Note
al Cap.I
1) Ādip., lxiii.
69-85. Facciamo presente fin d’ora che
il testo del poema cui abbiamo grandemente attinto e che avevamo studiato
attentamente ai tempi della prima tesi di laurea è The Mahabharata, nella traduzione inglese di K.M. Ganguli, in 12
voll. pubblicati a N.Delhi nel 1970 dalla Munshiram M.; per l’analisi di
singole frasi in lingua sanscrita ci siamo rifatti invece a The Mahābhāratam, col comment. di Nīlkantha, pubblicato in 6 voll. a N.Delhi nel 1979 (II
ed.) dalla Oriental Books R.C. Abbiamo
avuto peraltro a disposizione, onestamente senza doverla mai consultare (ma
un’occhiata sarebbe meglio dargliela da parte di chi conosce bene il sanscrito,
a conferma delle nostre supposizioni, specialmente per i passi decisivi quali
la questione del Re Pescatore o delI’Isola Bianca), l’edizione critica del
poema in 19 voll.; tre dei quali in 2 tomi, piú il supplemento dello Harivamśa e le 2
concernenti Appendici, per un totale di 24 voll. Quando avevamo iniziato questo scritto, nel
1993, eravamo freschi di studi avendo frequentato ‘Indologia’ all’Univ. di
Torino col prof. Botto per docente e non avevamo difficoltà a consultare un
testo sanscrito; ma cogli anni e l’allontanamento forzato dagli studi
accademici, a causa d’un maledetto malanno che ci ha colpiti nel ’96, le nostre
certezze in campo linguistico si sono alquanto attenuate. Chissà che in futuro qualche sanscritista non
si prenda la briga di offrirci la traduzione dell’edizione critica in una lingua occidentale, sarebbe un gran
giorno! Forse qualcuno è già all’opera,
a nostra insaputa, ma ci vorranno parecchi anni prima che essa eventualmente
possa giungere a compimento. Questo tipo
di testi d’altra parte non ha un valore sacro, come tutte le edizioni critiche
ha esclusivamente un significato per gli studi approfonditi sulla materia.
2) Il
nome di Parāśara, già conosciuto nei Veda (vii. 18, 21), sembra designare un
doppione di Kṛṣṇa Dvaipāyana (lett. “Nato-nell’Isola”); dato
che gli è attribuita miticamente la compilazione del Viṣṇu Purāṇa (cfr. il comm. del Wilson – riveduto dal Singh –
in The Viṣṇu Purāṇa- Nag, Delhi
1980, pp. 6-7, n.12), cosí come al figlio.
Vide n.5.
3) Ādip., lxiii. 86-8 e cv. 14.
4) Sui
Purāṇa
come «Quinto Veda» cfr. Ch.U.-
vii. 1, 2 e G.B.- i. 10. I due passi sono segnalati da O.Botto, Origini e sviluppo dell’epica indiana-
Acc. dei Lincei, Roma 1970, p.659, n.15.
5) Mt.P.- liii. 9. Il passo menziona, inoltre, il Dvāparayuga quale epoca di promulgazione
dell’unico Purāṇa originario.
Ciò implica che esistesse sul suolo del Deccan una lingua indiana
perfettamente formata fin dal Mesolitico e che la leggenda di Dvārakā, mitica patria insulare di Kṛṣṇa, non sia puramente una leggenda ad uso dei
devoti. Come d’altronde i recenti studi
nei primi anni di questo nuovo secolo da parte del vecchio archeologo Rao
intendono dimostrare, seppur contestati dai giovani e presuntuosi archeologi
indigeni occidentalizzati.
6) R.Guénon, Il quinto Vêda- R.S.T.
(gen.-mar. ’66, N°18), p.31; ed.or.
in I.T. (ago-set. ’37).
L’art. è raccolto nel libro postumo – trad. con imprecisione
dall’Anzaldi – Studi sull’induismo-
M.Basaia, Roma 1983, p.85 (ed.or. Études
sur l’Hindouisme- Ed.Traditionnelles [V. & B.], Parigi 1966,
p.91).
7) Ogni
attribuzione mitica indica in realtà un’appartenenza ciclica sotto l’aspetto
dell’elaborazione ideale. Nel caso di Vyāsa il riferimento è logicamente
ancora al Dvāparayuga, insomma
pressappoco al Mesolitico degli
archeologi, come gli ultimi ritrovamenti subacquei – segnalati in un efficace
documentario televisivo dall’ormai famoso G.Hancock – hanno del resto
confermato. [Per una perfetta comprensione di quanto
affermiamo vedi piú avanti il ruolo
di K.Dvaipāyana quale doppione
omonimo, in forma di compositore epico, del celebre auriga di Arjuna.]
8) Ādip., cv. 6-13.
9) Ibid.
come alla 1, vv. 1-68.
10) Se
identificassimo Vasu a Vāsudeva, il patronimico krishnaita,
anziché – come sarebbe piú corretto – a
Vasudeva, l’equipollenza risulterebbe valida, altrimenti no. Anche su tal problema torneremo piú innanzi
con maggiori dati a disposizione per l’adeguata identificazione del
personaggio.
11) Ib., lx. 1-2.
12) Ib.
13) Xcv. 48.
14) Tale soprannome ricorda quello di Matsyaderi, la ‘Fanciulla-pesce-liberata dall’Orma di Hanumat’ – tema che dovremo riprendere in seguito.
15) Matsyakālī
in un’altra versione del racconto (Ādip.- cclxxviii.
28-9) compare quale figlia di Girikā, anziché di Adrikā.
16) Ibid.
come alla n.9, vs. 82.
17) Cfr. M.Vettam, Purāṇic
Encyclopaedia- Motilal B., Delhi 1985, s.v.
ŚAKTI I, §2.i, p.668/ col.a.
18) D.O’Flaherty, Śiva: The Erotic-Ascetic- Oxford U.,
Oxford-N.York-Toronto-Melbourne 1981, C.IV, p.113 (n.14 inc.); I ed. (con altro
titolo), Oxford U., Londra-N.York 1973.
Nel contesto specifico tutti i tre membri della Trimūrti commettono incesto,
ma l’autrice forse non s’è resa conto del ruolo colà rappresentato da Parāśara.
19) Vide
nn. 2 e 5.
20) L’identità di Parāśara con Visnu spiega
le ragioni della filiazione simbolica del primo da Śaktideva, a propria volta disceso da Vaśistha ed Arundhatī; dato che il padre di Parāśara ossia ...Śiva appartiene alla ‘Seconda Stirpe’ dei numi rispetto al nonno,
vale a dire Brahmā... Sicché
Parāśara, alias Viṣṇu, rappresenta necessariamente nella sua effigie la
‘Terza Stirpe’ numinosa. Cfr. per questa
triplice successione divina il
Mt.P.- cliv. 351-3.
21) Vide Mhbh.,
Śāntip.- cccxxxv. 17-22.
22) Nella cultura greco-latina non
esiste purtroppo una leggenda cosmografica analoga, quella relativa all’Isola
di Thule non equivalendo sul piano cronologico al mito dell’Età dell’Oro,
diversamente da quel che si è spesso immaginato da parte di autori vari. Cfr. ad es. L.G. De Anna, Thule. Le fonti e le tradizioni- Il
Cerchio, Rimini 1998, sebbene lo studioso si mostri incerto se attribuire il
luogo all’Iperboride od al Settentrione.
L’identificazione invero non è del tutto errata. Stanno la letteratura, l’arte ed il folclore
a dimostrarlo. Diciamo che è intervenuta
ad un certo punto una confusione o meglio una sovrapposizione fra i due miti
(delI’Isola Bianca e della Terra degli Eroi), testimoniata parallelamente dalla
convergenza nella landa britannica della leggenda dell’Albion (il termine è connesso al lat. albus = ‘bianco’) con quella dell’Avallon; insomma, della ‘Terra Bianca’ colla ‘Terra delle
Mele’. Quest’ultima è associabile al
‘Giardino delle Esperidi’ e, quindi, al Vespero od Occidente che dir si
voglia. Trovandosi sul lato del tramonto
era senza dubbio altra cosa in origine rispetto alla prima, prettamente artica;
ma l’identificazione successiva ha spazzato via pian piano i 40.880 anni c. di
separazione temporale fra l’una e l’altra.
Ciò non è avvenuto solamente in ambiente greco-latino o celtico, si badi
bene; si rinviene infatti un pari errore di prospettiva pure in Iran (vedi
l’identificazione illogica fra Pairidaēza ed Airyanəm Vaēǰah) e in India, ove il posto della ‘Terra-nascosta’
(Ilā-vṛta) è stato talora preso dal ‘Nordico-paese’ (Uttarā-kuru). Si noti che il primo composto è formato da
due termini agglutinanti, mentre il secondo è dato da un nome preceduto da un
attributo. Circa la prima terra,
occorrerebbe chiedersi: nascosta da che, dal mare o dal ghiaccio? Un vero enigma cosmografico. La storia di Manu opta però, chiaramente, per la prima soluzione. Il che significa che era già in partenza un
continente semighiacciato, lo Śvetadvīpa equivalendo all’Albion, di poi sommerso dal mare in un evento diluviale. La seconda terra invece, che gl’Iranici hanno
chiamato Airyanəm Vaēǰah, è stata
abbandonata a sentir costoro per un cambiamento di clima. Il scr. Ār-y-a, ir. Air-y-a, rimanda d’altronde a giudizio
di Guénon e di molti altri al lat. ar-o
(‘arare’), gr. ἀρ-ό-ω; il che esclude che gli Ari abitassero in un
paese di per sé semighiacciato, ma semmai in uno al principio verdeggiante
durante la buona stagione, seppur alfine travolto da lunghi rigidi
inverni. Evidentemente per un
cambiamento di clima, dovuto al variare dell’asse polare e magari anche
all’influenza di determinate correnti oceaniche. Quale terra possa rispondere a tali requisiti
non è facile da stabilire, ma secondo le indicazioni cicliche dovrebbe
trattarsi d’una terra nordamericana, non nordeuropea come in genere si crede
per confusione fra l’ultima e la penultima terra di passaggio. Si noterà altresí come l’Eden biblico, benché per certi tratti
sia da appaiare al Paradeśa
o Pairidaēza (‘Estremo-distretto’)
indo-iranico, per altri s’avvicini al termine Iran, vale a dire la ‘Terra degli Ari’. Per la
prima identificazione si consideri peculiarmente il mito biblico di Eva tratta
dalla costola di Adamo, cosa che rammenta da presso quello analogo vedico (x.
86, 23) della figlia-sposa dell’incestuoso Manu,
Parśu significando appunto ‘Costola’; la seconda,
risalente a C.Dupuis, fa derivare invece il nome del luogo ove la
vicenda mitica si svolge da ‘Eren’ per uno scambio consonantico fra la Resh e la Daleth (lettere alfabetiche che in ebraico si scrivono quasi uguali
graficamente e potevano quindi essere trasmutate per errore dai copisti di
manoscritti l’una nell’altra). Anche
l’anatema del frutto proibito, guardacaso la ‘Mela’, detiene una doppia
valenza; da un lato si ricollega alla Gnosi Primeva, dall’altro alla gaelica
‘Terra delle Mele’. L’intera questione è
inoltre complicata dal fatto che nella seconda metà del V Grande Anno (Mahāyuga) il centro
tradizionale di cui favoleggiano le varie culture s’è spostato direzionalmente
da una posizione nordoccidentale ad una strettamente nordica (ossia
dall’America all’Europa), secondo il senso solare che è proprio di tutto il
Grande Eone (Manvantara). Ciò spiega perché mai nella mitologia celtica
si allluda all’Avallon come ad una
terra nordico-occidentale od, alternativamente, nordico-europea (G.Acerbi, Le magie e gl’incantesimi di Merlino e Morgana nell’ambito del folclore
eurasiatico- Viator, A.VII, Rovereto 2003, p.264, n.57). In tal caso il passaggio considerato non è
dall’Albion all’Avallon, bensí dall’Avallon
alla Britannia (il secondo Avallon in
certo senso, o se si vuole perfino il terzo, identificando il primo
all’Albion…), le cui attribuzioni dell’un epiteto all’altra terra provano sia
stata trasformata in un dato momento – presumiamo all’inizio della mitica Età
del Ferro – in un nuovo centro tradizionale.
Visto che, come ci tramandano gli antichi, i Druidi della Gallia
solevano inviare i giovani sacerdoti in Britannia proprio per ricevere
un’adeguata formazione spirituale.
23) G.Acerbi, Introduzione al Ciclo
Avatarico. Da Matsya a Kalki – He- liodromos N.S. (Pri.
2000-Pri. ‘02), NN. 16-7, Catania 2000-2, pp. 15-24 e 15-24 sgg.
24) Stirpi divine ed umane, Caste e Razze,
Ecumeni e corrispondenti Temperamenti sono tutti argomenti correlati a quello
piú generale dei Grandi Elementi, per il quale rimandiamo ad un nostro scritto
attualmente ancora in fase d’elaborazione: La
concezione delle Caste nel mondo indoeuropeo; che avremmo dovuto pubblicare
quasi un trentennio fa grazie al patrocinio del compianto dott. Del Monte,
presso la Sear. Comunque, ne è già stato
pubblicato uno stralcio sotto forma di art. per la Riv.Convivium. Vide n.125.
25) La leggendaria Età dell’Oro è denominata in India
anche Satyayuga, lett. ‘Età della
Verità’ (Satya). Si noterà l’omofonia del termine col nome
della figlia adottiva della figura primigenia del ‘Re Pescatore’, appunto Satyā. Codesto
personaggio maschile dell’epica induista ha qualcosa in comune, peraltro,
coll’omonimo personaggio dell’epica celto-cristiana; che non a caso costituisce
una riattivazione in panni medievali di Bran,
il Signore dell’Età Aurea in ambito celtico, esattamente come l’equivalente
hindu lo è di Brahmā. Cfr. in proposito G.Acerbi, Il Re Pescatore,
sovrano universale delle acque, nella letteratura indo-europea. Paralleli
fra Bran e Brahma, nonché fra Varuna
e Urano– Alle pendici del Monte Meru, blog
(13-12-14), pp. 1-2 (aggiornanamento d’un art. pubblicato il 22-07-07 in un
vecchio blog oggi cancellato, Ritorno
al Paradiso Perduto, sotto pseud. di H.Mriga).
26) Il D.Bh.P.-
ii. 5 paragona difatti senza mezzi termini Re Śāntanu ed il “figlio” generatogli da Gaṅgā, dea che è
solitamente una delle due consorti di Śiva e si oppone complementariamente ad un’altra
divinità fluviale (Adrikā, dimorante nella Yamunā), rispettivamente a Mahādeva e al figlio Kārtikeya. Questi è il secondo figlio di Śiva,
essendo giunto dopo Bhairava e
prima di Ganeśa.
27) Non a caso Ganeśa, il terzo simbolico figlio di Mahādeva, coadiuva Vyāsa nella
stesura del poema mahabharatiano in veste di scriba. Per il fatto che ne è un doppione, o meglio
viceversa, essendo lo shivaismo ciclicamente piú vetusto del vishnuismo. Ganeśa
colla sua solare proboscide svolge in tale funzione un ruolo di tipo
bronzeo, eroico-produttiva diremmo, alla maniera vishnuita; in rapporto,
perciò, al tema della fecondità e della fertilità.
28) Śiva, non meno di
Saturno-Crono ha doppia funzione; normalmente argentea, ma talora aurea per
trasposizione all’indietro. A seconda
che sia tratteggiato come pauroso signore del tempo e della morte (Kāla,
identificabile al secondo figlio del nume, il dio della guerra Skanda-Kārttikeya), o quale
benefico signore dei geni e delle creature (Gaṇapati, assimilato a
Gaṇeśa, ma in un senso nettamente superiore a quello
indicato nella n.prec.).
L’interpretazione aurea è applicabile anche a Dakṣa-Prajāpati, la forma
shivaitica equiparabile a Brahmā, per quanto
la distinzione fra l’una e l’altra di esse sia sempre piuttosto complessa e
contradditoria. Tant’è che nella forma
di Bhairava l’eclettico Mahādeva incarna la
Morte (Θάνατος), non però in senso argenteo-saturnino e dissolutorio ma
aureo-solare ed ascetico, sebbene non primevo; in contrapposizione a Kāma
(Ἒρως), di cui
pure è incarnazione. È proprio
questa dualità fra eros e ascetismo archetipicizzata nell’insieme da Bhairava e Kāma, a mezzo fra
l’aureicità di Gaṇapati/Prajāpati e l’argenteicità di Kāla/Kārttikeya, che è la
vera natura di Śāntanu. Non per niente qualcuno (E.W. Hopkins, Epic Mythology- Motilal B., Delhi 1974 [
I ed. Strassburg 1915 ], p.121, Cap.V, §65) sulla base dello H.V.- 2989 f identifica questi ad Aikṣvāka Sāgara, l’Oceano (figlio di Ikṣvāku, alter-ego
di Manu), ossia l’equivalente
induista del greco Ώκεανός; chiamato
pure Samudra e considerato attendente
di Varuṇa, dal momento che i due (Śāntanu e Sāgara/Samudra) hanno in comune
la consorte, Gaṅgā. Costei,
d’altronde, è tanto la madre di Skanda
quanto la genitrice dell’allotipo Bhīṣma.
29) A.K. Roy & N.N. Gidwani, A Dictionary of Indology- Oxford &
IBH Publ., N.Delhi-Bombay-Calcutta 1985, s.v.
PURU, Vol.3, p.237.
30) Ibid.,
s.v. KURU, Vol.2, p.343.
31) Se intendiamo correttamente
l’affidamento a costui di Satyā.
32) La datazione tradizionale del
conflitto, che compare nel testo medesimo, non è neanche presa in
considerazione dagli studiosi contemporanei, che la pongono anno piú anno meno
sempre nell’ambito del I millennio av. l’E.V., facendone una semplice guerra
civile. Vedi B.P. Sinha, Archeology &
Art of India- Cap.6 sgg. Ciò per il fatto che secondo la tradizione, non ci
pare sia specificato dall’autore se orale o scritta, il Jaya Kāvya
ovvero la prima versione in c.8.000 Śloka del Mahābhārata
sarebbe stato composto “non molto dopo l’evento ma dopo la composizione dei
Veda”. Dal punto di vista della
datazione dell’orientalistica ufficiale la cosa non fa una grinza, però
adottando la cronologia trasmessaci dal poema – che abbiamo fatto nostra per
rispetto del sacro testo – ne consegue che il Veda risalga almeno nella sua formulazione primaria (sicuramente
orale) ad epoca mesolitica (c.6.000 a.C.), mentre il poema (sempre in forma
orale, crediamo) ad epoca neolitica (c.4.000 a.C.). A conferma di quanto precisato, notiamo che
il Ṛgveda viene tradizionalmente attribuito a Kṛṣṇa, ma quale Kṛṣṇa? Siccome
il primo dei due è collocabile all’incirca all’inizio dell’XI mill. a.C., è
evidente che si tratti del secondo Kṛṣṇa, il protagonista del Mahābhārata; ed
evidentemente anche formulatore dei sacri testi hindu, anche se la prima
promulgazione del testo rigvedico sembra risalire ad uno o piú millenni precedenti la venuta terrena del IX Avatāra, poiché l’intero IX Ciclo
(10.960-4.480 a.C.) gli è attribuibile per definizione.
33) Per una chiarezza maggiore
sull’argomento cfr. V.Pisani, Mahābhārata.
Episodi scelti- Utet, Torino 1968, pp. 60-2, Introd., Cap.III; oppure, piú sintetico ed aggiornato, G.Acerbi, La
concezione della Patria nel Mahābhārata-
Arkete, A.II, N°3, Roma 2001, p.18,
n.1.
34) Hop., op.cit., Cap.I, §1, p.1.
35) A.T. Embree & F.Wilhelm, India. Dalla civiltà dell’Indo fino all’inizio del
dominio inglese- Feltrinelli, Milano 1968, apud Storia Universale, Vol. 17 (ed.or. Indien. Geschichte des Subcontinents von der Induskultur bis
zum Beginn der englischen Herrschaft- Fischer Weltgeschichte, Francoforte sul Meno 1967),
Cap.3, p.24.
36) R.L. Beals & H.Hoijer, Introduzione all’antropologia fisica- Il
Mulino, Bologna 1970 (ed.or. An
Introduction to Anthropology- The Macmillan C., N.York 1965), Cap.VII, §2,
p.281.
37) Per intenderci cfr. M. & J.
Stutley, Dizionario dell’Induismo-
Astrolabio-Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A
Dictionary of Hinduism- Routledge & Kegan P., Londra 1977), s.v. ĀRYA, pp. 30/
coll.a-b e 31/ col.a; s.v.
BHARATA, pp. 62/ col.b e 63/ coll.a-b.
38) Sino a non molto tempo fa, essendo gli
Ari associati all’utilizzo bellico del cavallo, veniva considerata una prova
archeologica indiretta della loro mancata presenza in India prima del 1.500
a.C. il fatto che fra i reperti dell’antica Civiltà della Valle dell’Indo non
si rinvenissero ossa equine. Invece poi
si è scoperto, ad una miglior osservazione, che queste ossa sono presenti,
sebbene qualcuno ne contesti la provenienza reale dalle antiche popolazioni
dell’Indo: cfr. on line ad es.
P.Priyadarshi, The Horse and the Indian Aryans per la prima
tesi e per le argomentazioni opposte M.Witzel, Harappan Horse Myths and the Science. La maggior parte degli studiosi autoctoni
sono convinti della prima ipotesi, quasi tutti gli orientalisti europei ed
americani della seconda. Di piú, gli uni (cfr. soprattutto A.K. Biswas, The Aryan Myth; presso AA.VV., Historical Archeological of India. A
dialogue between archeologists and historians- Books & Books, N.Delhi
1990, Cap.3 sgg) cercando di sfatare
quello che considerano lo pseudomito indoeuropeo, sostengono che la civiltà
harappana era coeva al Veda o
addirittura post-vedica; gli altri, per contro, lo negano. Parrebbe in ogni caso che un cavallo
indigeno, tipicamente asiatico (l’Equus Śivalensis),
preesistesse nel Deccan fino a c.10.000 anni fa; ossia poco prima
dell’introduzione del cavallo domestico (l’Equus
Caballus), evolutosi geneticamente da esso entro pochi millenni, sino a
formare il cavallo del sudest asiatico, quello arabo, quello europeo di razza,
il purosangue ecc. Mentre il cavallo
della steppa centrasiatica, dalla quale gl’indoeuropeisti come la Gimbutas
fanno discendere gli Ario-europei, non risalirebbe che ad una cinquantina
d’anni dopo l’inizio dell’E.V. Aggiungasi
che dagli studi sul Dna appare ora chiaro come tracce di addomesticamento
equino compaiano in India già a partire da 8.000 anni or sono, sicché è palese
che siffatta pratica deve esser cominciata parallelamente in zone tra di loro
separate; dato che nuclei di cavalli selvaggi erano presenti un po’ duvunque in
Eurasia, ma non è visibile un’interconnessione fra i reperti sudasiatici in
materia e quelli analoghi delle zone dell’Europa Orientale. Tutto il contrario, insomma, di quel che si
pensava prima. Tanto che Priyadarshi (ibid.), dopo aver citato il Ṛ.V.- i. 163, 1-4 e spiegato che l’attribuzione del
simbolo equino al dio oceanico Varuna
tradisce una continuativa osservazione dalla fine dell’ultima glaciazione in
poi di mandrie di cavalli allo stato brado galoppanti ai bordi delle spiagge,
come peraltro fanno ancor oggi in Gujarāt, giunge ad affermare codeste sacrosante parole:
“Examination of archaeology and geology shows that the common notion among the
historians that India did not have horse before 1.500 B.C. is more than an
untruth spoken thousand times taking shape of a fact.” Perciò il quadro di civiltà sinora tracciato
dagli storici dovrebbe esser rivisto, completamente, alla luce dei risultati
paleontologici e genetici di recente elaborazione. Priyadarshi ritiene che lo Śivalensis non si sia estinto per cause naturali, bensí per via
della forte antropizzazione avvenuta in India 10.000 anni fa, essendo
quell’equino stato fatto probabilmente oggetto di caccia nonché
d’addomesticamento. Rileva inoltre che
le pitture parietali di Bhimbetka, di
carattere prettamente mesolitico, risalgono a c.8.ooo anni fa o forse piú, ma vengono assurdamente datate al 1.500 a.C. a
causa dei disegni di cavalli effigiati sulle pareti rocciose. Egualmente, a nostro giudizio, il rito dell’aśvamedha cui si fa
cenno in i. 162 – cfr. l’ottima ricostruzione che ne fa V.Papesso in Inni del Ṛgveda- Ubaldini, Roma 1979 (I ed. Zanichelli, Bologna
1929-31, 2 voll.), pp. 99-103 – presenta aspetti cruenti (ecatombe d’animali, soffocamento
del cavallo) e connotati magici (ad es. il fallo del cavallo sacrificato
disposto sui seni della regina durante la prima notte post-sacrificale) tipici
della mentalità centrasiatica o addirittura sudasiatica.
39) L.B.G. Tilak, La dimora artica nei Veda. Nuova chiave per l’interpretazione di
numerosi testi e miti vedici- Ecig, 1986 (ed.or. The Arctic Home in the Vedas. Being Also New Key to the Interpretation of Many Ve-dic Texts and
Legends – Tilak Bros., Poona 1971,
I ed.1903; ed.franc. Origine polaire de
la tradition védique- Arché, Milano 1979).
Lo scrittore non va né esageratamente esaltato, né scioccamente snobbato. Essendo passato oltre un secolo dalla data di
composizione del libro, è chiaro che nel testo andrebbero riviste parecchie
cose. Pur se si tratta a nostro giudizio
di un’opera comunque validissima, paragonabile per portata a quella del Warren,
il fondatore dell’Università di Boston, sul Paradiso Terrestre. Cfr. nn. 60-1.
40) Ibid.,
Cap.XIII, p.372. Datando il diluvio
atlantideo al 9.600 c. a.C., come fa Platone, si può prendere l’8.000 a.C. o
persino prima come tempo di trasferimento delle genti arie; codesta data
essendo grosso modo in linea cogli studi paleontologici, benché questi
invertano la rotta del flusso migratorio da Occidente ad Oriente. Vide n.114. Il 5.000 a.C. è invece troppo prossimo al
conflitto mahabharatiano, in base al quale si deve supporre che i contendenti
fossero già presenti sul territorio da qualche millennio. Perché altrimenti la notizia d’un
trasferimento recente nell’area sarebbe stata un fatto non trascurabile da
parte dei complilatori tradizionali dell’opera (simboleggiati da Ganeśa), che
ovviamente non coincidevano col gurudeva
formulatore (simboleggiato da Kṛṣṇa D.).
41) Va fatta innanzitutto chiarezza su cosa
s’intenda per Ārya, non potendo
piú valere
evidentemente l’idea ottocentesca degli Ari come razza, idea antitradizionale
benché purtroppo accettata a suo tempo da Tilak e da altri autori di valore
come lui (cfr., in proposito, I.Taylor, Origins
of the Aryans. Prehistoric Ethnology and Civilization of Europe- Fine
Oppset Pr., N.Delhi 1980, rist. del 1889, passim);
in quanto, semmai, gli Ari andrebbero classificati come stirpe (scr. jāna,
lat. gēns, gr.
