla maggior vicinanza delle terre boreali atantidee, oggi sostituite da quelle nordamericane (differenze geografiche piú o meno rilevanti a parte), all’Europa.  A quel tempo i mari boreali, che sino a qualche millennio prima erano rimasti ancor congelati secondo quanto hanno rilevato in materia d’oceanografia certi calcoli computerizzati, si erano già sgelati; la vicina terra islandese pertanto, sempre che corrispondesse all’attuale, può aver fatto da ponte fra l’America e l’Europa.  Dal momento che è un’isola assai piú prossima alla Groenlandia, da cui dista meno di 400 km, che alla costa scandinava.   Il problema però è che i testi tradizionali non affermano questo (vedi n.seg.), ma esattamente il contrario.   Questo punto non deve esser dato per scontato, comunque; andrebbero catalogate con cura tutte le tradizioni latine e norreniche di lontane emigrazioni oceaniche per cause diluviali al fine di constatare se realmente vi sia stata una via unica, sostanzialmente attraverso le Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra), di sbarco nel Vecchio continente.  Magari esaminando, in parallelo, le fonti amerinde.
77)        Cfr. nn. 49-50.  Le tradizioni norreniche ritraggono un quadro esplorativo oggettivamente assai differente rispetto a quello da noi tracciato alla n.prec.  In sostanza esse ci tramandano (G.Chiesa Isnardi, Storie e leggende del Nord- Rusconi, Milano 1977, Intr., pp. 13-8) che i Tirkir, discesi da Tiras (uno dei 7 figli di Iaphet), venendo da sud popolarono il Nordeuropa.  In modo piú specifico si dice da Asía, fatto per il quale si potrebbe immaginare una loro permanenza temporanea in Asia Minore.  Cosa che confermerebbe, onestamente parlando, la tesi accademica dell’Asia Minore quale luogo d’origine degl’Indoeuropei; sebbene a livello accademico ciò non sia piú messo in relazione, purtroppo, col Diluvio di Noè.  Dato che gli Iapheti sono stati chiamati appunto con espressione linguistica ‘Indoeuropei’ e non piú accostati ai Semiti, sebbene considerati dai semitisti una costola indoeuropea separatasi ad una certa epoca dal nucleo principale (cosa che per noi non ha alcun senso); né ai Camiti, guardati dagli studiosi con un malcelato disprezzo – anche se questo medesimo atteggiamento è chiaramente d’origine biblica – e divenuti a loro volta semplicemente ‘Indo-mediterranei’ od ‘Egeo-asianici’.   Dopo la colonizzazione dell’Europa Settentrionale i Tirkir sarebbero insomma giunti in Svezia (p.14) per poi passare in Norvegia, da dove sarebbero partiti alla volta dell’Islanda ed infine della Groenlandia.  Era forse questo ramo iaphetico alla ricerca della patria perduta nordamericana, o meglio nordatlantidea?  Sta di fatto che i 12 Aesir, affini ai 12 Ahura iranici (da Tiras discendono pure Medi e Persiani), testimoniano di una conoscenza dello Zodiaco Solare che può esser stata ereditata unicamente dalla tradizione noaico-mediterranea.  I 12 numi altro non son difatti che i 12 Soli Zodiacali, ai quali presiedeva Thörr, lo Zeus norrenico.
78)        Per l’identificazione dei Pelasgi ad una delle tribú paleodravidiche ipotizzate da Padre Heras cfr. Cap.IV, n.11.
79)        Visto che gli Elleni discendono da Giapeto, il quale altro non è che Iaphet.  Cfr. nn. 108 e 128.
80)        L’unica ipotesi possibile a questo punto onde poter far combaciare tutti i dati provenienti dalla tradizione hindu è che gli Ari, guidati spiritualmente dai Brāhmana (per forza di cose di lingua indoeuropea, giacché affini ai Flāmina latini), siano già stati presenti sul suolo indiano già prima dell’inizio del Kaliyuga; e che quindi la formulazione del Veda, come vuole la Smti sia realmente avvenuta prima della Guerra di Bhārata da parte del secondo Ka, il quale a scanso di equivoci va identificato non meno di quanto ci tramandano gli antichi all’Eracle mesolitico.  Equivalente al ‘secondo’ Noè, cosí come il primo Ka all’Eracle paleolitico ed al ‘primo’ Noè.  Se tale congettura è veridica, allora è chiaro che l’invasione aria del II millennio a.C. o è uno pseudo-mito, come vogliono senza mezze parole gli archeologi indiani, oppure è alquanto da ridimensionare nelle proporzioni e nel significato.  Quest’ultima è la nostra personale posizione. 
81)        G.Slater, The Dravidian Element in Indian Culture- Ess Ess, N.Delhi 1976, Cap.II, p.49.  In altre parole, il Veda sarebbe caratterizzato dal dominio di Indra (alter-ego di Dyaus Pitar come signore dei Deva e corrispettivo indoario dello Ζεύς Πατήρ ellenico), assurto ad un ruolo fondamentale nell’induismo del I mill. a.C. – come testimonia la terza redazione del Mahābhārata (vide n.72) – e scaduto ad una funzione minore dal I mill. d.C. in poi.  Ossia, dopo il passaggio del Punto Gamma dall’Ariete ai Pesci.
82)        Slat., op.cit.,  Cap.IV, p.109.
83)        R.C. Dutt, History of Civilization in Ancient India- Ankit Book C., Delhi 1991, Vol.I, L.I, Introd., p.6 (I ed. 1888).
84)        H.Zimmer, The Art Of Indian Asia. Its mythology and trasformation-P.U.P., Princeton 1983 (I ed.1955, III ed.rev. 1968), tav.1a (statuetta in steatite).
85)        A.K. Coomaraswamy, History of Indian and Indonesian Art- Dover, N.York 1927 (I ed. K.W. Hiersemann, Londra 1927), P.I, Cap.I n.num., pp. 3-5.
86)        A.Parpola, The Sky-garment. A Study of the Harappan Religion and its relation to the Mesopotamian and later Indian religions- Societas Orientalis Fennica, Helsinki 1985, passim.
87)        Vide n.48.
88)        L’uccisione di Kara  avviene mentre il figlio di Sūrya è sceso dal suo carro per cambiare una ruota impantanatasi nella melma.  Arjuna, pur non sapendo ancora che sta combattendo contro il proprio fratellastro, è dapprima esitante.  Gli pare di commettere un’ignominia, ma il suo auriga Ka gl’insegna che vita e morte non dipendono da lui; nessuno in verità può uccidere nessuno, è la Divinità che reca vita e morte alle creature.  Dunque, se il carro del figlio del Sole s’è impantanato inesorabilmente, è perché Pthivī (la Terra) ha voluto decidere cosí, condannandolo ad uscire dalle scene del mondo anzitempo.
89)        Come qualsiasi Gran Maestro (Ādiguru) tradizionale.
90)        Un quadro abbastanza dettagliato del ruolo storico e protostorico  dei Dravidi e della cultura dravidica in ambiente indiano è stato illustrato da Slat., op.cit., passim; il quale riconosce nell’India un paese rimasto sostanzialmente dravidico, a livello culturale almeno, pur essendosi linguisticamente arianizzato. 
91)        Altre considerazioni, di grande utilità per la distinzione fra elementi dravidici ed elementi ari, si trovano ancora in Slater (ibid., Cap.2), sebbene il testo sia una ristampa d’un libro del 1924.
92)        Sul tema cfr. G.Acerbi, Keśin, l’ultimo dei demoni- Alle pendici del Monte Meru (blog, 3-02-17), in prep.; inoltre, per una comparazione con il Kešši/Kessi ittito, vide n.299.
93)        Stut., op.cit., s.v. KURU, p 231/ col.a, n.1.  Vide iv. 42, 8-9 e x. 33, 1 e 4-9.  La questione è ampiamente affrontata in Law, op.cit., Capp. III-IV sgg.  L’autore, collegando il Kuruketra all’Uttarākuru – chiamato Kurudīpa nel Dīpavasa e Kururattham nel Sāsanavasa – ossia l’Uttarādvīpa, stabilisce un nesso attraverso codesti testi buddhisti ed il Regno dei Kuru.  Ma siccome l’Uttarākuru a suo parere è descritto nell’Aitareya Brāhmaa storicamente quale regno transhimalayano, anziché miticamente come nel Mahābhārata, rifacendosi allo Zimmer lo pone in Kaśmīr, donde vi sarebbe stata l’emigrazione successiva della tribú kuruide nel Kuruketra.
94)        Ibid. come alla 29.
95)        In realtà Puru è un antenato di Kuru.  L’esatta discendenza è la seguente (Vett., op.cit., s.v. KURU, p.44/ col.b): Re Kuru discende da Re Puru tramite una linea dinastica prolungantesi da Janamejaya a Yayāti.  Kuru ha 4 figli, fra i quali Jahnu; che, a sua volta, ne ha 10.  Da uno di costoro, Pratīca, nasce Śāntanu.
96)        Ibid. come alla 93, pp. 230/ col.b e 231/ col.a.  Draupadī, moglie comune dei 5 Pāṇḍava, era figlia di Drupada, il Re dei Pañcāla (discendente di Puru  ma non di Kuru).
97)        Nel Cap.IV mostreremo la vera relazione esistente tra Pāṇḍava e Dasyu. 
98)        Il fatto che i Camiti non venissero considerati ari dai loro oppositori non significa che non lo fossero, sempre che s’intenda il vocabolo in senso eroico, ossia piú estesamente di quanto non facesse il Veda.  Solo colla fusione di elementi avvenuta nell’induismo storico l’India ha cominciato a forgiarsi veramente, dando la giuste risposte alle cose.  Il Mahābhārata, colla Bhagavadgīta incorporata a far da fulcro ispiratore, costituisce l’espressione piú fulgida di questo induismo.  Se il Caturveda fosse stato composto interamente durante il Kaliyuga sarebbe un insieme di scritture adatte a quest’epoca.  Invece in epoca storica si affermava da piú parti l’esistenza d’un ‘Quinto Veda’, a dimostrazione che i miti ed i riti vedici avevano fatto il loro tempo e, quantunque riadattati alla Quarta Epoca (cfr. L.B.G. Tilak, The Orion or Researches into the Antiquity of the Vedas- Tilak Bros., Poona 1972, I ed.1893; ed.franc. Orion ou Recherches sur l’antiquité des védas- Arché, Milano 1989; ed.it. [con pref., trad., translitt. e comm. a nostra c.] Orione. A proposito dell’Antichità dei Veda- Ecig, Genova, 1991), risalivano a tempi ben piú lontani.  Ossia al Tardo Paleolitico, sia pur in ambiente circumpolare; come Tilak ha ampiamente dimostrato nell’opera successiva, cit. alla n.39.  Sebbene abbia confuso, ed è cosa che han fatto molti altri dopo di lui, quest’epoca col mitico Ktayuga.
99)        Insomma, sono ceppi tribali d’origine dvaparayughica; mesolitica, per intenderci.
100)       Essa è dichiarata indirettamente nel Mhbh., Śāntip.- cccxlvi. 12 laddove si afferma perentoriamente: “Sappiate che… Vyāsa è Nārāyaa sulla terra.  Chi altrimenti… avrebbe potuto compilare un trattato come il Mahābhārata?”  Ovviamente, però, trattasi d’un attribuzione ideale.  Nessun profeta, neanche Gesú e Maometto, ha scritto di propria mano le scritture ispirate al suo insegnamento.  La stessa cosa vale, naturalmente, per il penultimo avatāra di Viu; cui è del resto attribuito anche il gveda, come a Gesú i Vangeli e a Maometto il Corano. 
101)       Vide n.230.
102)       Cfr. n.64.
103)       Cfr. n.41.
104)       In molti non han saputo dar spiegazione della seconda metà del nome iranico della patria aria, traducendo con ‘seme’ od altri termini imprecisi, ma basterebbe rifarsi all’Ārya-varta hindu.  Nella locuzione iranica reperibile in Vid.- ii. 2, 21 abbiamo la voce Airyanəm, fungente da genitivo plurale, mentre nell’equivalente espressione sanscrita il s.m. Ārya è posto in posizione attributiva.  L’ir.-vaēǰah equivale infatti al scr.-vara/varta (‘regione, isola, continente’), donde deriva il termine vaśa (‘discendenza, genealogia’), esattamente come il quasi sinonimo daēza corrisponde al scr.deśa (‘regione, distretto, contrada’).  In definitiva si deve intendere l’Airyanəm Vaēǰah come l’Āryavara/Āryavarta iranico, ovvero probabilmente nel senso d’una regione nordica all’interno dell’Iran antico (assai piú esteso, non meno dell’India, di quello odierno) con rimando ad un’altra circumpolare a livello extrairanico.  Per la verità l’equivalente indiano non ha la doppia accezione, poiché la suddetta sede aria in India è stata associata esclusivamente al Kuruketra.  Tuttavia quest’ultimo viene interpretato da taluno come la sede dei Kuru e perciò a sua volta in relazione coll’Uttarākuru (cfr. n.93).  Che la collocazione originaria dell’A.V. fosse molto settentrionale è indirettamente provato da Vid.- i. 1-4 ove, si fa menzione di dieci mesi invernali e di due estivi.  Non si può intendere la sede polare attuale, perché al vs.4 si parla di alberi; inoltre nel testo pahlavico (D.M.K.- xliv. 17) si spiega che colà è il duro inverno a produrre danni e non i serpenti, che sono molti ma scarsamente pericolosi.  Dunque il Vara (‘Recinto’) di cui parla lo Zend-Avesta (Vid.- ii. 2, 25) in riferimento all’irrigidirsi del clima, diversamente da quanto insegna il Darmesteter, non andrebbe inteso come una sorta d’arca noaica bensí d’un nuovo territorio ove rifugiarsi. 
105)       G.Acerbi, La questione dei ‘Tre Diluvî’ nella tradizione ellenica- Algiza (N°8, Gen.), Chiavari 1998, p.13, n.8; va, comunque, tenuto in considerazione l’intero soggetto. 
106)       G.Acerbi, L’America e l’enigma delle Due, anzi Tre, Atlantidi- Alle pendici del Monte Meru (blog, 17-12-16), §c sgg.
107)       Ac., I cic.,  §d.
108)       Per i rapporti fra Giapeto (gr. Ιαπετός, cioè Iaphet, ebr. Yaphet) e gli Elleni cfr. Ac., Utt. K., n.11. 
109)       Vide Cap.V, §h.
110)       Non può esser solo un errore di prospettiva storica il fatto che i Greci (Hes., Op.- i. 161-5) attribuissero la Guerra dei Sette contro Tebe, nonché quella di Troia, all’Epoca degli Eroi.  Può anche darsi, tuttavia, che li s’intendesse come dei discendenti diretti di quella stirpe.
111)       La confusione in India  tra Uttarākuru ed Iavta viene fatta non solo a livello letterario nei sacri testi, ma anche a livello iconologico nell’arte figurativa.  È cio che accade pure fra i Greci ed i Celti, nonché nell’esoterismo di marca occultistica che va dal Settecento al Novecento.
112)       Cfr. n.38.
113)       Pur non volendo condizionare alla veridicità o meno di questa nostra convinzione l’esito della nostra ricerca, avendo già chiaramente specificato piú addietro quale sia il nostro principale intento in codesto libro, non possiamo esimerci dall’esprimere il nostro reale pensiero circa la presunta invasione aria della metà del II millennio a.C.  Siamo onestamente convinti che essa sia avvenuta nel millennio che le è accreditato, secolo prima o dopo non importa poi granché stabilire; ma riteniamo che si sia svolta alla maniera di tutte le altre invasioni precedenti e susseguenti, cioè ad ondate.  Nessuna invasione può cambiare totalmente i connotati d’una compagine etnoculturale in breve tempo, ciò può avvenire solo col trascorrere dei secoli.  Non lo fecero né i Romani nel loro vasto impero, né gli Arabi nelle loro frenetiche conquiste.  Soltanto a partire dall’inizio del mondo moderno, cioè dal periodo coloniale in poi, le cose sono cambiate per il divario tecnico fra le culture europee e quelle di altri paesi.  Se consideriamo che il Mahābhārata non è maggiormente antico del Veda (cfr. n.3) e nella sua forma primaria non meno del Purāṇa originario (cfr. n.5) è fatto risalire tradizionalmente al Dvāparayuga, come si può pensare che il Veda sia stato composto nel 1.200-1.000 a.C. c.?  Questa può esser stata magari la data dell’ultima stesura, secondo quanto è avvenuto per il poema suddetto circa un millennio dopo.  Varrebbe la pena d’ipotizzare semmai la presenza di dati piú antichi, pre-kaliyughici, formulati primieramente in forma poetica dai sacerdoti autoctoni per meglio tramandarli in assenza di scrittura; e messi a punto successivamente nel vasto agglomerato letterario che i Brāhmaa potrebbero aver fatto in tempi storici fra la propria tradizione orale (vide n.98) e quella di altri sacerdoti di concomitanti invasori da sudovest, o degli autoctoni pre-dravidici.  In ciò gli scritti del grande Tilak, revisionati ed aggiornati, dovrebbero fornirci qualche valido aiuto.
114)       R.Furon nel suo Manuale di preistoria- Einaudi, Torino 1961 (Manuel de préhistoire générale- Payot, Parigi 1938), P.IV, Cap.I, §2, p.330 attesta la presenza nel Neolitico europeo di 4 tipologie umane, evidenziate dai crani raccolti in specie di reliquiari preistorici prototipici dei moderni cimiteri.  I tipi umani, in base all’indice cranico, sono i seguenti: a) dolicocefali ad alta statura e faccia corta, i cd. crô-magnon o o proto-europei, presenti anche nel Pleistocene; b) brachicefali medio-bassi a faccia allungata, entrati in Europa all’inizio del Mesolitico e spostatisi dalle coste atlantiche della Francia alla Russia Meridionale attraverso i Balcani (non viceversa); c) dolicocefali alti e a faccia lunga, emigrati dall’Asia nel Norderopa all’inizio del Neolitico (la Scandinavia è rimasta coperta di ghiacci sino alla fine del Plesistocene), d) dolicocefali bassi e a faccia lunga emigrati nel Sudeuropa, anche questi assenti sul luogo nel Paleolitico e nel Mesolitico.  Vi sono poi dei mesocefali, cioè degl’ibridi nati necessariamente da un incontro paritario fra i 2 tipi fondamentali (dolicocefali paleolitici e brachicefali mesolitici), ai confini geografici delle zone di stanziamento della doppia tipologia.  Da una cartina riportata nel libro (ibid.) si osserva che i brachicefali appaiono incuneati a mezzo fra i dolicocefali alti di tipo nordico e quelli bassi di tipo mediterraneo, sebbene temporalmente in realtà abbiano fatto seguito ai primi di molti millenni e preceduto invece i secondi di c. 5.000-6.000 anni, spostandosi geograficamente in senso contrario a costoro.  Avevamo affrontato l’argomento dapprima nella nostra t. di l. (Ac., op.cit., pp. 524-6, n.68), indi in un art. successivo (Ibid., La t., p.9).  Non è facile capire a chi mai possano corrispondere le 4 tipologie antropologiche descritte, ma abbiamo già riconosciuto in uno dei 3 gruppi dolicocefali i proto-europei, mentre probabilmente è ai brachicefali che andrebbero collegate le popolazioni giunte in Europa via mare in seguito al verificarsi oltreoceano d’un cataclisma diluviale.  Gli altri 2 ceppi dolicocefalici, nati sicuramente da ibridazioni maggioritarie dei proto-europei coi nuovi venuti, si dovrebbero intendere probabilmente in tal modo: 1) i dolicocefali alti (come i proto-europei) ma a faccia lunga (come i nuovi venuti) sarebbero da assimilare ai proto-caucasici o iapheti che dir si voglia, spintisi a nord forse per motivi climatici; 2) i dolicocefali mediterranei, bassi e a faccia lunga (come parte dei brachicefali, ma dal cranio allungato) ai camiti.  Ci si può chiedere come abbiano fatto i brachicefali a trasformarsi nei tempi neolitici in dolicocefali?  Solamente nella suddetta maniera, per ibridazione minoritaria coi cromagnonoidi oltreché in minor grado per ragioni alimentari e climatiche.  Manca dal quadro tracciato ovviamente il gruppo semitico, tipologicamente assimilabile al brachicefalo medio-basso dalla faccia allungata, che essendo etnicamente meno numeroso è rimasto ancorato al Vicino Oriente e non ha avuto la necessità impellente di espandersi, a differenza di iapheti e camiti.  Le ibridazioni successive fra i vari tipi umani hanno prodotto quel caos antropologico che gl’indú chiamano, in relazione al Kaliyuga, ‘confusione delle razze e delle caste’; la biblica ‘confusione delle lingue’, associata alla leggendaria Torre di Babele quale Axis Mundi (P.V. in Orione), non ne è che la controparte culturale a livello semantico-religioso. 
115)       Alludiamo naturalmente a Dvārakā, dimora mitica di Ka.  Tale leggenda è convergente con quella sumera del Dilmūn.  Per quanto quest’ultima paia identificare la leggendaria terra all’I.a del Bahrain, tanto che delle spedizioni archeologiche hanno dichiarato d’aver rinvenuto in essa una cultura dilmun, è da supporre che un tempo la proporzione di terre emerse fra il Golfo Persico e le coste dell’India Occidentale fosse assai maggiore. Secondo quanto afferemerebbero certi scrittore tamilici (Slat., op.cit., Cap.I, pp. 22-3), infatti, la terra dravidica originaria avrebbe fatto da ponte naturale di terra fra l’India Sudoccidentale e l’Africa.  Quale Africa?  Ovviamente la costa africana abitata dai camiti nordorientali (proto-egizi e paleo-etiopi, includendo in questi ultimi le successive suddivisioni in gruppi dancàlidi, somali, galla, abissini, kushiti ecc.) nonché dai nilocamiti (pastori etiopidi con apporti negroidi, come i Masai ed i Nandi, a mezzo fra i precedenti ed i ceppi paleo-negritici dell’Alto Nilo).
116)       Il ceppo dravido-camita pur essendo in maniera diversa da quanto si crede generalmente un’etnia prevalentemente legata alla Razza Bianca originaria – nell’ambito della quale gli Ainu in Estremo Oriente sembrano costituire il punto di confine fra le 2 sottorazze primarie: i paleoasiatici, dai quali discendono i paleo-amerindi, e i protoeuropei, confusi antropologicamente coi piú tardivi proto-caucasici – deve aver accolto dapprima sul suolo americano meridionale un apporto minore da parte austronesiana, attraverso una probabile invasione (non ammessa ufficialmente, ma testimoniata dal mito ebraico dell’incontro fra sethiti e cainiti) dalla zona sudafricana, intermedia fra l’Oceano Indiano e l’Atlantico; per poi inglobare in zona caraibica (un tempo maggiormente estesa a livello insulare, questa essendo in sostanza l’Atlantide platonica, come ha mostrato tramite le sue ricerche l’ing.Allen) un secondo ma maggiore apporto di tipo paleo-asiatico dal Nordamerica.  Indi, dopo il Diluvio Noaico e la conseguente emigrazione oltreoceanica unitamente agli altri due ceppi di cui riferisce la tradizione ebraica, si sono necessariamente aggiunti un terzo apporto sul suolo mediterraneo da parte proto-europea (cfr. n.114) ed infine un quarto (tardivo ma non troppo consistente) sul suolo indiano da parte proto-australoide (mundarica e veddoide).  Cfr. n.47.  Ciò potrebbe spiegare, a livello culturale, le differenze di culto all’interno dell’antico induismo paleo-dravidico mahabharatiano; vale a dire, le tendenze asuriche delle genti kuruidi e quelle devaiche dei cugini panduidi.  Tendenze che, detto per inciso, si sono conservate fino ad oggi all’interno dell’area dravidica nell’India Meridionale tramite il doppio culto shivaita e vishnuita.  Ciò indipendentemente dal fatto ipotizzato alla n.75, ovverosia una presenza iaphetica sul suolo indiano precedente all’invasione – ad ondate o meno – del II millennio. a.C.; oppure (preferibilmente a nostro giudizio) qualcosa di simile, secondo quanto sembrano suggerire certe istanze hindu relative al Ciclo dei Titani.  Cfr. Cap.II, §4 sgg.  
117)       È ammesso anche a livello accademico che un flusso migratorio proto-australoide o paleo-indonesiano – un tempo l’Australia e l’Indonesia erano unite da un istmo in seguito andato sommerso, per questo è preferibile impiegare il termine ‘austronesiano’ – si sia trasmesso all’Europa preistorica attraverso l’Asia Meridionale e le abbia fornito un determinato apporto culturale, fatto probabilmente di rozzi arnesi e di rudimentali tecniche orticole (bastone da scavo, coltivazione di tuberi); ovvero tecniche venatorie (lance  e frecce non metalliche), nonché piscatorie (ami d’osso o d’altro analogo materiale organico, veleni vegetali) oppure di combattimento (armi di pietra).  Per non parlare di segreti architettonici relativi ai megaliti, od abilità artistiche concernenti i petroglifi.  Dotandola peraltro di una nuova organizzazione sociale, colla formazione di clan tribali, di contro all’accoppiamento familiare naturale o alla semplice orda; cosa che deve essersi accompagnata, di sicuro, a pratiche rituali connesse col culto degli antenati e cerimoniali vari, in rapporto a rinnovate credenze.
118)       I Rājanya sono abbinati elementalmente al Fuoco e cosmograficamente alla Direzione Sud.  Ciò dimostra che gli Katriya fin dal nome, da ketra = ‘campo’, non dovrebbero esser messi in relazione alla classe regale-guerriera; bensí piuttosto a quella eroico-produttiva, affine all’elemento umorale, avendo essi Indra (Pico Marzio) quale loro prototipo divino.  Invece i Rājanya, che sono i veri guerrieri dal tono regale, si rifanno da un lato a Sūrya (Elio) per quanto riguarda il loro aspetto splendente e creativo; dall’altro a Kāla (Crono), dio temporale e distruttivo, oltreché signore di tutto ciò che appartiene alla sfera secolare.
119)       I Fenici per certuni (Her., op.cit., Cap. IV, §ii, p.464, n.1) sarebbero dei camiti con lingua semitica, ma il loro sviluppo culturale ha avuto un andamento assimilabile a quello delle grandi civiltà semitiche.  Addirittura si ipotizza che sarebbero di derivazione indica, in quanto assimilabili ai Pai rigvedici.  Gli Stutley (op.cit., s.v. PAI, pp. 317/ col.b e 318/ col.a) intervenendo sulla questione asseriscono che alternativamente all’ipotesi identificativa dei Pai  – cfr. colle voci Paik/Vaik (Paya/Vipai) – coi fondatori della Civiltà della Valle dell’Indo, essendo essi menzionati nel gveda accanto ai Dāsa ed ai Dasyu, ve ne sono altre; che ne farebbero una variante dei Parni o Parti iranici, affini ai Dai, o di determinate popolazioni babilonesi.  Personalmente siamo del parere che il loro centro di diffusione sia stata l’Armenia, biblicamente l’Ararat, come insegna la ‘Bibbia’ (E.Galbiati, Antico Testamento- Utet, Torino 1973, p.128/ col.b, comm. a Gen.-viii. 4) e che da tale zona si siano poi spostati in una doppia direzione, verso il Mediterraneo (i coloni fenici a Cartagine erano denominati dai Latini Poeni) od il Medio Oriente (dall’Iran all’Indo).
120)       Degli Iapheti è detto nelle tradizioni ebraiche che si spinsero verso l’Asia fino all’altezza del Don e verso l’Europa fino all’Atlantico.  Cfr n.128.
121)       B.K. Gosh,  The Origin of the Indo-Aryans; sta in AA.VV, The Cultural Heritage of India- The Ramakrishna Mission Institute of Culture, Calcutta 1958, Vol.I, P.I, Cap.8, p.129, n.1, citaz. di M.Müller compresa (Aryan, in scientific language, is utterly inapplicable to race.  It means language and nothing but language.).  
122)       A.Parpola, Deciphering the Indus Script- Cambridge U., Cambridge-N.York-Melbourne 1994, P.III, Capp. 8 e 9 passim.
123)       Ricerche nel campo dei metalli hanno condotto l’archeologia indiana a ritenere che la conoscenza e la preparazione dei metalli fossero diffuse in India ben prima della data in cui si suppone siano avvenute le invasioni arie.  Cfr. sull’argomento S.Biswas, N.Cakrvorty & A.K. Biswas, Archeo-material Studies in India and Literary Evidences, presso AA.VV., op.cit., Cap.4 sgg.  In particolare il ferro, chiamato in sanscrito in vari modi, parrebbe  corrispondere al s.n. ayas (‘metallo, ferro, arma di metallo o di ferro’) ricorrente piú volte nel gveda.  Tuttavia è necessario distinguere la conoscenza dall’uso pratico d’un dato metallo.  Può darsi insomma che le genti paleo-dravidiche, pur conoscendo il ferro (sempre che non si sia trattato del bronzo o di altro metallo), non ne abbiano fatto l’uso adeguato in guerra per via delle tecniche rituali di combattimento.  Com’è avvenuto da parte dei Cinesi colla polvere da sparo, in precedenza utilizzata a scopi pacifici.  Dato che nelle invasioni arie, o presunte tali, è stato ritenuto decisivo l’utilizzo metallurgico a scopo bellico bisogna ricordare che prima del ferro altri metalli sono stati impiegati allo stesso fine.  Non solo il rame ed il bronzo, dai quali derivano le corrispondenti età archeologiche (le età tradizionali, invece, hanno un significato alchemico-regressivo), ma anche lo stagno e lo zinco.  Lo stagno, proveniente dalle isole britanniche, era molto ricercato dalle officine italiche e greche (G.A. Mansuelli & F.Bosi, Le civiltà dell’Europa antica- Il Mulino, Bologna 1984 [ed.or. Les civilizations de l’Europe ancienne- B.Arthaud, Parigi 1967], Pref. di R.Bloch, pp. 12-3).  Lo zinco veniva invece utilizzato nell’India del XVI sec. a.C. (Bis., ibid., p.54).
124)       Com’è avvenuto colle invasioni islamiche.
125)       Vedi W. Burkert, I Greci- Jaca B., Milano 1984 (ed.or. Griechische Religion der Archaischen und Klassischen Epoche- Stoccarda-Berlino-Colonia-Magonza 1977), Vol.II, C.IV, §2, p.289, n.21.  L’autore commenta in tal modo il fatto che, secondo gli specialisti del settore, non esista un etimo certo per il gr. Χάρων; ma invece esiste, basta cercarlo!  Il termine è connesso palesemente al gr. Κᾱρ (dio del tempo e della morte), nome del paredro della dea Κἠρ, dall’analoga funzione.  I due (Kár-Kr) rappresentano d’altra parte la versione egea della coppia indiana Kāla-Kālī, della quale sono individuabili in Grecia altre varianti tipologiche.  Cfr. G. Acerbi, Le ‘Caste’ secondo Platone. Analisi dei paralleli nel mondo indoeuropeo- Convivium [ed. Sear](A.IV, apr.-giu, N°13), Borzano 1993, P.II, pp. 24-7, n.29.
126)       A.K. Coomaraswamy, Yakas- Munshiram M., N.Delhi 1980, P.II, Cap.II, §2, pp. 35-8.
127)       Cfr. S. Bhattacharji, The Indian Theogony- Cambridge U., Cambrid- ge 1970, P.I, Cap.I, p.38; vedi inoltre Mt.P.- cclxxxvi. 9, anche se il verso fa riferimento solo alla paredra del dio.  Pure a Kāma, noteremo, il  Mt .P.- cliv. 208 assegna per vessillo il Pesce piuttosto che il Coccodrillo (od il Gaviale gangetico).
128)       Iaphet ha avuto secondo la tradizione ebraica (Gen.- x. 2) 7 figli: Gomer, Magog, Madai, Iavan, Tubal, Mešek e Tiras.  L’esegesi biblica ha visto nei figli di Iaphet i seguenti discendenti: da Gomer Cimmeri, Sciti, Ambroni (Liguri, Celti), Cimbri (Gallesi, Irlandesi, Scoti, Pitti) ecc.; da Magog Slavi, Armeni (distinti dai Mini, che erano camiti) ecc.; da Madai Medi, Indo-iranici ecc.; da Iavan Ioni (sta per Greci, ma erano invero un ceppo misto di iapheti, semiti e camiti), Achei ecc.; da Tubal Tibareni, Italici, Circassi, Georgiani ecc.; da Meshek Meshketi, Moschi, Frigi, Illirici ecc.; da Tiras Traci, Juti, Teutoni, Norreni ecc.
129)      Se fosse verso l’Altro Mondo, il ‘Traghettatore’ sarebbe invece da assimilare a Śiva.  È il caso ad es. del Caronte ellenico,  che trasportava i defunti sullo Stige, o dell’omologo indiano Yama.
130)       Vedi Cap.VIII, §m.
131)       Ac., Il Re P., sovr., p.14, n.15.
132)       Vide n.126.
133)       Cfr. n.28.
134)       Cfr. S. Lienhard, Problèmes du syncrétisme religieux au Népal- B.E.F.E.O.- T. LXV, fasc.1, Parigi 1978, pp. 269-70.  Tale studioso sottolinea la netta tendenza da parte dei nepalesi alla venerazione in simbiosi d’una doppia figura divina, come Durgā e Tarā od i due succitati aspetti di Śiva-Mahādeva; non è però una questione di sincretismo (e come tale eretico), diversamente da quanto sostiene l’autore, bensí di semplice tendenza culturale alla sincresi.
135)       Cfr. S. Dasgupta, Obscure Religious Cults- Firma KLM, Calcutta 1976 ( I ed. 1946 ), App. C, pp. 382-7.