γένος). Non è la stessa cosa. Le razze dipendono dal colore della pelle,
anche se l’antropologia ha apportato confusione all’argomento, aggiungendo
altri fattori come quello cranico che hanno fatto perdere ad esse il comun
denominatore dato dai Pañcabhūta (i 5
Elementi); viceversa le Generazioni Umane, appaiate a quelle Divine,
stabiliscono l’ordine ciclico d’entrata in scena delle varie Stirpi. Seppur parallelo a quello delle Razze, non
coincide con questo. D’altronde – è bene
esser chiari su questo punto – la confusione fra le due serie di dati ha uno
scopo occulto ben preciso, allacciato ai fini impropri della ‘Sinarchia’
fondata da A.Saint-Yves d’Alveydre. La
quale difatti oltre a manipolare l’ordine naturale delle Razze mira a porre gli
Ari (ciò avendo un indubbio riflesso storico sulle pretese egemoniche
dell’allta borghesia contemporanea a livelllo globale, attorniata dai rami
cadetti della monarchia europea), per le convenienze risultanti dal suo
progetto politico-sociale definito M.S.E.,
sul piano che è proprio della Razza Bianca; ma non è il piano corretto, gli Ari
od Eroi che dir si voglia corrispondendo alla Quarta Generazione Umana, secondo
quanto insegna Esiodo. Quindi nello
schema diversificato delle Razze andrebbero equiparati semmai alla Razza Rossa,
una razza di per sé impura. Tant’è che
l’autore degli Ἒrga (vv.159-60),
pur elogiandoli quale θειόν
γένος (‘divina
stirpe’) li reputa non meno di Platone ἑμιθεοί (‘semidei’) e non θεοί (‘dèi’).
42) In fondo, neppure Tilak medesimo ha
saputo indicare con precisione l’area di provenienza di questa stirpe. Si è limitato a propugnare una dimora
circumpolare, ma non esattamente artica come il titolo del libro da lui scritto
parrebbe supporre, poiché questo in parte sarebbe stato in contrasto coi dati
da lui raccolti. Visto che i passi dei
testi avestici da Tilak menzionati narravano dell’avvento d’un freddo
eccezionale recato ad opera di Aŋgra Mainyu (lo Spirito del Male) in una
regione ove l’inverno durava 10 mesi e l’estate 2. Questo freddo sarebbe dunque caduto sugli Airya ad un certo punto della loro
storia, non prima. Ciò dimostra che quel
fatto nulla poteva aver a che fare colle glaciazioni dei tempi paleolitici e
che in precedenza essi vivevano su un suolo diverso, sicuramente verde, con
ogni probabilità anche rozzamente arativo; se è plausibile l’etimo che quasi
tutti adottano (vide Stut., op.cit., s.v. ĀRYA, p.30/ col.b), ricollegando il loro nome a vari
termini degl’idiomi europei: celt. ar
(‘suolo coltivato’), lat. ar-v-um
(‘suolo arabile’), gr. ἄρ-οσ-ις (‘campo arativo’.). Bisogna definitivamente sgomberare dal campo
l’idea che gli Ārya come
generazione umana possano essere equiparati a quella dello Śvetadvīpa: sono i miti, assolutamente, a negarlo. Insomma, gli Ārya non sono i Gandharva. Essendo dei semplici ‘signori della terra’,
secondo quanto ci conferma il significato del scr. arya, sinonimo di vaiśya
(‘artigiano’), la loro saga non è per nulla in relazione col simbolismo
ittico-paradisiaco del Dāśarāja. Anzi i Dāsa
sono loro nemici, stando al Ṛgveda. L’identificazione risulterebbe quindi
impropria. Del resto il termine ārya, scritto questa volta colla vocale iniziale
lunga, designa in sanscrito unicamente un rispettabile abitante dell’Āryāvarta, ossia
dell’India Settentrionale e Centrale.
Non un nobile in senso regale vero e proprio, bensí un signore
praticante un qualsivoglia modus operandi:
scr. ar-tha (‘modo, maniera; arte,
mestiere), germ. ar-t (‘modo,
maniera’), lat. ar-s (‘arte,
mestiere’). Ecco la ragione per cui Aryaman, l’antenato divinizzato degli
Ari, viene venerato nel Ṛgveda assieme a Mitra
o a Bṛhaspati in veste di uno dei 12 Āditya (Deva);
vale a dire i 12 Soli, equivalenti ai Semidei della tradizione ellenica. Cos’abbia tutto ciò a che vedere colla
primordialità sarebbe bene saperlo.
Piuttosto, abbiamo qui a che fare colla famosa ‘Terza Funzione’ di
duméziliana memoria, che secondo le scritture ha cominciato a dominare nel
mondo durante la ‘Terza Epoca’.
Guardacaso, esattamente l’epoca in cui è ambientata la Guerra del Kurukṣetra. Ed è significativo che la borghesia
illuminata europea del mondo contemporaneo,
giunta al culmine del suo potere politico, abbia inventato lo pseudomito
della ‘razza ariana’ mediante un’iperbolica identificazione di sé cogli
antenati primevi della specie umana.
Benché anche gli Ari prima di essa, lo si era già rilevato alla n.22,
abbiano praticamente mostrato una “presunzione” analoga.
43) Til.,op.cit., Cap .XI, pp. 319-20.
44) Cfr., sull’argomento, G.Acerbi, Il Paradiso Iperboreo quale Terra di Luce e
di Tenebra; è il Cap.I (già concluso) di Viaggio verso la Luce e le Tenebre, collage d’articoli indipendenti ancora in fase di preparazione.
45) Vedi sul tema G.Acerbi, Kālacakra.
La Ruota Cosmica- Univ. “Ca’ Foscari”, Venezia, 1985 (tesi di
laurea), Vol.I, P.II, Cap.V, p.400; inoltre pp. 518-20, n.60.
46) Til., op.cit., Cap.XIII, p.373.
47) Questa teoria storico-culturale, cosí
come quella antropologica della razza caucasoide è manifestamente condizionata
dalla leggenda biblica dello sbarco dell’Arca di Noè sull’Ararat dopo il
Diluvio e la diffusione dei figli di Noè in zone circostanti. La storia biblica trova conferme in altre
tradizioni dislocate su entrambe le coste dell’Atlantico (Haida, Sumeri). Se per Noè intendessimo, come voleva taluno –
R.Guénon, Forme tradizionali e cicli
cosmici- Mediterranee, Roma 1974 (ed. or. Formes traditionnelles et Cycles cosmiques- Gallimard, Parigi
1970), p.40 – in conformità colla Chiesa del Medioevo, la popolazione
atlantidea e nel contempo il messaggio spirituale che attraverso una
determinata figura spirituale da colà proveniva; ecco che i suoi 3 figli di
conseguenza verrebbero a rappresentare, nel modo metaforico che è tipico delle
leggende e dei miti, 3 diversi ceppi di quell’etnia e le loro culture
incluse. Guénon medesimo non ha tuttavia
ben riflettuto su questo, tant’è che condivideva con P.Le Coeur la possibilità
d’una duplice suddivisione dell’Atlantide: una nell’Atlantico Settentrionale,
identificata alla Tula vagheggiata
dai Toltechi, ed una nell’Atlantico Meridionale (ibid., Cap.II, p.29). Di
certo la posizione dell’America attuale, dove la parte centrale risulta
costituita solo da un istmo, può farci considerare le cose in codesta maniera;
ma gli studi dell’ing.Allen, teorizzanti un’Atlantide caraïbo-andina parzialmente sprofondata nell’Oceano
Atlantico, parrebbero spingere in altra direzione. Ossia, testimoniare la presenza d’una
ulteriore Atlantide fra le 2 vagheggiate dai due suddetti autori. Riguardo la durata del Ciclo Atlantideo crediamo,
invece, avesse ragione Guénon ad accreditargli quella d’un Grande Anno: 23.920-10.960
a.C. In abbinamento collo sviluppo
cruciale in fatto di direzioni simboliche, aggiungiamo noi, del Sudovest e
dell’Ovest. Siccome Platone ci narra che
il Diluvio Atlantideo non è avvenuto esattamente alla fine del IV G.A., ma
oltre un millennio dopo (ammesso, e non concesso, che questa data sia esatta),
è evidente che era già cominciato un nuovo ciclo; il Nono all’interno del
Grande Eone, abbinato direzionalmente al Nordovest. Ciò significa che questo ciclo, pur avendo
quale centro d’irradiazione una regione nordica del mondo, si è sviluppato in
terre occidentali. Interpretando dunque
i 3 fratelli come delle figliazioni delle 3 Atlantidi di poi ibrididatesi, nel
Vecchio Continente, con ceppi decaduti della Razza Bianca (Paleo-asiatici,
Proto-mongolidi, Proto-europei) e della Nera (Austronesiani, Paleo-negriti) –
non per nulla in Francia il cabalista cristiano del XVI sec. G.Postel voleva
chiamare Iapezia l’Europa, Semia l’Asia e Camia l’Africa – avremmo un quadro abbastanza veridico della situazione. Benché qualcosa del genere sia stato
probabilmente pensato nei secoli passati, in epoca contemporanea si è finito
per invertire la situazione identificando praticamente Iapheti e Razza Bianca,
vale a dire il ceppo piú antico a
quello piú recente;
indi li si è svincolati dalla leggenda noaica, chiamandoli su base linguistica
‘Indoeuropei’, sebbene con qualche cautela.
Se invece tornassimo alla leggenda biblica, che non vi è assolutamente
ragione di tralasciare, ci accorgeremmo che la tripartizione dei discendenti
noaici può giustificarsi solo con una suddivisione etnica già all’origine sul
suolo atlantideo od americano che dir si voglia; tripartizione la quale, in
tutta evidenza, si è poi ulteriormente accentuata in terra eurasiatica in varie
maniere. Cfr. n.106 e 116.
48) L’autodenominazione di ‘Celti’, al dire
di Cesare una delle 3 suddivisioni di quel popolo barbarico oltre ai Belgi e
agli Aquitani, si è estesa all’intera popolazione che i Romani chiamavano
‘Galli’. La loro sede primaria, secondo
gli archeologi, era forse l’Alto Danubio.
Il nome che li contraddistingue a nostro parere non deriva propriamente
dall’ambito indoeuropeo, benché la loro lingua a giudizio di taluno (T.G.E.
Powell, I Celti- Il Saggiatore,
Milano 1959; ed.or. The Celts- Thames
& Hudson, Londra 1958) sia formalmente ricollegabile alla zona anatolica
indoeuropea. Infatti a differenza del
gruppo germanico, dal quale probabilmente il nucleo primario di cavalieri
dispersi non differiva di molto se non per quegli ostacoli accidentali
determinati dagli stanziamenti tribali presso i grandi corsi fluviali quali il
Reno (cfr. R.Hachmann, I Germani-
Nagel, Roma-Ginevra-Parigi-Monaco di Baviera 1975, Cap.I, p.29 ss), il gruppo celtico originario non si
è conservato relativamente puro. Sebbene
i cavalieri celtici mostrino affinità con quell’antico strato germanico di tipo
ambro-cimbro-teutonico – disceso dallo Jutland e dintorni verso la Gallia nel
II sec. a.C. – che gli antichi romani nell’atto d’affrontarlo nella parte
nordoccidentale della nostra penisola ancora vagamente giudicavano “barbarico”
e che potremmo considerare, rispetto ai flussi barbarici meglio definiti dei
primi secoli dell’E.V., delle semplici orde in avanscoperta, la corrispondente
casta sacerdotale rivela nei propri culti una propensione arcaica interpretata
dagli esperti (J. de Vries, I Celti-
Jaca Book, Milano 1981 [ed.or. Keltische
Religion- W.Kohlhammer, Stoccarda 1961], P.sec., Cap.sec., §2.d, p.137) come un richiamo a culti
preistorici indigeni diffusi in tutta l’Eurasia. Segno che la popolazione, in generale, aveva
subito commistioni con genti pre-indoeuropee.
Che i Celti fossero un ceppo misto è provato persino dal nome etnico, il
quale altro non era invero che un appellativo della casta sacerdotale, vale a
dire una sineddoche (figura retorica indicante una parte per l’intero) ad
indicare tutto il popolo; nel contempo il termine equivale nell’etimo a quello
dei sacerdoti sumeri, i “Caldei” della tradizione greco-romana. Guènon, dando ragione di ciò (Gué., op.cit., Cap.III n.num., p.40-1), spiega
a proposito del congiungimento d’una corrente nordica di diretta discendenza
iperborea coll’altra occidentale di discendenza atlantidea avvenuto nell’ultima
parte del Manvantara (non precisa
però se in tempi preistorici o protostorici) che, volendo “indagare sulle
condizioni nelle quali tale congiungimento si operò, bisogna dare una
particolare importanza alla tradizione celtica e a quella caldea; il nome delle
quali coincide poiché designava in
realtà non un popolo particolare, bensì una casta… [cors. dell’A.]”. Da parte nostra riprendendo codesta nozione
guénoniana abbiamo altrove segnalato la parentela ulteriore fra il nome dei
sacerdoti celti, i Druidi, e quello etnico dei Drāvida, dai Greci
definiti Tέρμιλαι. Vedi G.Acerbi, La terra mitica dei Dravidi- Algiza (Nov., N°13), Chiavari [Ge]
1999, pp. 11-2; cfr pure la nostra fonte, cioè H. Heras, Studies in Proto-Indo-Mediterranean Culture- I.H.R.I., Bombay 1950,
App. al Cap.V sgg. Anche in tal caso si tratta d’una sineddoche,
ove all’inverso di prima l’intero sostituisce la parte. Non vi è contraddizione naturalmente nella
doppia identificazione, dato che i Sumeri erano camiti non meno dei Paleo-dravidi dell’antica Civiltà
dell’Indo. La loro etnogenesi è
probabilmente comune, visto che entrambi dichiarano quale patria antecedente
un’isola dispersa dell’Oceano Indiano: il Dilmūn (confuso da taluni con l’Antartide) da parte dei
primi e Dvārakā da parte dei secondi. Il che ovviamente non esclude una loro
precedente provenienza oltreatlantica, come per gli Egizi. Cfr. n.115.
49) Anche in questo caso la definizione di
‘indo-iranici’ non è del tutto rispondente alla realtà, giacché risulta valida
solamente se applicata all’Iran e all’India in quanto nuove regioni di
stanziamento del ramo di popolazione migrante, ma non lo sarebe se la
s’intendesse in rapporto all’Indo; visto che il termine, derivando dalla
scurezza del limaccioso fiume, connota gl’indú non già come un popolo di pelle
chiara bensí di pelle scura. Cosa che,
certamente, non sarebbero stati i nuovi arrivati da regioni nordiche prima di
produrre quella fusione etnoculturale che si suole definire ‘induismo’. A meno di accettare la loro supposta presenza
in Asia Minore da parte accademica come un dato effettivo. La tesi della provenienza centroasiatica di
queste genti primieramente formulata dal Warren e poi ripresa da Tilak (cfr.
nn. 61 e 22) non è infatti piú
percorribile, visto quanto precisato alla n.38 sull’introduzione tarda del
cavallo in quell’area. Sia che ci si
ponga in posizione agnostica rispetto alle origini indoeuropee, come si fa di
norma, sia che si accetti la leggenda biblica dello sbarco sulle coste
mediterraneo-orientali di genti provenienti da oltreatlantico
(iaphetiche). La Genesi lascia tutto nell’indeterminato, non ubica la dimora di Noè
e dei suoi 3 allegorici figli in alcuna zona geografica precisa; però il Libro dei Giubilei (apud ‘Apocrifi dell’Antico Testamento’- Utet, Torino 1981, p.238, a
c. di L.Fusella & P.Sacchi), una Piccola
Genesi redatta in ge‘ez (etiopico classico) circa nel II sec. a.C., riporta
al passo iv. 24 le seguenti parole: “E (il Signore) mandò il diluvio su tutta
la terra di Eden.” Subito dopo, al 25,
si menzionano 4 Monti consacrati al Signore nella Nuova Creazione: il Giardino
dell’Eden, ad ovest; il Monte del Sud, su cui sta Enoc, cioè il Sinai secondo
il prof.Sacchi; il Monte dell’Est ed il Monte Sion, localizzato dall’A.T. nel,’Estremo
Nord. Questa altro non è che una
sintetica cosmografia, a riprova che Noè proveniva da una terra occidentale; e
che l’Eden non era l’originario paradiso (vide
supra), identificabile viceversa collo Siyyōn, equivalente ebraico del Sineru o Sumeru. Quindi si
deve arguire che la tappa nordica, indubbia siccome stabilita dalla cosmografia
indiana relativamente all’ultimo ciclo avatarico, si sia svolta in modo un po’
differente da quanto troppo approssimativamente teorizzato in precedenza sulla
scorta di Tilak, pur correggendone l’errata impostazione warreniana. Il che s’accorderebbe colla testimonianza di Snorri, il quale fa discendere etnia e
cultura norrenica da Iaphet. Cfr., pure,
nn. 50 e 77.
50) Molti pescatori del Mare del
Nord da quando avevano cominciato ad utilizzare le reti a strascico avevano
rinvenuto sul fondale marino sempre parecchi oggetti preistorici, che a partire
dalla metà degli Anni ’80 sono stati collezionati nei musei da qualche
paleontologo. Essi ci rivelano che durante
il Mesolitico (c.9.000 a.C.) vivevano sulle coste baltiche dei
cacciatori-pescatori capaci di costruire imbarcazioni persino di una decina di
metri. Tre millenni dopo un flusso
migratorio proveniente da sud ha recato in zona l’allevamento e l’agricoltura.
Erano questi ultimi dei gruppi iaphetici venuti in contatto in tempi
tardo-mesolitici con popolazioni d’origine nordico-polare? E da parte loro gli autoctoni facevano parte
del ceppo paleo-asiatico, di per sé appartenente alla Razza Bianca originaria,
oppure appartenevano ad una sottorazza di pelle chiara piú arcaica di quella paleo-siberiana? Le tradizioni norreniche per la verità, come
abbiamo visto alla n.prec., parlano unicamente dell’etnia venuta da sud per
popolare il nord; poiché evidentemente questa divenne dominante, ma sono ora
parzialmente smentite dai dati archeologici.
Dumézil et al. già prima
avevano egualmente ipotizzato la presenza di due diverse popolazioni,
attribuendo ad una (gl’Indoeuropei) la cultura degli Æsir e all’altra (indigena, ma non ben definita) quella dei Vanir.
La nostra personale supposizione invece è che i primi abitatori delle
zone nordiche e veneratori dei Vani (notare il bisticcio dei termini),
sicuramente dei numi boschivi (cfr. il lat. venator
= ‘cacciatore’ ed il scr. vana=
‘foresta’), fossero dei proto-germani o dei proto-celti (l’idea della
Scandinavia come vagina gentium – ci
ha segnalato una volta il prof. A. Grossato – si è protratta nella letteratura
britannica sino al Tardo Medioevo); ma che gli altri, i cultori degli Asi,
fossero degli Iapheti. Importante sarà
nei prossimi anni stabilire, con certezza, il carattere etnico dei 2
gruppi. Siamo convinti che la
popolazione aborigena, a nostro parere pre-iaphetica, fosse di diretta
discendenza iperborea; seppur detentrice della cultura ancestrale dei Vanir, in principio a nostro avviso
probabilmente dei semplici geni della foresta alla maniera
paleo-siberiana. Quel che si sa con
certezza al momento tramite la geologia è semplicemente che alla fine dell’era
glaciale il Doggerland, la terra
d’unione fra la le due sponde del Mar Baltico nell’attuale Canale della Manica,
fu sommerso a causa dello scioglimento d’un grande lago ghiacciato
nordamericano appaiato dall’onda provocata da un altro grave fatto geologico
accaduto sulla costa norvegese.
51) Ai Greci noto come Diluvio di
Deucalione. Non è possibile immaginare
che tutti gli Ari nel loro assieme abbiano compiuto questo saliscendi storico. Evidentemente, solo un loro ramo ha raggiunto
l’Europa in epoca preistorica per popolare il Settentrione, il ramo
germanico. Gli altri sono rimasti a sud,
nella zona fra il Mar Nero ed il Caspio, da dove nel III millennio (M.Gimbutas,
I Baltici- Il Saggiatore, Milano
1967; ed.or. The Balts- Thames and
Hudson, Londra 1963) in parte si sono spinti ad occidente per popolare l’Europa
Orientale e Meridionale; in parte, invece, hanno colonizzato l’Asia Centrale e
Meridionale. Al dire della Gimbutas (ibid., Cap.II sgg), non meno di Tilak ancorata all’idea dell’Asia Centrale come
madrepatria indoeuropea benché su base archeologica anziché mitica, il flusso
suddetto coinciderebbe colla cd. ‘cultura dei tumuli’ (rus. Kurgan); reperibile dapprima nelle
steppe asiatiche e poi in altre aree (anatolica, egea, baltica). L’idea della studiosa lituana era che il
popolo dei kurgan, impiantato su base
familiare paterlineare ed utilizzante veicoli per gli spostamenti, avesse
surclassato le civiltà matriarcali, piú deboli. Coll’utilizzo peraltro dei metalli, appreso
nel Vicino Oriente. Il solito cliché indoeuropeistico, insomma,
quantunque meglio argomentato di quello d’altri colleghi. Il problema è che per spostarsi e combattere
il popolo dei kurgan avrebbe avuto
bisogno del cavallo. Come si concilia
tale teoria con quanto postulato alla n.38 e ripreso alla 49? Cercheremo piú innanzi di offrire una risposta sensata.
52) Cfr. in proposito R.Graves, I miti greci- Longanesi, Milano 1979
(ed. or. Greek Myths- Penguin B.,
Harmondsworth 1955), passim. Inoltre Gim., op.cit., Cap.III sgg. Quest’ultima spiega (p.52): “L’ambra era richiesta
dalla nascente cultura di Únĕtice nell’Europa Centrale e dalla Grecia dei periodi
medio e tardo elladico. Quando i popoli
di Únĕtice iniziarono
le loro relazioni commerciali con i Micenei, un po’ prima o attorno al 1600
a.C., il commercio dell’ambra raggiunse un sorprendente volume.” Pare infatti che i Centroeuropei dell’Austria
Meridionale importassero ambra dai Germani dello Jutland e dai Baltici. La via che dalla Prussia Orientale conduceva
in Italia (ibid., Cap.VI, pp. 141-2)
sarebbe stata solcata sino ad epoca gotica.
La teoria della discesa verso il Mediterraneo di genti nordiche
attraverso le ‘Vie dell’Ambra’ parrebbe conciliarsi colla stessa
indoeuropeizzazione dei Liguri, chiamati alternativamente Ambrōnes. Quest’ultimo nome rimanderebbe appunto allo
stanziamento tribale nel Mare del Nord (R. del Ponte, I Liguri- Ecig, Genova 1999,
Cap.IV, p.166 ss), le cui coste è
risaputo siano ricche d’ambra. Il
Professore cita al riguardo R.F. Avieno, scrittore latino del IV sec. d.C. in
possesso tuttavia d’informazioni reperite da un navigatore marsigliese del VI
sec. a.C.; quegli attesta che i discendenti dei Liguri assieme a quelli dei Draganes, genti iberiche scacciate da Cempsi e Sefes (tribú celtiche?)
ed assimilabili ai Tέrmilai erodotei (op.cit.,
pp. 484-5), sub nivoso maxime
Septentrione conlocaverunt larem.
Onde spiegare il suddetto epiteto d’Ambroni s’affida però al Capovilla,
che lo fa risalire ad Am(b)run, isola
ad ovest dello Jutland. Anche il
Semerano (ibid., p.168, n.36) collega
l’appellativo ai giacimenti d’ambra baltici, ma interpreta incoerentemente il
termine come ‘genti delle paludi’. Il
Del Ponte prende spunto da questi per riallacciare parallelamente l’etimo di Lyges/ Ligures, sulla scorta d’un altro glottologo (il D’Alessio), ad una
base pre-indoeuropea (*liga = ‘luogo paludoso’). Da parte nostra preferiamo, viceversa,
attenerci ad una diversa risoluzione della questione. Cfr. L.
Charbonneau-Lessay, Le Bestiaire du
Christ- L.J. Thoth, Milano 1940 (diff. Arché 1974), P.Qui.,
Cap.Quarantes., pp. 298-9. L’autore
parimenti riporta il nome Ligures ad
un sinonimo di Ambrōnes, ma non alla stregua del Semerano bensí menzionando
la voce lyncūrium/ligūrius; designante una pietra preziosa ricercata
nell’arte dell’intaglio la quale si formerebbe, secondo il folclore, citato in
un’ampia letteratura estesa da Teofrasto a Jean de Cuba, dalla distillazione
dell’orina di lince. La pietra, chiamata
‘ligurite’ e costituita da una varietà di tormalina formata da silicato
d’alluminio, ci riconduce infatti al punto di partenza: la resina fossile cui
essa rassomiglia, l’ambra. Se questa
tesi è giusta, allora è evidente che il nome di tale popolazione si riferiva al
colore dei capelli o della barba che in molti individui è ancor oggi rossiccio,
a causa dell’ibridazione fra iapheti e camiti, che è venuta a coprire un
sostrato piú
antico, di tipo paleo-asiatico, affine a
quello lappone.
53) Vedi G.Acerbi, I Cicli Avatarici e lo spostamento dei poli geografici- Alle
pendici del Monte Meru, blog
(prossim.). Per tanto tempo non si sono
sapute dare spiegazioni valide sulla causa delle glaciazioni, ma dopo la
formulazione da parte di C.Hapgood della sua teoria sulla dislocazione della
crosta terrestre la spiegazione risulterebbe semplice: quando una determinata
zona della litosfera verrebbe spinta nello spazio occupato dai due circoli
polari opposti si raffredderebbe, congelando a poco a poco, con conseguenze
immaginabili. I Poli rimarrebbero invariati
al loro posto. Il problema in ogni caso
sarebbe quello di verificare se queste spinte siano regolari, in altre parole
cicliche, oppure caotiche ed irregolari.
Noi crediamo alla prima soluzione, poiché altrimenti salterebbe tutta la
visione tradizionale del cosmo; ma non è facile dimostrarlo dati alla mano, ci
vorrebbe competenza specifica in materia di geofisica. Altri (F.Barbiero, Una civiltà sotto ghiaccio- Editr.Nord, Milano 2000, P.I, Cap.VIII,
p.90), piú ferrato di
noi in materia, sottolinea all’uopo la parziale inattendibilità della teoria di
Hapgood ed ipotizza che la fenomenica in questione sia sottoposta ad una
ciclicità di c.6.000 anni, in relazione evidente alla precessione equinoziale
ed alla variazione dell’inclinazione dell’asse nei confronti
dell’eclittica. Secondo l’ing.Barbiero,
che pur accetta l’idea d’un ciclo di 41.000
relativamente allo spostamento dei poli geografici, “l’idea che la
crosta si sposti è difficile da condividere da un punto di vista
meccanico”. Solo il variare dell’inclinazione
dell’asse polare potrebbe render conto, a parere del nostro miltoniano
connazionale, dei dati archeologici di difficile comprensione riscontrabili in
epoca glaciale. La verticalità
originaria di quest’asse spiegherebbe la disomogeneità della fauna
pleistocenica, ovvero la presenza di un animale quale la renna accanto
all’ippopotamo. Questa apparentemente
strana accozzaglia zoologica, si noti, è la medesima che si trova nei graffiti
paleolitici; e non solo, anche piú
genericamente nelle rappresentazioni sacre del Paradiso Terrestre. Al riguardo Guénon (op.cit., p.28, n.2) aveva cosí espresso il suo parere: “Tale questione sembra
essere collegata a quella dell’inclinazione dell’asse terrestre, inclinazione
che, secondo certi dati tradizionali, non sarebbe esistita dall’origine, ma
sarebbe una conseguenza di ciò che gli Occidentali chiamano «la caduta
dell’uomo».” Mentre dello spostamento
dei poli geografici dichiarava (ibid.,
p.28) di non avervi mai fatto cenno, trattandosi a suo giudizio d’una questione
secondaria. In merito al problema della
caduta del cielo cfr. ad ogni modo R.& R. Flem-Ath, La fine di Atlantide- Pi Emme, Casal M. 1977 (ed.or. When the Sky Fells. In Search of Atlantis,
1955), Cap.IV sgg. I Flem-Ath rispetto al Barbiero danno maggior
peso alle idee di Hapgood sullo scorrimento, ma associano anch’essi altri
fattori astronomici al fenomeno: la precessione equinoziale (fattore-Adhemar);
l’angolo d’inclinazione dell’asse terrestre, seppur limitatamente fra una
pendenza di 21,8° ed una di 24,4° (fattore Croll/Milankovitch); nonché la forma
dell’orbita terrestre (fattore-Le Verrier).
54) All’inizio degli Anni ’60 R.Ghirshman
asseriva – in Arte persiana.
Protoiranici, Medi ed Achemenidi- Rizzoli, Milano 1982 (ed.or. Perse. Protoiraniens, Mèdes et Achéménides-
Gallimard 1963), Intr., p.4 – che 2 vie
era possibile avessero seguito gl’Iranici nel loro percorso storico; una
proveniente dal Caucaso, in base ad un’assunzione desunta da un’affermazione di
Bīrūnī, e l’altra dal Mare d’Aral. Dalla prima via, continuava, erano infatti
transitati qualche secolo piú tardi Sciti
e Cimmeri (questi ultimi i portatori della civiltà del Luristān); per la
seconda, invece, dovevano esser passati gli Indoari nella loro immigrazione
verso l’India attorno al 1.200-1.000
a.C. Tale datazione parrebbe abbastanza
corretta, ciò confermando però che il Veda
sarebbe di compilazione tarda, ma preesistente oralmente. Dati i contenuti cosmologici degl’inni.
55) Bis., art.cit., pp.38.
56) In quanto all’uso del ferro, il Biswas (ibid., p.39) crede che una tecnologia
relativa a questo metallo possa essersi diffusa in India provenendo
dall’ambiente ittita, indipendententemente dall’invasione o dalle invasioni
senza traccia.
57) Dovrebbe intitolarsi La patria originaria degli Ari ovvero il
massimo problema etno-culturale ed archeologico, piú o meno irrisolto, del XIX
e XX secolo.
58) Sugli aspetti molteplici dell’Eden
giudaico-cristiano cfr. A.Graf, Il mito
del Paradiso Terrestre; sta in Miti,
leggende e superstizioni del Medioevo- E.Loescher, Torino 1892. Inoltre, per un confronto mitologico coi
corrispettivi τόποι della letteratura indoeuropea ed in particolare
di quella indo-iranica cfr. G.Acerbi, Manu
e la leggenda del Peccato Originale- Alle pendici del Meru, blog (27-12-07); in seguito ripubbl.
come Yama e la leggenda biblica del
Peccato Originale- Alle pendici del Monte Meru (26-11-16).
59) G.Acerbi, Il Sumeru, la Montagna Polare nella cosmografia hindu- Algiza (Apr.,
N°7) Chiavari 1997, P.I, §1, pp. 22-3.
60) Cfr. sul tema K.Rönnow, Some Remarks on Svetadvipa-
B.S.O.S., The School of Oriental Studies, Kraus, Londra 1928-30, Vol.V, pp.
253-84; inoltre: W.E. Clarck, Śvetadvīpa and Śākadvīpa- J.A.O.S., 1919, Vol. XL, p.209 ss.; O.Maenchen-Helfen, Svetadvipa
in Pre-Christian China- N.I.A., Bombay, II, 1939, pp. 166-8. Per un commento al primo dei 2 articoli ed al tema
in generale cfr. Ac., art.cit. (ago.
N°8), P.II, §2, pp. 9-10; inoltre,
Id., L’Isola Bianca e l’Isola Verde-
Simm. on line (mag., N°41), Roma
2016. In quanto a riconoscere tracce del
cristianesimo nascente nella leggenda dello Śvetadvīpa ce ne guarderemmo bene, benché qualche contatto
potrebbe realmente esserci stato fra cristianesimo e vishnuismo tramite
l’essenismo – ma forse in senso inverso – oppure da parte cristiana all’epoca
dell’espansione di tale dottrina in Malabar.
Piuttosto dovremmo parlare d’una simbologia ittica primordiale tramandata
in varie tradizioni e fra queste, ovviamente, va conteggiato pure il
cristianesimo.
61) Se il Paradiso Iperboreo fosse stato
veramente nell’Artide, come sottolinea la definizione che di esso davano Greci
e Latini, perché mai le genti che lo abitavano si erano trasferite in un luogo
tanto sfavorevole alla vita? Certo,
potrebbero essersi trovate colà, in quelle condizioni, senza averlo scelto;
cioè per cause naturali, ma perché poi allora dovrebbero averlo abbandonato? E come si può credere che in tale
impossibilità a condurre una vita naturale normale adottassero un regime
alimentare sostanzialmente vegetariano, tale da non “offendere qualsivoglia
creatura”? Il regime alimentare loro
attribuito si concilia coll’ahiṁsa e la pratica meditativa, non colla logica. Quindi, o si tratta d’un mito che si
riferisce ad una situazione extra-umana impossibile a viversi sul piano
strettamente terreno, ma ciò cozza contro numerosi dati; oppure, si deve
ritenere che le condizioni del globo in epoca passata siano state assolutamente
diverse da quelle odierne, il che però è difficile da credere e persino da
teorizzare. Qualcuno nel secolo scorso (W.F. Warren, Paradise Found: the Cradle of the Human Race at the North Pole. A Study of tbe Prehistoric World- Houghton,
Mifflin & C., Boston 1885, ora anche on
line) ha ritenuto che durante i tempi paradisiaci il clima terrestre ai
tropici e nelle zone subtropicali fosse in effetti molto piú caldo di quello
odierno, tale da non consentire la vita.
Unicamente i Poli sarebbero risultati freschi ed adatti allo sviluppo
della catena biologica, sennonché in seguito un improvviso crollo della
temperatura ed un imponente sommovimento sismico avrebbero distrutto
quell’arcaica possibilità d’esistenza.
La superficie di crosta vivibile sarebbe stata trascinata all’ingiú da
un’immane porzione di nucleo sprofondata verso l’interno della Terra e l’oceano
avrebbe ben presto ricoperto il tutto, dell’isola paradisiaca rimanendo
soltanto il ricordo nella mente dei pochi sopravvissuti. Accettando per contro la teoria di Hapgood
della dislocazione, ci accorgeremmo che 60.000 anni fa l’Artide attuale era
libera dai ghiacci, poiché il Polo Nord trovavasi nel Canada Nordoccidentale;
fra Groenlandia ed Islanda, non nell’Oceano Artico secondo le pretese del
Warren. Neppure sminuendo la teoria di
Hapgood come ha fatto il Barbiero, che ha intravisto nei reperti paleontologici
cambiamenti maggiormente repentini di quelli ipotizzati dal geofisico
statunitense, il problema cambierebbe.
Non resta altro, quindi, che dar
fiducia alla tesi sull’assenza di stagioni e conseguentemente di variazioni
climatiche da una zona all’altra del globo proposta dallo stesso Barbiero quale
risultato della nulla o scarsa pendenza dell’asse terrestre in tempi
lontani. Tanto piú che pure in sede tradizionale la si pensava
pressappoco cosí, al dire di Guénon (cfr. n.53), il quale però stranamente
omette di citare la fonte; menzionata, invece approfonditamente da altri
(J.Evola, Rivolta contro il mondo moderno-
Mediterranee, Roma 1969, P.II, Cap.3, p.235).
62) Narrasi in una leggenda degli Okanagan,
amerindi di pelle chiara la cui
mitologia al pari di quella dei Kutenai («Uomini Bianchi» in lingua algonchina)
s’estende fra l’ovest canadese e quello statunitense, d’un luogo in mezzo
all’oceano definito Samah-tumi-whoo-lah
(lett. l’«Isola dell’Uomo Bianco») e sprofondato a poco a poco; il che prova
che la cosa era accaduta a causa di una grossa inondazione, compatibile collo
scioglimento dei ghiacci polari dopo lo spostamento geografico del precedente
Circolo Polare Artico dalla zona nordatlantica verso la Baia di Hudson poco piú
di 50.000 anni fa. Sebbene possa
riferirsi, nel contempo, ad un analogo fatto capitato in tempi assai piú recenti. I
dati precisi sono riportati in Fl.-A.,
op.cit., Cap.III, p.37. Cfr. pure il
nostro comm. in Ac., I cic., §d.
Quindi la Terra Iperborea postulata dai miti eurasiatici è esistita
veramente, non costituisce una metafora d’idilliche condizioni. Sia essa stata una tundra od una steppa non
si sa bene con precisione, ma certamente l’«Isola Bianca» – cfr. coll’Aztlan delle leggende azteche, rimandi
atlantidei a parte – possedeva condizioni in qualche modo favorevoli alla vita,
benché il colore che la caratterizzi nelle descrizioni leggendarie parrebbe
connotarla quale regione prevalentemente innevata o addirittua ghiacciata. A meno che ciò si riferisca ad una tappa
succesiva, oppure alla carnagione di chi l’abitava. Narra infatti il mito che su quel territorio
insulare abitava una stirpe di ‘giganti’, probabilmente i corrispettivi
amerindi dei ‘giganti del ghiaccio’ dei miti scandinavi (aventi nulla in comune
coi Giganti propriamente detti della mitologia greca), la quale fu costretta a
vivere dopo una disputa interna in un’estremità dell’isola. Evidentemente per ragioni climatiche, ma dopo
un certo tempo la zona sarebbe stata numinosamente separata dal resto
dell’isola (allusione evidente ad un enorme iceberg
galleggiante), finendo per vagare in mare aperto tormentata dai venti e dalle
onde. Tutti i ‘giganti’ sarebbero
pertanto periti, tranne una coppia di loro, che vedendo affondare l’isolotto
prepararono una canoa con cui pagaiando d’isola in isola giunsero alla
terraferma. Può questa leggenda
conciliarsi con quella di Manu, di Parśu e dell’arca
salvifica legata al corno del pesce avatarico?
Crediamo di sí, seppure ivi manchi il Pesce. Nella leggenda diluviale hindu, d’altronde,
manca Parśu… (sic!).
63) Sul Bianco Monte vide Ac., art.cit., pp. 9-11. Al di fuori dell’ambito hindu troviamo molte
varianti del soggetto un po’ dovunque, dall’Eurasia all’America.
64) Cfr. per una breve analisi del rapporto
degli Ārya od Airya
cogli Eroi greci, G. Acerbi, Uttara Kuru, il paradiso boreale nella
cosmografia e nell’arte indiana- Alle pendici del Monte Meru, blog (31-05-13).
65) Ac., op.cit.,,
p.516, n.56.
66) Cfr. Cap.IV, n.16.
67) Ibid.,
n.15.
68) Bharata
è un secondo nome di Manu, onde la
vicenda narrata nel poema epico indiano potrebbe essere intesa in senso lato
come l’intera storia umana, relativamente al nostro Manvantara ( il ‘Periodo di Manu’, vale a dire il ciclo umano
attuale, che i giudeo-cristiani definiscono ‘adamico). Il nome di Bhārata o Bhāratavarsa,
che da esso probabilmente deriva,
era invece attribuito un tempo all’India Settentrionale; ma è poi diventato
l’appellativo indigeno di tutta l’India, o addirittura dell’intera ecumene
affacciata all’Oceano Indiano durante il Dvāparayuga. A tal
proposito, va specificato che il Mahābhārata parla di
un’inondazione generale la quale alla fine dell’epoca testé menzionata avrebbe
modificato la geografia marittima della zona in questione. Una simile narrazione echeggia nei racconti
sumero-babilonesi ed egeo-cretesi del Diluvio.
Si analizzino al riguardo
rispettivamente le leggende di Gilgameś e di Deucalione. Ma non pare avere nulla in comune
ciclicamente, se non per analogia e sovrapposizione inevitabile di dati
tramandati dalla tradizione orale, con l’inondazione biblico-noaica; che la
Chiesa Cristiana medievale metteva difatti in relazione colla narrazione platonica
della scomparsa dell’Atlantide, anziché col Diluvio di Deucalione. Cronologicamente il Diluvio di Bhārata si
situerebbe alla fine del Mesolitico, invece il Diluvio di Noè alla fine del
Paleolitico. Tuttavia va tenuto conto
che, non meno di Kṛṣṇa ed Eracle, Noè svolge un doppio ruolo; quindi la
sua leggenda s’estende, per cosí dire, a 2 grandi anni (yuga).
69) Un primo approccio al problema
lo si trova in Ac., op.cit., pp.
408-12. Si tenga conto tuttavia che al
tempo della prima tesi di laurea, alla maniera tilakiana, non facevamo ancora
distinzione fra Ilāvṛta e Uttarākuru.
70) Ciononostante gli aspetti
tecnici della guerra, a quel tempo, erano assai
diversi da quelli venuti in uso successivamente. Cfr. a tal proposito B.C. Law, Tribes in Ancient India-B.O.R.I., Poona
1973, Cap.III, pp.26-7. Le regole di
combattimento fra gli Kṣatriya stabilivano
che solamente degli uomini di pari dignità od equipaggiamento si potessero
affrontare in gentil tenzone. Era lecito
abbandonare la contesa senza per questo venir uccisi, o persino fuggire senza
esser colpiti. In pratica, non si poteva
duellare con un genere d’arma diverso, né ci si doveva scontrare con un guerriero disarmato. Il fante si faceva sotto al fante, il
cavaliere al cavaliere, il conducente d’elefante al conducente d’elefante e via
dicendo. Non bisognava colpire gli
avversari in possesso di armi rotte e neppure coloro che cercavano riparo,
ritrattavano od erano rivestiti d’armatura.
Eguale rispetto era necessario verso coloro che non partecipavano al
conflitto, né direttamente (aurighi, attendenti incaricati di trasportare le
armi sul campo di battaglia, suonatori di tamburi o di conche) né
indirettamente (quelli che semplicemente assistevano sul terreno di scontro
senza offendere ).
71) Per il primo assunto vedi n.prec. Per il secondo cfr. Ac. La conc., art.cit., pp.11-24 passim.
72) Come insegnano gli storici della
letteratura (O.Botto, Letterature antiche
dell’India, P.II, Cap.I passim; in Storia delle letterature d’Oriente- Vallardi, Milano 1969), i 18 Parvan (‘Libri’) del poema assieme al Khila
(‘Compendio’) dello Harivamśa raccolgono
piú di 100.000
strofe; in genere śloka, talvolta tristubh. Soltanto un quinto del poema tratta del conflitto
fra il regno kuruide di Hastināpura (sulla Gaṅgā) e quello panduide d’Indraprastha (sulla Yamunā) nel sacro
suolo fra i 2 fiumi. Il resto è
materiale ausiliario, di natura eterogenea; concerne temi teogonici e
cosmogonici, quando non favolistici ed allegorici. Oppure tratta questioni religiose, didattiche
od iconologiche, evidenziando influenze dei 6 darśana (visuali filosofiche canoniche). Spicca fra di esso la celebre Bhagavad Gītā, un episodio del VI Parvan, il Bhīṣma. Speciale rilievo hanno anche gli episodi
narrativi rievocanti le gesta d’antichi sovrani, come il vecchio Yayāti, che per
l’avidità di piaceri non aveva esitato a farsi cedere dal figlio Puru la giovinezza. Altri come quello di Nala e Dayamantī o di Satyavat e Sāvitrī, esaltanti la fedeltà
coniugale, sono stati ripresi in epoca classica a scopo edificatorio dalla
letteratura artistica e da quella drammatica.
Talora si assiste invece alla sovrapposizione dei principî giuridici propri della società hindu, sempre tesi
a favorire ciò che è il fine di tutto il vivere indiano: la liberazione dalla
catena delle nascite e delle rinascite.
Nella convinzione che al di là d’ogni cosa peritura esista alcunché
d’innato cui appartiene una natura immortale.
Non vi è di che lamentarsi, dato che ignoto è il sorgere degli esseri –
se pure è nota la vita – ed egualmente ignota la loro scomparsa. L’eclettismo dottrinale, la disomogeneità dei
molteplici insegnamenti e la ripartizione di temi talora diversamente
rielaborati (come quello esaminato all’inizio di questo libro) testimoniano la
veridicità d’un affermazione dell’Ādiparvan che in
origine il poema consisteva di 8.800 strofe; mentre la seconda stesura,
chiamata Bhārata, sarebbe poi passata a 24.000. Unicamente la terza, appunto il Mahā
(‘Grande’) Bhārata, avrebbe raggiunto le oltre 100.000 strofe
dell’estensione pervenutaci. Ecco perché
la metrica dell’opera oscilla fra arcaismi di tipo vedico ed ornamenti di tipo
classico. Il Botto, cui abbiamo attinto
per codeste informazioni, ha intravisto con acume in tale processo di
formazione del poema un intento brahmanizzante; sí da creare una sorta d’antica enciclopedia del
sapere induista, tanto a livello sacro quanto a livello profano, dedicata al
culto di Viṣṇu. Cfr. ad
es. la narrazione sullo Śvetadvīpa (Nārāyaṇīya), luogo inteso come il Paradiso di Nārāyaṇa (Rön., art.cit.,
p.256). Le parti su Śiva sarebbero
state inserite tardivamente, durante la diffusione dell’opera in ambiente
meridionale; altri si è spinto addirittura a teorizzare che, specie in tale
ambiente, sia avvenuta una vera e propria shivaizzazione del poema. Nonostante il valore predominante di Krsna, cioè della IX Discesa vishnuita
(generalmente confusa, non solo dai critici, coll’VIII), nella Gītā; a questo
proposito si esamini M.Biardeau, Études
de mythologie hindoue- B.E.F.E.O., Parigi 1978 (T.LXV, Fasc.1), Cap.II,
P.II, §2.c). L’autrice si sforza invano di dimostrare come
la mitologia dell’infanzia di Kṛṣṇa a Mathurā sia
perfettamente aggregabile a quella della vita adulta a Dvārakā; ma, se le cose stessero realmente in questo modo,
perché mai porre l’Harivaṁsa Purāṇa quale
appendice del Mahābhārata? Si sarebbe tramandata una storia unica, a
partire da Mathurā per arrivare
sino a Dvārakā. La verità
è che l’induismo stesso ha perduto il senso originario del racconto, per via
dell’ambientazione mitica sul suolo indiano di fatti avvenuti in altra parte
del globo (G.Acerbi, I Dieci Avatar e la
mitologia induista- Hera (7-03-10, A.XI, N° 122), Binasco 2010, pp. 42-5),
l’unica vicenda storica da tenere in considerazione come tale – idealizzazioni
letterarie a parte – essendo in tal caso soltanto la saga dell’auriga. La Biardeau è inoltre del parere, questa
volta con assoluta ragione, che l’intero poema rappresenti una specie di
vangelo krishnaita; la linea dominante del Mahābhārata,
onestamente, indica questo.
73) Nel suo studio sulla genesi del Mahābhārata un altro grande storico della letteratura
sanscrita (Pis., op.cit., Cap.II,
p.41 ss) spiega che al suo apparire
in Europa la critica filologica ha riversato sul poema di Vyāsa il proprio
metodo, prima applicato ai poemi di Omero, teso a vedere ovunque
interpolazioni. Vi era chi come Holtman
Sr. o Schröder scorgeva
in esso il frutto di molte redazioni successive, mentre altri come Hopkins o
Winternitz ravvisavano che delle parti originarie avessero agglomerato nei
secoli parti aggiuntive. Il Winternitz,
soprattutto, giudicava il Mahābhārata un assurdo
letterario compiuto da teologi amanuensi senza poesia. Fa tuttavia osservare il Pisani, a loro
parziale smentita, che la ricerca delle fonti narrative non coincide colla
storia del poema. Sono due cose
distinte. La materia trattata sarebbe
insomma antichissima, cosí come pure gli upākhyāna (spunti di
mitologia o novellistica) inseriti in esso e tutto il resto, ciò esistendo
prima dell’inserimento nel poema. L’idea
del Pisani per spiegare ripetizioni ed incongruenze è che gli amanuensi
allorché una redazione giungeva in dato posto riadattassero il testo ad
includere materiale rapsodico locale, che poteva essere in una metrica differente
dall’altra. Per materiale rapsodico il
Pisani intende episodi singoli di eroi e dei loro antenati, provenienti dalle
corti principesche, ove i bardi magnificavano questo o quel personaggio. Gli upākhyāna provenivano
invece dai tīrtha (luoghi sacrali), dalle tradizioni dei santuari
degli eremi selvaggi, nei quali abbondavano le storie di ṛṣi
(veggenti). Le digressioni su
argomenti sacrificali o giuridici potevano viceversa discendere da tradizioni
familiari dei maestri brahmanici. In
sostanza nel Mahābhārata sono stati
posti, culturalmente e linguisticamente, i fondamenti per gli sviluppi futuri
dell’induismo.
74) Un’interpretazione simile alla nostra è
quella fornita da G.Dumézil, La Légende
des Pāndava et la substructure mythique du Mahābhārata; in Jupiter,
Mars, Quirinus–Bibliothèque de l’Ecole des hautes études. Section des sciences religieuses, Paris 1948, pp.
37-53, Cap.IV (Explication de extes indiens et latins); trad. Da S.
Wikander, Pāṇḍavasagan och Mahābhāratas
mystiska förutsättningar- Religion
och Bibel, 1947, Vol.6, pp.
27-39. Cit. nell’Encyc.Iran., s.v. DUMEZIL, Georges, on line.
L’idea-base parrebbe essere – purtroppo non abbiamo letto la trad. del
testo, come avremmo preferito – quella d’assegnare ai 5 fratelli panduidi le
tre funzioni indoeuropee in questa maniera: a Yudhiṣṭhira, figlio di Dharma, il sacerdozio; ad Arjuna e Bhīma, filiazioni rispettive di Indra e Vāyu, la funzione guerriera; ai due gemelli, prole
degli Aśvin, quella
produttiva. Non vi è dubbio che
l’interpretazione abbia una sua logica, in fondo la stessa che noi abbiamo
applicato ad altri personaggi, ma va tenuto conto nell’applicarla che si tratta
in ogni caso d’un riconoscimento a posteriori d’una attitudine castale che
rientra nello schema vaiṣṇava tipico dei vaiśya. In altre parole, è confacente al Triregnum del tipo Giove-Marte-Quirino,
l’ossessione propria del Dumézil. Il
vero rappresentante del sacerdozio fra i latini è insomma Iānus, cosiccome Brahmā
lo è fra gl’indiani; i divini reggenti, Iuppiter ed Indra; ne
fanno soltanto le veci in chiave produttiva.
Prima erano stati Sāturnus e Śiva, aureizzati, a svolgere tale superiore
compito. Del pari è Saturno e non Marte
il sostegno vero della regalità romana.
Eguale cosa dicasi di Śiva, anziché d’Indra, in India.
75) Ciò è quanto avevamo già ipotizzato
nella nostra tesi universitaria. Cfr.
n.69. Ovvero che già in epoca remota,
insomma durante l’immigrazione mesolitica di cui si dà conto alla n.114,
fossero arrivati in India dei proto-ari alla stessa stregua dei paleo-dravidi e
che costoro fossero rappresentati dai Kuru. Sebbene allora fossimo incerti se considerare
la tribú di Duryodhana, in alternativa, d’origine
anaria (dravidica od austronesiana che fosse) oppure ibrida. Questo in verità è stato un primo approccio
al problema, condiviso dal prof. Parpola (a nostra insaputa) nel primo caso, ma
vedremo nel prossimo capitolo che per quanto piú soddisfacente della tesi che ne fa dei semplici
anari non parrebbe la soluzione migliore.
76) Tale tappa potrebbe esser stata
favorita dalla maggior vicinanza delle terre boreali atantidee, oggi sostituite
da quelle nordamericane (differenze geografiche piú o meno rilevanti a parte), all’Europa. A quel tempo i mari boreali, che sino a
qualche millennio prima erano rimasti ancor congelati secondo quanto hanno
rilevato in materia d’oceanografia certi calcoli computerizzati, si erano già
sgelati; la vicina terra islandese pertanto, sempre che corrispondesse
all’attuale, può aver fatto da ponte fra l’America e l’Europa. Dal momento che è un’isola assai piú prossima alla Groenlandia, da cui dista meno di
400 km, che alla costa scandinava. Il
problema però è che i testi tradizionali non affermano questo (vedi n.seg.), ma
esattamente il contrario. Questo punto
non deve esser dato per scontato, comunque; andrebbero catalogate con cura
tutte le tradizioni latine e norreniche di lontane emigrazioni oceaniche per
cause diluviali al fine di constatare se realmente vi sia stata una via unica,
sostanzialmente attraverso le Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra), di
sbarco nel Vecchio continente. Magari
esaminando, in parallelo, le fonti amerinde.
77) Cfr. nn. 49-50. Le tradizioni norreniche ritraggono un quadro
esplorativo oggettivamente assai differente rispetto a quello da noi tracciato
alla n.prec. In sostanza esse ci
tramandano (G.Chiesa Isnardi, Storie e
leggende del Nord- Rusconi, Milano 1977, Intr., pp. 13-8) che i Tirkir, discesi da Tiras (uno dei 7 figli di Iaphet), venendo da sud popolarono il
Nordeuropa. In modo piú specifico si dice da Asía, fatto per il quale si potrebbe immaginare una
loro permanenza temporanea in Asia Minore.
Cosa che confermerebbe, onestamente parlando, la tesi accademica
dell’Asia Minore quale luogo d’origine degl’Indoeuropei; sebbene a livello
accademico ciò non sia piú messo in
relazione, purtroppo, col Diluvio di Noè.