136)       Mt.P.- i-ii sgg; Pd.P.- vi. 230, 3-31 (in codesto passo è Makarāsura, controparte asurica del Matsyāvatāra, a rubare i Veda e a portarli in fondo all’Oceano); A.P.- ii. 2, 17/a (ove è specificato al vs.15 che l’assunzione della veste ittiomorfica da parte di Viu per annientare Hayagrīva, sottrattore dei Veda durante il Diluvio, avviene sotto forma di ‘Aureo Pesce Unicorne’) e Kāl.P.- xxxii-iii sgg.
137)       Ecco il grande peccato attribuito a Yima, il Primo Uomo, nella tradizione avestica.  Si noti a tal proposito che Re Yima è chiamato Re Yama dagli indú (vedi sull’argomento Ac., Ya., passim) e questi, parimenti venerato come sovrano in quanto Dharmarāja ossia ‘Re della Legge’, costituisce un alter-ego vedico del puranico Manurāja; al modo come Yima rappresenta per gli zoroastriani un allotipo avestico del pahlavico Mašyē (cfr. coll’av. Mas = ‘Pesce’), evidente personificazione del Kar-mas.  Non a caso, quindi, nei testi cosmologici persiani si annoverano 10 Pesci Kar!  Che l’Avesta (Yt.- xiv. 1-10) conoscesse il motivo avatarico è stato segnalato primieramente da Tilak (The Arc., op.cit., Cap.X, p.286) e ribadito in Ac., Il mit., n.30.
138)       Cfr. con Mannus, mitico progenitore dei Germani, che come Adamo ha 3 mitici figli.
139)       Gros., com.or.
140)       Sul tema delle Settemplici Congiunzioni rinviamo ad Ac., Intr., P.I, pp.  21-3, n.6.
141)       Cfr. n.59.
142)       Her., op.cit., C.IV sgg. 

143)       Per una disamina generale di tutti i passi principali concernenti il Diluvio nella cultura induista ed una comparazione degli stessi con alcuni altri tratti da fonti vicino orientali cfr. S. Suryakanta, The Flood Legend in Sanskrit Literature- S. Chand & Co., Delhi 1950.  L’antologia, corredata da un’introduzione dell’autore che lascia un po’ a desiderare per il proprio commento inadeguato, riporta però un’ampia scelta di brani; tutti i piú importanti, alcuni dei quali citati alla n.136.  Circa un’ulteriore comparazione con il Vicino Oriente si veda inoltre A.Parrot, Déluge et Arche de Noé- Delachaux & Niestlé, Neuchâtel-Parigi 1952, passim; considerazioni generali sul tema dell’Arca e del Diluvio sono invece riportate in G. Liggeri, Simbolismo dell’Arca- V.d.T. (A.XX, Vol.XX, ott.-dic. ’90, N°80), Palermo 1991, pp. 171-83 sgg.
144)       Si analizzi sull’argomento G.Acerbi, Le arcaiche figure tricorni nella glittica della Civiltà dell’Indo e nell’arte rupestre del subcontinente indiano- Acts of XI Valcamonica Symposium (Prehistorical and Tribal Art: SYMBOL AND MYTH), Temú, 6-11 Oct. 1993; dell’inedito indicato, copia del manoscritto del quale è consultabile ad ogni modo presso la Biblioteca del C.C.S.P. di Capo di Ponte, cfr. §b.4, ii, n.17.  Il nostro art. aggiornato e ampliato in un libro, pur mantenendo o quasi la suddivisione originale dei paragrafi, è ora in fase di ristesura in vista d’una riedizione con titolo del tutto rinnovato (Il Magnus Piscis e la Triplice Via verso il Paradiso ).
145)       Ac., art.cit.,  §b.4, ii sgg.
146)       Coom., op.cit.
147)       Se l’uranico nume viene inteso quale dio aureo, indistintamente, equivale a Brahmā.  Qualora si voglia invece distinguere piú approfonditamente i 2 Mahāyuga all’interno del VII Manvantara, come già riferito al §l, Brahmā (o Manu) presiede al I Mahāyuga e Varua (o Sāgara) al secondo; presso gli Orfici in parallelo Eros domina il I Grande Anno e Urano il II, presso Platone (Tim.- xiii)  invece Urano il I ed Oceano il II.
148)       Yama similmente a Varua adempie alla doppia funzione di traghettatore d’anime in vita ed in morte, fungendo nel contempo da ‘Primo Uomo’ e da ‘Primo Mortale’.  Il Daṇḍa (‘Verga’) che tiene nella mano destra presenta il nume nella funzione essenziale di manifestatore di tutte le forme, mentre il Pāśa (‘Cappio’) che tiene nella sinistra denota la sublime capacità del medesimo di trasformare il cosmo.
149)       Sul rapporto d’analogia, ed insieme di distinzione, fra il dio Giano e il dio Urano nelle rispettive mitologie vide infra.
150)       Il ruolo simbolico del Rostro del Delfino è affrontato nel Cap.II, ma è evidente che essendo il Capricorno astrologicamente il Segno di dominio del pianeta Saturno, abbia ipso facto a che fare con morte e distruzione ovvero con Yama.  Sebbene in mitologia il dio Saturno sia figlio di Giano, equivalente latino di Yama.
151)       Sul tema cfr. G.Acerbi, Metafisica dello Zero- Alle pendici del Meru blog (6-10-06), sgg.; ripubblicato, in forma corretta e maggiormente ampia, in una duplicazione dello stesso sito: Alle pendici del Monte Meru (3-11-14).
152)       P.V.M., Buc.- iv sgg, (prem. Alla IV Ecl. di S.Pennacchietti), p.93.
153)       Cfr. con Vāruī, la Figlia/Sposa di Varua, successivamente doppiata nel secondo ruolo da Varuānī.   Entrambe vengono identificate a Gaurī.
154)       Vedi quale esempio d’arte peloponnesiaca Afrodite a cavalcioni del Montone su un coperchio di specchio (IV sec. a.C.) di Preneste (Palestrina), presso Roma, ora custodita al Louvre; cfr. J.Charbonneaux-R.Martin-M.Villard, La Grecia classica (480-330 a.C.) – Rizzoli, Milano 1970 (Grèce classique- Gallimard, Parigi 1969), P.sec., p.226, fig.257.  Tale raffigurazione, essendo in Grecia Afrodite la dea della giustizia e dell’armonia cosmica, equivale in India a quella di Dharma (la ‘Legge’ personificata) su Mea (‘Ariete’); cfr., in proposito, Ac., op.cit., Vol.II, p.585, fig.27.  Su G.Liebert, Iconographic Dictionary of the Indian Religions…- E.J. Brill, Leida 1976 (s.v. DHARMA, p.74, coll. a-b) è scritto che Dharma è lo sposo delle 13 <figlie> di Daka, detto nume sovrintendendo alla Ruota dell’Ordine (Dharmacakra), e non a caso monta l’animale-emblema del primo segno zodiacale.  Per questo motivo il Mea era anche uno degli animali di Varua in età vedica (ibid., p.331, col.a), poiché durante il Dvāparayuga si venerava da sacra ruota lo Zodiaco Solare.  L’associazione Varua-Mea è praticamente un associazione Varua-Mitra, visto che il dio (corrispettivo, checché se ne dica, del Marte latino oltreché del Mithra iranico) governa tal Rāśi (‘Segno’).  Stessa cosa valga per Venere.
155)       E.Anati, Origini dell’arte e della concettualità- Jaca Book, Milano 1989, Cap.VI, p.171, fig.106; cfr., inoltre, il Cap.III passim.
156)       Sebbene nell’iconografia pagana tarda detenga pur sempre come veicolo il Cervo, analogamente al suo equivalente latino Saturno ed in maniera non troppo dissimile da Artemide.  Vi è da credere, dunque, che fosse cosí anche in passato
157)       Etimologicamente il scr. Yama (‘gemello’) è rapportabile all’ir. Yima, al norr. Ymir, nonché al lat. Iānus; tutte figure eminentemente androginiche, quantunque poi sdoppiate al femminile.  Cfr. ad es.la ‘gemellarità’ di Yama colla Duplice Faccia (Gemini) solstiziale di Iānus, cui era attribuita non per niente la Verga quale fattore equilibrante unipolare nella tradizione romana arcaica.
158)       Essendo duplice in senso paradisiaco od infero, Yama (cfr. nn. 137 e 148) può esser ritenuto un equivalente del II Avatāra, incarnante la prima forma forma di dualità.  I punti di contatto fra Brahmā ed il I Avatāra son dati invece dalla loro reciproca non-dualità.  In quanto a Varua (lett. ’Avvolgente’) è paragonabile a Varāha (l’Uomo-verro del Ciclo Orientale), dato che esattamente come il platonico Ώκεανός (il ‘Circondante’, scr. acayana = id.) era direzionalmente  in origine il Signore dell’Oriente, sebbene poi spodestato da Indra. 
159)       M.Eliade, Trattato di storia delle religioni- Boringhieri, Torino 1976 (ed.or. Traité d’histoire des religions- Payot, Parigi 1948), Cap.II, §20, p.74 ss.  Purtroppo l’autore si contraddice, perché se da un lato ha coscienza del diretto rapporto fra il Varua originario ed Urano (p.76), come testimonia il scr. v = ‘avvolgere’; dall’altro accetta la lezione di H.Petersson, fatta propria anche da Güntert e Dumézil (§21, p.78), che ne fa derivare il nome dalla base ie.*uer- = ‘legare’.  Sarebbe come dire che il nome Manu, allorché viene riciclato quale signore kaliyughico nei testi tardi, smette di fungere da archetipo umano primevo come in quelli piú antichi e quindi bisognerebbe farlo derivare dal termine manava, designante l’uomo dell’ultima epoca.  L’etimo vero non è questo, ma semmai il contrario, visto che Manu è da connettere in realtà alla base ie.*mn- indicante la luna.  Giacché l’Ilāvta costituisce il mondo immediatamente sublunare.  Parimenti Varua incarna il modello del perfetto sovrano in senso sovrannaturale (cioè shamanico, anche se non proprio un rex-sacerdos come il primordiale Manu), proprio perché rappresenta il Signore del Cielo che vela i misteri (nel senso della Tenda Celeste), ma simultaneamente è il Signore dell’Ordine in rapporto allo spazio ordinato (cosmo).  Il tema del legare proviene appunto dal concetto di Dharmacakra, l’Axis Mundi facendo da perno.
160)       Su tal personaggio sono usciti i seguenti studi che non abbiamo potuto purtroppo analizzare essendo essi di difficile reperibilità: J. K. Locke, Rato Matsyendranath of Patna and Bungamati- Tribh. U., Kathmandu 1973 e Id., Karuamaya. The Cult of Avalokiteśvara Matsyendranath in the Valley of Nepal- Sahayogi, Tribh.U., Kathmandu 1980.  
161)       Her., op.cit., Cap.IV passim.  Heras spiega (ibid., §iv, pp. 426-7 e v, pp. 427-31)  impiegando foto appropriate (ib., figg. 282-6) che annualmente a Madurai la gente del popolo, in accordo colle autorità del Tempio di Mīnākī, commemora l’evento diluviale primevo nella seguente maniera cerimoniale.  In questa festa viene eretto un mandapa (padiglione) dinanzi ad un tempietto, ove si raccoglie una grande folla.  Una ragazzina, abbellita ed inghirlandata, incarna la dea ‘dagli occhi-pescini’.  Essa si reca colà, presso la pozza chiamata Valaivisuntepakkulam (‘Pozza del gettito della rete’), onde testimoniare della pesca del Pesce, simboleggiante il Matsya che ha impartito l’insegnamento a Manurāja.  A questo punto la giovane dea sceglie un suo rappresentante maschile affinché le prenda il Pesce e questi a sua volta sceglie alcuni giovani aiutanti.  Appena l’animale è stato pescato con una rete si assiste ad un giubilo generale della folla.  Il Pesce è posto prima ritualmente in un vaso di vetro, in ricordo del gesto di Re Manu e della richiesta conseguente del Matsya, e poi trasportato con una palanchina verso uno degli elefanti riccamente bardati inviati allo scopo dalle autorità del tempio.  Tale elefante, che apre la processione, porta una bandierina colla raffigurazione di Mīnākī.  Si uniscono intanto al corteo altre palanchine con immagini della dea.  Raggiunto il tempio, il Pesce è presentato alla dea e rimane in custodia nel vaso per vari giorni; dopodiché è portato alla pozza chiamata Teppakulam e rigettato nell’acqua, ad imitazione di quanto fece Manu.  Sul parapetto della scala che scende  verso la pozza è riportata un’immagine (p.421, fig.79), pressoché unica nel mondo indiano a quanto ci risulta, del Matsya Ekaśṛṅga; il rostro comunque non è né un dente né un corno, ma una proboscide alla maniera del Makara.  A differenza del Makara, che ha morfologicamente corpo di rettile e coda talvolta pescina, qui ci troviamo di fronte ad un vero mahāmatsya d’imprecisabile natura.  Heras aggiunge peraltro che in passato la festa aveva probabilmente un carattere fluviale, svolgendosi presso il fiume Kritamal, ora ridotto ad un fangoso canale abbandonato; codesto fiume si estende da una pozza detta Madākkulam, unendosi sul lato sudovest di Madurai al Vaigai.  Essendo il Kritamal oggi impraticabile, ecco che l’inizio della cerimonia è stata spostata alla vicina pozza sopraddetta.
162)       In una posizione cronologicamente intermedia sta il Matsyanātha del N.P., Utt.- lxix. 2-26, ivi denominato anche Siddhanātha.  La vicenda narra di un giovane brāhmaa (nato nel Pukaradvīpa od ‘Isola di Loto’), il quale essendo stato generato in un periodo astrale infausto è gettato dai genitori in mare; quivi dapprima inghiottito nel <ventre> di un Grosso Pesce e di poi sbalzato nel Mondo Supremo (lett. “sulla cima del Lokāloka”), ove Śiva è in atto di comunicare alla sua consorte (Umā in altri testi Gaurī) i principî basilari dello Jñanayoga e del Dhyānayoga, viene ad apprenderli casualmente ed è alfine adottato quale figlio spirituale della Devī.   
163)       Her., op.cit., §ii.A, p.415, fig.276.  In una diversa ma altrettanto rara se non unica rappresentazione in altorilievo del Tempio di Ketapanārāyaa a Bhaktal (K.B. Iyer, Animals in Indian Sculpture- Taraporevala, Bombay 1977, C.XI, p.74, con rif. alla tav.CXXXII) assistiamo all’interno d’un riquadro scultoreo ad una misteriosa scomposizione iconografica in doppia sequenza fra tre figure.  Da una parte — se interpretiamo bene queste icone del XVII-XVIII sec. d.C. — abbiamo Manu in piedi che impugna il Vaso, simbolo del Cuore, la dimora costante del Brahma nel I Ciclo Avatarico; allorché l’Uomo viveva solitario nell’Ilāvta e gioiva di quell’unica presenza interiore che era in lui il Sacro Monosillabo (cioè il Verbo Divino).  Dall’altra troviamo il Matsyāvatāra, incarnazione di Viu e prima figura profetica del VII Manvantara, seduto sul Pesce a mo’ di Manu ed in tal modo distinto dal Brahma.  La cosa è assolutamente insolita, giacché codesto avatāra non assume mai nell’iconologia forma interamente umana, seppure sia visto comunemente fuoriuscire a mezzobusto dalla ‘Bocca del Pesce’.  Coll’unica eccezione della precedente raffigurazione.  Crediamo che questa triplice raffigurazione (il Matsya, l’Avatāra sul Matsya e Manu col Kamaṇḍalu) sia la medesima cosa del Tripurua della Gītā; cioè l’Assoluto, l’Avatāra e il  Primo Uomo (in senso celeste).  Piú o meno quello che insegnavano anche i Vangeli Apocrifi (in particolare la Sophia Jesu Christi- 2, 15 e 20) od il Cristianesimo nascente, pre-niceno, i quali ponevano tri-unitariamente un Προπάτωρ – lett. ‘Primo Padre’ ossia il Padre naturale o carnale, insomma l’Uomo siccome Adamo Celeste con tutto il proprio séguito di Salvatori (Σωτῆρες) Perfetti (Τέλειοι) – nel ruolo intermedio; ai due punti opposti stavano invece da un lato l’Αὔτοπάτωρ e cioè l’Assoluto (il Signore di Tutto, la Luce Infinita) e dall’altro il semplice Σωτῆρ (‘Salvatore’) inteso quale ‘Angelo Illuminatore’ (Messaggero di Luce), il Cristo (“Figlio dell’Uomo”) in quanto Verbo essendo posto a mezzo fra di loro, ovvero nella serie dei Τέλειοι Σωτῆρες.  Cfr. in proposito M.Erbetta, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento. Vangeli, testi giudeo-cristiani e gnostici- Marietti, Casale M. (Al) 1975, pp. 303/ col.a, 305/ col.a e 306/ col.a.  Come ci ha fatto notare giustamente l’Albrile (com.or.), gli Gnostici non prendevano in considerazione i Profeti; per cui non si può ivi parlare di dottrina trinitaria in senso post-niceno, ma semmai di tri-unità.  Si trattava realmente d’un vangelo gnostico oppure insieme ad altri di quel tipo, fra i manoscritti rinvenuti a Nag Hammādi, c’erano pure dei Vangeli <nazareni>?  Come si può pensare che non ne esistessero, visto che il <Nazareno> per antonomasia veniva proprio dal Nazarenismo (e non da Nazareth, come si è creduto erroneamente)?  Ciò per il fatto che la posizione spirituale donde sono poi originati il Cattolicesimo e l’Ortodossia si ricollegavano tramite S.Paolo e S.Giovanni Battista ad una scuola spirituale per cosí dire di centro: l’Essenismo, vale a dire l’equivalente ebraico del Vishnuismo.  Mentre lo Gnosticismo era una scuola di destra o di sinistra, alla maniera shivaita.  Rispetto allo Gnosticismo l’Islamismo non ha cambiato di molto le cose, solo ha aggiunto alla lista dei Perfetti Salvatori Maometto; o per meglio dire la Haqīqat Mohammadīya (‘Verità Mohammadica’), equivalente al Verbum Christi.  Cfr. H.Corbin, Storia della filosofia islamica- Adelphi, Milano 1973 (Histoire de la philosophie islamique- Gallimard, Parigi 1964, Vol.I), Cap.II, §A.3, p.55.
164)       H.W. Schumann, Immagini buddhiste. Manuale iconografico del buddhismo mahāyāna e tantrayāna- Mediterranee, Roma 1989 (ed.or. Buddhistiche Bilderwelt- E. Diedrichs, Colonia 1986), p.302, fig.328.
165)       Per  parallelismi occidentali e vicino orientali sulla simbologia ittica da Giona a Cristo, da Giano a Oannes, cfr. R.Guénon, Simboli della Scienza sacra- Adelphi, Milano 1975 (ed.or. Symboles fondamentaux de la Science sacrée- Gallimard, Parigi 1962); in particolare i due articoli sul simbolismo del pesce ed i misteri della lettera Nun, §§ 22-3, pp. 136-45.  Da parte nostra siamo convinti tuttavia, diversamente da quanto sostenuto dall’autore francese (ibid., pp. 137 e 141) e da altri, che la simbologia del Matsyāvatāra non si riferisca al periodo intercorrente fra la fine del VI Manvantara e l’inizio del VII; bensí a quello fra la fine del I Ciclo Avatarico e l’inizio del II, sebbene in generale riguardi l’intero periodo ciclico con cui ha principiato il Caturyuga appena trascorso.  Ciò per il semplice fatto che, tenendo per buono il dato sopra indicato, avremmo quale assurda conseguenza che il X Avatāra (il cd. Kalki) avrebbe già effettuato la sua ‘Discesa’ all’inizio del Kaliyuga; mentre sappiamo bene che non può essere cosí, visto che lo stesso Guénon ha identificato chiaramente tal personaggio al Cristo apocalittico del ‘Secondo Avvento’ (ib., p.136, n.4).  Per ulteriori precisazioni sull’argomento rinviamo al nostro art. segnalato alla n.23.  Bisogna comunque tener conto che esistono dati puranici interpretabili, per trasposizione, in riferimento all’inizio del Kalpa piuttosto che a quello del Manvantara; onde, trattandosi d’un periodo cronologicamente tanto lontano da noi, lo si definisce nei testi per analogia anziché su un piano di reale corrispondenza mitologica.  Il dato concerne alternativamente non solo il Matsya, ma anche anche lo Śvetavarāha, vale a dire il Cinghiale Bianco.
166)       M.W. Meister (a cura di), DISCOURSES ON ŚIVA. Proceedings of a Symposium of a Nature of Religious Imagery- Pennsylvania U., Philadelphia 1984, C.X, p.150.
167)       Cfr. L. Chandra, Buddhist iconography- Aditya P., N.Delhi 1987, Vol.II, p. 404, fig.1097 e 473, fig.1371; inoltre P.C. Bagchi, Kaulajñāna-niraya of the School of Matsyendranātha- Prachya P., Benares 1986, Intr., IV, p.29 e Sch., op.cit., pp. 301-2.  Allorché Mīna è però ritratto in veste di semplice siddha (Ch., op.cit., p.688, fig.2215/ 12), senza implicazioni numinose, il Pesce viene a mancare.
168)       Cfr. P. Pal, The Arts of Nepal (vol.II: Painting) – Brill, Leida 1978, fig.51.
169)       Ibid., fig.22.
170)       Il Pañcarātra, cosí denominato per il fatto di concepire dei vyūha (‘emanazioni’) di Viu, 4 maggiori e 12 minori, è la piú antica scuola vishnuita.  Risale ai cultori del Viu Purāṇa. (III-IV sec.d.C. c., ma con frammenti del I).  Mentre gli Śri-vaiava, vedi ad es. il fondatore Nāthamuni (X sec. d.C.) ed il nipote Yamunācārya (X-XI sec.), al contrario tenevano per massima autorità il loro contemporaneo Bhāgavata Purāṇa (c.X sec. d.C.) e facevano affidamento su un diverso tipo di manifestazioni del Supremo: i 10 Avatāra (‘Discese’), anziché i 5 Vyūha.  Occorre aggiungere che essi avevano in certo senso codificato la fede di anacoreti meridionali noti fin dai tempi pre-cristiani, diversi dai pañcarātrin (provenienti da nord nonché piú sistematici), e denominati vaikhānasa; da Vaikhānas, il loro fondatore, ripreso dagli Ālvār.  Costoro erano 12 grandi santi tamil (VII-IX sec. d.C.) vissuti alla corte del Regno Pallava o Parthava (III-IX sec.), i quali nei primi secoli dell’E.V. veneravano il Bhagavat e la Bhagavadgītā (IV-II sec. a.C. c.).  Il maggiore fra loro fu Nammālvār.  Rispetto agli Ālvār i vaikhānasa ossequiavano invece di preferenza Viu sotto forma di Nārāyaa, concedendo d’altronde spazio piú ampio alla consorte Śrī-Lakmī.  Rāmānuja compí una sintesi di tutto il vishnuismo precedente, quello almeno legato a Lakmī, nessun ruolo lasciando a Rādhā.
171)       Stut., op.cit., s.v. Mīnā, p.279/ col.b.
172)       Ac., Le arc., §a sgg; inoltre, figg. 1, 2 e 4.
173)       Coom., P.I, Introd., p.9.
174)       M. Monier- Williams, Sanskrit-English Dictionary...- Munshiram M., N. Delhi 1981 (ed.or. Clarendon, Oxford 1899) sv. Mīna, p.818/ col.c.
175)      Il termine brahman proviene secondo gli studiosi dalla Öv+man (S. Radhakrishnan, Storia della filosofia orientale- Feltrinelli, Milano 1962, T.II, P.II, C.XIV, §C.1, p.423; ed.or.), con il valore di ‘colui che possiede la grandezza’.  Forse perché essi lo collegano con il termine vīr-a (‘uomo’ in senso virile), lat.vīr (id.).  Donde il s.m. vīr-y-a (‘vigore, forza, potenza’), lat.vīs (id.).  Si tratta d’un etimo, tutto sommato, accettabile; da parte nostra preferiamo però connetterlo piú direttamente al vr. v (‘velare, circondare’), in quanto rappresenta al modo del Kālapurua il principio dell’Essere insito nella Ruota Cosmica, iconologicamente raffigurato non a caso sdraiato all’interno di questa.  D’altra parte, la voce v se diversamente coniugata ha differente accezione e vale per ‘amare’.  Ciò che fa di Brahmā, il primo dio indú secondo la letteratura puranica, un corrispettivo indiano di ρως (primo nume per gli orfici).  E difatti è davvero cosí, visto che la comune radice primaria di entrambe le voci è la base *, da cui provengono evidentemente sia la parola greca che quella sanscrita, l’una per vocalizzazione del tema (*er-) e l’altra per semivocalizzazione (*vri-, talora invertita eufonicamente in *vir-).  Non è Eros nato dall’argenteo ’Uovo del Mondo’ (scr. Brahmāṇḍa) covato dalla Notte?  Per capire cosa rappresentasse realmente Eros nel mondo ellenico basta pensare al fatto che il corrispondente indiano del dio orfico, anche in termini figurativi, è quel Kāma nato direttamente dalla <Mente> di Brahmā — con cui parzialmente s’identifica — avente nell’I  (od ¦) di dantesca memoria la sua peculiare effigie grafica.  E non è certo un caso che l’Alighieri fosse, iniziaticamente, un ‘Fedele d’Amore... 
176)       Il vero punto di vista brahmanico non è tuttavia il monismo shankariano, che può esser considerato uno shivaismo meridionale brahmanizzato; ma semmai quello upanishadico, ove non vi è ombra alcuna della Māyā.  In altre parole, è nell’ossequio dell’Īś e nelle connesioni di tal ossequio con quello dell’Ys/Yz paleo-asiatico (G. Acerbi, Il culto del Narvàlo, della Balena e di altri mammiferi nello sciamanesimo artico, presso Il Tamburo e l’esatasi. Sciamanesimo d’oriente e d’occidente- Avallon, Rimini 2001, pp. 55-78) che è possibile rintracciare uno stralcio di pensiero quasi davvero primevo.  Il pensiero primevo andava ancor oltre il punto di vista già elevatissimo dei Paleo-siberiani, attinente cosmograficamente all’Ecumene Nordorientale, o Śākadvīpa.
177)       Probabilmente dovette esser cosí per ogni divinità, dacché gli elementi cultuali antropomorfici subentrano successivamente a quelli teriomorfici.  I veicoli divini, dunque, evidenziano sensibilmente nella loro rozzezza la natura primigenia dei numi.
178)       Cfr. ad es. V.K. Karambelkar, Matsyendranatha and His Yogini Cult- I.H.Q. ( Vol.XXXI, N°4 ), Caxton P., Delhi 1955, p.362 sgg.
179)       Bag., op.cit., pp. 8 e 14.
180)       Op.cit., III-IV sgg.  L’Intr. del Bagchi (pp. 9-22) offre un’analisi dettagliata delle principali varianti del ciclo leggendario di Matsyendra, citando differenti versioni letterarie del mito (una bengalese, due nepalesi, quattro panjâbi o nordorientali); sono segnalati inoltre dei passi di alcuni testi tantrici (uno in particolare tratto dal Kaulajñāna Niraya stesso, scrittura attribuita all’XI sec.) ed altri di provenienza puranica (uno dello Skanda Purāṇa, considerato – non potremmo dire se a ragione o a torto – d’origine tarda), insieme ad ulteriori tradizioni piú frammentarie sparse qua e là (Kālidāsa, Kabirdāsa, storie indiane e tibetane o brahmaniche indipendenti).  L’autore, pur nella sua ricerca puntigliosa, dimentica comunque di menzionare una versione della leggenda che è forse la base primaria di conoscenza del soggetto oggi in nostro possesso; ossia un passo del Nāraḍīya Purāṇa, sfuggito d’altronde pure al Karambelkar (art.cit.).  Ad esso sembrerebbe collegarsi quello medesimo, succitato, dello Skanda Purāṇa.
181)       Che Uparicaravasu incarnasse un etereo sovrano di connotazione kritayughica è provato ulteriormente dal fatto che Indra lo aveva dotato d’un carro di cristallo (Ādip., lxiii) con cui, non meno di quanto era possibile a Salomone col suo Trono Volante, solcava i cieli.  Questa la ragione dell’appellativo di Uparicara.  Il significato polare della figura è altresí evidente, dato che lo stesso passo mahabharatiano testé citato c’informa di come Re Vasu avesse stabilito di piantare un polo di bambú quale rito primevo al fine di onorare la retta via e la pace.  Il rito è stato imitato da tutti i re venuti dopo di lui.  Si tratta di simboli, come insegna Guénon, dei Piccoli e dei Grandi Misteri.
182)       Si noti che l’associazione fra il Re degli Dei (Devarāja) ed i membri della Trimūrti si trova, effettivamente e piú chiaramente, in altri testi che non nel Mahābhārata.  Vedi, ad es. il D.Bh.P.- iii. 11.18.  Il che giustifica, in certo modo, le argomentazioni da noi svolte su di loro e sulle rispettive paredre.
183)       Cioè della pura meditazione sull’Au, secondo quanto attestato nel Mhbh., Vanap.- cxlix. 19/ b.
184)       Con Bhīṣma unico superstite, similmente ad Achille; la differenza unica è che Bhīṣma è l’ottavo, Achille il settimo.  Cft. Cap.V, §h.
185)       Come testimonia in altro contesto il simbolismo avatarico settenario di Rāmacandra, l’equivalente induista del Set  egizio.  Quest’ultimo è dal manicheista Plutarco (De Is., 41/d) paragonato invero al Tifone greco, dalla testa asinina; ma è chiaro che nell’ambito della figura del Rāma lunare, lo sposo non per niente di Sītā (lett.‘solco’, fatto che collega tale femmina all’orticoltura avanzata del bastone da trapianto di tipo amerindo-setita), va inclusa la mitologia dell’onocefalo Rāvaa.  Del resto anche Set ha un volto solare (igneo-luminoso), se inteso alla stregua del Saturno latino, anziché lunare (igneo-notturno).  Non a caso, in Europa, si dà all’ultimo dei pianeti visibili ancor oggi questo nome.  Il color verde di Rāma indica la signoria sulla vegetazione, ad un tempo solare e lunare; nel doppio senso, rispettivamente essicatorio ed imbrifero.
186)       Altri (E.Moor, The Hindu Pantheon- Asian Educ.Serv., N.Delhi 1981, I ed. Londra 1810, Cap.XXVII [n.num.], p.429) traduce con ‘Triplice Treccia’. Per l’accezione microcosmica e rituale del tema vide n.194.
187)       Ibid., tav.75, fig.2. 
188)       Il termine significa ‘ascolto’ e deriva dal vr. śru (‘udire’).  Si riferisce, letteralmente, alle formulazioni mantriche dei Veda, escogitate dai i nei tempi che furono e trasmesse da una generazione all’altra per via orale.  La Pśṛ- del vocabolo tuttavia si rifà visibilmente ad una voce, śr-ī, denotante ‘luce, splendore; gloria, bellezza’ ed a sua volta connessa con un verbo omonimo, che significa ‘bruciare, diffonder luce’.
189)       Veramente le tavole presentate nel libro sono composte tutte di di- segni in bn, sicuramente per motivi editoriali.
190)       Ib., p.429.
191)       La donna amata da Kṛṣṇa, piú ancora della moglie legittima Rukminī.
192)       Vide n.226.
193)       Cfr. G.Acerbi, Le Tre Vie- Alle pendici del Monte Meru, blog (6-11-14), §b, p.4.
194)       Gli aspetti esoterici del tempio in rapporto alle 3 sacre Correnti (Nadī) sono analizzati in H. Von Stietencron, Gagā und Yamunā- O.Harrassowitz, Wiesbaden 1972, Cap.IX, pp. 138-9.  Sul tema si analizzi G.Acerbi, Le Nadī negli studi di Heinreich von Stietencron- Alle pendici del Monte Meru (blog, 26-01-17) sgg.
195)       Su di esso vedasi G.Acerbi, Alcune note sul Makara- Alle pendici del Monte Meru (blog, 27-01-17) sgg.
196)       C.Sivaramamurti, Gagā- Orient Longman, N.Delhi 1976, foto della cop.ant.; ma non si comprende bene purtroppo, dalla citaz. della cop.retr., se il disegno dellla pittura ad acquerello della Sangam Press con a sfondo gll Himālaya sia solamente una fantasia artistica contemporanea utilizzata per la stampa del libro od una vera icona ideata su base tradizionale. 
197)       Su Kūrma come emblema solare di Yamunā cfr. V.Stiet., Cap.VII, p.137.  Se Gagā è un fiume dal carattere lunare, Yamunā ha un carattere solare.  Infatti quest’ultima (personificata) identificasi a Yamī, la sposa-sorella di Yama (alter-ego di Manu), ed in quanto tale è figlia del Sole (Vivasvat).  Il  rapporto incestuoso fra Yama e Yamī/Yamunā è analogo a quello fra Manu e Parśu (Adamo ed Eva). 
198)       Su Sarasvatī con Hasa (‘Oca Selvatica’), Śuka (‘Pappagallo’) o Mayūra (‘Pavone’) in alternativa al Padma (‘Loto’) cfr. Lieb., op.cit., s.v.SARASVATĪ, pp. 260/ col.b e 261/ col.a.  Da notare che, talora, persino Varua compare su Hasa.
199)       Sivar., op.cit., Cap.1, pp. 2 e 4, figg. 1-2.  Il testo riporta in proposito due altorilievi del Sacro Vaso, uno di stile Hoysala e l’altro di stile Calukya Occ., entrambi dal Mysore e del XII sec.