Dato che gli Iapheti sono stati chiamati appunto con espressione
linguistica ‘Indoeuropei’ e non piú accostati ai
Semiti, sebbene considerati dai semitisti una costola indoeuropea separatasi ad
una certa epoca dal nucleo principale (cosa che per noi non ha alcun senso); né
ai Camiti, guardati dagli studiosi con un malcelato disprezzo – anche se questo
medesimo atteggiamento è chiaramente d’origine biblica – e divenuti a loro
volta semplicemente ‘Indo-mediterranei’ od ‘Egeo-asianici’. Dopo la colonizzazione dell’Europa
Settentrionale i Tirkir sarebbero insomma giunti in Svezia (p.14) per poi
passare in Norvegia, da dove sarebbero partiti alla volta dell’Islanda ed
infine della Groenlandia. Era forse
questo ramo iaphetico alla ricerca della patria perduta nordamericana, o meglio
nordatlantidea? Sta di fatto che i 12 Aesir,
affini ai 12 Ahura iranici
(da Tiras discendono pure Medi e
Persiani), testimoniano di una conoscenza dello Zodiaco Solare che può esser
stata ereditata unicamente dalla tradizione noaico-mediterranea. I 12 numi altro non son difatti che i 12 Soli
Zodiacali, ai quali presiedeva Thörr, lo Zeus norrenico.
78) Per l’identificazione dei Pelasgi ad
una delle tribú
paleodravidiche ipotizzate da Padre Heras cfr. Cap.IV, n.11.
79) Visto che gli Elleni discendono da
Giapeto, il quale altro non è che Iaphet.
Cfr. nn. 108 e 128.
80) L’unica ipotesi possibile a questo
punto onde poter far combaciare tutti i dati provenienti dalla tradizione hindu
è che gli Ari, guidati spiritualmente dai Brāhmana
(per forza di cose di lingua indoeuropea, giacché affini ai Flāmina latini), siano già stati
presenti sul suolo indiano già prima dell’inizio del Kaliyuga; e che quindi la formulazione del Veda, come vuole la Smṛti sia realmente avvenuta prima della Guerra di Bhārata da parte del secondo Kṛṣṇa, il quale a scanso di equivoci va identificato
non meno di quanto ci tramandano gli antichi all’Eracle mesolitico. Equivalente al ‘secondo’ Noè, cosí come il
primo Kṛṣṇa all’Eracle paleolitico ed al ‘primo’ Noè. Se tale congettura è veridica, allora è
chiaro che l’invasione aria del II millennio a.C. o è uno pseudo-mito, come
vogliono senza mezze parole gli archeologi indiani, oppure è alquanto da
ridimensionare nelle proporzioni e nel significato. Quest’ultima è la nostra personale posizione.
81) G.Slater, The Dravidian Element in Indian Culture- Ess Ess, N.Delhi 1976,
Cap.II, p.49. In altre parole, il Veda sarebbe caratterizzato dal dominio
di Indra (alter-ego di Dyaus Pitar come signore dei Deva e corrispettivo indoario dello Ζεύς Πατήρ ellenico), assurto ad un
ruolo fondamentale nell’induismo del I mill. a.C. – come testimonia la terza
redazione del Mahābhārata (vide n.72) – e scaduto ad una funzione
minore dal I mill. d.C. in poi. Ossia,
dopo il passaggio del Punto Gamma dall’Ariete ai Pesci.
82) Slat., op.cit., Cap.IV, p.109.
83) R.C. Dutt, History of Civilization in Ancient India- Ankit Book C., Delhi
1991, Vol.I, L.I, Introd., p.6 (I ed. 1888).
84) H.Zimmer, The Art Of Indian Asia. Its mythology and trasformation-P.U.P.,
Princeton 1983 (I ed.1955, III ed.rev. 1968), tav.1a (statuetta in steatite).
85) A.K. Coomaraswamy, History of Indian and Indonesian Art- Dover, N.York 1927 (I ed. K.W.
Hiersemann, Londra 1927), P.I, Cap.I n.num., pp. 3-5.
86) A.Parpola, The Sky-garment. A Study of the Harappan Religion and its relation to
the Mesopotamian and later Indian religions- Societas Orientalis Fennica,
Helsinki 1985, passim.
87) Vide
n.48.
88) L’uccisione di Karṇa avviene mentre il figlio di Sūrya è sceso dal
suo carro per cambiare una ruota impantanatasi nella melma. Arjuna,
pur non sapendo ancora che sta combattendo contro il proprio fratellastro, è
dapprima esitante. Gli pare di
commettere un’ignominia, ma il suo auriga Kṛṣṇa gl’insegna che vita e morte non dipendono da lui;
nessuno in verità può uccidere nessuno, è la Divinità che reca vita e morte
alle creature. Dunque, se il carro del
figlio del Sole s’è impantanato inesorabilmente, è perché Pṛthivī (la Terra) ha voluto decidere cosí, condannandolo
ad uscire dalle scene del mondo anzitempo.
89) Come qualsiasi Gran Maestro (Ādiguru) tradizionale.
90) Un quadro abbastanza dettagliato del
ruolo storico e protostorico dei Dravidi
e della cultura dravidica in ambiente indiano è stato illustrato da Slat., op.cit., passim; il quale riconosce nell’India un paese rimasto
sostanzialmente dravidico, a livello culturale almeno, pur essendosi
linguisticamente arianizzato.
91) Altre considerazioni, di grande utilità
per la distinzione fra elementi dravidici ed elementi ari, si trovano ancora in
Slater (ibid., Cap.2), sebbene il
testo sia una ristampa d’un libro del 1924.
92) Sul tema cfr. G.Acerbi, Keśin, l’ultimo dei demoni- Alle pendici del
Monte Meru (blog, 3-02-17), in prep.;
inoltre, per una comparazione con il Kešši/Kessi ittito, vide n.299.
93) Stut., op.cit., s.v. KURU, p
231/ col.a, n.1. Vide
iv. 42, 8-9 e x. 33, 1 e 4-9. La
questione è ampiamente affrontata in Law, op.cit.,
Capp. III-IV sgg. L’autore, collegando il Kurukṣetra all’Uttarākuru – chiamato Kurudīpa nel Dīpavaṁsa e Kururattham nel Sāsanavaṁsa – ossia l’Uttarādvīpa, stabilisce
un nesso attraverso codesti testi buddhisti ed il Regno dei Kuru.
Ma siccome l’Uttarākuru a suo parere
è descritto nell’Aitareya Brāhmaṇa storicamente
quale regno transhimalayano, anziché miticamente come nel Mahābhārata, rifacendosi allo Zimmer lo pone in Kaśmīr, donde vi sarebbe stata l’emigrazione successiva
della tribú kuruide nel Kurukṣetra.
94) Ibid. come alla 29.
95) In realtà Puru è un antenato di Kuru. L’esatta discendenza è la seguente (Vett., op.cit., s.v. KURU, p.44/ col.b):
Re Kuru discende da Re Puru tramite una linea dinastica
prolungantesi da Janamejaya a Yayāti. Kuru
ha 4 figli, fra i quali Jahnu; che, a
sua volta, ne ha 10. Da uno di costoro, Pratīca, nasce Śāntanu.
96) Ibid.
come alla 93, pp. 230/ col.b e 231/
col.a. Draupadī, moglie
comune dei 5 Pāṇḍava, era figlia di Drupada, il Re dei Pañcāla (discendente
di Puru ma non di Kuru).
97) Nel Cap.IV mostreremo la vera relazione
esistente tra Pāṇḍava e Dasyu.
98) Il fatto che i Camiti non venissero
considerati ari dai loro oppositori non significa che non lo fossero, sempre
che s’intenda il vocabolo in senso eroico, ossia piú estesamente di quanto non facesse il Veda.
Solo colla fusione di elementi avvenuta nell’induismo storico l’India ha
cominciato a forgiarsi veramente, dando la giuste risposte alle cose. Il Mahābhārata, colla Bhagavadgīta incorporata a far da fulcro ispiratore,
costituisce l’espressione piú fulgida di
questo induismo. Se il Caturveda fosse stato composto
interamente durante il Kaliyuga
sarebbe un insieme di scritture adatte a quest’epoca. Invece in epoca storica si affermava da piú parti
l’esistenza d’un ‘Quinto Veda’, a dimostrazione che i miti ed i riti vedici
avevano fatto il loro tempo e, quantunque riadattati alla Quarta Epoca (cfr.
L.B.G. Tilak, The Orion or Researches
into the Antiquity of the Vedas- Tilak Bros., Poona 1972, I ed.1893;
ed.franc. Orion ou Recherches sur
l’antiquité des védas- Arché, Milano 1989; ed.it. [con pref., trad.,
translitt. e comm. a nostra c.] Orione. A
proposito dell’Antichità dei Veda- Ecig, Genova, 1991), risalivano a tempi
ben piú lontani. Ossia al Tardo Paleolitico, sia pur in
ambiente circumpolare; come Tilak ha ampiamente dimostrato nell’opera
successiva, cit. alla n.39. Sebbene abbia confuso, ed è cosa che han
fatto molti altri dopo di lui, quest’epoca col mitico Kṛtayuga.
99) Insomma, sono ceppi tribali d’origine
dvaparayughica; mesolitica, per intenderci.
100) Essa è
dichiarata indirettamente nel Mhbh., Śāntip.- cccxlvi. 12 laddove si afferma perentoriamente:
“Sappiate che… Vyāsa è Nārāyaṇa sulla terra.
Chi altrimenti… avrebbe potuto compilare un trattato come il Mahābhārata?”
Ovviamente, però, trattasi d’un attribuzione ideale. Nessun profeta, neanche Gesú e Maometto,
ha scritto di propria mano le scritture ispirate al suo insegnamento. La stessa cosa vale, naturalmente, per il
penultimo avatāra di Viṣṇu; cui è del resto attribuito anche il Ṛgveda, come a Gesú i Vangeli e a Maometto il Corano.
101) Vide n.230.
102) Cfr. n.64.
103) Cfr. n.41.
104) In molti non
han saputo dar spiegazione della seconda metà del nome iranico della patria
aria, traducendo con ‘seme’ od altri termini imprecisi, ma basterebbe rifarsi
all’Ārya-varta hindu.
Nella locuzione iranica reperibile in Vid.- ii. 2, 21 abbiamo la voce Airyanəm, fungente da genitivo plurale,
mentre nell’equivalente espressione sanscrita il s.m. Ārya è posto in posizione attributiva. L’ir.-vaēǰah equivale infatti al scr.-varṣa/varta (‘regione, isola, continente’), donde deriva il
termine vaṁśa
(‘discendenza, genealogia’), esattamente come il quasi sinonimo daēza corrisponde
al scr.deśa (‘regione,
distretto, contrada’). In definitiva si
deve intendere l’Airyanəm Vaēǰah come l’Āryavarṣa/Āryavarta iranico, ovvero probabilmente nel senso d’una
regione nordica all’interno dell’Iran antico (assai piú esteso, non meno dell’India, di quello odierno)
con rimando ad un’altra circumpolare a livello extrairanico. Per la verità l’equivalente indiano non ha la
doppia accezione, poiché la suddetta sede aria in India è stata associata
esclusivamente al Kurukṣetra. Tuttavia quest’ultimo viene interpretato da
taluno come la sede dei Kuru e perciò
a sua volta in relazione coll’Uttarākuru (cfr. n.93).
Che la collocazione originaria dell’A.V.
fosse molto settentrionale è indirettamente provato da Vid.- i. 1-4 ove, si fa menzione di dieci mesi invernali e di due
estivi. Non si può intendere la sede
polare attuale, perché al vs.4 si parla di alberi; inoltre nel testo pahlavico
(D.M.K.- xliv. 17) si spiega che colà
è il duro inverno a produrre danni e non i serpenti, che sono molti ma
scarsamente pericolosi. Dunque il Vara (‘Recinto’) di cui parla lo Zend-Avesta (Vid.- ii. 2, 25) in riferimento all’irrigidirsi del clima,
diversamente da quanto insegna il Darmesteter, non andrebbe inteso come una
sorta d’arca noaica bensí d’un nuovo territorio ove rifugiarsi.
105) G.Acerbi, La questione dei ‘Tre Diluvî’ nella tradizione ellenica- Algiza
(N°8, Gen.), Chiavari 1998, p.13, n.8; va, comunque, tenuto in considerazione
l’intero soggetto.
106) G.Acerbi, L’America e l’enigma delle Due, anzi Tre, Atlantidi- Alle pendici
del Monte Meru (blog, 17-12-16), §c sgg.
107) Ac., I cic., §d.
108) Per i
rapporti fra Giapeto (gr. Ιαπετός,
cioè Iaphet, ebr. Yaphet) e gli
Elleni cfr. Ac., Utt. K., n.11.
109) Vide Cap.V, §h.
110) Non può esser
solo un errore di prospettiva storica il fatto che i Greci (Hes., Op.- i. 161-5) attribuissero la Guerra
dei Sette contro Tebe, nonché quella di Troia, all’Epoca degli Eroi. Può anche darsi, tuttavia, che li
s’intendesse come dei discendenti diretti di quella stirpe.
111) La confusione in India tra Uttarākuru ed Iḷavṛta viene fatta
non solo a livello letterario nei sacri testi, ma anche a livello iconologico
nell’arte figurativa. È cio che accade pure fra i Greci ed i Celti,
nonché nell’esoterismo di marca occultistica che va dal Settecento al
Novecento.
112) Cfr. n.38.
113) Pur non volendo condizionare alla veridicità
o meno di questa nostra convinzione l’esito della nostra ricerca, avendo già
chiaramente specificato piú addietro
quale sia il nostro principale intento in codesto libro, non possiamo esimerci
dall’esprimere il nostro reale pensiero circa la presunta invasione aria della
metà del II millennio a.C. Siamo
onestamente convinti che essa sia avvenuta nel millennio che le è accreditato,
secolo prima o dopo non importa poi granché stabilire; ma riteniamo che si sia
svolta alla maniera di tutte le altre invasioni precedenti e susseguenti, cioè
ad ondate. Nessuna invasione può
cambiare totalmente i connotati d’una compagine etnoculturale in breve tempo,
ciò può avvenire solo col trascorrere dei secoli. Non lo fecero né i Romani nel loro vasto
impero, né gli Arabi nelle loro frenetiche conquiste. Soltanto a partire dall’inizio del mondo
moderno, cioè dal periodo coloniale in poi, le cose sono cambiate per il
divario tecnico fra le culture europee e quelle di altri paesi. Se consideriamo che il Mahābhārata non è maggiormente antico del Veda (cfr. n.3) e nella sua forma
primaria non meno del Purāṇa originario (cfr. n.5) è fatto risalire
tradizionalmente al Dvāparayuga, come si può pensare che il Veda sia stato composto nel 1.200-1.000 a.C. c.? Questa può esser stata magari la data
dell’ultima stesura, secondo quanto è avvenuto per il poema suddetto circa un
millennio dopo. Varrebbe la pena
d’ipotizzare semmai la presenza di dati piú antichi,
pre-kaliyughici, formulati primieramente in forma poetica dai sacerdoti
autoctoni per meglio tramandarli in assenza di scrittura; e messi a punto
successivamente nel vasto agglomerato letterario che i Brāhmaṇa potrebbero aver fatto in tempi storici fra la
propria tradizione orale (vide n.98)
e quella di altri sacerdoti di concomitanti invasori da sudovest, o degli
autoctoni pre-dravidici. In ciò gli
scritti del grande Tilak, revisionati ed aggiornati, dovrebbero fornirci
qualche valido aiuto.
114) R.Furon nel suo Manuale di preistoria- Einaudi, Torino 1961 (Manuel de préhistoire générale- Payot, Parigi 1938), P.IV, Cap.I,
§2, p.330 attesta la presenza nel Neolitico europeo di 4 tipologie umane,
evidenziate dai crani raccolti in specie di reliquiari preistorici prototipici
dei moderni cimiteri. I tipi umani, in
base all’indice cranico, sono i seguenti: a) dolicocefali ad alta statura e
faccia corta, i cd. crô-magnon o o
proto-europei, presenti anche nel Pleistocene; b) brachicefali medio-bassi a
faccia allungata, entrati in Europa all’inizio del Mesolitico e spostatisi
dalle coste atlantiche della Francia alla Russia Meridionale attraverso i
Balcani (non viceversa); c) dolicocefali alti e a faccia lunga, emigrati
dall’Asia nel Norderopa all’inizio del Neolitico (la Scandinavia è rimasta
coperta di ghiacci sino alla fine del Plesistocene), d) dolicocefali bassi e a
faccia lunga emigrati nel Sudeuropa, anche questi assenti sul luogo nel
Paleolitico e nel Mesolitico. Vi sono
poi dei mesocefali, cioè degl’ibridi nati necessariamente da un incontro
paritario fra i 2 tipi fondamentali (dolicocefali paleolitici e brachicefali
mesolitici), ai confini geografici delle zone di stanziamento della doppia
tipologia. Da una cartina riportata nel
libro (ibid.) si osserva che i
brachicefali appaiono incuneati a mezzo fra i dolicocefali alti di tipo nordico
e quelli bassi di tipo mediterraneo, sebbene temporalmente in realtà abbiano
fatto seguito ai primi di molti millenni e preceduto invece i secondi di c.
5.000-6.000 anni, spostandosi geograficamente in senso contrario a
costoro. Avevamo affrontato l’argomento
dapprima nella nostra t. di l. (Ac., op.cit.,
pp. 524-6, n.68), indi in un art. successivo (Ibid., La t., p.9). Non è facile capire a chi mai possano
corrispondere le 4 tipologie antropologiche descritte, ma abbiamo già
riconosciuto in uno dei 3 gruppi dolicocefali i proto-europei, mentre
probabilmente è ai brachicefali che andrebbero collegate le popolazioni giunte
in Europa via mare in seguito al verificarsi oltreoceano d’un cataclisma
diluviale. Gli altri 2 ceppi
dolicocefalici, nati sicuramente da ibridazioni maggioritarie dei proto-europei
coi nuovi venuti, si dovrebbero intendere probabilmente in tal modo: 1) i
dolicocefali alti (come i proto-europei) ma a faccia lunga (come i nuovi
venuti) sarebbero da assimilare ai proto-caucasici o iapheti che dir si voglia,
spintisi a nord forse per motivi climatici; 2) i dolicocefali mediterranei,
bassi e a faccia lunga (come parte dei brachicefali, ma dal cranio allungato) ai
camiti. Ci si può chiedere come abbiano
fatto i brachicefali a trasformarsi nei tempi neolitici in dolicocefali? Solamente nella suddetta maniera, per
ibridazione minoritaria coi cromagnonoidi oltreché in minor grado per ragioni
alimentari e climatiche. Manca dal
quadro tracciato ovviamente il gruppo semitico, tipologicamente assimilabile al
brachicefalo medio-basso dalla faccia allungata, che essendo etnicamente meno
numeroso è rimasto ancorato al Vicino Oriente e non ha avuto la necessità
impellente di espandersi, a differenza di iapheti e camiti. Le ibridazioni successive fra i vari tipi
umani hanno prodotto quel caos antropologico che gl’indú chiamano, in relazione
al Kaliyuga, ‘confusione delle razze
e delle caste’; la biblica ‘confusione delle lingue’, associata alla
leggendaria Torre di Babele quale Axis
Mundi (P.V. in Orione), non ne è che la controparte culturale a livello
semantico-religioso.
115) Alludiamo naturalmente a Dvārakā, dimora mitica di Kṛṣṇa. Tale leggenda è convergente con quella sumera del Dilmūn. Per quanto quest’ultima paia identificare la
leggendaria terra all’I.a del Bahrain, tanto che delle spedizioni archeologiche
hanno dichiarato d’aver rinvenuto in essa una cultura dilmun, è da supporre che un tempo la proporzione di terre emerse
fra il Golfo Persico e le coste dell’India Occidentale fosse assai maggiore.
Secondo quanto afferemerebbero certi scrittore tamilici (Slat., op.cit., Cap.I, pp. 22-3), infatti, la
terra dravidica originaria avrebbe fatto da ponte naturale di terra fra l’India
Sudoccidentale e l’Africa. Quale
Africa? Ovviamente la costa africana
abitata dai camiti nordorientali (proto-egizi e paleo-etiopi, includendo in
questi ultimi le successive suddivisioni in gruppi dancàlidi, somali, galla,
abissini, kushiti ecc.) nonché dai nilocamiti (pastori etiopidi con apporti
negroidi, come i Masai ed i Nandi, a mezzo fra i precedenti ed i ceppi
paleo-negritici dell’Alto Nilo).
116) Il ceppo dravido-camita pur essendo in
maniera diversa da quanto si crede generalmente un’etnia prevalentemente legata
alla Razza Bianca originaria – nell’ambito della quale gli Ainu in Estremo
Oriente sembrano costituire il punto di confine fra le 2 sottorazze primarie: i
paleoasiatici, dai quali discendono i paleo-amerindi, e i protoeuropei, confusi
antropologicamente coi piú tardivi proto-caucasici – deve aver accolto dapprima
sul suolo americano meridionale un apporto minore da parte austronesiana,
attraverso una probabile invasione (non ammessa ufficialmente, ma testimoniata
dal mito ebraico dell’incontro fra sethiti e cainiti) dalla zona sudafricana,
intermedia fra l’Oceano Indiano e l’Atlantico; per poi inglobare in zona
caraibica (un tempo maggiormente estesa a livello insulare, questa essendo in
sostanza l’Atlantide platonica, come ha mostrato tramite le sue ricerche
l’ing.Allen) un secondo ma maggiore apporto di tipo paleo-asiatico dal
Nordamerica. Indi, dopo il Diluvio
Noaico e la conseguente emigrazione oltreoceanica unitamente agli altri due
ceppi di cui riferisce la tradizione ebraica, si sono necessariamente aggiunti
un terzo apporto sul suolo mediterraneo da parte proto-europea (cfr. n.114) ed
infine un quarto (tardivo ma non troppo consistente) sul suolo indiano da parte
proto-australoide (mundarica e veddoide).
Cfr. n.47. Ciò potrebbe spiegare,
a livello culturale, le differenze di culto all’interno dell’antico induismo
paleo-dravidico mahabharatiano; vale a dire, le tendenze asuriche delle genti
kuruidi e quelle devaiche dei cugini panduidi.
Tendenze che, detto per inciso, si sono conservate fino ad oggi
all’interno dell’area dravidica nell’India Meridionale tramite il doppio culto
shivaita e vishnuita. Ciò
indipendentemente dal fatto ipotizzato alla n.75, ovverosia una presenza
iaphetica sul suolo indiano precedente all’invasione – ad ondate o meno – del
II millennio. a.C.; oppure (preferibilmente a nostro giudizio) qualcosa di
simile, secondo quanto sembrano suggerire certe istanze hindu relative al Ciclo
dei Titani. Cfr. Cap.II, §4 sgg.
117) È ammesso
anche a livello accademico che un flusso migratorio proto-australoide o
paleo-indonesiano – un tempo l’Australia e l’Indonesia erano unite da un istmo
in seguito andato sommerso, per questo è preferibile impiegare il termine
‘austronesiano’ – si sia trasmesso all’Europa preistorica attraverso l’Asia
Meridionale e le abbia fornito un determinato apporto culturale, fatto
probabilmente di rozzi arnesi e di rudimentali tecniche orticole (bastone da
scavo, coltivazione di tuberi); ovvero tecniche venatorie (lance e frecce non metalliche), nonché piscatorie
(ami d’osso o d’altro analogo materiale organico, veleni vegetali) oppure di
combattimento (armi di pietra). Per non
parlare di segreti architettonici relativi ai megaliti, od abilità artistiche
concernenti i petroglifi. Dotandola
peraltro di una nuova organizzazione sociale, colla formazione di clan tribali,
di contro all’accoppiamento familiare naturale o alla semplice orda; cosa che
deve essersi accompagnata, di sicuro, a pratiche rituali connesse col culto
degli antenati e cerimoniali vari, in rapporto a rinnovate credenze.
118) I Rājanya sono abbinati elementalmente al Fuoco e
cosmograficamente alla Direzione Sud.
Ciò dimostra che gli Kṣatriya fin dal
nome, da kṣetra = ‘campo’,
non dovrebbero esser messi in relazione alla classe regale-guerriera; bensí piuttosto a
quella eroico-produttiva, affine all’elemento umorale, avendo essi Indra (Pico Marzio) quale loro prototipo
divino. Invece i Rājanya, che sono i
veri guerrieri dal tono regale, si rifanno
da un lato a Sūrya (Elio) per quanto riguarda il loro aspetto
splendente e creativo; dall’altro a Kāla (Crono), dio temporale e distruttivo, oltreché
signore di tutto ciò che appartiene alla sfera secolare.
119) I Fenici per certuni (Her., op.cit., Cap. IV, §ii, p.464, n.1)
sarebbero dei camiti con lingua semitica, ma il loro sviluppo culturale ha
avuto un andamento assimilabile a quello delle grandi civiltà semitiche. Addirittura si ipotizza che sarebbero di
derivazione indica, in quanto assimilabili ai Paṇi rigvedici. Gli Stutley (op.cit., s.v. PAṆI, pp. 317/ col.b
e 318/ col.a) intervenendo sulla
questione asseriscono che alternativamente all’ipotesi identificativa dei Paṇi
– cfr. colle voci Paṇik/Vaṇik (Paṇya/Vipaṇi) – coi
fondatori della Civiltà della Valle dell’Indo, essendo essi menzionati nel Ṛgveda accanto ai Dāsa ed ai Dasyu,
ve ne sono altre; che ne farebbero una variante dei Parni o Parti iranici,
affini ai Dai, o di determinate
popolazioni babilonesi. Personalmente
siamo del parere che il loro centro di diffusione sia stata l’Armenia,
biblicamente l’Ararat, come insegna la ‘Bibbia’ (E.Galbiati, Antico Testamento- Utet, Torino 1973,
p.128/ col.b, comm. a Gen.-viii. 4) e che da tale zona si
siano poi spostati in una doppia direzione, verso il Mediterraneo (i coloni
fenici a Cartagine erano denominati dai Latini Poeni) od il Medio Oriente (dall’Iran all’Indo).
120) Degli Iapheti è detto nelle tradizioni
ebraiche che si spinsero verso l’Asia fino all’altezza del Don e verso l’Europa
fino all’Atlantico. Cfr n.128.
121) B.K. Gosh, The
Origin of the Indo-Aryans; sta in AA.VV, The Cultural Heritage of India- The Ramakrishna Mission Institute
of Culture, Calcutta 1958, Vol.I, P.I, Cap.8, p.129, n.1, citaz. di M.Müller compresa (Aryan,
in scientific language, is utterly inapplicable to race. It means language and nothing but language.).
122) A.Parpola, Deciphering the Indus Script- Cambridge U., Cambridge-N.York-Melbourne
1994, P.III, Capp. 8 e 9 passim.
123) Ricerche nel campo dei metalli hanno
condotto l’archeologia indiana a ritenere che la conoscenza e la preparazione
dei metalli fossero diffuse in India ben prima della data in cui si suppone
siano avvenute le invasioni arie. Cfr. sull’argomento S.Biswas, N.Cakrvorty & A.K.
Biswas, Archeo-material Studies in India
and Literary Evidences, presso AA.VV.,
op.cit., Cap.4 sgg. In
particolare il ferro, chiamato in sanscrito in vari modi, parrebbe corrispondere al s.n. ayas (‘metallo, ferro, arma di metallo o di ferro’) ricorrente piú volte nel Ṛgveda. Tuttavia è necessario distinguere la
conoscenza dall’uso pratico d’un dato metallo.
Può darsi insomma che le genti paleo-dravidiche, pur conoscendo il ferro
(sempre che non si sia trattato del bronzo o di altro metallo), non ne abbiano
fatto l’uso adeguato in guerra per via delle tecniche rituali di
combattimento. Com’è avvenuto da parte
dei Cinesi colla polvere da sparo, in precedenza utilizzata a scopi
pacifici. Dato che nelle invasioni arie,
o presunte tali, è stato ritenuto decisivo l’utilizzo metallurgico a scopo
bellico bisogna ricordare che prima del ferro altri metalli sono stati
impiegati allo stesso fine. Non solo il
rame ed il bronzo, dai quali derivano le corrispondenti età archeologiche (le
età tradizionali, invece, hanno un significato alchemico-regressivo), ma anche
lo stagno e lo zinco. Lo stagno,
proveniente dalle isole britanniche, era molto ricercato dalle officine
italiche e greche (G.A. Mansuelli & F.Bosi, Le civiltà dell’Europa antica- Il Mulino, Bologna 1984 [ed.or. Les civilizations de l’Europe ancienne-
B.Arthaud, Parigi 1967], Pref. di R.Bloch, pp. 12-3). Lo zinco veniva invece utilizzato nell’India
del XVI sec. a.C. (Bis., ibid.,
p.54).
124) Com’è avvenuto colle invasioni islamiche.
125) Vedi W. Burkert, I Greci- Jaca B., Milano 1984 (ed.or. Griechische Religion der Archaischen und Klassischen Epoche-
Stoccarda-Berlino-Colonia-Magonza 1977), Vol.II, C.IV, §2, p.289, n.21. L’autore commenta in tal modo il fatto che,
secondo gli specialisti del settore, non esista un etimo certo per il gr. Χάρων; ma invece esiste, basta
cercarlo! Il termine è connesso
palesemente al gr. Κᾱρ (dio del tempo
e della morte), nome del paredro della dea
Κἠρ, dall’analoga funzione. I due (Kár-Kḗr)
rappresentano d’altra parte la versione egea della coppia indiana Kāla-Kālī, della quale sono individuabili
in Grecia altre varianti tipologiche.
Cfr. G. Acerbi, Le ‘Caste’ secondo
Platone. Analisi dei paralleli nel mondo indoeuropeo- Convivium [ed.
Sear](A.IV, apr.-giu, N°13), Borzano 1993, P.II, pp. 24-7, n.29.
126) A.K. Coomaraswamy, Yakṣas- Munshiram M., N.Delhi 1980, P.II, Cap.II, §2,
pp. 35-8.
127) Cfr. S. Bhattacharji, The Indian Theogony- Cambridge U.,
Cambrid- ge 1970, P.I, Cap.I, p.38; vedi inoltre Mt.P.- cclxxxvi. 9, anche se il verso fa riferimento solo alla paredra del dio. Pure
a Kāma,
noteremo, il Mt .P.- cliv. 208 assegna per vessillo il
Pesce piuttosto che il Coccodrillo (od il Gaviale gangetico).
128) Iaphet
ha avuto secondo la tradizione ebraica (Gen.-
x. 2) 7 figli: Gomer, Magog, Madai,
Iavan, Tubal, Mešek e Tiras. L’esegesi biblica ha visto nei figli di Iaphet i seguenti discendenti: da Gomer
Cimmeri, Sciti, Ambroni (Liguri, Celti), Cimbri (Gallesi, Irlandesi, Scoti,
Pitti) ecc.; da Magog Slavi, Armeni (distinti dai Mini, che erano camiti) ecc.;
da Madai Medi, Indo-iranici ecc.; da Iavan Ioni (sta per Greci, ma erano invero
un ceppo misto di iapheti, semiti e camiti), Achei ecc.; da Tubal Tibareni,
Italici, Circassi, Georgiani ecc.; da Meshek Meshketi, Moschi, Frigi, Illirici
ecc.; da Tiras Traci, Juti, Teutoni, Norreni ecc.
129) Se fosse verso l’Altro Mondo, il
‘Traghettatore’ sarebbe invece da assimilare a Śiva. È il caso ad es. del Caronte ellenico, che trasportava i defunti sullo Stige, o dell’omologo
indiano Yama.
130) Vedi Cap.VIII, §m.
131) Ac., Il
Re P., sovr., p.14, n.15.
132) Vide
n.126.
133) Cfr. n.28.
134) Cfr. S.
Lienhard, Problèmes du syncrétisme
religieux au Népal- B.E.F.E.O.- T. LXV, fasc.1, Parigi 1978, pp.
269-70. Tale studioso sottolinea la
netta tendenza da parte dei nepalesi alla venerazione in simbiosi d’una doppia
figura divina, come Durgā e Tarā od i due succitati aspetti di Śiva-Mahādeva; non è però una questione di
sincretismo (e come tale eretico), diversamente da quanto sostiene l’autore,
bensí di semplice tendenza culturale alla sincresi.
135) Cfr. S. Dasgupta, Obscure Religious Cults- Firma KLM, Calcutta 1976 ( I ed. 1946 ),
App. C, pp. 382-7.
136) Mt.P.-
i-ii sgg; Pd.P.- vi. 230, 3-31 (in codesto passo è Makarāsura, controparte asurica del Matsyāvatāra, a rubare i Veda
e a portarli in fondo all’Oceano); A.P.-
ii. 2, 17/a (ove è specificato al
vs.15 che l’assunzione della veste ittiomorfica da parte di Viṣṇu per annientare Hayagrīva, sottrattore dei Veda durante il Diluvio, avviene sotto forma di ‘Aureo Pesce
Unicorne’) e Kāl.P.- xxxii-iii sgg.
137) Ecco il grande peccato attribuito a Yima, il Primo Uomo, nella tradizione avestica.
Si noti a tal proposito che Re Yima
è chiamato Re Yama dagli indú (vedi sull’argomento Ac., Ya., passim) e questi, parimenti
venerato come sovrano in quanto Dharmarāja
ossia ‘Re della Legge’, costituisce un alter-ego vedico del puranico Manurāja; al modo come Yima rappresenta
per gli zoroastriani un allotipo avestico del pahlavico Mašyē (cfr. coll’av. Mas = ‘Pesce’), evidente
personificazione del Kar-mas. Non a caso, quindi, nei testi cosmologici
persiani si annoverano 10 Pesci Kar! Che l’Avesta
(Yt.- xiv. 1-10) conoscesse il motivo
avatarico è stato segnalato primieramente da Tilak (The Arc., op.cit., Cap.X,
p.286) e ribadito in Ac., Il mit., n.30.
138) Cfr. con Mannus, mitico progenitore dei Germani, che come Adamo ha 3 mitici
figli.
139) Gros., com.or.
140) Sul tema delle Settemplici Congiunzioni
rinviamo ad Ac., Intr., P.I, pp. 21-3, n.6.
141) Cfr. n.59.
142) Her., op.cit., C.IV sgg.
143) Per una disamina generale di tutti i
passi principali concernenti il Diluvio nella cultura induista ed una
comparazione degli stessi con alcuni altri tratti da fonti vicino orientali
cfr. S. Suryakanta, The Flood Legend in
Sanskrit Literature- S. Chand & Co., Delhi 1950. L’antologia, corredata da un’introduzione dell’autore
che lascia un po’ a desiderare per il proprio commento inadeguato, riporta però
un’ampia scelta di brani; tutti i piú importanti, alcuni dei quali citati alla
n.136. Circa un’ulteriore comparazione
con il Vicino Oriente si veda inoltre A.Parrot, Déluge et Arche de Noé- Delachaux & Niestlé, Neuchâtel-Parigi
1952, passim; considerazioni generali
sul tema dell’Arca e del Diluvio sono invece riportate in G. Liggeri, Simbolismo
dell’Arca- V.d.T. (A.XX, Vol.XX, ott.-dic. ’90, N°80), Palermo 1991, pp. 171-83
sgg.
144) Si analizzi sull’argomento G.Acerbi, Le arcaiche figure tricorni nella glittica
della Civiltà dell’Indo e nell’arte rupestre del subcontinente indiano-
Acts of XI Valcamonica Symposium (Prehistorical and Tribal Art: SYMBOL AND
MYTH), Temú, 6-11 Oct. 1993; dell’inedito indicato, copia del manoscritto del
quale è consultabile ad ogni modo presso la Biblioteca del C.C.S.P. di Capo di
Ponte, cfr. §b.4, ii, n.17. Il nostro art. aggiornato e ampliato in un
libro, pur mantenendo o quasi la suddivisione originale dei paragrafi, è ora in
fase di ristesura in vista d’una riedizione con titolo del tutto rinnovato (Il Magnus Piscis e la Triplice Via verso il Paradiso ).
145) Ac.,
art.cit., §b.4, ii sgg.
146) Coom.,
op.cit.
147) Se l’uranico nume viene inteso quale dio
aureo, indistintamente, equivale a Brahmā. Qualora si voglia invece distinguere piú approfonditamente i 2 Mahāyuga all’interno
del VII Manvantara, come già riferito
al §l, Brahmā (o Manu)
presiede al I Mahāyuga e Varuṇa (o Sāgara) al secondo; presso gli Orfici in parallelo Eros
domina il I Grande Anno e Urano il II, presso Platone (Tim.- xiii) invece Urano il
I ed Oceano il II.
148) Yama
similmente a Varuṇa adempie alla doppia funzione di traghettatore
d’anime in vita ed in morte, fungendo nel contempo da ‘Primo Uomo’ e da ‘Primo
Mortale’. Il Daṇḍa (‘Verga’)
che tiene nella mano destra presenta il nume nella funzione essenziale di
manifestatore di tutte le forme, mentre il Pāśa (‘Cappio’)
che tiene nella sinistra denota la sublime capacità del medesimo di trasformare
il cosmo.
149) Sul rapporto d’analogia, ed insieme di
distinzione, fra il dio Giano e il dio Urano nelle rispettive mitologie vide infra.
150) Il ruolo simbolico del Rostro del
Delfino è affrontato nel Cap.II, ma è evidente che essendo il Capricorno
astrologicamente il Segno di dominio del pianeta Saturno, abbia ipso facto a che fare con morte e
distruzione ovvero con Yama. Sebbene in mitologia il dio Saturno sia
figlio di Giano, equivalente latino di Yama.
151) Sul tema cfr. G.Acerbi, Metafisica dello Zero- Alle pendici del
Meru blog (6-10-06), sgg.; ripubblicato, in forma corretta e
maggiormente ampia, in una duplicazione dello stesso sito: Alle pendici del
Monte Meru (3-11-14).
152) P.V.M., Buc.- iv sgg, (prem. Alla IV Ecl.
di S.Pennacchietti), p.93.
153) Cfr. con Vāruṇī, la
Figlia/Sposa di Varuṇa,
successivamente doppiata nel secondo ruolo da Varuṇānī. Entrambe vengono identificate a Gaurī.
154) Vedi quale esempio d’arte peloponnesiaca
Afrodite a cavalcioni del Montone su un coperchio di specchio (IV sec. a.C.) di
Preneste (Palestrina), presso Roma, ora custodita al Louvre; cfr.
J.Charbonneaux-R.Martin-M.Villard, La
Grecia classica (480-330 a.C.) – Rizzoli, Milano 1970 (Grèce classique- Gallimard, Parigi 1969), P.sec., p.226,
fig.257. Tale raffigurazione, essendo in
Grecia Afrodite la dea della giustizia e dell’armonia cosmica, equivale in
India a quella di Dharma (la ‘Legge’
personificata) su Meṣa (‘Ariete’);
cfr., in proposito, Ac., op.cit.,
Vol.II, p.585, fig.27. Su G.Liebert, Iconographic Dictionary of the Indian
Religions…- E.J. Brill, Leida 1976 (s.v.
DHARMA, p.74, coll. a-b) è
scritto che Dharma è lo sposo delle
13 <figlie> di Dakṣa, detto nume
sovrintendendo alla Ruota dell’Ordine (Dharmacakra),
e non a caso monta l’animale-emblema del primo segno zodiacale. Per questo motivo il Meṣa era anche uno degli animali di Varuṇa in età
vedica (ibid., p.331, col.a), poiché durante il Dvāparayuga si venerava da sacra ruota
lo Zodiaco Solare. L’associazione Varuṇa-Meṣa è
praticamente un associazione Varuṇa-Mitra,
visto che il dio (corrispettivo, checché se ne dica, del Marte latino oltreché
del Mithra iranico) governa tal Rāśi
(‘Segno’). Stessa cosa valga per Venere.
155) E.Anati, Origini dell’arte e della concettualità- Jaca Book, Milano 1989,
Cap.VI, p.171, fig.106; cfr., inoltre, il Cap.III passim.
156) Sebbene nell’iconografia pagana tarda
detenga pur sempre come veicolo il Cervo, analogamente al suo equivalente
latino Saturno ed in maniera non troppo dissimile da Artemide. Vi è da credere, dunque, che fosse cosí anche in
passato
157) Etimologicamente il scr. Yama (‘gemello’) è rapportabile all’ir. Yima, al norr. Ymir, nonché al lat. Iānus; tutte figure eminentemente androginiche,
quantunque poi sdoppiate al femminile.
Cfr. ad es.la ‘gemellarità’ di Yama
colla Duplice Faccia (Gemini)
solstiziale di Iānus, cui era attribuita
non per niente la Verga quale fattore equilibrante unipolare nella tradizione
romana arcaica.
158) Essendo duplice in senso paradisiaco od
infero, Yama (cfr. nn. 137 e 148) può
esser ritenuto un equivalente del II Avatāra, incarnante la prima forma forma di dualità. I punti di contatto fra Brahmā ed il I Avatāra son dati invece dalla loro reciproca
non-dualità. In quanto a Varuṇa (lett. ’Avvolgente’)
è paragonabile a Varāha (l’Uomo-verro del Ciclo Orientale), dato che
esattamente come il platonico Ώκεανός (il
‘Circondante’, scr. acayana = id.)
era direzionalmente in origine il
Signore dell’Oriente, sebbene poi spodestato da Indra.
159) M.Eliade, Trattato di storia delle religioni- Boringhieri, Torino 1976
(ed.or. Traité d’histoire des religions-
Payot, Parigi 1948), Cap.II, §20, p.74 ss. Purtroppo l’autore si contraddice, perché se
da un lato ha coscienza del diretto rapporto fra il Varuṇa originario
ed Urano (p.76), come testimonia il scr. vṛ =
‘avvolgere’; dall’altro accetta la lezione di H.Petersson, fatta propria anche
da Güntert e
Dumézil (§21, p.78), che ne fa derivare il nome dalla base ie.*uer- = ‘legare’. Sarebbe come dire che il nome Manu, allorché viene riciclato quale
signore kaliyughico nei testi tardi, smette di fungere da archetipo umano
primevo come in quelli piú antichi e
quindi bisognerebbe farlo derivare dal termine manava, designante l’uomo dell’ultima epoca. L’etimo vero non è questo, ma semmai il
contrario, visto che Manu è da
connettere in realtà alla base ie.*mn-
indicante la luna. Giacché l’Ilāvṛta costituisce il mondo immediatamente
sublunare. Parimenti Varuṇa incarna il
modello del perfetto sovrano in senso sovrannaturale (cioè shamanico, anche se
non proprio un rex-sacerdos come il
primordiale Manu), proprio perché
rappresenta il Signore del Cielo che vela i misteri (nel senso della Tenda
Celeste), ma simultaneamente è il Signore dell’Ordine in rapporto allo spazio
ordinato (cosmo). Il tema del legare
proviene appunto dal concetto di Dharmacakra,
l’Axis Mundi facendo da perno.
160) Su tal personaggio sono usciti i
seguenti studi che non abbiamo potuto purtroppo analizzare essendo essi di
difficile reperibilità: J. K. Locke, Rato
Matsyendranath of Patna and Bungamati- Tribh. U., Kathmandu 1973 e Id., Karuṇamaya. The Cult of Avalokiteśvara Matsyendranath in the Valley of Nepal- Sahayogi, Tribh.U., Kathmandu 1980.
161) Her., op.cit., Cap.IV passim. Heras spiega (ibid.,
§iv, pp. 426-7 e v, pp. 427-31)
impiegando foto appropriate (ib.,
figg. 282-6) che annualmente a Madurai la gente del popolo, in accordo colle
autorità del Tempio di Mīnākṣī, commemora l’evento diluviale primevo nella
seguente maniera cerimoniale. In questa
festa viene eretto un mandapa
(padiglione) dinanzi ad un tempietto, ove si raccoglie una grande folla. Una ragazzina, abbellita ed inghirlandata,
incarna la dea ‘dagli occhi-pescini’.
Essa si reca colà, presso la pozza chiamata Valaivisuntepakkulam (‘Pozza del gettito della rete’), onde
testimoniare della pesca del Pesce, simboleggiante il Matsya che ha impartito l’insegnamento a Manurāja. A questo punto la giovane dea sceglie un suo
rappresentante maschile affinché le prenda il Pesce e questi a sua volta
sceglie alcuni giovani aiutanti. Appena
l’animale è stato pescato con una rete si assiste ad un giubilo generale della
folla. Il Pesce è posto prima
ritualmente in un vaso di vetro, in ricordo del gesto di Re Manu e della richiesta conseguente del Matsya, e poi trasportato con una
palanchina verso uno degli elefanti riccamente bardati inviati allo scopo dalle
autorità del tempio. Tale elefante, che
apre la processione, porta una bandierina colla raffigurazione di Mīnākṣī. Si uniscono intanto al corteo altre
palanchine con immagini della dea.
Raggiunto il tempio, il Pesce è presentato alla dea e rimane in custodia
nel vaso per vari giorni; dopodiché è portato alla pozza chiamata Teppakulam e rigettato nell’acqua, ad
imitazione di quanto fece Manu. Sul parapetto della scala che scende verso la pozza è riportata un’immagine
(p.421, fig.79), pressoché unica nel mondo indiano a quanto ci risulta, del Matsya Ekaśṛṅga; il rostro comunque non è né un dente né un
corno, ma una proboscide alla maniera del Makara. A differenza del Makara, che ha morfologicamente corpo di rettile e coda talvolta
pescina, qui ci troviamo di fronte ad un vero mahāmatsya d’imprecisabile
natura. Heras aggiunge peraltro che in
passato la festa aveva probabilmente un carattere fluviale, svolgendosi presso
il fiume Kritamal, ora ridotto ad un fangoso canale abbandonato; codesto fiume
si estende da una pozza detta Madākkulam, unendosi sul lato sudovest di Madurai al
Vaigai. Essendo il Kritamal oggi
impraticabile, ecco che l’inizio della cerimonia è stata spostata alla vicina
pozza sopraddetta.
162) In una posizione cronologicamente
intermedia sta il Matsyanātha del N.P.,
Utt.- lxix. 2-26, ivi denominato anche Siddhanātha. La
vicenda narra di un giovane brāhmaṇa (nato nel Puṣkaradvīpa od ‘Isola di Loto’), il quale essendo stato
generato in un periodo astrale infausto è gettato dai genitori in mare; quivi
dapprima inghiottito nel <ventre> di un Grosso Pesce e di poi sbalzato
nel Mondo Supremo (lett. “sulla cima del Lokāloka”), ove Śiva è in atto di comunicare alla sua consorte (Umā in altri testi Gaurī) i principî basilari dello Jñanayoga e del Dhyānayoga, viene ad apprenderli casualmente ed è alfine
adottato quale figlio spirituale della Devī.
163) Her., op.cit., §ii.A, p.415,
fig.276. In una diversa ma altrettanto
rara se non unica rappresentazione in altorilievo del Tempio di Ketapanārāyaṇa a Bhaktal
(K.B. Iyer, Animals in Indian Sculpture-
Taraporevala, Bombay 1977, C.XI, p.74, con rif. alla tav.CXXXII) assistiamo
all’interno d’un riquadro scultoreo ad una misteriosa scomposizione
iconografica in doppia sequenza fra tre figure.
Da una parte — se interpretiamo bene queste icone del XVII-XVIII sec.
d.C. — abbiamo Manu in piedi che
impugna il Vaso, simbolo del Cuore, la dimora costante del Brahma nel I Ciclo Avatarico; allorché l’Uomo viveva solitario
nell’Ilāvṛta e gioiva di
quell’unica presenza interiore che era in lui il Sacro Monosillabo (cioè il
Verbo Divino). Dall’altra troviamo il Matsyāvatāra, incarnazione di Viṣṇu e prima
figura profetica del VII Manvantara,
seduto sul Pesce a mo’ di Manu ed in
tal modo distinto dal Brahma. La cosa è assolutamente insolita, giacché
codesto avatāra non assume mai nell’iconologia forma interamente
umana, seppure sia visto comunemente fuoriuscire a mezzobusto dalla ‘Bocca del
Pesce’. Coll’unica eccezione della
precedente raffigurazione. Crediamo che
questa triplice raffigurazione (il Matsya,
l’Avatāra sul Matsya
e Manu col Kamaṇḍalu) sia la
medesima cosa del Tripuruṣa della Gītā; cioè
l’Assoluto, l’Avatāra e il Primo
Uomo (in senso celeste). Piú o meno quello che insegnavano anche i
Vangeli Apocrifi (in particolare la Sophia
Jesu Christi- 2, 15 e 20) od il Cristianesimo nascente, pre-niceno, i quali
ponevano tri-unitariamente un Προπάτωρ – lett.
‘Primo Padre’ ossia il Padre naturale o carnale, insomma l’Uomo siccome Adamo
Celeste con tutto il proprio séguito di Salvatori (Σωτῆρες) Perfetti (Τέλειοι) – nel ruolo intermedio; ai due punti opposti
stavano invece da un lato l’Αὔτοπάτωρ e cioè
l’Assoluto (il Signore di Tutto, la Luce Infinita) e dall’altro il semplice Σωτῆρ (‘Salvatore’) inteso quale ‘Angelo
Illuminatore’ (Messaggero di Luce), il Cristo (“Figlio dell’Uomo”) in quanto
Verbo essendo posto a mezzo fra di loro, ovvero nella serie dei Τέλειοι Σωτῆρες. Cfr. in proposito M.Erbetta, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento. Vangeli,
testi giudeo-cristiani e gnostici- Marietti, Casale M. (Al) 1975, pp. 303/
col.a, 305/ col.a e 306/ col.a. Come ci ha fatto notare giustamente l’Albrile
(com.or.), gli Gnostici non
prendevano in considerazione i Profeti; per cui non si può ivi parlare di
dottrina trinitaria in senso post-niceno, ma semmai di tri-unità. Si trattava realmente d’un vangelo gnostico
oppure insieme ad altri di quel tipo, fra i manoscritti rinvenuti a Nag Hammādi, c’erano pure dei Vangeli <nazareni>? Come si può pensare che non ne esistessero,
visto che il <Nazareno> per antonomasia veniva proprio dal Nazarenismo (e
non da Nazareth, come si è creduto erroneamente)? Ciò per il fatto che la posizione spirituale
donde sono poi originati il Cattolicesimo e l’Ortodossia si ricollegavano
tramite S.Paolo e S.Giovanni Battista ad una scuola spirituale per cosí dire di
centro: l’Essenismo, vale a dire l’equivalente ebraico del Vishnuismo. Mentre lo Gnosticismo era una scuola di
destra o di sinistra, alla maniera shivaita.
Rispetto allo Gnosticismo l’Islamismo non ha cambiato di molto le cose,
solo ha aggiunto alla lista dei Perfetti Salvatori Maometto; o per meglio dire
la Haqīqat Mohammadīya (‘Verità Mohammadica’), equivalente al Verbum Christi. Cfr. H.Corbin, Storia della filosofia islamica- Adelphi, Milano 1973 (Histoire de la philosophie islamique-
Gallimard, Parigi 1964, Vol.I), Cap.II, §A.3,
p.55.
164) H.W. Schumann, Immagini buddhiste. Manuale iconografico del buddhismo mahāyāna e tantrayāna- Mediterranee, Roma 1989 (ed.or. Buddhistiche Bilderwelt- E. Diedrichs, Colonia 1986), p.302,
fig.328.
165) Per
parallelismi occidentali e vicino orientali sulla simbologia ittica da
Giona a Cristo, da Giano a Oannes,
cfr. R.Guénon, Simboli della Scienza
sacra- Adelphi, Milano 1975 (ed.or. Symboles
fondamentaux de la Science sacrée- Gallimard, Parigi 1962); in particolare
i due articoli sul simbolismo del pesce ed i misteri della lettera Nun, §§ 22-3, pp. 136-45. Da parte nostra siamo convinti tuttavia,
diversamente da quanto sostenuto dall’autore francese (ibid., pp. 137 e 141) e da altri, che la simbologia del Matsyāvatāra non si riferisca al periodo intercorrente fra la
fine del VI Manvantara e l’inizio del
VII; bensí a quello fra la fine del I Ciclo Avatarico e l’inizio del II,
sebbene in generale riguardi l’intero periodo ciclico con cui ha principiato il
Caturyuga appena trascorso. Ciò per il semplice fatto che, tenendo per
buono il dato sopra indicato, avremmo quale assurda conseguenza che il X Avatāra
(il cd. Kalki) avrebbe già
effettuato la sua ‘Discesa’ all’inizio del Kaliyuga;
mentre sappiamo bene che non può essere cosí, visto che lo stesso Guénon ha
identificato chiaramente tal personaggio al Cristo apocalittico del ‘Secondo
Avvento’ (ib., p.136, n.4). Per ulteriori precisazioni sull’argomento
rinviamo al nostro art. segnalato alla n.23.
Bisogna comunque tener conto che esistono dati puranici interpretabili,
per trasposizione, in riferimento all’inizio del Kalpa piuttosto che a quello del Manvantara; onde, trattandosi d’un periodo cronologicamente tanto
lontano da noi, lo si definisce nei testi per analogia anziché su un piano di
reale corrispondenza mitologica. Il dato
concerne alternativamente non solo il Matsya,
ma anche anche lo Śvetavarāha, vale a dire
il Cinghiale Bianco.
166) M.W. Meister (a cura di), DISCOURSES ON ŚIVA. Proceedings of a Symposium of a Nature of
Religious Imagery- Pennsylvania U.,
Philadelphia 1984, C.X, p.150.
167) Cfr. L. Chandra, Buddhist iconography- Aditya P., N.Delhi 1987, Vol.II, p. 404,
fig.1097 e 473, fig.1371; inoltre P.C. Bagchi, Kaulajñāna-nirṇaya of the School of Matsyendranātha- Prachya
P., Benares 1986, Intr., IV, p.29 e Sch.,
op.cit., pp. 301-2. Allorché Mīna è però ritratto in veste di semplice siddha (Ch., op.cit., p.688, fig.2215/ 12), senza implicazioni numinose, il
Pesce viene a mancare.
168) Cfr. P. Pal, The Arts of Nepal (vol.II: Painting)
– Brill, Leida 1978, fig.51.
169) Ibid.,
fig.22.