200)       Nella tradizione azteca si parla dell’Atl-tlachinolli (‘Acqua-che brucia’) come del risultato finale della ‘guerra fiorente’, condotta dentro di sé ed avente per trofeo la propria anima.  Cfr. L.Sejourné, Quetzalcoatl, il Serpente Piumato- Il Saggiatore, Milano 1959 (ed.or. Burning Water- Thames & Hudson, Londra 1956), P.III, Cap.5 sgg.
201)       Il Cuore del Mondo, chiaramente, è tutt’uno col Paradiso Celeste.  Ciò può esser inteso anche in senso ascendente, non solo discendente.  In tal modo, allora, il Vaso di Grazia o d’Abbondanza diviene un Athanor capace di favorire la ‘Grande Opera’.
202)       Non a caso il Paradiso Terrestre, in un manoscritto italiano del XV sec., è effigiato come un vaso.  Vide E.Neumann, The Great Mother. An Analysis of the Archetype- Princeton Un.P., Princeton 1972  (I ed. Bollingen F., N.York 1955), tav.169.  Vaso trasformativo, di cui il Neumamm sottolinea la natura di contenitore degli opposti,  che ovviamente riprende il simbolismo della fonte battesimale, cancellatrice in senso virtuale del Peccato Originale.  Cfr. pure, ibid., la tav.168.  In questa miniatura, realizzata fra il XIV e il XV sec., s’intravedono l’Uomo e la Donna archetipici psichicamente rinnovabili all’interno dell’acquasantiera a causa dello Spirito Santo.
203)       Il soggetto sarà trattato ampiamente al Cap.III, §§ c-e.
204)       V.Stiet., op.cit.,  Cap.VI sgg.
205)        La fonte piú importante del mito di Trivikrama trovasi, come logico, nel Vāmana Purāṇa ; particolarmente nel Sāromahātmya- i.10, contenuto fra i Capp. 23-4, ma il mito è ripreso poi nel finale (62-8).  In questo testo vi è chiara la connessione del Nano collo Yajña allestito da Bali, re dei daitya (demoni). 
206)       Vāma-deva viene lett. interpretato come il ‘dio di sinistra’, con riferimento ad una delle 5 Facce di Sadāśiva alias Pañcānana, sottintendenti i 5 Elementi; ma, inteso separatamente, è uno dei 5 Rudra e come tale desctitto dallo Śilpa Prakāśa in codesta maniera: una figura danzante dalla capigliatura rossiccia ed arruffata, adorna di serpi ed indossante la ghirlanda di teschi, con in mano la spada e l’ascia, gli occhi rossi ed i denti felini, nudo e col fallo eretto.  Una scultura gupta del V sec., rintracciabile in un tempio shivaita di Nāchna K. (India C.), aggiunge tuttavia un particolare non riportato dal testo, vale a dire lo dipinge come un nano.  Esattamente al modo di Vāmana, particolari shivaici a parte.  Vide C.Sivaramamurti, Natarāja in Art, Thought and Literature- National M., N.Delhi 1974, Cap.VIII,p.114,  fig.12.  È evidente che è Vāmadeva e non Vāmana, la cui storia è stata abbellita di significati vishnuiti sicuramente estranei al contesto originario, a rappresentare lo spirito dello Yajña proprio del Treta.  Qualcosa di simile deve esser accaduto a Bhairava nei confronti di Varāhāvatāra, per non parlare di altre consimili personaggi (Narasiha, Paraśurāma, Rāmacandra). 
207)       Altre fonti sono elencate in V.Stiet., op.cit., p.61, nn. 139-40.
208)       In bibliografia Sivaramamurti non menziona invero né tradizioni orali né fonti testuali, a parte il Viudharmottara. 
209)       L’autore tedesco ci rammenta che la ‘liberazione delle acque’ nel Veda era Indra a provocarla.  Questo è un tipico problema generato dalla confusione filologico-storicistica fra il tempo di datazione delle sacre scritture ed il tempo reale del mito.  Non è perché un testo appare piú datato che necessariamente si debba attribuire maggior antichità ai motivi simbolici presi in considerazione da esso.  Quel che conta sempre è il riferimento ciclico, concetto purtroppo quasi del tutto estraneo alla filologia classica, con rare eccezioni.
210)       Mentre Sivaramamurti designa con detto nome il Cielo, per le ragioni sopra indicate, Von Stietencron lo associa limitatamente alla Fontana Celeste sgorgata dal ‘Terzo Passo’.
211)       Per una raffigurazione del tema nel X sec., in Nepāl, vide Sivar., Ga., p.12, fig.3.
212)       Il nostro punto di vista sull’argomento è espresso in Ac., Le sac., passim.
213)       A tal proposito, segnaliamo il fatto che in Grecia si celebrasse la commemorazione dell’anniversario della morte in feste denominate τἀ γενέσια.
214)       Sull’alternarsi vitale di Soma ed Agni nella vita universale cfr. G.Acerbi, Apam Napat. Il valore delle Acque nella letteratura vedica e nella cultura hindu- Alle pendici del Monte Meru, blog (19-06-14), passim.  Cfr., inoltre, n.200.
215)       La ripartizione degli Antenati nei vari settori cosmici non dipende da una convenzione culturale d’origine storica, bensí dallo stato spirituale da loro raggiunto in vita od acquisito passivamente per appartenenza ad una determinata epoca ciclica.  In India come altrove.  Esiodo (Op.- 106-201) spiega bene la questione, attestando che gli esseri aurei una volta morti hanno raggiunto lo stato di δαίμονες ἐπιχθόνιοι (‘demoni sovraterreni’), mentre gli esseri argentei sono diventati δαίμονες ὑποχθόνιοι (‘demoni infraterreni’), ma pur sempre beati; invece gli esseri bronzei, essendosi dedicati alle “violenze di Ares”, sono scesi all’Ade senza onore.  Gli eroi, loro discendenti, avendo parzialmente cambiato rotta sono finiti alle “Isole dei Beati; presso l’Oceano dai gorghi profondi”, identificabili alle Tre Atlantidi.  Infine postula in base ad una terribile premonizione che gli esseri ferrei, conduttori di una vita sacrilega e divorati da gelosie reciproche, avrebbero avuto nel post-mortem il destino meritato nella loro vita di uomini caduchi.  Per costoro non ci sarebbe stata difesa contro il male.
216)       Si tenga presente che tanto in India come in Grecia il piano terreno di riferimento è quello ideale, paradisiaco; onde tutto ciò che si situa su un piano inferiore, per motivi ciclici e non, appare logicamente infraterreno.
217)       Secondo la Ke.U.- xxv un allonimo della figlia di Re Himavat (= Pārvata), personificazione degli Himālaya.
218)       Sivar., op.cit., p.20, fig.7.
219)       Ibid., p.18, fig.6.
220)       Ib., p.60, fig.28.
221)       P.80, fig.39.   
222)       Ecco, a seguire, i principali: Gagā in qualità di corrente celeste (suranimnagā) sotto il Kalpavka (p.62, fig.29); Gagā quale ombrello protettivo su Śiva-Mahādeva (p.32, fig.11); Gagā in visarjanamūrti, ove Śiva la libera su preghiera dell’asceta Bhagīratha dopo averla tenuta prigioniera nelle sue chiome (p.64, fig.30); Jhānavī Gagā ricevuta nel Vaso di Jahnu, padre della devī, e metaforicamente liberata dall’orecchio del saggio per fluire dagli Himālaya (p.66, fig.34); Gagā e gli 8 Vasu (p.70, fig.32); Bānagagā, il getto d’acqua fluito dalla freccia scoccata da Arjuna nel terreno onde saziare la sete di Bhīṣma, imitato nel rituale funebre ancor oggi col gesto di portar acqua alla bocca del morto per purificarlo (p.44, fig.16); Gagā con getti d’acqua emessi dai suoi seni, traformati in 2 pūrakumbha e fungenti da doppia fontana (p.94, fig.42); Gagā e Yamunā in aspetto di dvārapālikā (p.56, fig.24); Gagā come portatrice d’acqua e di cibo (p.50, figg. 20-1) ovvero come nadīmatkā (p.48, fig.19); Gagā in forma compassionevole di purificatrice del pensiero (p.42, fig.15).
223)       Cfr. Bhatt., op.cit., C.IV, p.99.
224)       D.Bh.P.- ii. 1. 28-39 ss.

225)        S.Vijnananana, The Śrīmad Devī Bhāgavatam- Munshiram M., N.Delhi 1986.
226)        Cfr. C.J. Fuller, The Divine Couple’s Relationship in a South Indian Temple: Mīnākṣī and Sundareśvara at Madurai- H.R.J. (Vol.19, mag., N°4), Chicago 1980, p.335.  
227)        Cfr. D.R. Rajeshwari, Sakti Iconography- Intellectual Publ.House, N.Delhi 1989, p.n.n., fig.122.
228)        Vedi B.Walker, Hindu World. An Encyclopedic Survey of Hinduism- Munshiram M., N.Delhi 1983, Vol.II, s.v. MINAKSHI, pp. 71-2.
229)        Cfr. n.2.
230)        Secondo il Mhbh., Ādip.- cv. 104 il figlio di Parāśara era detto Kṛṣṇa poiché di color nero, ciò che lo identifica totalmente col Kṛṣṇa della Bhagavad Gītā.  Insomma, il protagonista principale e l’autore ideale dell’opera convergono a formare un’unica persona, spiritualmente parlando.   Questo problema, in ogni caso, non deve esser confuso colla questione dei 2 Kṛṣṇa di cui ha discusso  da tempo con poco costrutto la critica accademica.  Si esamini ad es. l’ingenua tesi riguardo una pretesa convergenza tematica fra lo katriya (‘guerriero’) mahabharatiano ed il gopāla (‘bovaro’) dello Harivaṁśa in M.Biardeau, op.cit., §3 sgg. (cfr. n.72).  Trattasi invece di 2 distinte Discese: una, quella del bovaro, svolge la propria azione salvifica alla fine dell’VIII Ciclo Avatarico; e l’altra, dell’auriga, alla fine del IX.  Quest’ultimo equivale insomma al dio pluviale Jagannātha, lett. ‘Signore del Mondo’; mentre il precedente costituisce un alter-ego di Balarāma, non per nulla conosciuto tradizionalmente quale “fratello maggiore” di Kṛṣṇa”, per quanto l’iconografia tenda a rappresentarlo quale gemello bianco del medesimo.  Si noti che accanto al secondo Kṛṣṇa, il quale ha lo stesso rapporto col primo che il primo Rāma deteneva col secondo, è posto un secondo Balarāma; fungente in tal modo da quarto Rāma, il terzo essendo il fratello di K.Gopāla.  Se i 3 Kṛṣṇa – riducibili a 2 per identificazione di K.Dvaipāyana col protagonista mahabharatiano – sembrano la funzione divinizzata di reali eroi umani, parimenti si può dire dei 3 Rāma in quanto  titani – il terzo è un deva – numinosamente assunti.  Il quarto Rāma, invece, parrebbe soltanto una finzione letteraria in riferimento agli Aśvin.  Siccome l’epoca in cui viene collocato col fratello piú celebre, ovvero fra la fine del Dvāparayuga e l’inizio del Kali, è quella processionalmente parlando fra la fine dell’Età dei Gemelli e l’inizio di quella del Toro.  Proprio questo particolare comprova che l’epoca fra il 6.640 e il 4.480 a.C. deve aver visto l’addomesticamento del cavallo già in atto.  Altrimenti che senso avrebbe avuto l’identificazione dell’auriga di pelle scura e del fratello di pelle chiara cogli Aśvin (i cd. ‘cavalli dell’aurora, dal scr.aśva = ‘cavallo’), corrispettivi hindu dei Dioscuri, a loro volta egualmente associati nella mitologia greca agli equini?  Non a caso anche fra i gemelli spartani uno era immortale (Polluce, al pari di Ka), l’altro mortale (Castore, come Balarāma).  Proprio quest’ultimo figurava da domatore di cavalli.
231)        Fra le mitiche imprese di Hanumat – il figlio simultaneo di Vāyu e Śiva, nonché fedele servo di Rāmacandra – si annovera quella d’aver salvato da un incantesimo una figura femminile trasformata in pesce; forse un’apsaras, la quale parrebbe a tutta prima allonima dell’Adrikā mahabharatiana.  La metamorfosi era avvenuta in conseguenza d’una maledizione lanciata da parte d’un muni nei confronti di tale femmina – non è precisato il misafatto questa volta, ma si può immaginarlo connesso all’avvenenza della fanciulla –  e avrebbe dovuto aver effetto sino alla venuta di Rāma, al cui luogotenente sarebbe toccato in sorte di restituire l’aspetto umano alla sventurata.  Cosí realmente accadde dopo che Hanumat posò accidentalmente il suo piede sul pesce, rimuovendo colla potenza del suo passo il maleficio.  Una volta liberata dall’incantesimo, quell’essere femminile volle essere riconoscente verso il suo liberatore e lo informò che un Incantatore (di certo il Māyin in funzione demonica) intendeva ostacolare il cammino e l’ascesa del VII Avatāra.  Hanumat finí dunque per schiacciare sotto il proprio peso anche il negromante, annientandolo.  La vicenda e le immagini – sempre antropomorfiche – dei personaggi della storia ivi narrata ovvero di Hanumat, Matsyaderi e l’Incantatore sono rispettivamente riportate in Mo., op.cit., C.XII n.num., pp. 324-5 e tavv. XCI. 1, XCII. 5, XCIII supra.
232)        F. Le Roux, La religione dei Celti-, Cap.2, p.98; apud H.Ch. Puech (a c. di), Slavi, Balti, Germani e Celti- Laterza, Bari 1977 (Vol.5 della Storia delle Religioni; ed.or. Histoires des Religions- Gallimard, Parigi 1970).
233)        L.R., op.cit., Cap.4, §a, pp. 134-7.
234)        Possono anche esser ridotte a 4 secondo lo schema quaternario di progressiva diminuzione degli anni, anziché quello quinario d’omologa durata dei periodi; basta omettere l’Età dei Fir Bolg, variando logicamente la durata delle altre età, ma comprendendo pur tuttavia nel computo generale l’intero periodo del ‘Grande Eone’.
235)        Ac., Le mag., p.265, n.72.
236)        Certo non è un caso che che la religione brahmanica fosse ritenuta dai viaggiatori arabi una figliazione diretta della religione adamica.  Persino il Le Roux scrive alla fine del suo sintetico trattato (op.cit., Cap.4, p.152): “Gli unici sacerdoti ai quali si possono legittimamente paragonare i druidi celtici sono i brahmani dell’India i quali, dopo Alessandro, non si son più preoccupati  troppo degli invasori.”
237)        Cfr. n.147.
238)        Ogyr Vran è l’ambiguo padre di Gwenhwyvar (l’arturiana Ginevra, ingl.m. Jennifer), che a giudizio di esperti quali il De Vries (op.cit., Cap. ter., §3.d, pp. 163-4) incarna la sovranità; a sua volta un aspetto giovanile della Madre Terra, di norma raffigurata come una vecchia deforme al modo della Kālī  hindu.  Come tale Ogyr Vran si oppone, simbolicamente, a Bendegeit Bran (‘Bran il Benedetto’).  La figlia è una delle 9 Streghe di Caer Lloyw [Gloucester], le quali al dire del Peredur (Mabin.- x) hanno storpiato l’avo del protagonista omonimo, prefigurazione precristiana di Parsifal.  Costui in codesta narrazione in seguito a varie avventure che l’hanno condotto dalla selvaggia foresta ove l’ha allevato la madre dapprima alla corte di Re (ivi ‘Imperatore’) Artú e poi al castello d’un gentiluomo dai capelli grigi, in cui è stato addestrato alla cavalleria combattendo contro i ‘giganti’ delle nere case in Val Rotonda, giunge alla dimora dello zio materno; un ricco cavaliere zoppo, presso il castello del quale si svolge all’improvviso la sfilata d’una strana cerimonia pagana.  Durante un banchetto, infatti, Peredur scorge due giovani entrare nella sala da pranzo tenendo una lancia con 3 rivoli di sangue sgorganti dalla punta; dietro di loro si fanno strada, in un magico corteo, due fanciulle con in mano un vassoio su cui è posata una testa mozzata ed insanguinata. Gli verrà spiegato, piú avanti, che è la testa d’un cugino, decapitato dalle 9 Streghe; le stesse che hanno ferito l’avo con una lancia.  Per una comprensione del tema cfr. G.Agrati & M.L. Magini (a c. di), I racconti gallesi del Mabinogion- A.Mondadori, Milano 1982, pp. 213-4.  Pigliando spunto dagl’insegnamenti offerti da parte delle due specialiste, proviamo a fornire una nostra interpretazione dell’episodio, che vada oltre la saga celtica medesima.  Innanzitutto, si può ipotizzare che le 9 Streghe altro non siano che le mitiche 9 Madri di cui favoleggia anche la tradizione norrenica facendone le simultanee genitrici di Heimdallr, corrispettivo germanico di Agni.  In questo caso le Madri possono variare da 2 a 7 oppure a 10.  Cfr. B.Branston, Gli Dei del Nord- Il Saggiatore, Milano 1962 (ed.or. Gods of the North, 1955), Cap.III, §VI, pp. 150-4.  Potremmo intenderle, cosmograficamente, come una personificazione fra l’altro delle 9 Terre dei 9 cicli precedenti al nostro nell’ambito del Grande Eone; la Regina Gwenh(w)yvar in particolare fungerebbe chiaramente da immagine della Terrasanta paradisiaca, sposa del Re Sacro.  La <Lancia-grondante-sangue> dell’avo e la <Testa Mozza> del cugino nel Sacro Vassoio che sfilano nel raccapricciante eppur solenne corteo sono invece rispettivamente delle immagini di Manawyddan e del fratello Bran, aventi funzioni parallele a quelle di Manu (Adamo) e Brahmā (Yahweh) in India.  Che Peredur in quanto iniziato archetipico venisse reputato un discendente simbolico del Primo Uomo ed una figliazione – la parentela essendo una metonimia – altrettanto simbolica della Divinità non stupisce, visto che il prototipo di Peredur è Pryderi; il quale nel 3° ramo del Mabinogion è figlio putativo di Manawyddan, nonché nipote di Bran.  Infine, che i Celti avessero un analogo computo del tempo di quello induista lo avevamo già provato altrove (Ac., Le m., p.265, n.72).  In tempi medievali gli antichi dèi e gli ancor piú vetusti titani sono stati in un primo tempo trasformati in eroi e maghi, per poi alfine divenire dopo il trionfo definitivo del cristianesimo ascetici cavalieri o semplici monaci in cerca di Nostro Signore (A. di Nola, s.v. CELTI, Religione dei, §6, p.1.707; apud AA.VV., Enciclopedia delle Religioni,  Vallecchi, Firenze 1970, Vol.1).   
239)        Sulla tetracefalia di Brahmā ed i suoi significati in relazione ai vari aspetti del Quaternario vedi A. Grossato, Significato della quadricefalia di Brahmâ ed altri aspetti del suo simbolismo nel mito e nell’arte hindu- Atti e mem. del’Acc.Patav. di Sc., Lett. ed Arti – Vol.XC, (1977-8), P.III, Padova 1978, pp. 107-16.  Nel suo giovanile ma brillante articolo il prof. Grossato fissava i punti essenziali di comparazione fra le 4 Teste o Bocche di Brahma, Giano e Fanete, passando per un verso dal Bhāgavata Purāṇa al Mānavadharma Śāstra od al Rūpamandana; e, per un altro, da Sant’Agostino ad Aristofane o agli Orfici.   
240)        Cfr. n.159. 
241)        Aggiungeremo solamente che questo stato di fatto ci suggerisce un’idea: siamo sicuri che la dottrina brahmanica sia d’origine post-dravidica, dato che è assai prossima alla sapienza druidica?  Non è unicamente un gioco d’assonanze, visti i presupposti della scuola indo-mediterraneista.  Cfr. Ac., Il Re P. sovr., p.15, n.25.
242)        Vide n.199.
243)        Cfr. sul tema G.Acerbi, Il Druidismo e il ‘Calice Ripieno’: annotazioni ulteriori sulla mitologia di Bran-Brahma e Varuna-Urano- Alle pendici del Monte Meru, blog (28-01-15), passim.  Una variante dei due recipienti magici appartenenti a Bran è altresí, nella visione di Pryderi (Mabin.-iii), la Coppa d’Oro attaccata a delle catene che insieme ad una Fontana sale meravigliosamente al Cielo.
244)        Vide n.127.     
245)        Stut., op.cit., s.v. KĀMA, p.204/ coll. a-b.
246)        Vedi miniatura del Rāmāyana (XIX sec.) illustrante l’arrivo di Kāmadeva a dorso di Matsya dinanzi a Śiva, in postura ascetica, colla Śakti in posizione di danza.  Appartiene alla Scuola di Benares ed è catalogato nella fototeca dell’Am.Inst. of Ind.St. di Benares.
247)        Cfr. miniatura di Kāma a dorso di Matsya sulla cima del Monte Himavat, astrazione degli Himālaya e doppione del Meru, nel Rāmacaritmānasa di Tulasīdāsa (Balak., F.57); ove si raffigura la deità che, per ordine di Indra, distoglie il saggio Nāraa dalle austerità (Rāmnagar, XIX sec.).  Anche questa all’A.I.I.S. di Benares.               
248)        Su Nodens-Nuadu quale pescatore del Grosso Salmone vedi De Vr., op.cit., Cap.sec., §2.c, p.132; sul Serpente Criocefalo ed il Pesce d’Oro  Criocefalo ibid., Cap.ses., §4, pp. 208-11.  Circa l’associazione  di Dagda col Salmone cfr. on line l’art. di D.Schneider, Dagda, the Celtic Father God.  Tale associazione appare diretta secondo una poesia intitolata God e tratta dal ‘Libro Nero di Carmarthen’, ove il dio (si suppone Dagda) s’identifica a tale pesce; oppure mediata tramite la paredra Boan, in quanto costei avrebbe creato il sacro pozzo d’Irlanda donde sgorga il fiume Boyne, fonte dei principali sette fiumi di questa terra.  Il pozzo è ombreggiato dai 9 Noccioli della Saggezza, i frutti dei quali cadendo in acqua nutrono il Salmone che vi nuota dentro.  Per l’acquisto della Saggezza da parte di Finn (cimr. Gwin) o del suo doppione Fionn (Gwyon), tramite il Salmone che ha mangiato le 9 Nocciole della Conoscenza, vedi ib., P.ter., Cap.sett., p.289.  Il bardo Finn – o il discepolo Fionn – è figlio di Mananann e padre di Oisin.  Narra la leggenda che abbia acquisito la Conoscenza dopo aver messo in bocca un dito, essendosi scottato mentre cucinava il suddetto Salmone.  Nella versione dell’alter-ego il fatto è compiuto per sbaglio da quest’ultimo, ed è quindi Fionn ad acquisire la Gnosi in luogo del maestro, che gli aveva affidato il pesce da cucinare.  A dimostrazione che in campo spirituale non basta sapere teoricamente quel che si deve fare, bisogna metterlo in pratica, ciò valendo pure per le tecniche di meditazione apprese dai maestri.  Che cosa siano questi benedetti 9 Noccioli non è dato di sapere, ma personalmente supponiamo che abbiano a che fare coi 9 Cieli (7 Planetari  +2 Nodali), a loro a volta rimando a determinate concezioni cosmologiche e metafisiche d’una data epoca.  Visto che Dagda, o meglio l’equivalente dio gallico colla ruota (P.sec., Cap.pri., §1.c-d sgg), è èffigiato nel Caldaio di Ghnderstrup (J.-J. Hatt, Celti e Gallo-romani-Nagel, Roma-Ginevra, Parigi, Monaco di Baviera 1975, p.108, fig.48) accanto al dio del cielo Taranis, che ha le braccia levate in alto nella cd. ‘posizione di orante’.  La Ruota, in tal caso, ha 8 Raggi, ma è visibile solo per metà; dunque, ne ha 16.  Ciò connota chi la regge, di necessità, come il signore zodiacale d’un vecchio zodiaco novenario; siccome la Ruota è quella solare, del dio-anno.  Dagda ovvero il dio colla ruota è del resto paragonabile per certi aspetti a causa della sua Clava (il Fulmine) a Giove (De Vr., ibid., §1.a, p.54), ma non al signore latino dei 12 dèi zodiacali, probabilmente analogo al Dis Pater dei Galli menzionato da Cesare; semmai allo Iuppiter Pluvius, corrispettivo latino dell’Indra hindu, il devarāja dotato di Vajra (ib., §d, p.62).  Non per niente Dagda era denominato Ollathir (‘Padre-universale’).  Il fatto che si possano trovare delle convergenze sia fra Dagda e Taranis, altro sdoppiamento del Giove celtico in qualità di signore del tuono, sia fra Dagda e Teutates (§2.b, p.73), ossia col Marte celtico, è perfettamente comprensibile; dato che lo Zodiaco Solare comincia a 0° dell’Ariete (dominato da Marte-Teutates) e termina a 30° dei Pesci (dominati da Giove-Dagda), gradi per la verità sovrapponibili, poiché non hanno estensione e corrispondono dunque ad un punto coincidente.  Sebbene nel vecchio Zodiaco a 8 Segni, da cui mancavano i 4 ancor oggi denotati da immagini non teriomorfiche (Gemelli, Bilancia, Sagittario, Aquario), avessero un’estensione diversa rispetto a quella dello Zodiaco duodenario.  Ossia di 45°, anziché di 30°; il che spiega il meccanismo delle esaltazioni e delle cadute planetarie, oggi non piú comprensibile in apparenza.  Persino il Serpente con capo arietino e l’analogo Pesce Dorato succitati si spiegano alla stessa maniera, visto che la Serpe è solitamente un emblema di Marte e il Pesce (o i Pesci) di Giove.  Da notare che  nelle piastra argentea ornata a sbalzo del caldaio indicato, al di sotto dei due numi, campeggia il Serpente Criocefalo.  In alto, a suggerire l’idea del solstizio estivo, trionfano ai lati dei numi 2 Pantere; in basso ai lati del rettile stanno 3 Grifoni, a suggerire il solstizio invernale.  Il dio colla ruota porta inoltre corna arietine, come lo Iuppiter-Ammone egizio.  Anche nella piastra adiacente successiva (Ha., op.cit., p.109, fig.49) compare un abbinamento di simile significato, poiché sul lato destro superiore di Cernunno-Esus accompagnato dal Cervo e col Serpente in mano, vediamo l’Ariete preceduto da una figura indecifrata a cavallo del sacro Luccio.  La ricostruzione del quadro mitologico descritto nelle varie piastre della coppa che ci è offerta da Hatt (ibid., pp. 216-7) appare accettabile in linea generale, considerato che il caldaio ritovato in una torbiera danese nel 1880 ed appartenente al I sec. a.C. (Per. di La Tène III) risulta in stretta correlazione coll’iconografia gallo-romana, favorita dai druidi collaborazionisti e programmata mediante lo stanziamento di truppe romane in Gallia; ma la spiegazione offerta per i due riquadri esaminati, sopratttutto per il secondo, ci sembra ancora  incompleta.  Non si capisce ad es. che ruolo abbia la figura che cavalca il pesce, la quale per il nostro studio è invece di fondamentale importanza; benché minuscola nelle proporzioni, ma pure quella precedente colla ruota è tale, costituisce un altro riferimento a Dagda?
249)        De Vr., op.cit., §1.d, pp. 62-3.
250)        Su tal punto cfr. C.G. Jung & K.Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia- Einaudi, Torino 1948 (ed.or. Einführung in das Wesen der Mythologie), P.I (n.n.), Cap.V, p.72.  Analizzando due mitologhemi, la storia indiana di Mārkandeya contenuta nel Mhbh., Vanap.- clxxxii (clxxxiii K.) e quella finnica di Väinämöinen rintracciabile nel Kalevala- ii (illustranti parallelamente ”l’incontro col fanciullo gigante dimorante nell’acqua primordiale”, pur essendo state trascritte in epoche diverse),  Kerényi si chiede che domanda convenga porsi di fronte ad essi e risponde che è giusto cercare non ”quale dei due mitologhemi sia la variazione dell’altro”, bensí “a cosa corrisponda il motivo originario che si ritrova, variato, in entrambi”.
251)        Grav., op.cit, §56.a-b, pp. 170-1.  Il nume, Argo Panopte (dai molti occhi), viene ucciso da Hermes, che ne piglia il posto come tetracefalo e signore delle vie, non meno di Giano.  La storia in cui è inserito il mitologhema racconta di Io, nipote di Giapeto e sacerdotessa di Era <dagli occhi bovini> trasformata in Bianca Vacca Lunare – vale a dire in un proprio doppione – da parte della consorte di Zeus per gelosia, siccome la figlia di Pan aveva preparato un incantesimo onde far innamorare di lei il re degli dèi.  A guardia di Io era stato posto un mostro dai mille occhi, che Hermes su volere del paredro di Era, per l’occasione in veste di Ζεύς Πίκος fu costretto ad annientare al fine di liberarla.  La storia della Vacca Vagante, la quale trova secondo Graves un parallelo nella Green Stripper irlandese (ibid., p.172, n.2), viene messa giustamente in rapporto alla Luna; Era a nostro parere impersona invece la Settima Pleiade, il cd. ‘Occhio del Toro’.  Se Io è davvero la Bianca Luna Piena, che vaga per il cielo seguita da tutte le altre stelle del suo séguito zodiacale (gli occhi di Argo); ecco dunque che Argo non può non avere un significato eminentemente uranico, confermato dal color bianco, color del cielo anziché l’azzurro nelle zone nordiche del pianeta.  Di certo la versione del mito giunta fino a noi, legata allo Zodiaco Lunare (giacché la Luna aveva un tempo come stazione fondamentale nel suo passaggio l’asterismo di Rohiī, cioè Aldebaràn), non può essere la versione originaria.  Poiché Argo è un nume dall’apparenza assai vetusta, aurea diremmo; Hermes ne piglia il posto, diventandone un doppione, come accade in India da parte di Śiva nei confronti di Brahmā.
252)        S.Kramrisch, The Presence of  Śiva- P.U.P., Princeton [N.J.] 1981, Cap.IX, §§ 1-3, pp. 250-78.  Le varie versioni puraniche del mito che testimoniano la formazione delle 5 Teste di Brahmā al posto dell’unica primeva provano che le 5 Teste di Śiva sono modellate su di esse, poiché Śiva è figlio di Brahmā ; l’atto in India da parte di Kālabhairava in un modo o nell’altro di recidergli la ‘Quinta testa’ è quindi un parricidio, non meno di quello di Crono nei confronti di Urano in Grecia.  La Kramrisch prova inoltre, tramite un passo upanishadico, che lo stesso Soma ossia Prajāpati è pañcamukha; per cui il gesto compiuto da Kālabhairava ai danni del Pitāmaha (‘Progenitore’) può esser omologato all’analoga decapitazione, che in una variante diviene un’evirazione, attuata da parte di Rudra-Śiva su Prajāpati.  La Testa spiccata dal busto di Brahmā è alfine trasformata in un Teschio (Kapāla), appartenente a Śiva nella sua veste di nudo e vagante mendicante (Bikātanamūrti) talora ornato di teschi (Kapālin), che funge da vaso per bere o da ciotola per le elemosine e viene adorato da determinate scuole shivaite quali appunto i Kāpālika.  Cfr. col Teschio di Adamo, iconograficamente posto ai piedi della Croce, su cui cadono dall’alto dell’asse verticale le gocce di sangue della ferita che il Pellicano s’è autoprocurato.   Anche il simbolismo di Bran ha a che fare colla <Testa Tagliata>, oltreché colla Sacra Coppa.  Ad onor del vero a codesta serie di teste mozze andrebbe aggiunta quella di Mahākāla.  In alternativa la ‘Quinta Testa’ di Kāla, o del corrispettivo buddhista Kālacakra (tetracefalo), è rappresentata dall’Akāla upanishadico.  Mahākāla e Mahākālī, sempre uniti in amplesso rimandano, viceversa, all’Eternità siccome Grande Unità della Non Manifestazione e del Principio della Manifestazione.  L’icona solitaria di Mahākāla col Bastone in mano, che si trova spesso davanti ai templi nepalesi, potrebbe a sua volta esser interpretata in un modo o nell’altro; vale a dire quale immagine della suddetta Grande Unità oppure semplicemente del Principio Divino, in questo caso equivalendo alla <Testa Mozza> del medesimo nume, che difatti porta frontalmente 5 piccoli teschi.  Un’eco di tal tipo di concezioni iconologiche si trova persino nel cristianesimo, se è vero che certe edicole esibiscono in bella mostra 5 teschi, allo scopo di preservare come sacro il timor della morte e della consunzione della carne.  Una di queste ha presieduto casualmente alla nostra prima iniziazione, mentre eravamo a Milano di primo pomeriggio in attesa del nostro iniziatore, convincendoci che il nostro scetticismo preventivo era fuoriluogo ed anche il Cielo risultava predisposto a quel fatidico evento.
253)        Til., op.cit., Cap.VI, pp. 145-6 (p.162 della n.trad.).
254)        Apollo nella sua normale veste titanica non è un doppione di Urano, ma semmai di Crono; in quella di Apollo D. tuttavia, in quanto signore della luce, rispecchia il nume delle origini.  L’argomento, essendo peraltro complesso, verrà trattato separatamente al Cap.VI, §b.
255)        G.Acerbi, Sulla questione dell’Unicità Divina- Herakles, N°1 (serie monogr. di maxi-articoli on line, PDF, mag. 2015), §4, pp. 14-5 (n.29 accl.).
256)        Tīm.- xiii/e.