170) Il Pañcarātra, cosí denominato per il fatto di concepire dei vyūha
(‘emanazioni’) di Viṣṇu, 4 maggiori e 12 minori, è la piú antica scuola
vishnuita. Risale ai cultori del Viṣṇu Purāṇa. (III-IV
sec.d.C. c., ma con frammenti del I).
Mentre gli Śri-vaiṣṇava, vedi ad es. il fondatore Nāthamuni (X sec. d.C.)
ed il nipote Yamunācārya (X-XI sec.), al contrario tenevano per massima
autorità il loro contemporaneo Bhāgavata Purāṇa (c.X sec.
d.C.) e facevano affidamento su un diverso tipo di manifestazioni del Supremo:
i 10 Avatāra (‘Discese’), anziché i 5 Vyūha. Occorre aggiungere che essi avevano in certo
senso codificato la fede di anacoreti meridionali noti fin dai tempi
pre-cristiani, diversi dai pañcarātrin (provenienti da nord nonché piú sistematici), e
denominati vaikhānasa; da Vaikhānas, il loro fondatore, ripreso dagli Ālvār. Costoro erano 12 grandi santi tamil (VII-IX
sec. d.C.) vissuti alla corte del Regno Pallava
o Parthava (III-IX sec.), i quali nei
primi secoli dell’E.V. veneravano il Bhagavat
e la Bhagavadgītā (IV-II sec.
a.C. c.).
Il maggiore fra loro fu
Nammālvār. Rispetto agli Ālvār i vaikhānasa ossequiavano invece di preferenza Viṣṇu sotto forma di Nārāyaṇa, concedendo d’altronde spazio piú ampio alla consorte Śrī-Lakṣmī.
Rāmānuja compí una
sintesi di tutto il vishnuismo precedente, quello almeno legato a Lakṣmī, nessun
ruolo lasciando a Rādhā.
171) Stut., op.cit., s.v. Mīnā, p.279/ col.b.
172) Ac., Le arc., §a sgg; inoltre, figg. 1, 2 e 4.
173) Coom., P.I, Introd., p.9.
174) M.
Monier- Williams, Sanskrit-English
Dictionary...- Munshiram M., N. Delhi 1981 (ed.or. Clarendon, Oxford 1899) sv. Mīna, p.818/ col.c.
175) Il termine brahman proviene secondo gli studiosi dalla Övṛ+man (S.
Radhakrishnan, Storia della filosofia
orientale- Feltrinelli, Milano 1962, T.II, P.II, C.XIV, §C.1, p.423; ed.or.), con il valore di
‘colui che possiede la grandezza’. Forse
perché essi lo collegano con il termine vīr-a (‘uomo’ in senso virile), lat.vīr (id.).
Donde il s.m. vīr-y-a (‘vigore, forza, potenza’), lat.vīs (id.). Si tratta d’un etimo, tutto sommato,
accettabile; da parte nostra preferiamo però connetterlo piú direttamente al vr. vṛ (‘velare,
circondare’), in quanto rappresenta al
modo
del Kālapuruṣa il principio dell’Essere insito nella Ruota
Cosmica, iconologicamente raffigurato non a caso sdraiato all’interno di
questa. D’altra parte, la voce vṛ se
diversamente coniugata ha differente accezione e vale per ‘amare’. Ciò che fa di Brahmā, il primo dio
indú secondo la letteratura puranica, un
corrispettivo indiano di Ἔρως (primo nume
per gli orfici). E difatti è davvero
cosí, visto che la comune radice primaria di entrambe le voci è la base *ṛ, da cui provengono evidentemente sia la parola
greca che quella sanscrita, l’una per vocalizzazione del tema (*er-) e l’altra per semivocalizzazione (*vri-, talora invertita eufonicamente in *vir-).
Non è Eros nato dall’argenteo ’Uovo del Mondo’ (scr. Brahmāṇḍa) covato
dalla Notte? Per capire cosa
rappresentasse realmente Eros nel mondo ellenico basta pensare al fatto che il
corrispondente indiano del dio orfico, anche in termini figurativi, è quel Kāma nato
direttamente dalla <Mente> di Brahmā — con cui parzialmente s’identifica — avente nell’I (od ¦) di dantesca
memoria la sua peculiare effigie grafica.
E non è certo un caso che l’Alighieri fosse, iniziaticamente, un ‘Fedele
d’Amore...
176) Il vero punto di vista brahmanico non è
tuttavia il monismo shankariano, che può esser considerato uno shivaismo
meridionale brahmanizzato; ma semmai quello upanishadico, ove non vi è ombra
alcuna della Māyā. In altre parole, è nell’ossequio dell’Īś
e nelle connesioni di tal ossequio con quello dell’Ys/Yz paleo-asiatico (G. Acerbi, Il culto del Narvàlo, della Balena e di altri mammiferi nello
sciamanesimo artico, presso Il
Tamburo e l’esatasi. Sciamanesimo d’oriente e d’occidente- Avallon, Rimini 2001, pp. 55-78) che è possibile
rintracciare uno stralcio di pensiero quasi davvero primevo. Il pensiero primevo andava ancor oltre il
punto di vista già elevatissimo dei Paleo-siberiani, attinente
cosmograficamente all’Ecumene Nordorientale, o Śākadvīpa.
177) Probabilmente dovette esser cosí per
ogni divinità, dacché gli elementi cultuali antropomorfici subentrano
successivamente a quelli teriomorfici. I
veicoli divini, dunque, evidenziano sensibilmente nella loro rozzezza la natura
primigenia dei numi.
178) Cfr. ad es. V.K. Karambelkar, Matsyendranatha and His Yogini Cult-
I.H.Q. ( Vol.XXXI, N°4 ), Caxton P., Delhi 1955, p.362 sgg.
179) Bag., op.cit., pp. 8 e 14.
180) Op.cit., III-IV sgg. L’Intr. del Bagchi (pp. 9-22) offre
un’analisi dettagliata delle principali varianti del ciclo leggendario di Matsyendra, citando differenti versioni
letterarie del mito (una bengalese, due nepalesi, quattro panjâbi o
nordorientali); sono segnalati inoltre dei passi di alcuni testi tantrici (uno
in particolare tratto dal Kaulajñāna Nirṇaya stesso,
scrittura attribuita all’XI sec.) ed altri di provenienza puranica (uno dello Skanda Purāṇa, considerato – non potremmo dire se a ragione o a
torto – d’origine tarda), insieme ad ulteriori tradizioni piú frammentarie
sparse qua e là (Kālidāsa, Kabirdāsa, storie indiane e tibetane o brahmaniche
indipendenti). L’autore, pur nella sua
ricerca puntigliosa, dimentica comunque di menzionare una versione della
leggenda che è forse la base primaria di conoscenza del soggetto oggi in nostro
possesso; ossia un passo del Nāraḍīya Purāṇa, sfuggito d’altronde pure al Karambelkar (art.cit.). Ad esso sembrerebbe collegarsi quello
medesimo, succitato, dello Skanda Purāṇa.
181) Che Uparicaravasu incarnasse un etereo
sovrano di connotazione kritayughica è provato ulteriormente dal fatto che Indra lo aveva dotato d’un carro di
cristallo (Ādip., lxiii) con
cui, non meno di quanto era possibile a Salomone col suo Trono Volante, solcava
i cieli. Questa la ragione
dell’appellativo di Uparicara. Il significato polare della figura è altresí evidente,
dato che lo stesso passo mahabharatiano testé citato c’informa di come Re Vasu avesse stabilito di piantare un
polo di bambú quale rito
primevo al fine di onorare la retta via e la pace. Il rito è stato imitato da tutti i re venuti
dopo di lui. Si tratta di simboli, come
insegna Guénon, dei Piccoli e dei Grandi Misteri.
182) Si noti che
l’associazione fra il Re degli Dei (Devarāja) ed i membri della Trimūrti si trova,
effettivamente e piú chiaramente, in altri testi che non nel Mahābhārata. Vedi, ad
es. il D.Bh.P.- iii. 11.18. Il che giustifica, in certo modo, le
argomentazioni da noi svolte su di loro e sulle rispettive paredre.
183) Cioè della pura meditazione sull’Auṁ,
secondo quanto attestato nel Mhbh.,
Vanap.- cxlix. 19/ b.
184) Con Bhīṣma unico superstite, similmente ad Achille; la
differenza unica è che Bhīṣma è l’ottavo, Achille il settimo. Cft. Cap.V, §h.
185) Come testimonia in altro contesto il
simbolismo avatarico settenario di Rāmacandra, l’equivalente induista del Set egizio. Quest’ultimo è dal manicheista Plutarco (De Is., 41/d) paragonato invero al
Tifone greco, dalla testa asinina; ma è chiaro che nell’ambito della figura del
Rāma lunare, lo
sposo non per niente di Sītā (lett.‘solco’, fatto che collega tale femmina
all’orticoltura avanzata del bastone da trapianto di tipo amerindo-setita), va
inclusa la mitologia dell’onocefalo Rāvaṇa. Del resto anche Set ha un volto solare
(igneo-luminoso), se inteso alla stregua del Saturno latino, anziché lunare
(igneo-notturno). Non a caso, in Europa,
si dà all’ultimo dei pianeti visibili ancor oggi questo nome. Il color verde di Rāma indica la
signoria sulla vegetazione, ad un tempo solare e lunare; nel doppio senso,
rispettivamente essicatorio ed imbrifero.
186) Altri (E.Moor, The Hindu Pantheon- Asian Educ.Serv., N.Delhi 1981, I ed. Londra 1810,
Cap.XXVII [n.num.], p.429) traduce con ‘Triplice Treccia’. Per l’accezione
microcosmica e rituale del tema vide
n.194.
187) Ibid., tav.75,
fig.2.
188) Il termine
significa ‘ascolto’ e deriva dal vr. śru
(‘udire’). Si riferisce, letteralmente,
alle formulazioni mantriche dei Veda,
escogitate dai ṛṣi nei tempi che furono e trasmesse da una
generazione all’altra per via orale. La Pśṛ- del
vocabolo tuttavia si rifà visibilmente ad una voce, śr-ī, denotante ‘luce, splendore;
gloria, bellezza’ ed a sua volta connessa con un verbo omonimo, che significa
‘bruciare, diffonder luce’.
189) Veramente le
tavole presentate nel libro sono composte tutte di di- segni in bn, sicuramente
per motivi editoriali.
190) Ib.,
p.429.
191) La donna amata da Kṛṣṇa,
piú ancora della
moglie legittima Rukminī.
192) Vide
n.226.
193) Cfr. G.Acerbi, Le Tre Vie- Alle pendici del Monte Meru, blog (6-11-14), §b, p.4.
194) Gli aspetti
esoterici del tempio in rapporto alle 3 sacre Correnti (Nadī) sono analizzati in H. Von
Stietencron, Gaṅgā und Yamunā- O.Harrassowitz, Wiesbaden 1972, Cap.IX, pp. 138-9. Sul tema si analizzi G.Acerbi, Le Nadī negli studi
di Heinreich von Stietencron- Alle pendici del Monte Meru (blog, 26-01-17) sgg.
195) Su di esso
vedasi G.Acerbi, Alcune note sul Makara-
Alle pendici del Monte Meru (blog,
27-01-17) sgg.
196) C.Sivaramamurti,
Gaṅgā- Orient Longman, N.Delhi 1976, foto della
cop.ant.; ma non si comprende bene purtroppo, dalla citaz. della cop.retr., se
il disegno dellla pittura ad acquerello della Sangam Press con a sfondo gll Himālaya sia solamente una fantasia artistica
contemporanea utilizzata per la stampa del libro od una vera icona ideata su
base tradizionale.
197) Su Kūrma come emblema
solare di Yamunā cfr.
V.Stiet., Cap.VII, p.137. Se Gaṅgā è un fiume
dal carattere lunare, Yamunā ha un
carattere solare. Infatti quest’ultima
(personificata) identificasi a Yamī, la
sposa-sorella di Yama (alter-ego di Manu), ed in quanto tale è figlia del
Sole (Vivasvat). Il
rapporto incestuoso fra Yama e
Yamī/Yamunā è analogo a quello fra Manu e Parśu (Adamo ed
Eva).
198) Su Sarasvatī con Haṁsa (‘Oca Selvatica’), Śuka
(‘Pappagallo’) o Mayūra (‘Pavone’) in alternativa al Padma (‘Loto’) cfr. Lieb., op.cit.,
s.v.SARASVATĪ, pp. 260/ col.b
e 261/ col.a. Da notare che, talora, persino Varuṇa compare su Haṁsa.
199) Sivar., op.cit., Cap.1, pp. 2 e 4, figg.
1-2. Il testo riporta in proposito due
altorilievi del Sacro Vaso, uno di stile Hoysala
e l’altro di stile Calukya Occ.,
entrambi dal Mysore e del XII sec.
200) Nella
tradizione azteca si parla dell’Atl-tlachinolli
(‘Acqua-che brucia’) come del risultato finale della ‘guerra fiorente’,
condotta dentro di sé ed avente per trofeo la propria anima. Cfr. L.Sejourné, Quetzalcoatl, il Serpente Piumato- Il Saggiatore, Milano 1959
(ed.or. Burning Water- Thames &
Hudson, Londra 1956), P.III, Cap.5 sgg.
201) Il Cuore del
Mondo, chiaramente, è tutt’uno col Paradiso Celeste. Ciò può esser inteso anche in senso
ascendente, non solo discendente. In tal
modo, allora, il Vaso di Grazia o d’Abbondanza diviene un Athanor capace di favorire la ‘Grande Opera’.
202) Non a caso il
Paradiso Terrestre, in un manoscritto italiano del XV sec., è effigiato come un
vaso. Vide E.Neumann, The Great Mother. An
Analysis of the Archetype- Princeton Un.P., Princeton 1972 (I ed. Bollingen F., N.York 1955), tav.169. Vaso trasformativo, di cui il Neumamm
sottolinea la natura di contenitore degli opposti, che ovviamente riprende il simbolismo della
fonte battesimale, cancellatrice in senso virtuale del Peccato Originale. Cfr. pure, ibid., la tav.168. In questa
miniatura, realizzata fra il XIV e il XV sec., s’intravedono l’Uomo e la Donna
archetipici psichicamente rinnovabili all’interno dell’acquasantiera a causa
dello Spirito Santo.
203) Il soggetto
sarà trattato ampiamente al Cap.III, §§ c-e.
204) V.Stiet., op.cit., Cap.VI sgg.
205) La fonte piú importante del mito di Trivikrama trovasi, come logico, nel Vāmana Purāṇa ; particolarmente nel Sāromahātmya- i.10, contenuto fra i Capp. 23-4, ma
il mito è ripreso poi nel finale (62-8).
In questo testo vi è chiara la connessione del Nano collo Yajña allestito da Bali, re dei daitya
(demoni).
206) Vāma-deva viene lett.
interpretato come il ‘dio di sinistra’, con riferimento ad una delle 5 Facce di
Sadāśiva alias Pañcānana, sottintendenti i 5 Elementi; ma, inteso
separatamente, è uno dei 5 Rudra e
come tale desctitto dallo Śilpa Prakāśa in codesta
maniera: una figura danzante dalla capigliatura rossiccia ed arruffata, adorna
di serpi ed indossante la ghirlanda di teschi, con in mano la spada e l’ascia,
gli occhi rossi ed i denti felini, nudo e col fallo eretto. Una scultura gupta del V sec., rintracciabile
in un tempio shivaita di Nāchna K. (India C.), aggiunge tuttavia un particolare non
riportato dal testo, vale a dire lo dipinge come un nano. Esattamente al modo di Vāmana, particolari
shivaici a parte. Vide C.Sivaramamurti, Natarāja in Art, Thought and
Literature- National M., N.Delhi
1974, Cap.VIII,p.114, fig.12. È evidente che è Vāmadeva e non Vāmana, la cui storia è stata abbellita di significati
vishnuiti sicuramente estranei al contesto originario, a rappresentare lo
spirito dello Yajña proprio del Treta.
Qualcosa di simile deve esser accaduto a Bhairava nei confronti di Varāhāvatāra, per non parlare di altre consimili personaggi (Narasiṁha, Paraśurāma, Rāmacandra).
207) Altre fonti
sono elencate in V.Stiet., op.cit.,
p.61, nn. 139-40.
208) In
bibliografia Sivaramamurti non menziona invero né tradizioni orali né fonti
testuali, a parte il Viṣṇudharmottara.
209) L’autore
tedesco ci rammenta che la ‘liberazione delle acque’ nel Veda era Indra a
provocarla. Questo è un tipico problema
generato dalla confusione filologico-storicistica fra il tempo di datazione
delle sacre scritture ed il tempo reale del mito. Non è perché un testo appare piú datato che necessariamente si debba attribuire
maggior antichità ai motivi simbolici presi in considerazione da esso. Quel che conta sempre è il riferimento
ciclico, concetto purtroppo quasi del tutto estraneo alla filologia classica,
con rare eccezioni.
210) Mentre
Sivaramamurti designa con detto nome il Cielo, per le ragioni sopra indicate,
Von Stietencron lo associa limitatamente alla Fontana Celeste sgorgata dal
‘Terzo Passo’.
211) Per una
raffigurazione del tema nel X sec., in Nepāl, vide
Sivar., Ga., p.12, fig.3.
212) Il nostro
punto di vista sull’argomento è espresso in Ac., Le sac., passim.
213) A tal
proposito, segnaliamo il fatto che in Grecia si celebrasse la commemorazione
dell’anniversario della morte in feste denominate τἀ γενέσια.
214) Sull’alternarsi
vitale di Soma ed Agni nella vita universale cfr.
G.Acerbi, Apam Napat. Il valore delle
Acque nella letteratura vedica e nella cultura hindu- Alle pendici del
Monte Meru, blog (19-06-14), passim.
Cfr., inoltre, n.200.
215) La
ripartizione degli Antenati nei vari settori cosmici non dipende da una
convenzione culturale d’origine storica, bensí dallo stato spirituale da loro raggiunto in vita
od acquisito passivamente per appartenenza ad una determinata epoca
ciclica. In India come altrove. Esiodo (Op.-
106-201) spiega bene la questione, attestando che gli esseri aurei una volta
morti hanno raggiunto lo stato di δαίμονες
ἐπιχθόνιοι (‘demoni sovraterreni’), mentre gli esseri argentei sono diventati δαίμονες ὑποχθόνιοι (‘demoni infraterreni’), ma pur
sempre beati; invece gli esseri bronzei, essendosi dedicati alle “violenze di
Ares”, sono scesi all’Ade senza onore.
Gli eroi, loro discendenti, avendo parzialmente cambiato rotta sono
finiti alle “Isole dei Beati; presso l’Oceano dai gorghi profondi”,
identificabili alle Tre Atlantidi.
Infine postula in base ad una terribile premonizione che gli esseri
ferrei, conduttori di una vita sacrilega e divorati da gelosie reciproche,
avrebbero avuto nel post-mortem il destino meritato nella loro vita di uomini
caduchi. Per costoro non ci sarebbe
stata difesa contro il male.
216) Si tenga presente
che tanto in India come in Grecia il piano terreno di riferimento è quello
ideale, paradisiaco; onde tutto ciò che si situa su un piano inferiore, per
motivi ciclici e non, appare logicamente infraterreno.
217) Secondo la Ke.U.- xxv un allonimo della figlia di
Re Himavat (= Pārvata), personificazione degli Himālaya.
218) Sivar., op.cit., p.20, fig.7.
219) Ibid.,
p.18, fig.6.
220) Ib.,
p.60, fig.28.
221) P.80,
fig.39.
222) Ecco, a
seguire, i principali: Gaṅgā in qualità di
corrente celeste (suranimnagā) sotto il Kalpavṛkṣa (p.62, fig.29); Gaṅgā quale ombrello protettivo su Śiva-Mahādeva (p.32, fig.11); Gaṅgā in visarjanamūrti, ove Śiva la libera su preghiera dell’asceta Bhagīratha dopo averla tenuta prigioniera nelle sue chiome (p.64, fig.30); Jhānavī Gaṅgā ricevuta nel
Vaso di Jahnu, padre della devī, e
metaforicamente liberata dall’orecchio del saggio per fluire dagli Himālaya (p.66,
fig.34); Gaṅgā e gli 8 Vasu
(p.70, fig.32); Bānagaṅgā, il getto
d’acqua fluito dalla freccia scoccata da Arjuna
nel terreno onde saziare la sete di Bhīṣma, imitato nel rituale funebre ancor oggi col gesto
di portar acqua alla bocca del morto per purificarlo (p.44, fig.16); Gaṅgā con getti
d’acqua emessi dai suoi seni, traformati in 2 pūrṇakumbha e fungenti da doppia fontana (p.94, fig.42); Gaṅgā e Yamunā in aspetto
di dvārapālikā (p.56,
fig.24); Gaṅgā come
portatrice d’acqua e di cibo (p.50, figg. 20-1) ovvero come nadīmatṛkā (p.48,
fig.19); Gaṅgā in forma
compassionevole di purificatrice del pensiero (p.42, fig.15).
223) Cfr. Bhatt., op.cit., C.IV, p.99.
224) D.Bh.P.-
ii. 1. 28-39 ss.
225) S.Vijnananana, The Śrīmad Devī Bhāgavatam- Munshiram
M., N.Delhi 1986.
226) Cfr. C.J. Fuller, The
Divine Couple’s Relationship in a South Indian Temple: Mīnākṣī and Sundareśvara at Madurai- H.R.J. (Vol.19, mag., N°4), Chicago 1980, p.335.
227) Cfr. D.R. Rajeshwari, Sakti Iconography- Intellectual Publ.House, N.Delhi 1989, p.n.n.,
fig.122.
228) Vedi B.Walker, Hindu
World. An Encyclopedic Survey of Hinduism- Munshiram M., N.Delhi 1983,
Vol.II, s.v. MINAKSHI, pp. 71-2.
229) Cfr. n.2.
230) Secondo il Mhbh., Ādip.- cv. 104 il
figlio di Parāśara era detto Kṛṣṇa poiché di color nero, ciò che lo identifica
totalmente col Kṛṣṇa della Bhagavad
Gītā. Insomma, il protagonista principale e
l’autore ideale dell’opera convergono a formare un’unica persona,
spiritualmente parlando. Questo
problema, in ogni caso, non deve esser confuso colla questione dei 2 Kṛṣṇa di cui ha discusso da tempo con poco costrutto la critica
accademica. Si esamini ad es. l’ingenua
tesi riguardo una pretesa convergenza tematica fra lo kṣatriya
(‘guerriero’) mahabharatiano ed il gopāla (‘bovaro’) dello Harivaṁśa in
M.Biardeau, op.cit., §3 sgg. (cfr. n.72). Trattasi invece di 2 distinte Discese: una,
quella del bovaro, svolge la propria azione salvifica alla fine dell’VIII Ciclo
Avatarico; e l’altra, dell’auriga, alla fine del IX. Quest’ultimo equivale insomma al dio pluviale
Jagannātha, lett. ‘Signore del Mondo’; mentre il precedente
costituisce un alter-ego di Balarāma, non per nulla conosciuto tradizionalmente quale
“fratello maggiore” di Kṛṣṇa”, per quanto l’iconografia tenda a rappresentarlo
quale gemello bianco del medesimo. Si
noti che accanto al secondo Kṛṣṇa, il quale ha lo stesso rapporto col primo che il
primo Rāma deteneva col secondo, è posto un secondo Balarāma; fungente in
tal modo da quarto Rāma, il terzo essendo il fratello di K.Gopāla. Se i 3 Kṛṣṇa – riducibili a 2 per identificazione di K.Dvaipāyana col protagonista mahabharatiano – sembrano la
funzione divinizzata di reali eroi umani, parimenti si può dire dei 3 Rāma in quanto titani – il terzo è un deva – numinosamente assunti.
Il quarto Rāma, invece, parrebbe soltanto una finzione
letteraria in riferimento agli Aśvin. Siccome l’epoca in cui viene collocato col
fratello piú celebre,
ovvero fra la fine del Dvāparayuga e l’inizio del Kali,
è quella processionalmente parlando fra la fine dell’Età dei Gemelli e l’inizio
di quella del Toro. Proprio questo
particolare comprova che l’epoca fra il 6.640 e il 4.480 a.C. deve aver visto
l’addomesticamento del cavallo già in atto.
Altrimenti che senso avrebbe avuto l’identificazione dell’auriga di
pelle scura e del fratello di pelle chiara cogli Aśvin (i cd. ‘cavalli dell’aurora, dal scr.aśva =
‘cavallo’), corrispettivi hindu dei Dioscuri, a loro volta egualmente associati
nella mitologia greca agli equini? Non a
caso anche fra i gemelli spartani uno era immortale (Polluce, al pari di Kṛṣṇa), l’altro mortale (Castore, come Balarāma). Proprio
quest’ultimo figurava da domatore di cavalli.
231) Fra le mitiche imprese di Hanumat – il figlio simultaneo di Vāyu e Śiva, nonché fedele servo di Rāmacandra – si
annovera quella d’aver salvato da un incantesimo una figura femminile
trasformata in pesce; forse un’apsaras,
la quale parrebbe a tutta prima allonima dell’Adrikā mahabharatiana. La metamorfosi era avvenuta in conseguenza
d’una maledizione lanciata da parte d’un muni
nei confronti di tale femmina – non è precisato il misafatto questa volta, ma
si può immaginarlo connesso all’avvenenza della fanciulla – e avrebbe dovuto aver effetto sino alla venuta
di Rāma, al cui luogotenente sarebbe toccato in sorte di
restituire l’aspetto umano alla sventurata.
Cosí realmente
accadde dopo che Hanumat posò
accidentalmente il suo piede sul pesce, rimuovendo colla potenza del suo passo
il maleficio. Una volta liberata
dall’incantesimo, quell’essere femminile volle essere riconoscente verso il suo
liberatore e lo informò che un Incantatore (di certo il Māyin in funzione
demonica) intendeva ostacolare il cammino e l’ascesa del VII Avatāra. Hanumat finí dunque per
schiacciare sotto il proprio peso anche il negromante, annientandolo. La vicenda e le immagini – sempre
antropomorfiche – dei personaggi della storia ivi narrata ovvero di Hanumat, Matsyaderi e l’Incantatore sono rispettivamente riportate in Mo., op.cit., C.XII n.num., pp. 324-5 e tavv.
XCI. 1, XCII. 5, XCIII supra.
232) F. Le Roux, La religione dei Celti-, Cap.2, p.98; apud H.Ch. Puech (a c. di), Slavi,
Balti, Germani e Celti- Laterza, Bari 1977 (Vol.5 della Storia delle Religioni; ed.or. Histoires des Religions- Gallimard,
Parigi 1970).
233) L.R., op.cit.,
Cap.4, §a, pp. 134-7.
234) Possono anche esser ridotte a 4 secondo
lo schema quaternario di progressiva diminuzione degli anni, anziché quello
quinario d’omologa durata dei periodi; basta omettere l’Età dei Fir Bolg, variando logicamente la durata
delle altre età, ma comprendendo pur tuttavia nel computo generale l’intero
periodo del ‘Grande Eone’.
235) Ac., Le mag., p.265, n.72.