257)        Su Anadiomene vide Cap.II, §m.
258)        In realtà il lat. Iān-us corrisponde sul piano etimologico al norr. Ymi-r, nonché all’a.ir. Yim-a e all’a.ind. Yam-a; cfr. in proposito A. Pegaso, L’etimo di Yahweh- Sulle lievi ali di Pegaso (blog, 27-01-17), in prep.  La stessa base è reperibile non soltanto nelle lingue iaphetiche, ma anche in quelle camitiche, come dimostra il pal. Yam; di cui l’ebr. Yahweh (scritto all’italiana Jahveh) secondo la glottologia non è che una variante, tenendo conto della trasformazione reciproca in sede preistorica della nasale m nella semivocale w, la quale sul piano grafico era scritta a mo’ di m rovesciata.
259)        Esempi di tale interessante iconografia si trovano in Co., op.cit., Vol.II, §3. v sgg.  L’autore si premura di dimostrare che, diversamente dall’iconografia classica, sono esistite forme di doppia rappresentazione di Zeus che l’hanno apparentato in modo esplicito a Giano.  Riguardo l’etimo fa infatti derivare il nome dell’uno da quello dell’altro e ciò apre una speculazione parallela, possibile, anche in altri ambiti indoeuropei.  La linea etimologica seguita è la seguente, pur avendo invertito da parte nostra il primo termine col secondo: Ian/Iān-us > D(i)-v-ian-us > Zan (versione cretese dello Zeus ellenico) > Zeús.  Questa derivazione (anche se mescola la filologia classica, ovvero il greco e il latino) è comprovata, aggiungiamo noi,  dal passaggio in sanscrito da Yam-a a Dyau-s, entrambi a loro volta Pita non meno dei due numi classici.  Del resto il gr. Ζεύς Πατἠρ equivale strettamente al lat.(D)īus Pater (il ‘Divino Padre’), e non – come certi latinisti vorrebbero – Dies-pater, donde davvero deriva la voce  Iuppiter/Iūpiter.  Partendo dalla dicefalia, il Cook mostra che l’iconografia di Giano e quella di Zeus risultano conformi anche per altri versi, segno d’una parziale identificazione: il Bastone-scettro, alludente all’Axis Mundi e nel contempo all’Unità Divina, ad esempio.  Vedi pp. 371, fig.276; 373, fig.280; 375, fig.281.  Nella prima delle 3 raffigurazioni osserviamo l’imperatore romano, in veste gianiforme, posare la mano su un arco trionfale (antico emblema di Giano) da cui sprigionano le 4 Stagioni; sull’altro lato è ritratto un efebico puer, presumibilmente l’Anno Nuovo.  D’altronde Giano è talora imitato da Zeus, il quale impugna a volte il Bastone accanto al Fulmine, con alternanza delle mani reggenti le due armi simboliche. Cfr. pp. 327, fig.215 e 366, fig.264.  Nel secondo caso al fallo di Zeus, sostituito iconograficamente da un anello, è legato il Cane quale guardiano evidentemente del desiderio di vita.  Segnaliamo infine che pure Argo, l’omologo greco di Giano, è delineato dicefalo e con in mano la Verga (ibid., p.380, fig.287).
260)        Donde ne discende l’idea di Giano quale Signore dell’Universo e del Grande Eone (cui è talora identificato, non meno del Cristo-Yahweh o del Manu indiano), ovvero dello Spazio e del Tempo; dalla qual cosa ne deriva il suo presiedere tanto all’Inizio quanto alla Fine ed al loro Mezzo.  Il che lo rende da un lato il Dio dell’Anno, delle Stagioni o dei Solstizi; e, dall’altro, il Signore del Caos o del Vuoto cosmico.  La quadrifrontalità – suggerisce giustamente il Cook – è di per sé un attributo tardo, fondato sul raddoppiamento iconologico della bifrontalità; ciò non esclude comunque, facciamo notare da parte nostra, un riferimento simbolico all’interezza spirituale e cosmologica dell’Età Aurea.
261)        Questa simbologia occulta già nota nell’Antichità è confermata dal nome del capolouogo della regione, visto che la voce Rōma anagrammata all’opposto dà Amor; con allusione ovviamente non all’amore in senso bacchico-devozionale, ma in quanto Eros Protogonio ossia principio d’immortalità.  L’interpretazione parrebbe in parte negata dalla vocale lunga del nome civico, ma la vocale breve del nominativo dell’altro termine suona strana, visto che al genitivo il suddetto s.m. dà a-m-ōr-is.  Ciò però si spiega coll’etimo, che i linguisti come al solito non sanno ben decifrare, collegando il termine da un lato ad ‘amico’ e dall’altro ad ‘ameno’ od ‘amaro’.  La vera  etimologia, crediamo, è invece quella che collega il nome a mor(-s) + a privativo e ne fa un sinonimo di im-mortālit-ās.  Cfr. il gr. -μ[β]ροσ-ί-α (da *-μροτ-ί-α) ed il scr.a-mt-a, sostantivi entrambi dotati di pref.priv. non meno del corrispondente latino, da intendere nell’accezione di ‘ambrosia, immortalità’.  Tutto insomma nel contesto romano delle origini, dal nome dell’Urbe al simbolismo pontificale proprio dei Flāmina (appellativo derivato secondo Varrone dal lat. fīlum, ma convergente col scr. Brāhmaa), ha contribuito a far del luogo un’immagine simbolica del supremo centro d’irradiamento della vita universale.  Col Tevere al posto del Gange (Ac., Le sac., p.5).  È in tal senso, profondissimo, che Roma può esser davvero considerata Caput Mundi in senso simultaneamente terreno e celeste.  Secondo quanto indica la Doppia Chiave del Pontificato, ciò su cui era d’accordo sostanzialmente anche l’Alighieri.  Sempre che l’imperium sia soggetto al sacerdozio e non, come avviene oggi cogli eredi nebrodistici britannici del Sacro Romano Impero, il contrario.
262)        L’Arca di Giano, riattualizzata dalla Cristianità (Guén., op.cit., §18, p.121), viene attribuita a Saturno da certa parte della scuola evoliana (R. del Ponte Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica- Ecig, Genova 1985, Cap.III, p.107, n.7), rifacendosi a Macr., Sāt.- i. 7, 21-2; quest’ultima ha negato anche altri aspetti riconosciuti invece da piú parti del simbolismo di Giano (ibid., Cap.II, pp.65-6, n.49), eppure proprio l’eminente Professore ora menzionato si contraddice involontariamente in relazione al primo quesito laddove menziona l’Arca di Numa, che com’egli asserisce era tutt’altro che un falso.  Cfr. G.Acerbi, Plutone e Proserpina, le due figure piú tenebrose della mitologia greco-latina, con Appendice sui Misteri dei Cabiri- Alle pendici del Monte Meru  (blog, 26-10-15), pp. 7-10, n.3.  Sempre che s’intenda la cosa non come effettiva barca diluviale conservata miracolosamente nel tempo (a meno d’una reiterazione della costruzione d’una data imbarcazione similare ogni determinato numero d’anni, alla maniera dei templi shintoisti), ma quale simbolo del Primo Re sopravvissuto al Diluvio Primordiale.  Essendo Numa nient’altro che il Manu romano, ossia una variante di Giano, è da considerare tutt’altro che un semplice archetipo divino italico (vide n.258).  Difatti S. Consolato nel suo René Guénon e la tradizione romana (AA.VV., René Guénon- Arthos, A.XVI-XVII, Vol.VII, NN.31-2, pp. 42-4), proprio sulla scorta del Del Ponte (ibid., p.61, n.136), riconosce un’affinità regal-sacerdotale fra Giano e Numa.  Vi sarebbe da chiedersi perché mai nell’iconografia dei popoli di lingua indoeuropea compaia meno apertamente la Barca in rapporto alla serie Janus-Yama-Ymir ed invece compaia visibilmente nella serie Manu-Numa-Manannan.  Ciò è collegato ad un altro fatto, la posposizione del nome di Re Numa rispetto a Romolo nella serie romana dei 7 Re.  Ciononostante il carattere lunisolare (gemellare) primevo della prima serie summenzionata è indubbio, tanto è vero che abbiamo a che fare in tutti e tre i casi con delle figure androginiche.  Se Guénon attribuisce a Giano un carattere esclusivamente lunare (di Lunus-Luna) è solo per il motivo che non fa distinzione in quel caso fra il Giano aureo (Quadrifronte o Quadrigemino, in rapporto ai 4 Climi, al pari di Brahmā in India), il Giano argenteo (signore del Triplice Tempo, il Trikāla sanscrito, emblematizzato dal Tridente shivaita), il Giano Bifronte (signore dell’artigianato, come il Ganeśa Bifronte hindu) ed il Giano ferreo (assimilabile ad Orione, parte dell’asterismo cadendo nel Segno dei Gemelli, che nel Mithuna indiano divengono maschio-femmina).  La posposizione dei nomi divini catterizzante le due serie menzionate di divinità, poiché anche i termini della serie Janus ne sono andati soggetti, rimanda viceversa alla trasposizione avvenuta dopo la discesa degli Eroi (Ārya) fra deità auree e deità bronzee; secondo quanto testimonia anche il Mahābhārata, ove Indra ha preso il posto di Varua.  Il che è avvenuto, del pari, fra Greci e Romani; se si pensa al favore concesso da un lato a Zeus Pater e dall’altro a Iuppiter, favore che qualcuno erroneamente (vedi il Dumézil) ha scambiato per un’effettiva primordialità del culto, confondendo in tal modo supremazia e primazia.  D’altra parte, per concludere la questione, la dimostrazione lampante che Giano fosse realmente inteso quale signore dei porti, delle acque e delle vie fluviali – come vorrebbero certuni – la rinveniamo direttamente nella numismatica antica; visto che ritroviamo la Prora di galea sul retro di un asse di bronzo (aes grave) d’età repubblicana (240-225 a.C.), moneta con incisa sul davanti l’effigie del tipico Doppio Volto del nume.  Non vi è da stupirsi, dato che il dio latino – diversamente da come prospettava Ovidio – ha in Urano (connesso a oûr-on = ‘spazio; rugiada, orina’ e oúr-os ‘vento propizio alla navigazione’; scr.var-i = ‘acqua) nonché soprattutto nella sua variante Ganimede un analogo greco.  In altre parole, Urano sta a Varuna (nume delle acque celesti, poi infere), come Yama (col Laccio) o Ganimede (col Cerchio) stanno a Giano (paragonato al Chaos pre-cosmogonico da parte di Ovidio); ma il fatto è che Yama e Varuna non sono in India che figurazioni distinte di un’unica divinità aurea, riferentesi rispettivamente al I ed al II Ciclo Avatarico.  A nostro parere le due serie divine menzionate (Manu-Numa-Manannan, cui potremmo addizionare Mannus e Minos, e Janus-Yama-Ymir-Yima-Umik) sono a vicenda di derivazione turano-abelita (asiatico-settentrionale) e ario-iaphetica (nordico-atlantidea).  Guénon (ibid., n.12) aggiunge inoltre in riferimento alla Barca di Giano che poteva andare <avanti e indietro>, nozione non facile da interpretare, la quale – avendo il Maestro di Blois trascurato di citarne la fonte – si può presumere sia stata tratta dall’ambiente massonico transalpino o da quello tradizionalista cristiano d’Oltralpe.  Forse si riferiva al doppio aspetto creativo-dissolutivo dell’Arca Solare.

263)        J. & K., op.cit., Cap.VI, pp. 76-7.  Il Kerényi cita in proposito un testo cristiano menzionato da H.Usener, il ‘Discorso religioso alla corte dei Sassanidi’, ove si fa riferimento ad una dea madre gravida del fanciullo divino e l’embrione nell’utero è paragonato tanto ad una nave quanto ad un pesce.  L’autore, considerando le due immagini mitiche equivalenti  (ibid., pp. 82-3), afferma che esprimono la stessa cosa.  Sul che siamo d’accordo, solo in parte tuttavia.
264)        Cfr. Cap.VII, §h. 
265)        L’identifcazione fra l’Arca di Giano e quella ecclesiastica si trova in Guénon, come indicato alla 262.  Siccome la Madonna è stata concepita talora come emblema di tale arca, si può tracciare un’equazione anche colla Vēsīca Piscis, che è per l’appunto un rimando a Maria.  La Coppa Eucaristica, d’altronde, può fungere a sua volta da doppione dell’Arca.
266)        L’equivalenza fra il Corno (Dente ecc.) del ‘Re dei Pesci’ e lo Scettro regale del ‘Primo Uomo-dio’ potrà sembrare un po’ forzata, tanto piú che noi stessi riconosciamo appartenere le due simbologie a rami etnoculturali distinti (vide n.262) ancorché aventi un lontano punto comune nello Śākadvīpa, l’ecumene emersa nel Nordovest durante il II Ciclo Avatarico.  Si pensi tuttavia al fatto che persino in ambiente tardo-medievale – alludiamo al tempo degli Hohenstaufen – venivano associati denti di narvàlo al Trono Imperiale, al dire dei discendenti (gli Avril) posto in relazione all’Axis Mundi (Stauffen = ‘Staffa’, in riferimento alla staffa equina dei cavalieri in trotto).  Il primo termine è connesso al ted. Höhe (‘altezza; monte, vetta’) ovvero a hoheit/hohen (‘sovranità, altezza, maestà’).  Il secondo termine (Wikipedia, l’enciclopedia libera- on line, s.v. HOHENSTAUFEN) viene in genere fatto derivare dalla collina ove sorgeva il primo castello, denominata Staufen.  La Fondazione Federico II, Stupor Mundi (http://www.legasud.it/federicosecondo.htm) però scrive in proposito quanto segue:  Il termine STAUBER , STAUPER o STAUFFEN veniva anticamente usato per indicare gli Hohenstaufen.  Ma cosa significa?  Siamo abituati a tradurre Hohenstaufen come Alto Castello, ma Staufen significa qualcosa di piu’ complesso.  Intanto Stauffen evoca la Staffa come Asse, perno dell’equilibrio.  Il riferimento al culto del Graal o Onfalos come asse e centro del mondo è implicito.  Ma significa anche ‘colonna, asse, casa, castello, rocca’…”
267)        Nessuno tranne la storia di Túan mac Cairill, uno dei seguaci di Patholon, che per primo è detto esser sbarcato in Irlanda.  T.m.C. avrebbe partecipato anche ad altre invasioni, rinascendo in forma zoomorfica di Cervo, Cinghiale, Falcone e in ultimo Salmone (De Vr., op.cit., P.qua., Cap.sec., pp. 313-4).
268)        Op.cit., P.sec., Cap.sec., §1.a, p.117.  I Tuatha Dé Danann costituiscono nel mondo celtico la terza o la quarta, contando anche i Fir Bolg, delle Generazioni Divine.  Essi sono stati soppiantati in terra d’Irlanda – dove avevano per capitale Tara – dai Gaeli (Milesi) arrivati dalla Spagna e parrebbero corrispondere, perciò, agli Eroi della Grecia od agli Ari indo-iranici; dal momento che si tramandava provenissero in improvvisate imbarcazioni dalle “isole a nord del mondo” (cioè nordatlantiche).  La loro terra mitica di provenienza era il Tir na nOg, descritta come una serie d’isole incantate poste ad ovest (quindi, ne deduciamo, situate nell’Atlantico nordoccidentale); nelle quali si tramandava scorressero alla maniera della leggenda giudaica il latte ed il miele, ma pure la birra ed il vino nonché l’idromele.  Per i dati riportati cfr. Le R., op.cit., Cap .3, §c, p.127; Cap.4, §§ a, p.135 e c, p.141.  Da notare che quelle terre sembrano essere le stesse cercate, disperatamente, dai Vichinghi in età pre-colombiana.
269)        De Vr., op.cit., Cap.qui., §§ 2-3 sgg.
270)        Ibid. come alla 268, p.118.
271)        Per ll Vaso di Brahmā contenente Soma cfr. n.199, viceversa per il Caldaio dell’Abbondanza od il Paiolo della Rinascita di Bran si analizzi il secondo ramo del Mabinogion; il recipiente di Manu di cangianti dimensioni, unitamente al Pesce Unicorne, è il soggetto principale di questo libro ed è stato trattato ampiamente in tutto il Cap.I.  Per il Caldaio Ripieno di Manannan vedasi alfine la n.270, mentre una trattazione generale dell’argomento del Sacro Calice è affrontata nell’art. menzionato alla n.243.
272)        Ibid. come alla 268.  Secondo quanto asserisce la discendenza teonomastica medesima, i ‘Figli della dea Dana’ (identificata ad Ana ovvero alla triplice Brigit) appartengono alla dinastia lunare: la luna è astrologicamente associabile alla casta dei produttori sul suolo indiano e non vi è motivo che ciò non accadesse anche in territorio celtico.  In particolare, il Candravaśa viene distinto per qualche ragione dal Sūryavamśa, sebbene nessuno sia mai riuscito a dar spiegazione di tale enigmatica distinzione.  Proveremo a farlo noi, modestamente, nel prossimo capitolo.  Facciamo solamente notare, in anticipo, che la Luna in genere essendo il luminare notturno costituisce un rimando all’Ovest; il Sole, al contrario, è un sinonimo dell’Est.