236) Certo non è un caso che che la
religione brahmanica fosse ritenuta dai viaggiatori arabi una figliazione
diretta della religione adamica. Persino
il Le Roux scrive alla fine del suo sintetico trattato (op.cit., Cap.4, p.152): “Gli unici sacerdoti ai quali si possono
legittimamente paragonare i druidi celtici sono i brahmani dell’India i quali,
dopo Alessandro, non si son più preoccupati
troppo degli invasori.”
237) Cfr. n.147.
238) Ogyr
Vran è l’ambiguo padre di Gwenhwyvar
(l’arturiana Ginevra, ingl.m. Jennifer),
che a giudizio di esperti quali il De Vries (op.cit., Cap. ter., §3.d,
pp. 163-4) incarna la sovranità; a sua volta un aspetto giovanile della Madre
Terra, di norma raffigurata come una vecchia deforme al modo della Kālī hindu. Come tale Ogyr
Vran si oppone, simbolicamente, a Bendegeit
Bran (‘Bran il Benedetto’). La figlia
è una delle 9 Streghe di Caer Lloyw [Gloucester], le quali al dire del Peredur (Mabin.- x) hanno storpiato l’avo del protagonista omonimo,
prefigurazione precristiana di Parsifal.
Costui in codesta narrazione in seguito a varie avventure che l’hanno condotto
dalla selvaggia foresta ove l’ha allevato la madre dapprima alla corte di Re
(ivi ‘Imperatore’) Artú e poi al castello d’un gentiluomo dai capelli
grigi, in cui è stato addestrato alla cavalleria combattendo contro i ‘giganti’
delle nere case in Val Rotonda, giunge alla dimora dello zio materno; un ricco
cavaliere zoppo, presso il castello del quale si svolge all’improvviso la
sfilata d’una strana cerimonia pagana.
Durante un banchetto, infatti, Peredur
scorge due giovani entrare nella sala da pranzo tenendo una lancia con 3 rivoli
di sangue sgorganti dalla punta; dietro di loro si fanno strada, in un magico
corteo, due fanciulle con in mano un vassoio su cui è posata una testa mozzata
ed insanguinata. Gli verrà spiegato, piú avanti, che
è la testa d’un cugino, decapitato dalle 9 Streghe; le stesse che hanno ferito
l’avo con una lancia. Per una
comprensione del tema cfr. G.Agrati & M.L. Magini (a c. di), I racconti gallesi del Mabinogion-
A.Mondadori, Milano 1982, pp. 213-4.
Pigliando spunto dagl’insegnamenti offerti da parte delle due
specialiste, proviamo a fornire una nostra interpretazione dell’episodio, che
vada oltre la saga celtica medesima.
Innanzitutto, si può ipotizzare che le 9 Streghe altro non siano che le
mitiche 9 Madri di cui favoleggia anche la tradizione norrenica facendone le
simultanee genitrici di Heimdallr,
corrispettivo germanico di Agni. In questo caso le Madri possono variare da 2
a 7 oppure a 10. Cfr. B.Branston, Gli Dei del Nord- Il Saggiatore, Milano
1962 (ed.or. Gods of the North,
1955), Cap.III, §VI, pp. 150-4. Potremmo
intenderle, cosmograficamente, come una personificazione fra l’altro delle 9
Terre dei 9 cicli precedenti al nostro nell’ambito del Grande Eone; la Regina Gwenh(w)yvar in particolare fungerebbe
chiaramente da immagine della Terrasanta paradisiaca, sposa del Re Sacro. La <Lancia-grondante-sangue> dell’avo e
la <Testa Mozza> del cugino nel Sacro Vassoio che sfilano nel
raccapricciante eppur solenne corteo sono invece rispettivamente delle immagini
di Manawyddan e del fratello Bran, aventi funzioni parallele a quelle
di Manu (Adamo) e Brahmā (Yahweh)
in India. Che Peredur in quanto iniziato archetipico venisse reputato un
discendente simbolico del Primo Uomo ed una figliazione – la parentela essendo
una metonimia – altrettanto simbolica della Divinità non stupisce, visto che il
prototipo di Peredur è Pryderi; il quale nel 3° ramo del Mabinogion è figlio putativo di Manawyddan, nonché nipote di Bran.
Infine, che i Celti avessero un analogo computo del tempo di quello
induista lo avevamo già provato altrove (Ac., Le m., p.265, n.72). In
tempi medievali gli antichi dèi e gli ancor piú vetusti titani sono stati in un primo tempo
trasformati in eroi e maghi, per poi alfine divenire dopo il trionfo definitivo
del cristianesimo ascetici cavalieri o semplici monaci in cerca di Nostro
Signore (A. di Nola, s.v. CELTI,
Religione dei, §6, p.1.707; apud AA.VV.,
Enciclopedia delle Religioni, Vallecchi, Firenze 1970, Vol.1).
239) Sulla tetracefalia di Brahmā ed i suoi significati in relazione ai vari
aspetti del Quaternario vedi A. Grossato, Significato
della quadricefalia di Brahmâ ed altri aspetti del suo simbolismo nel mito e
nell’arte hindu- Atti e mem. del’Acc.Patav. di Sc., Lett. ed Arti
– Vol.XC, (1977-8), P.III, Padova 1978, pp. 107-16. Nel suo giovanile ma brillante articolo il
prof. Grossato fissava i punti essenziali di comparazione fra le 4 Teste o
Bocche di Brahma, Giano e Fanete, passando per un verso dal Bhāgavata
Purāṇa al Mānavadharma Śāstra od al Rūpamandana; e, per un
altro, da Sant’Agostino ad Aristofane o agli Orfici.
240) Cfr. n.159.
241) Aggiungeremo solamente che questo stato di
fatto ci suggerisce un’idea: siamo sicuri che la dottrina brahmanica sia
d’origine post-dravidica, dato che è assai prossima alla sapienza druidica? Non è unicamente un gioco d’assonanze, visti
i presupposti della scuola indo-mediterraneista. Cfr. Ac., Il
Re P. sovr., p.15, n.25.
242) Vide
n.199.
243) Cfr. sul tema G.Acerbi, Il Druidismo e il ‘Calice Ripieno’:
annotazioni ulteriori sulla mitologia di Bran-Brahma e Varuna-Urano- Alle
pendici del Monte Meru, blog
(28-01-15), passim. Una variante dei due recipienti magici
appartenenti a Bran è altresí, nella
visione di Pryderi (Mabin.-iii), la Coppa d’Oro attaccata a
delle catene che insieme ad una Fontana sale meravigliosamente al Cielo.
244) Vide
n.127.
245) Stut., op.cit., s.v. KĀMA, p.204/ coll. a-b.
246) Vedi miniatura del Rāmāyana (XIX sec.) illustrante
l’arrivo di Kāmadeva a dorso di
Matsya dinanzi a Śiva, in postura ascetica, colla Śakti
in posizione di danza.
Appartiene alla Scuola di Benares ed è catalogato nella fototeca dell’Am.Inst. of Ind.St. di Benares.
247) Cfr. miniatura di Kāma a dorso di Matsya sulla cima del Monte Himavat, astrazione degli Himālaya e doppione
del Meru, nel Rāmacaritmānasa di Tulasīdāsa (Balak., F.57); ove si raffigura la deità
che, per ordine di Indra, distoglie
il saggio Nāraḍa dalle
austerità (Rāmnagar, XIX sec.).
Anche questa all’A.I.I.S. di Benares.
248) Su Nodens-Nuadu
quale pescatore del Grosso Salmone vedi De Vr., op.cit., Cap.sec., §2.c,
p.132; sul Serpente Criocefalo ed il Pesce d’Oro Criocefalo ibid., Cap.ses., §4, pp. 208-11.
Circa l’associazione di Dagda col Salmone cfr. on line l’art. di D.Schneider, Dagda, the Celtic Father God. Tale associazione appare diretta secondo una
poesia intitolata God e tratta dal
‘Libro Nero di Carmarthen’, ove il dio (si suppone Dagda) s’identifica a tale pesce; oppure mediata tramite la paredra
Boan, in quanto costei avrebbe creato
il sacro pozzo d’Irlanda donde sgorga il fiume Boyne, fonte dei principali
sette fiumi di questa terra. Il pozzo è
ombreggiato dai 9 Noccioli della Saggezza, i frutti dei quali cadendo in acqua
nutrono il Salmone che vi nuota dentro.
Per l’acquisto della Saggezza da parte di Finn (cimr. Gwin) o del
suo doppione Fionn (Gwyon), tramite il Salmone che ha
mangiato le 9 Nocciole della Conoscenza, vedi ib., P.ter., Cap.sett., p.289.
Il bardo Finn – o il discepolo
Fionn – è figlio di Mananann e padre di Oisin.
Narra la leggenda che abbia acquisito la Conoscenza dopo aver messo
in bocca un dito, essendosi scottato mentre cucinava il suddetto Salmone. Nella versione dell’alter-ego il fatto è
compiuto per sbaglio da quest’ultimo, ed è quindi Fionn ad acquisire la Gnosi in luogo del maestro, che gli aveva
affidato il pesce da cucinare. A
dimostrazione che in campo spirituale non basta sapere teoricamente quel che si
deve fare, bisogna metterlo in pratica, ciò valendo pure per le tecniche di
meditazione apprese dai maestri. Che
cosa siano questi benedetti 9 Noccioli non è dato di sapere, ma personalmente
supponiamo che abbiano a che fare coi 9 Cieli (7 Planetari +2 Nodali), a loro a volta rimando a
determinate concezioni cosmologiche e metafisiche d’una data epoca. Visto che Dagda,
o meglio l’equivalente dio gallico colla ruota (P.sec., Cap.pri., §1.c-d sgg), è èffigiato nel Caldaio di Ghnderstrup
(J.-J. Hatt, Celti e Gallo-romani-Nagel,
Roma-Ginevra, Parigi, Monaco di Baviera 1975, p.108, fig.48) accanto al dio del
cielo Taranis, che ha le braccia
levate in alto nella cd. ‘posizione di orante’.
La Ruota, in tal caso, ha 8 Raggi, ma è visibile solo per metà; dunque,
ne ha 16. Ciò connota chi la regge, di
necessità, come il signore zodiacale d’un vecchio zodiaco novenario; siccome la
Ruota è quella solare, del dio-anno. Dagda ovvero il dio colla ruota è del
resto paragonabile per certi aspetti a causa della sua Clava (il Fulmine) a
Giove (De Vr., ibid., §1.a, p.54), ma non al signore latino dei
12 dèi zodiacali, probabilmente analogo al Dis
Pater dei Galli menzionato da Cesare; semmai allo Iuppiter Pluvius, corrispettivo latino dell’Indra hindu, il devarāja dotato di Vajra
(ib., §d, p.62). Non per niente Dagda era denominato Ollathir (‘Padre-universale’). Il fatto che si possano trovare delle
convergenze sia fra Dagda e Taranis, altro sdoppiamento del Giove
celtico in qualità di signore del tuono, sia fra Dagda e Teutates (§2.b, p.73), ossia col Marte celtico, è
perfettamente comprensibile; dato che lo Zodiaco Solare comincia a 0°
dell’Ariete (dominato da Marte-Teutates)
e termina a 30° dei Pesci (dominati da Giove-Dagda), gradi per la verità sovrapponibili, poiché non hanno
estensione e corrispondono dunque ad un punto coincidente. Sebbene nel vecchio Zodiaco a 8 Segni, da cui
mancavano i 4 ancor oggi denotati da immagini non teriomorfiche (Gemelli,
Bilancia, Sagittario, Aquario), avessero un’estensione diversa rispetto a
quella dello Zodiaco duodenario. Ossia
di 45°, anziché di 30°; il che spiega il meccanismo delle esaltazioni e delle
cadute planetarie, oggi non piú comprensibile in apparenza. Persino il Serpente con capo arietino e
l’analogo Pesce Dorato succitati si spiegano alla stessa maniera, visto che la
Serpe è solitamente un emblema di Marte e il Pesce (o i Pesci) di Giove. Da notare che
nelle piastra argentea ornata a sbalzo del caldaio indicato, al di sotto
dei due numi, campeggia il Serpente Criocefalo.
In alto, a suggerire l’idea del solstizio estivo, trionfano ai lati dei
numi 2 Pantere; in basso ai lati del rettile stanno 3 Grifoni, a suggerire il
solstizio invernale. Il dio colla ruota
porta inoltre corna arietine, come lo Iuppiter-Ammone egizio. Anche nella piastra adiacente successiva
(Ha., op.cit., p.109, fig.49) compare
un abbinamento di simile significato, poiché sul lato destro superiore di
Cernunno-Esus accompagnato dal Cervo e col Serpente in mano, vediamo l’Ariete
preceduto da una figura indecifrata a cavallo del sacro Luccio. La ricostruzione del quadro mitologico descritto
nelle varie piastre della coppa che ci è offerta da Hatt (ibid., pp. 216-7) appare accettabile in linea generale, considerato
che il caldaio ritovato in una torbiera danese nel 1880 ed appartenente al I
sec. a.C. (Per. di La Tène III) risulta in stretta correlazione
coll’iconografia gallo-romana, favorita dai druidi collaborazionisti e
programmata mediante lo stanziamento di truppe romane in Gallia; ma la
spiegazione offerta per i due riquadri esaminati, sopratttutto per il secondo,
ci sembra ancora incompleta. Non si capisce ad es. che ruolo abbia la
figura che cavalca il pesce, la quale per il nostro studio è invece di
fondamentale importanza; benché minuscola nelle proporzioni, ma pure quella
precedente colla ruota è tale, costituisce un altro riferimento a Dagda?
249) De Vr., op.cit., §1.d, pp. 62-3.
250) Su tal punto cfr. C.G. Jung &
K.Kerényi, Prolegomeni allo studio
scientifico della mitologia- Einaudi, Torino 1948 (ed.or. Einführung in das Wesen der Mythologie), P.I
(n.n.), Cap.V, p.72. Analizzando due
mitologhemi, la storia indiana di Mārkandeya contenuta nel Mhbh.,
Vanap.- clxxxii (clxxxiii K.) e quella finnica di Väinämöinen
rintracciabile nel Kalevala- ii
(illustranti parallelamente ”l’incontro col fanciullo gigante dimorante
nell’acqua primordiale”, pur essendo state trascritte in epoche diverse), Kerényi si chiede che domanda convenga porsi
di fronte ad essi e risponde che è giusto cercare non ”quale dei due mitologhemi
sia la variazione dell’altro”, bensí “a cosa corrisponda il motivo originario che si
ritrova, variato, in entrambi”.
251) Grav., op.cit, §56.a-b, pp.
170-1. Il nume, Argo Panopte (dai molti
occhi), viene ucciso da Hermes, che ne piglia il posto come tetracefalo e
signore delle vie, non meno di Giano. La
storia in cui è inserito il mitologhema racconta di Io, nipote di Giapeto e
sacerdotessa di Era <dagli occhi bovini> trasformata in Bianca Vacca
Lunare – vale a dire in un proprio doppione – da parte della consorte di Zeus
per gelosia, siccome la figlia di Pan aveva preparato un incantesimo onde far
innamorare di lei il re degli dèi. A
guardia di Io era stato posto un mostro dai mille occhi, che Hermes su volere
del paredro di Era, per l’occasione in veste di Ζεύς
Πίκος fu costretto
ad annientare al fine di liberarla. La
storia della Vacca Vagante, la quale trova secondo Graves un parallelo nella Green Stripper irlandese (ibid., p.172, n.2), viene messa
giustamente in rapporto alla Luna; Era a nostro parere impersona invece la
Settima Pleiade, il cd. ‘Occhio del Toro’.
Se Io è davvero la Bianca Luna Piena, che vaga per il cielo seguita da
tutte le altre stelle del suo séguito zodiacale (gli occhi di Argo); ecco
dunque che Argo non può non avere un significato eminentemente uranico, confermato
dal color bianco, color del cielo anziché l’azzurro nelle zone nordiche del
pianeta. Di certo la versione del mito
giunta fino a noi, legata allo Zodiaco Lunare (giacché la Luna aveva un tempo
come stazione fondamentale nel suo passaggio l’asterismo di Rohiṇī, cioè Aldebaràn), non può essere la versione
originaria. Poiché Argo è un nume
dall’apparenza assai vetusta, aurea diremmo; Hermes ne piglia il posto,
diventandone un doppione, come accade in India da parte di Śiva nei
confronti di Brahmā.
252) S.Kramrisch, The
Presence of Śiva- P.U.P., Princeton [N.J.] 1981, Cap.IX, §§ 1-3, pp. 250-78.
Le varie versioni puraniche del mito che testimoniano la formazione
delle 5 Teste di Brahmā al posto
dell’unica primeva provano che le 5 Teste di Śiva sono
modellate su di esse, poiché Śiva è figlio di Brahmā ; l’atto in India da parte di Kālabhairava in un modo o
nell’altro di recidergli la ‘Quinta testa’ è quindi un parricidio, non meno di
quello di Crono nei confronti di Urano in Grecia. La Kramrisch prova inoltre, tramite un passo
upanishadico, che lo stesso Soma
ossia Prajāpati è pañcamukha; per cui
il gesto compiuto da Kālabhairava ai danni del Pitāmaha
(‘Progenitore’) può esser omologato all’analoga decapitazione, che in una
variante diviene un’evirazione, attuata da parte di Rudra-Śiva su Prajāpati. La Testa
spiccata dal busto di Brahmā è alfine
trasformata in un Teschio (Kapāla), appartenente a Śiva nella sua
veste di nudo e vagante mendicante (Bikṣātanamūrti) talora
ornato di teschi (Kapālin), che funge da vaso per bere o da ciotola per le
elemosine e viene adorato da determinate scuole shivaite quali appunto i Kāpālika. Cfr. col
Teschio di Adamo, iconograficamente posto ai piedi della Croce, su cui cadono
dall’alto dell’asse verticale le gocce di sangue della ferita che il Pellicano
s’è autoprocurato. Anche il simbolismo
di Bran ha a che fare colla <Testa
Tagliata>, oltreché colla Sacra Coppa.
Ad onor del vero a codesta serie di teste mozze andrebbe aggiunta quella
di Mahākāla. In alternativa la ‘Quinta Testa’ di Kāla,
o del corrispettivo buddhista Kālacakra (tetracefalo), è rappresentata dall’Akāla
upanishadico. Mahākāla e Mahākālī, sempre uniti in amplesso rimandano, viceversa, all’Eternità siccome Grande Unità della Non
Manifestazione e del Principio della Manifestazione. L’icona solitaria di Mahākāla col Bastone in mano, che si trova spesso davanti
ai templi nepalesi, potrebbe a sua volta esser interpretata in un modo o
nell’altro; vale a dire quale immagine della suddetta Grande Unità oppure
semplicemente del Principio Divino, in questo caso equivalendo alla <Testa
Mozza> del medesimo nume, che difatti porta frontalmente 5 piccoli
teschi. Un’eco di tal tipo di concezioni
iconologiche si trova persino nel cristianesimo, se è vero che certe edicole
esibiscono in bella mostra 5 teschi, allo scopo di preservare come sacro il
timor della morte e della consunzione della carne. Una di queste ha presieduto casualmente alla
nostra prima iniziazione, mentre eravamo a Milano di primo pomeriggio in attesa
del nostro iniziatore, convincendoci che il nostro scetticismo preventivo era
fuoriluogo ed anche il Cielo risultava predisposto a quel fatidico evento.
253) Til., op.cit., Cap.VI, pp. 145-6 (p.162 della n.trad.).
254) Apollo nella sua normale veste titanica
non è un doppione di Urano, ma semmai di Crono; in quella di Apollo D.
tuttavia, in quanto signore della luce, rispecchia il nume delle origini. L’argomento, essendo peraltro complesso,
verrà trattato separatamente al Cap.VI, §b.
255) G.Acerbi, Sulla questione dell’Unicità Divina- Herakles, N°1 (serie monogr.
di maxi-articoli on line, PDF, mag.
2015), §4, pp. 14-5 (n.29 accl.).
256) Tīm.- xiii/e.
257) Su Anadiomene vide Cap.II, §m.
258) In realtà il lat. Iān-us corrisponde
sul piano etimologico al norr. Ymi-r,
nonché all’a.ir. Yim-a e all’a.ind. Yam-a; cfr. in proposito A. Pegaso, L’etimo di Yahweh- Sulle lievi ali di Pegaso
(blog, 27-01-17), in prep. La stessa base è reperibile non soltanto
nelle lingue iaphetiche, ma anche in quelle camitiche, come dimostra il pal. Yam; di cui l’ebr. Yahweh (scritto all’italiana
Jahveh) secondo la glottologia non è che una variante, tenendo conto della
trasformazione reciproca in sede preistorica della nasale m nella semivocale w, la
quale sul piano grafico era scritta a mo’ di m rovesciata.
259) Esempi di tale interessante iconografia
si trovano in Co., op.cit., Vol.II,
§3. v sgg. L’autore si premura di dimostrare che,
diversamente dall’iconografia classica, sono esistite forme di doppia
rappresentazione di Zeus che l’hanno apparentato in modo esplicito a
Giano. Riguardo l’etimo fa infatti
derivare il nome dell’uno da quello dell’altro e ciò apre una speculazione
parallela, possibile, anche in altri ambiti indoeuropei. La linea etimologica seguita è la seguente,
pur avendo invertito da parte nostra il primo termine col secondo: Ian/Iān-us > D(i)-v-ian-us
> Zan (versione cretese dello Zeus
ellenico) > Zeús. Questa
derivazione (anche se mescola la filologia classica, ovvero il greco e il
latino) è comprovata, aggiungiamo noi,
dal passaggio in sanscrito da Yam-a
a Dyau-s, entrambi a loro volta Pitaḥ non meno dei due numi classici. Del resto il gr. Ζεύς Πατἠρ equivale
strettamente al lat.(D)īus Pater (il ‘Divino Padre’), e non – come certi latinisti vorrebbero – Dies-pater, donde davvero deriva la voce Iuppiter/Iūpiter. Partendo dalla dicefalia, il Cook mostra che
l’iconografia di Giano e quella di Zeus risultano conformi anche per altri versi,
segno d’una parziale identificazione: il Bastone-scettro, alludente all’Axis Mundi e nel contempo all’Unità
Divina, ad esempio. Vedi pp. 371,
fig.276; 373, fig.280; 375, fig.281.
Nella prima delle 3 raffigurazioni osserviamo l’imperatore romano, in
veste gianiforme, posare la mano su un arco trionfale (antico emblema di Giano)
da cui sprigionano le 4 Stagioni; sull’altro lato è ritratto un efebico puer, presumibilmente l’Anno Nuovo. D’altronde Giano è talora imitato da Zeus, il
quale impugna a volte il Bastone accanto al Fulmine, con alternanza delle mani
reggenti le due armi simboliche. Cfr. pp. 327, fig.215 e 366, fig.264. Nel secondo caso al fallo di Zeus, sostituito
iconograficamente da un anello, è legato il Cane quale guardiano evidentemente
del desiderio di vita. Segnaliamo infine
che pure Argo, l’omologo greco di Giano, è delineato dicefalo e con in mano la
Verga (ibid., p.380, fig.287).
260) Donde ne discende l’idea di Giano quale
Signore dell’Universo e del Grande Eone (cui è talora identificato, non meno
del Cristo-Yahweh o del Manu indiano), ovvero dello Spazio e del Tempo; dalla
qual cosa ne deriva il suo presiedere tanto all’Inizio quanto alla Fine ed al
loro Mezzo. Il che lo rende da un lato
il Dio dell’Anno, delle Stagioni o dei Solstizi; e, dall’altro, il Signore del
Caos o del Vuoto cosmico. La
quadrifrontalità – suggerisce giustamente il Cook – è di per sé un attributo
tardo, fondato sul raddoppiamento iconologico della bifrontalità; ciò non
esclude comunque, facciamo notare da parte nostra, un riferimento simbolico
all’interezza spirituale e cosmologica dell’Età Aurea.
261) Questa simbologia occulta già nota
nell’Antichità è confermata dal nome del capolouogo della regione, visto che la
voce Rōma anagrammata all’opposto dà Amor; con allusione ovviamente non all’amore in senso
bacchico-devozionale, ma in quanto Eros Protogonio ossia principio
d’immortalità. L’interpretazione
parrebbe in parte negata dalla vocale lunga del nome civico, ma la vocale breve
del nominativo dell’altro termine suona strana, visto che al genitivo il
suddetto s.m. dà a-m-ōr-is. Ciò però
si spiega coll’etimo, che i linguisti come al solito non sanno ben decifrare,
collegando il termine da un lato ad ‘amico’ e dall’altro ad ‘ameno’ od ‘amaro’. La vera
etimologia, crediamo, è invece quella che collega il nome a mor(-s) + a privativo e ne fa un sinonimo di im-mortālit-ās. Cfr. il
gr. ἀ-μ[β]ροσ-ί-α (da *
ἀ-μροτ-ί-α) ed il scr.a-mṛt-a, sostantivi
entrambi dotati di pref.priv. non
meno del corrispondente latino, da intendere nell’accezione di ‘ambrosia,
immortalità’. Tutto insomma nel contesto
romano delle origini, dal nome dell’Urbe al simbolismo pontificale proprio dei Flāmina (appellativo
derivato secondo Varrone dal lat. fīlum, ma convergente col scr. Brāhmaṇa), ha contribuito a far del luogo un’immagine
simbolica del supremo centro d’irradiamento della vita universale. Col Tevere al posto del Gange (Ac., Le sac., p.5). È in tal
senso, profondissimo, che Roma può esser davvero considerata Caput Mundi in senso simultaneamente
terreno e celeste. Secondo quanto indica
la Doppia Chiave del Pontificato, ciò su cui era d’accordo sostanzialmente
anche l’Alighieri. Sempre che l’imperium sia soggetto al sacerdozio e
non, come avviene oggi cogli eredi nebrodistici britannici del Sacro Romano
Impero, il contrario.
262) L’Arca
di Giano, riattualizzata dalla Cristianità (Guén., op.cit., §18, p.121), viene attribuita a Saturno da certa parte
della scuola evoliana (R. del Ponte Dei e
miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica- Ecig,
Genova 1985, Cap.III, p.107, n.7), rifacendosi a Macr., Sāt.- i. 7, 21-2; quest’ultima ha negato anche altri
aspetti riconosciuti invece da piú parti del simbolismo di Giano (ibid., Cap.II, pp.65-6, n.49), eppure
proprio l’eminente Professore ora menzionato si contraddice involontariamente
in relazione al primo quesito laddove menziona l’Arca di Numa, che com’egli
asserisce era tutt’altro che un falso.
Cfr. G.Acerbi, Plutone e Proserpina,
le due figure piú tenebrose della
mitologia greco-latina, con Appendice sui Misteri dei Cabiri- Alle pendici del Monte Meru (blog,
26-10-15), pp. 7-10, n.3. Sempre che
s’intenda la cosa non come effettiva barca diluviale conservata miracolosamente
nel tempo (a meno d’una reiterazione della costruzione d’una data imbarcazione
similare ogni determinato numero d’anni, alla maniera dei templi shintoisti),
ma quale simbolo del Primo Re sopravvissuto al Diluvio Primordiale. Essendo Numa nient’altro che il Manu romano,
ossia una variante di Giano, è da considerare tutt’altro che un semplice
archetipo divino italico (vide n.258). Difatti S. Consolato nel suo René Guénon e la tradizione romana
(AA.VV., René Guénon- Arthos,
A.XVI-XVII, Vol.VII, NN.31-2, pp. 42-4), proprio sulla scorta del Del Ponte (ibid., p.61, n.136), riconosce
un’affinità regal-sacerdotale fra Giano e Numa.
Vi sarebbe da chiedersi perché mai nell’iconografia dei popoli di lingua
indoeuropea compaia meno apertamente la Barca in rapporto alla serie
Janus-Yama-Ymir ed invece compaia visibilmente nella serie
Manu-Numa-Manannan. Ciò è collegato ad
un altro fatto, la posposizione del nome di Re Numa rispetto a Romolo nella
serie romana dei 7 Re. Ciononostante il
carattere lunisolare (gemellare) primevo della prima serie summenzionata è
indubbio, tanto è vero che abbiamo a che fare in tutti e tre i casi con delle
figure androginiche. Se Guénon
attribuisce a Giano un carattere esclusivamente lunare (di Lunus-Luna) è solo per il motivo che non fa distinzione in quel
caso fra il Giano aureo (Quadrifronte o Quadrigemino, in rapporto ai 4 Climi,
al pari di Brahmā in India), il Giano argenteo (signore del Triplice
Tempo, il Trikāla
sanscrito,
emblematizzato dal Tridente shivaita), il Giano Bifronte (signore
dell’artigianato, come il Ganeśa Bifronte hindu) ed il Giano ferreo (assimilabile
ad Orione, parte dell’asterismo cadendo nel Segno dei Gemelli, che nel Mithuna indiano divengono
maschio-femmina). La posposizione dei
nomi divini catterizzante le due serie menzionate di divinità, poiché anche i
termini della serie Janus ne sono andati soggetti, rimanda viceversa alla
trasposizione avvenuta dopo la discesa degli Eroi (Ārya) fra deità auree e deità bronzee; secondo quanto
testimonia anche il Mahābhārata, ove Indra
ha preso il posto di Varuṇa. Il che è
avvenuto, del pari, fra Greci e Romani; se si pensa al favore concesso da un
lato a Zeus Pater e dall’altro a Iuppiter, favore che qualcuno erroneamente
(vedi il Dumézil) ha scambiato per un’effettiva primordialità del culto,
confondendo in tal modo supremazia e primazia.
D’altra parte, per concludere la questione, la dimostrazione lampante
che Giano fosse realmente inteso quale signore dei porti, delle acque e delle
vie fluviali – come vorrebbero certuni – la rinveniamo direttamente nella
numismatica antica; visto che ritroviamo la Prora di galea sul retro di un asse
di bronzo (aes grave) d’età
repubblicana (240-225 a.C.), moneta con incisa sul davanti l’effigie del tipico
Doppio Volto del nume. Non vi è da
stupirsi, dato che il dio latino – diversamente da come prospettava Ovidio – ha
in Urano (connesso a oûr-on =
‘spazio; rugiada, orina’ e oúr-os
‘vento propizio alla navigazione’; scr.var-i
= ‘acqua) nonché soprattutto nella sua variante Ganimede un analogo greco. In altre parole, Urano sta a Varuna (nume
delle acque celesti, poi infere), come Yama (col Laccio) o Ganimede (col
Cerchio) stanno a Giano (paragonato al Chaos pre-cosmogonico da parte di
Ovidio); ma il fatto è che Yama e Varuna non sono in India che figurazioni
distinte di un’unica divinità aurea, riferentesi rispettivamente al I ed al II
Ciclo Avatarico. A nostro parere le due
serie divine menzionate (Manu-Numa-Manannan, cui potremmo addizionare Mannus e
Minos, e Janus-Yama-Ymir-Yima-Umik) sono a vicenda di derivazione
turano-abelita (asiatico-settentrionale) e ario-iaphetica
(nordico-atlantidea). Guénon (ibid., n.12) aggiunge inoltre in
riferimento alla Barca di Giano che poteva andare <avanti e indietro>,
nozione non facile da interpretare, la quale – avendo il Maestro di Blois trascurato di citarne la fonte – si può presumere sia
stata tratta dall’ambiente massonico transalpino o da quello tradizionalista
cristiano d’Oltralpe. Forse si riferiva
al doppio aspetto creativo-dissolutivo dell’Arca Solare.
263) J. & K., op.cit., Cap.VI, pp. 76-7.
Il Kerényi cita in proposito un testo cristiano menzionato da H.Usener,
il ‘Discorso religioso alla corte dei Sassanidi’, ove si fa riferimento ad una
dea madre gravida del fanciullo divino e l’embrione nell’utero è paragonato
tanto ad una nave quanto ad un pesce.
L’autore, considerando le due immagini mitiche equivalenti (ibid.,
pp. 82-3), afferma che esprimono la stessa cosa. Sul che siamo d’accordo, solo in parte
tuttavia.
264) Cfr. Cap.VII, §h.
265) L’identifcazione fra l’Arca di Giano e
quella ecclesiastica si trova in Guénon, come indicato alla 262. Siccome la Madonna è stata concepita talora
come emblema di tale arca, si può tracciare un’equazione anche colla Vēsīca
Piscis, che è per l’appunto un rimando a Maria. La Coppa Eucaristica, d’altronde, può fungere
a sua volta da doppione dell’Arca.
266) L’equivalenza fra il Corno (Dente ecc.)
del ‘Re dei Pesci’ e lo Scettro regale del ‘Primo Uomo-dio’ potrà sembrare un
po’ forzata, tanto piú che noi stessi riconosciamo appartenere le due
simbologie a rami etnoculturali distinti (vide
n.262) ancorché aventi un lontano punto comune nello Śākadvīpa, l’ecumene emersa nel Nordovest durante il II Ciclo
Avatarico. Si pensi tuttavia al fatto
che persino in ambiente tardo-medievale – alludiamo al tempo degli Hohenstaufen – venivano associati denti
di narvàlo al Trono Imperiale, al dire dei discendenti (gli Avril) posto in relazione all’Axis Mundi (Stauffen = ‘Staffa’, in riferimento alla staffa equina dei
cavalieri in trotto). Il primo termine è
connesso al ted. Höhe (‘altezza; monte, vetta’) ovvero a hoheit/hohen (‘sovranità, altezza, maestà’). Il secondo termine (Wikipedia, l’enciclopedia
libera- on line, s.v. HOHENSTAUFEN) viene in
genere fatto derivare dalla collina ove sorgeva il primo castello, denominata Staufen. La Fondazione
Federico II, Stupor Mundi (http://www.legasud.it/federicosecondo.htm) però scrive
in proposito quanto segue: “Il termine STAUBER , STAUPER o STAUFFEN
veniva anticamente usato per indicare gli Hohenstaufen. Ma cosa significa? Siamo abituati a tradurre Hohenstaufen come Alto Castello, ma Staufen
significa qualcosa di piu’ complesso.
Intanto Stauffen evoca la
Staffa come Asse, perno dell’equilibrio.
Il riferimento al culto del Graal o Onfalos
come asse e centro del mondo è implicito.
Ma significa anche ‘colonna, asse, casa, castello, rocca’…”
267) Nessuno tranne la storia di Túan mac Cairill, uno dei seguaci di Patholon,
che per primo è detto esser sbarcato in Irlanda. T.m.C.
avrebbe partecipato anche ad altre invasioni, rinascendo in forma zoomorfica di
Cervo, Cinghiale, Falcone e in ultimo Salmone (De Vr., op.cit., P.qua., Cap.sec., pp. 313-4).
268) Op.cit.,
P.sec., Cap.sec., §1.a, p.117. I Tuatha
Dé Danann costituiscono nel mondo celtico la terza o la quarta, contando
anche i Fir Bolg, delle Generazioni
Divine. Essi sono stati soppiantati in
terra d’Irlanda – dove avevano per capitale Tara
– dai Gaeli (Milesi) arrivati dalla Spagna e parrebbero corrispondere, perciò,
agli Eroi della Grecia od agli Ari indo-iranici; dal momento che si tramandava
provenissero in improvvisate imbarcazioni dalle “isole a nord del mondo” (cioè
nordatlantiche). La loro terra mitica di
provenienza era il Tir na nOg,
descritta come una serie d’isole incantate poste ad ovest (quindi, ne
deduciamo, situate nell’Atlantico nordoccidentale); nelle quali si tramandava
scorressero alla maniera della leggenda giudaica il latte ed il miele, ma pure
la birra ed il vino nonché l’idromele.
Per i dati riportati cfr. Le R., op.cit.,
Cap .3, §c, p.127; Cap.4, §§ a, p.135 e c, p.141. Da notare che
quelle terre sembrano essere le stesse cercate, disperatamente, dai Vichinghi
in età pre-colombiana.
269) De Vr., op.cit., Cap.qui., §§ 2-3
sgg.
270) Ibid. come alla 268, p.118.
271) Per ll Vaso di Brahmā contenente Soma
cfr. n.199, viceversa per il Caldaio dell’Abbondanza od il Paiolo della
Rinascita di Bran si analizzi il
secondo ramo del Mabinogion; il
recipiente di Manu di cangianti dimensioni,
unitamente al Pesce Unicorne, è il soggetto principale di questo libro ed è
stato trattato ampiamente in tutto il Cap.I.
Per il Caldaio Ripieno di Manannan
vedasi alfine la n.270, mentre una trattazione generale dell’argomento del
Sacro Calice è affrontata nell’art. menzionato alla n.243.
272) Ibid.
come alla 268. Secondo quanto asserisce
la discendenza teonomastica medesima, i ‘Figli della dea Dana’ (identificata ad Ana
ovvero alla triplice Brigit)
appartengono alla dinastia lunare: la luna è astrologicamente associabile alla
casta dei produttori sul suolo indiano e non vi è motivo che ciò non accadesse
anche in territorio celtico. In
particolare, il Candravaṁśa viene
distinto per qualche ragione dal Sūryavamśa, sebbene nessuno sia mai riuscito a dar
spiegazione di tale enigmatica distinzione.
Proveremo a farlo noi, modestamente, nel prossimo capitolo. Facciamo solamente notare, in anticipo, che
la Luna in genere essendo il luminare notturno costituisce un rimando
all’Ovest; il Sole, al contrario, è un sinonimo dell’Est.
273) Ib.,
p.116.
274) Ib.
275) P.115.
Questo nome è una latinizzazione del gr. ἑσπέριος (‘occidentale’).
276) §2.c,
pp. 131-5.
277) Cfr. col Triregnum ellenico, formato da Zeus, Poseidone, Ade; che ha un’eco
nell’equivalente trimorfia (erroneamente definita ‘triade’) capitolino.
278) Cap.ter., §3.d, pp. 161-3.
279) Il rimpiazzamento della mano perduta
con una d’argento da parte di Diancecht,
il medico divino, in 27 giorni si spiega colla valorizzazione del vecchio
simbolo nel nuovo calendario lunare col sopraggiungere dell’Età di Mílidh (Mile, il Kaliyuga
locale). Costui è chiamato Mílidh
Easpáinne, in riferimento
al latino Miles Hispaniae (‘Milite di Spagna’).
280) Il termine notonier, di certo non a caso, ha un suo equivalente nel termine
gergale designante il Gran Maestro del Priorato di Sion (nautonnier = ‘navigatore, nochiero, timoniere’); autoproclamatosi
erede dell’Ordine di Sion, cioè dei veri Rosacroce prima del cd. <taglio
dell’olmo> (1.188) ovvero la separazione fra essi e i Templari. Cfr.
M.Baigent-R.Leigh-H.Lincoln, Il Santo
Graal- A.Mondadori, Milano 1982 (The
Holy Blood and the Holy Grail- J.Cape, Londra 1982), P.sec., Capp. V, pp. 109-25
e VI, p.134.
281) Per la traduzione inglese dal cimrico
cfr. J. Gantz (a c. di), The Mabinogion-
Penguin, Harmondsworth 1976, pp. 217-57; per quella italiana (in verità
modellata su traduzioni varie ) Agr. & Mag., op.cit., pp. 1-306.
282) Sono le 9 <Figlie> di Ogyr Vran ossia le 9 <Madri> (in
altre parole, i 9 Eoni susseguenti) che hanno posto fine all’Età Aurea. Vide
n.238.
283) Op.cit.,
p.214.
284) Vide
n.252.
285) Astralmente raffigura Orione, il
classico dio-testa.
286) G.Agrati & M.G. Magini, I romanzi della Tavola Rotonda-
Mondadori, Milano 1981, Bibliogr., p.16 ss.
287) A.Bianchini (a c. di), Romanzi medievali d’amore e d’avventura-
Garzanti, Milano 1981, pp. 53-130.
288) La pesca coll’amo del personaggio
deriva dai Celti, secondo quanto prova l’immagine di Nudd che estrae dal fiume il Grosso Salmone. Non ci occupiamo in questo testo del Cristo
coll’Amo, di cui tratteremo nel nostro saggio futuro a complemento di siffatto
volume, La saga universale del Pesce e
del Re Pescatore.
289) Il concetto di Abbondanza era già
presente nella mitologia celtica.
290) La ‘Vergine’ è Arianrhod, secondo Graves una delle varie forme di dea bianca.
291) Cfr. col simbolismo del Pellicano in
Charb.-L., op.cit., P.Dec.,
Cap.Ottantes., p.558 ss.
292) Cfr. con Blodeuwedd
(R.Graves, The White Goddess. A historical grammar of poetic myth- Faber and
Faber, Londra 1961, Cap.Dic., p.321), alias
Olwen, cioè la Regina di Maggio
figlia dell’Albero di Maggio che è anche dea dell’amore. Tale Blodeuwedd,
dai “bianchi fiori”, forma talora una trimorfia con Arianrhod (‘Ruota d’Argento’) e Cerridwen
(‘Bianca Scrofa’)(ibid.); ovvie
allusioni alla Triplice Luna, che i Latini chiamavano Diana Trivia e i Greci
Ecate Triforme. Talora, invece, la
stessa crea una pentamorfia con altre dee (ib.,
p.315). In questo caso, evidentemente,
entrano in gioco tutte e quattro le fasi lunare con aggiunta del centro.
293) Praticamente in tutti i Purana. In campo iconografico avviene la stessa cosa,
ossia a seconda dei testi di riferimento si rappresenta il Matsya isolato, con
Manu da solo oppure accanto all’Avatara.
Per i vari tipi di raffigurazioni cfr. Ac., Il Re P., sovr., pp. 1-3.
294) Agr. & Mag., I racc., s.v. MANAWYDDAN, p.316. Lo
stesso nome di Manw (trascritto Menw, figlio di Teirgwaedd) viene talvolta associato nei raccolti celtici (in
particolare nel Culhwch and Olwen nonché nelle
Triadi 27 e 28) a Merlino l’Incantatore, per trasposizione inferiore
(demiurgica) di quella figura. Dobbiamo
la segnalazione indiretta di ciò al prof. G.Bruni, L’Eden. Un Eden e un popolo o più luoghi e più genti? (pdf on line, p.6; l’articolo in
questione costituisce una versione ampiamente incrementata, rived. e corr., di
“Ubinam gentium sumus? - Un Eden ed un popolo o più luoghi e più genti?”. tratto dalla Riv.Episteme, N°7, 2003). Il che accade, ovviamente, anche al Manu indiano allorché non funge da ‘Primo Uomo’ identificato al ‘Primo
Nume’ (il Brahma), bensí da Māyin alla maniera
di Śiva. I ‘Tre
Incantatori’ si rifanno cosmologicamente, con molta probabilità, alle 3 stelle
della Cintura di Orione.
295) De Vr., op.cit.,
Cap.sec., §1.a, pp. 117-8.
296) È il suff.-wen a denotarla come ‘bianca’ (Grav, op.cit., Cap.Tre, p.51),
indipendentemente dal significato che si vuol attribuire al nome Bran.
Graves gli assegna quello di ‘corvo’, perché identifica Bran a Krónos, ma l’etimo
proposto non ci sembra del tutto convincente; almeno, non crediamo sia il
significato originario del termine. La
var. Vran lo testimonia. Cfr., in proposito Ac., Il Druid., pp. 16-7, n.17.
In base a Mabin.- ii-iii
dobbiamo dedurre che Bran-wen, figlia
di Bran e sposa di Manawyddan, altri non è che l’immagine
della Rivelazione Primordiale (scr. Ādi-śruti); la quale,
benché emanata dalla Divinità Suprema, fruttifica nell’Universo attraverso
l’Uomo. Si spiega in tal modo perché mai
la ‘Testa Oracolare’ di Bran venga
seppellita, su richiesta dell’interessato, a White Hill. Questa ‘Collina Bianca’ aveva probabilmente
la stessa funzione per i Britanni della ‘Collina Pimordiale’ fra gli
Egizi.
297) Vide n.238. Le
9 Streghe, come abbiamo ulteriormente rilevato (cfr. n.282) corrispondono alle
9 Figlie di Bran il Maligno, figura
uranio-lunare complementare all’uranio-solare Bran il Benedetto.
298) Se a volte la
Dea Bianca è sostituita dalla Dea Purpurea (vedi Mongruad), la ragione è da addebitare al senso alchemico che
ovviamente possiede il mito, oltre a quello cosmologico.
299) G.
Acerbi, La storia straordinaria di Kessi,
mitico cacciatore anatolico- Alle pendici del Monte Meru (blog, 3-05-14), pp. 3-4.
300) Agr. &
Mag., I rom., pp. 16-20.
301) Per ragioni
di spazio e di reperibilità dei testi ci limitiamo qui in nota ad analizzare
soltanto qualcuno dei libri indicati, il testo di Von Eschenbach e quello del
Mallory, rimandando all’ultimo capitolo un’analisi del tema nel Lancelot. Von Eschenbach pone la reggia di Artú a Nantes,
ove il giovane è accompagnato da un avaro pescatore (Parz., Lib.III), sorta di alter-ego negativo di Amfortas; che
invece incontra dopo esser ripartito, presso un lago. Costui, un signore nobile e triste, l’indirizza verso il proprio maniero e il
cavaliere vi arriva sul far della sera. [Il Castello del Gral è il luogo medievale
d’iniziazione, corrisponde agl’Inferi degli antichi racconti misterici.] Quivi per
questioni di cortesia assiste silenzioso, senza porre la fatidica domanda, al
servizio del Gral; consistente in un cuscinetto di seta verde su cui era posata
una ‘gemma di paradiso’, il tutto recato in sfilata dalla principessa Repanse
de la Schoye, preceduta da 24 damigelle (Lib. V). Di seguto all’episodio delle 3 gocce di
sangue, Gawan lo reintroduce alla presenza di Re Artú e Parzifal
viene nominato cavaliere della Tavola Rotonda, dopodiché egli parte alla
ricerca del Gral (VI). Gawan lo seguirà
piú tardi in
tale impresa (VIII). Avendo saputo
dall’eremita Trevrizent del male fatto incautamente e della ferita cronica di
Amfortas, parte nuovamente; e dopo aver reincontrato Gawan (conquistatore del
Castello della Terre Marveile, cioè
la ‘Terra Meravigliosa’, emblema del Paradiso Terrestre) nonché il fratello
Feirefiz, se ne va alla volta del Munsalwaesche (XI-XV) o Mons Salvationis, ossia a cercare il Paradiso Celeste. Giunto alla Terre de Salwaesche il prode cavaliere entra nel Castello del Gral
e chiede di vedere la magica gemma, invitando gli astanti a portar aiuto allo
strazio di Re Amfortas (personaggio modellato sullo storico Re Alfonso
d’Aragona) e ponendogli il noto simbolico quesito: “Zio, che cosa ti
strugge? In tal maniera (XVI) Parzifal –
erede celto-cristiano di Pryderi, recatosi a propria volta al Castello dello
<Zio Zoppo> – diviene Re del Gral, come gli aveva predetto la Maga
Cundrie; in questa veste risuscita miracolosamente l’equivalente wolframiano
del Re Pescatore e del Re Magagnato fusi assieme come nella saga celtica
originaria, sebbene in tale versione non si faccia il minimo cenno né
all’ibrido di costoro né al Pesce, ma Amfortas è de facto sia re che pescatore.
Sicché Parzifal va sposo a Condwiramus e Feirefiz a Reponse de Schoye,
con cui torna in India (= Etiopia). Vi è
però chi ha intravisto in codesta regione – non a torto – anche un cenno
all’Iran. Cfr. E.Albrile, Il Paradiso esiliato. Ipotesi sulle origini
iraniche del’epopea graalica- S.O,C. (N°9, 2), Roma 2005, pp. 5-20; Id., Appunti sulle origini gnostico-iraniche del Graal- Simm. (A.2004,
N°6), pp. 72-7. Dal primo dei due
fratelli, emblemi delle 2 confraternite gemelle dei Templari e degli Ismailiti,
nascerà Loherangrin, che sposerà la Contessa Elsa di Brabante e continuerà la
dinastia dei Re del Graal. In quanto
alla Morte
d’Arthur (compilata nel 1470 e stampata da Caxton Ed. nel 1485), il Mallory
ci narra un quadro oltremodo diverso mutuato chiaramente dal Lancelot. Partendo da Merlino e passando per
Lancillotto e Tristano, arriva a trattare della Tavola Rotonda (Mor.- I.1-XII.14). Indi passa a trattare L’istoria del Sangraal, fino alla morte del figlio di Lancillotto
(XIII.1-XVII.23) In codesta parte dapprima è Lancillotto che s’appressa al San
Graal, ma per via del suo peccato – il tradimento con Ginevra – sviene
(XVII.15), dimostrandosi indegno di ricevere il sacro mistero dell’identità con
Cristo nel Castello di Carbonek. Mentre
i 3 cavalieri eletti (Ser Galahad, Ser Percival e Ser Bors) dopo aver cavalcato
a lungo realizzano l’impresa, giungendo alla meta. Re Pelles li accoglie nel medesimo castello,
comprendendo che “eran riusciti nella cerca del Sangraal”. Il figlio Eliazar offre loro la <Spada
Spezzata>, che aveva ferito alla coscia Giuseppe, e Galahad riunisce i pezzi
come se non fossero mai stati disuniti.
Poi, intanto che sono a tavola, viene condotto nella sala da pranzo un
uomo ammalato con un corona d’oro sul capo.
È il Re
Mutilato. Un vecchio tenuto in un seggio
da 4 Angeli discende dal Cielo dinanzi alla tavola argentata, dov’è il
Sangraal. Altri 4 angeli s’appressano:
due portano dei ceri, uno un pannolino e l’altro una lancia che miracolosamente
gronda sangue in un vasello. Posati gli oggetti, il vecchio vescovo celebra un
rito ed innalza un pane come fosse un’ostia: appare un bambino dal volto rosso
immedesimantesi nel pane. Rimessa
l’ostia nel sacro vasello, finisce di celebrare la speciale Messa. Indi bacia Galahad e lo invita a baciare i
compagni poco prima di scomparire. Dal
sacro vasello esce poi un uomo che mostra i segni della Passione di Cristo e
dichiara di aver mangiato l’agnello in esso il giorno di Pasqua. Galahad e gli altri ora conosceranno tutti i
segreti. Questa visione apparirà
maggiormente nitida nel palazzo spirituale di Sarras. Nel reame di Logris non sarà piú vista, poi la gente di tale reame si è volta
al mal vivere. Alfine, chiede a Galahad
di aspergere il corpo del Re Mutilato col sangue che fuoriesce dalla Sacra
Lancia risanandolo.
Ritiratosi in un’abbazia cistercense, vive da sant’uomo sino alla morte,
cui segue quella di Parzival; Ser Bors si ritrova invece col cugino Lancillotto
e i due decidono di non separarsi mai piú, se
non alla morte (XVII.19-23). La storia prosegue col ritorno di Lancillotto
all’amore per Ginevra e si conclude tragicamente colla ferita a morte di Artú e
l’annientamento di Mordred, che voleva sconfiggere in battaglia il padre e
sposare la regina, ma è trapassato dal re colla lancia. Invano il fantasma di Gawain aveva ammonito
lo zio a non scendere in battaglia quel giorno.
Per ordine regale Excalibur viene gettata in acqua da Ser Bedivere ed è
recuperata in incognito da una mano (della Dama del Lago, come specificherà piú tardi Tennyson),
che l’agita 3 volte prima di farla scomparire nel mare. Artú è trasportato via magicamente su una chiatta (in
Avalon secondo Tennyson, da dove proveniva Excalibur), accompagnato da 3 donne
(sua sorella Morgan la Fay, la Regina del Galles del Nord e quella delle Terre
Desolate). Appresa la triste notizia,
Ginevra si fa monaca in Almesbury;
raggiunta in convento da Lancillotto, questi vedendola dedicata ad una
vita di perfezione decide di fare altrettanto, fino a che entrambi
muoiono. Ma prima di morire, Lancillotto
le ha confidato che se non fosse stato per l’amore verso di lei sarebbe
divenuto il migliore cavaliere, a parte suo figlio Galahad
(XVIII.1-XXI.13). È logico ritenere che il re sia stato
seppellito in una cappella a Glastonbury, dove il vate ci confida ne abbiano
recato la salma le suddette donne, in una forma di rituale regale celtico. Tanto piú
che anche Ginevra, dopo la morte è stata trasportata colà a piedi da
Lancillotto, fattosi sacerdote, e dai suoi 7 compagni. Donde si comprende il famoso epitaffio sul
luogo: Hic iacet Arthurus Rex quondam
Rexque futurus. La successiva
identificazione di King Arthur alla
Stella Polare – destinata a ritornare a dominare il Polo Artico dal 2000 d.C.
in poi – col rimando inevitabile al simutaneo avvento dell’Età dell’Aquario
(secondo Wolfram immagine del Gral) per il legame siderale che unisce i moti
degli asterismi circumpolari a quelli precessionali nelle varie epoche, ha
fatto sí che il personaggio venisse
ripreso nelle opere minori e nella tradizione poetica successiva (continuata
sino agli Idylls of the King, 1885, di A.Tennyson) accordando a lui
stesso la funzione di Re Magagnato, con messa in disparte però del Kingfisher. Ad es. il film di J.Boorman intitolato Excalibur, del 1981, mescolando i dati
del Lancelot con quelli della Morte e d’altri poemi secondari, ha
compiuto visibilmente questo passo.
302) Ha., op.cit., p.110, fig.49.
303) Gli studiosi,
infatti, suppongono che il calderone trovato in Danimarca provenga dalla Gallia.
304) J.Campbell, The Masks of God- Penguin B., Harmondsworth 1976 (I ed. Viking P.,
U.S.A. 1968), P.Tre, Cap.7, §II, p.418. Bran-Manawyddan secondo il folclore gallese
abiterebbe in Annwfn (lett.’Abisso’),
la Terra sotto le Onde, denominata alternativamente Caer Sidi (‘Castello Rotante’); ciò designa, è ovvio, una terra
artica sprofondata in mare nella notte dei tempi. Secondo il nostro parere alla fine del I
Ciclo Avatarico, o non molto tempo dopo.
Nessun commento:
Posta un commento