273)        Ib., p.116.
274)        Ib.
275)        P.115.  Questo nome è una latinizzazione del gr. σπέριος (‘occidentale’).
276)        §2.c, pp. 131-5.
277)        Cfr. col Triregnum ellenico, formato da Zeus, Poseidone, Ade; che ha un’eco nell’equivalente trimorfia (erroneamente definita ‘triade’) capitolino.
278)        Cap.ter., §3.d, pp. 161-3.
279)        Il rimpiazzamento della mano perduta con una d’argento da parte di Diancecht, il medico divino, in 27 giorni si spiega colla valorizzazione del vecchio simbolo nel nuovo calendario lunare col sopraggiungere dell’Età di Mílidh (Mile, il Kaliyuga locale).  Costui è chiamato Mílidh Easpáinne, in riferimento al latino Miles Hispaniae (‘Milite di Spagna’).
280)        Il termine notonier, di certo non a caso, ha un suo equivalente nel termine gergale designante il Gran Maestro del Priorato di Sion (nautonnier = ‘navigatore, nochiero, timoniere’); autoproclamatosi erede dell’Ordine di Sion, cioè dei veri Rosacroce prima del cd. <taglio dell’olmo> (1.188) ovvero la separazione fra essi e i Templari.  Cfr. M.Baigent-R.Leigh-H.Lincoln, Il Santo Graal- A.Mondadori, Milano 1982 (The Holy Blood and the Holy Grail- J.Cape, Londra 1982), P.sec., Capp. V, pp. 109-25 e VI, p.134.
281)        Per la traduzione inglese dal cimrico cfr. J. Gantz (a c. di), The Mabinogion- Penguin, Harmondsworth 1976, pp. 217-57; per quella italiana (in verità modellata su traduzioni varie ) Agr. & Mag., op.cit., pp. 1-306.
282)        Sono le 9 <Figlie> di Ogyr Vran ossia le 9 <Madri> (in altre parole, i 9 Eoni susseguenti) che hanno posto fine all’Età Aurea.  Vide n.238.
283)        Op.cit., p.214.
284)        Vide n.252.
285)        Astralmente raffigura Orione, il classico dio-testa.
286)        G.Agrati & M.G. Magini, I romanzi della Tavola Rotonda- Mondadori, Milano 1981, Bibliogr., p.16 ss.
287)        A.Bianchini (a c. di), Romanzi medievali d’amore e d’avventura- Garzanti, Milano 1981, pp. 53-130.
288)        La pesca coll’amo del personaggio deriva dai Celti, secondo quanto prova l’immagine di Nudd che estrae dal fiume il Grosso Salmone.  Non ci occupiamo in questo testo del Cristo coll’Amo, di cui tratteremo nel nostro saggio futuro a complemento di siffatto volume, La saga universale del Pesce e del Re Pescatore.
289)        Il concetto di Abbondanza era già presente nella mitologia celtica.  
290)        La ‘Vergine’ è Arianrhod, secondo Graves una delle varie forme di dea bianca.
291)        Cfr. col simbolismo del Pellicano in Charb.-L., op.cit., P.Dec., Cap.Ottantes., p.558 ss.
292)        Cfr. con Blodeuwedd (R.Graves, The White Goddess. A historical grammar of poetic myth- Faber and Faber, Londra 1961, Cap.Dic., p.321), alias Olwen, cioè la Regina di Maggio figlia dell’Albero di Maggio che è anche dea dell’amore.  Tale Blodeuwedd, dai “bianchi fiori”, forma talora una trimorfia con Arianrhod (‘Ruota d’Argento’) e Cerridwen (‘Bianca Scrofa’)(ibid.); ovvie allusioni alla Triplice Luna, che i Latini chiamavano Diana Trivia e i Greci Ecate Triforme.  Talora, invece, la stessa crea una pentamorfia con altre dee (ib., p.315).  In questo caso, evidentemente, entrano in gioco tutte e quattro le fasi lunare con aggiunta del centro.
293)        Praticamente in tutti i Purana.  In campo iconografico avviene la stessa cosa, ossia a seconda dei testi di riferimento si rappresenta il Matsya isolato, con Manu da solo oppure accanto all’Avatara.  Per i vari tipi di raffigurazioni cfr. Ac., Il Re P., sovr., pp. 1-3.
294)        Agr. & Mag., I racc., s.v. MANAWYDDAN, p.316.  Lo stesso nome di Manw (trascritto Menw, figlio di Teirgwaedd) viene talvolta associato nei raccolti celtici (in particolare nel Culhwch and Olwen nonché nelle Triadi 27 e 28) a Merlino l’Incantatore, per trasposizione inferiore (demiurgica) di quella figura.  Dobbiamo la segnalazione indiretta di ciò al prof. G.Bruni, L’Eden. Un Eden e un popolo o più luoghi e più genti? (pdf on line, p.6; l’articolo in questione costituisce una versione ampiamente incrementata, rived. e corr., di “Ubinam gentium sumus? - Un Eden ed un popolo o più luoghi e più genti?”. tratto dalla Riv.Episteme, N°7, 2003).  Il che accade, ovviamente, anche al Manu indiano allorché non  funge da ‘Primo Uomo’ identificato al ‘Primo Nume’ (il Brahma), bensí da Māyin alla maniera di Śiva.  I ‘Tre Incantatori’ si rifanno cosmologicamente, con molta probabilità, alle 3 stelle della Cintura di Orione.
295)        De Vr., op.cit., Cap.sec., §1.a, pp. 117-8.
296)        È il suff.-wen a denotarla come ‘bianca’ (Grav, op.cit., Cap.Tre, p.51), indipendentemente dal significato che si vuol attribuire al nome Bran.  Graves gli assegna quello di ‘corvo’, perché identifica Bran a Krónos, ma l’etimo proposto non ci sembra del tutto convincente; almeno, non crediamo sia il significato originario del termine.  La var. Vran lo testimonia.  Cfr., in proposito Ac., Il Druid., pp. 16-7, n.17.  In base a Mabin.- ii-iii dobbiamo dedurre che Bran-wen, figlia di Bran e sposa di Manawyddan, altri non è che l’immagine della Rivelazione Primordiale (scr. Ādi-śruti); la quale, benché emanata dalla Divinità Suprema, fruttifica nell’Universo attraverso l’Uomo.  Si spiega in tal modo perché mai la ‘Testa Oracolare’ di Bran venga seppellita, su richiesta dell’interessato, a White Hill.  Questa ‘Collina Bianca’ aveva probabilmente la stessa funzione per i Britanni della ‘Collina Pimordiale’ fra gli Egizi.  
297)       Vide n.238.  Le 9 Streghe, come abbiamo ulteriormente rilevato (cfr. n.282) corrispondono alle 9 Figlie di Bran il Maligno, figura uranio-lunare complementare all’uranio-solare Bran il Benedetto.
298)       Se a volte la Dea Bianca è sostituita dalla Dea Purpurea (vedi Mongruad), la ragione è da addebitare al senso alchemico che ovviamente possiede il mito, oltre a quello cosmologico.
299)       G. Acerbi, La storia straordinaria di Kessi, mitico cacciatore anatolico- Alle pendici del Monte Meru (blog, 3-05-14), pp. 3-4.
300)       Agr. & Mag., I rom., pp. 16-20.
301)       Per ragioni di spazio e di reperibilità dei testi ci limitiamo qui in nota ad analizzare soltanto qualcuno dei libri indicati, il testo di Von Eschenbach e quello del Mallory, rimandando all’ultimo capitolo un’analisi del tema nel Lancelot.  Von Eschenbach pone la reggia di Artú a Nantes, ove il giovane è accompagnato da un avaro pescatore (Parz., Lib.III), sorta di alter-ego negativo di Amfortas; che invece incontra dopo esser ripartito, presso un lago.  Costui, un signore nobile e triste,  l’indirizza verso il proprio maniero e il cavaliere vi arriva sul far della sera.  [Il Castello del Gral è il luogo medievale d’iniziazione, corrisponde agl’Inferi degli antichi racconti misterici.]  Quivi per questioni di cortesia assiste silenzioso, senza porre la fatidica domanda, al servizio del Gral; consistente in un cuscinetto di seta verde su cui era posata una ‘gemma di paradiso’, il tutto recato in sfilata dalla principessa Repanse de la Schoye, preceduta da 24 damigelle (Lib. V).  Di seguto all’episodio delle 3 gocce di sangue, Gawan lo reintroduce alla presenza di Re Artú e Parzifal viene nominato cavaliere della Tavola Rotonda, dopodiché egli parte alla ricerca del Gral (VI).  Gawan lo seguirà piú tardi in tale impresa (VIII).  Avendo saputo dall’eremita Trevrizent del male fatto incautamente e della ferita cronica di Amfortas, parte nuovamente; e dopo aver reincontrato Gawan (conquistatore del Castello della Terre Marveile, cioè la ‘Terra Meravigliosa’, emblema del Paradiso Terrestre) nonché il fratello Feirefiz, se ne va alla volta del Munsalwaesche (XI-XV) o Mons Salvationis, ossia a cercare il Paradiso Celeste.  Giunto alla Terre de Salwaesche il prode cavaliere entra nel Castello del Gral e chiede di vedere la magica gemma, invitando gli astanti a portar aiuto allo strazio di Re Amfortas (personaggio modellato sullo storico Re Alfonso d’Aragona) e ponendogli il noto simbolico quesito: “Zio, che cosa ti strugge?  In tal maniera (XVI) Parzifal – erede celto-cristiano di Pryderi, recatosi a propria volta al Castello dello <Zio Zoppo> – diviene Re del Gral, come gli aveva predetto la Maga Cundrie; in questa veste risuscita miracolosamente l’equivalente wolframiano del Re Pescatore e del Re Magagnato fusi assieme come nella saga celtica originaria, sebbene in tale versione non si faccia il minimo cenno né all’ibrido di costoro né al Pesce, ma Amfortas è de facto sia re che pescatore.  Sicché Parzifal va sposo a Condwiramus e Feirefiz a Reponse de Schoye, con cui torna in India (= Etiopia).  Vi è però chi ha intravisto in codesta regione – non a torto – anche un cenno all’Iran.  Cfr. E.Albrile, Il Paradiso esiliato. Ipotesi sulle origini iraniche del’epopea graalica- S.O,C. (N°9, 2), Roma 2005, pp. 5-20; Id., Appunti sulle origini gnostico-iraniche del Graal- Simm. (A.2004, N°6), pp. 72-7.  Dal primo dei due fratelli, emblemi delle 2 confraternite gemelle dei Templari e degli Ismailiti, nascerà Loherangrin, che sposerà la Contessa Elsa di Brabante e continuerà la dinastia dei Re del Graal.  In quanto alla  Morte d’Arthur (compilata nel 1470 e stampata da Caxton Ed. nel 1485), il Mallory ci narra un quadro oltremodo diverso mutuato chiaramente dal Lancelot.  Partendo da Merlino e passando per Lancillotto e Tristano, arriva a trattare della Tavola Rotonda (Mor.- I.1-XII.14).   Indi passa a trattare L’istoria del Sangraal, fino alla morte del figlio di Lancillotto (XIII.1-XVII.23) In codesta parte dapprima è Lancillotto che s’appressa al San Graal, ma per via del suo peccato – il tradimento con Ginevra – sviene (XVII.15), dimostrandosi indegno di ricevere il sacro mistero dell’identità con Cristo nel Castello di Carbonek.  Mentre i 3 cavalieri eletti (Ser Galahad, Ser Percival e Ser Bors) dopo aver cavalcato a lungo realizzano l’impresa, giungendo alla meta.  Re Pelles li accoglie nel medesimo castello, comprendendo che “eran riusciti nella cerca del Sangraal”.  Il figlio Eliazar offre loro la <Spada Spezzata>, che aveva ferito alla coscia Giuseppe, e Galahad riunisce i pezzi come se non fossero mai stati disuniti.  Poi, intanto che sono a tavola, viene condotto nella sala da pranzo un uomo ammalato con un corona d’oro sul capo.  È il Re Mutilato.  Un vecchio tenuto in un seggio da 4 Angeli discende dal Cielo dinanzi alla tavola argentata, dov’è il Sangraal.  Altri 4 angeli s’appressano: due portano dei ceri, uno un pannolino e l’altro una lancia che miracolosamente gronda sangue in un vasello. Posati gli oggetti, il vecchio vescovo celebra un rito ed innalza un pane come fosse un’ostia: appare un bambino dal volto rosso immedesimantesi nel pane.  Rimessa l’ostia nel sacro vasello, finisce di celebrare la speciale Messa.  Indi bacia Galahad e lo invita a baciare i compagni poco prima di scomparire.  Dal sacro vasello esce poi un uomo che mostra i segni della Passione di Cristo e dichiara di aver mangiato l’agnello in esso il giorno di Pasqua.  Galahad e gli altri ora conosceranno tutti i segreti.  Questa visione apparirà maggiormente nitida nel palazzo spirituale di Sarras.  Nel reame di Logris non sarà piú vista, poi la gente di tale reame si è volta al mal vivere.  Alfine, chiede a Galahad di aspergere il corpo del Re Mutilato col sangue che fuoriesce dalla Sacra Lancia  risanandolo.  Ritiratosi in un’abbazia cistercense, vive da sant’uomo sino alla morte, cui segue quella di Parzival; Ser Bors si ritrova invece col cugino Lancillotto e i due decidono di non separarsi mai piú, se non alla morte (XVII.19-23).  La storia prosegue col ritorno di Lancillotto all’amore per Ginevra e si conclude tragicamente colla ferita a morte di Artú e l’annientamento di Mordred, che voleva sconfiggere in battaglia il padre e sposare la regina, ma è trapassato dal re colla lancia.  Invano il fantasma di Gawain aveva ammonito lo zio a non scendere in battaglia quel giorno.  Per ordine regale Excalibur viene gettata in acqua da Ser Bedivere ed è recuperata in incognito da una mano (della Dama del Lago, come specificherà piú tardi Tennyson), che l’agita 3 volte prima di farla scomparire nel mare.  Artú è trasportato via magicamente su una chiatta (in Avalon secondo Tennyson, da dove proveniva Excalibur), accompagnato da 3 donne (sua sorella Morgan la Fay, la Regina del Galles del Nord e quella delle Terre Desolate).  Appresa la triste notizia, Ginevra si fa monaca in Almesbury;  raggiunta in convento da Lancillotto, questi vedendola dedicata ad una vita di perfezione decide di fare altrettanto, fino a che entrambi muoiono.  Ma prima di morire, Lancillotto le ha confidato che se non fosse stato per l’amore verso di lei sarebbe divenuto il migliore cavaliere, a parte suo figlio Galahad (XVIII.1-XXI.13).  È logico ritenere che il re sia stato seppellito in una cappella a Glastonbury, dove il vate ci confida ne abbiano recato la salma le suddette donne, in una forma di rituale regale celtico.  Tanto piú che anche Ginevra, dopo la morte è stata trasportata colà a piedi da Lancillotto, fattosi sacerdote, e dai suoi 7 compagni.  Donde si comprende il famoso epitaffio sul luogo: Hic iacet Arthurus Rex quondam Rexque futurus.  La successiva identificazione di King Arthur alla Stella Polare – destinata a ritornare a dominare il Polo Artico dal 2000 d.C. in poi – col rimando inevitabile al simutaneo avvento dell’Età dell’Aquario (secondo Wolfram immagine del Gral) per il legame siderale che unisce i moti degli asterismi circumpolari a quelli precessionali nelle varie epoche, ha fatto sí che il personaggio venisse ripreso nelle opere minori e nella tradizione poetica successiva (continuata sino agli Idylls of the King, 1885, di A.Tennyson) accordando a lui stesso la funzione di Re Magagnato, con messa in disparte però del Kingfisher.  Ad es. il film di J.Boorman intitolato Excalibur, del 1981, mescolando i dati del Lancelot con quelli della Morte e d’altri poemi secondari, ha compiuto visibilmente questo passo.   
302)       Ha., op.cit., p.110, fig.49.
303)       Gli studiosi, infatti, suppongono che il calderone trovato in Danimarca provenga dalla Gallia.
304)       J.Campbell, The Masks of God- Penguin B., Harmondsworth 1976 (I ed. Viking P., U.S.A. 1968), P.Tre, Cap.7, §II, p.418.  Bran-Manawyddan secondo il folclore gallese abiterebbe in Annwfn (lett.’Abisso’), la Terra sotto le Onde, denominata alternativamente Caer Sidi (‘Castello Rotante’); ciò designa, è ovvio, una terra artica sprofondata in mare nella notte dei tempi.  Secondo il nostro parere alla fine del I Ciclo Avatarico, o non molto tempo dopo.                                                                                                                                                                                                       

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