Cap.
I
Manu Satyavrata, l’Arca del
Diluvio
e il Mahāmatsya Ekaśṛṅga
a) La leggenda dei primordi nell’epica
mahabharatiana
e la fatale
partenogenesi di Adrikāmatsya,
costretta a
rimanere in forma di pesce da un incantesimo
Si racconta nel I Libro del Mahābhārata (1) la vicenda di un ṛṣi, certo Parāśara, enigmatico personaggio che la Tradizione (Smṛti)
pare ricollegare a Viṣṇu (2); egli è infatti un suo alter ego, secondo quanto vedremo piú
innanzi. Si deve pertanto sapere che
tale ṛṣi era il padre di Kṛṣṇa Dvaipāyana, detto Vyāsa e
ritenuto l’arcano compilatore dei Veda nelle
quattro sezioni pervenuteci, oltreché l’autore del Mahābhārata stesso; testo che da parte sua si autoproclama «Quinto Veda» (3), non meno dunque dei Purāṇa
(4) – dei quali pure il figlio di Parāśara viene considerato redattore mitico (5)
– o dei Tantra (6), aventi
invece altre attribuzioni (7).
Il concepimento di Vyāsa era avvenuto un giorno allorché Satyavatī, l’avvenente figlia adottiva
del Dāśarāja (il Re Pescatore,
ovvero, traducendo in maniera meno altisonante, il Capo dei Pescatori/ Traghettatori),
aveva offerto un passaggio su una ‘barca’ attraverso la Yamunā al ṛṣi suddetto;
che, subitamente affascinato dalle grazie della fanciulla, con i suoi poteri
magici aveva fatto levare una fitta nebbia attorno all’imbarcazione. Dopodiché egli era riuscito a far sua la
giovane ‘vergine’, promettendole tuttavia in cambio che costei non avrebbe
perduto per tale rapporto d’amore la propria verginità. La storia è rivissuta retrospettivamente in
un passo poco piú avanti (8),
mediante il racconto che la matrigna Satyavatī
farà al figliastro Bhīṣma dopo la
morte del secondo figlio avuto da Re Śāntanu, il grande sovrano dei Bharatidi. Dato che il trono era rimasto vacante, ella
aspirava a ereditarlo nuovamente tramite la progenie che avrebbe potuto procurare
alle vedove del secondo di due figli prematuramente scomparsi un terzo figlio
lontano, appunto l’illegittimo Vyāsa.
L’identità effettiva di Parāśara e di Vyāsa non ci risulta ben chiara, comunque, se non comprendiamo chi
fosse mai realmente codesta Satyavatī. In proposito, la prima parte del passo dell’Ādiparva succitato (9) rivela che un dí Re Uparicara,
soprannominato Vasu (ennesimo alter ego di Viṣṇu in veste venatoria) (10), se ne stava andando a caccia
di cervi da sacrificare agli antenati; il pensiero del sovrano andava però
continuamente alla bella moglie Girikā,
sorta di Lakṣmī (o, vedremo piú
innanzi, di Indrāṇī) terrena. Eccitato dal paesaggio primaverile, il re
raccolse in una foglia il suo ‘seme’ e lo inviò per mezzo d’un garuḍa (uccello mitico sagomato, forse,
sul grifone himalayano) a Girikā. Ma di poi caduto nelle ‘acque’ della Yamunā, per via del fatto che un secondo
volatile aveva tentato di rubarlo al primo mentre questo era in volo sopra il
fiume, il seme era finito in bocca ad un pesce; invero Adrikā, un’apsaras (specie
di sirena) maledetta a quella metamorfosi da un incantesimo. Costei era rimasta perciò gravida.
b) La nascita prodigiosa dei gemelli dal ventre
dell’apsaras
Pescato dopo dieci mesi da un
‘pescatore’, il ‘pesce’ era stato tuttavia squartato e dal ventre del
prodigioso animale erano usciti inauditamente alla luce due gemelli umani. Il maschio, conosciuto in seguito come Matsyarāja (vale a dire Re Pesce o Re
dei Pesci), era stato quindi affidato a Uparicaravasu
medesimo; mentre la femmina, Satyavatī,
denominata pure Matsyagandh-ī/-ā per
il suo nauseabondo odore di pesce, era stata allevata dal ‘Re Pescatore’.
Dopo l’incontro d’amore già
descritto con Parāśara (11), Satyavatī ossia la Vergine Kālī
(12) – detta alternativamente Gandhakālī (13), Satyā, Vāsavī, Matsyā, Matsyodarī (14), Matsyakālī (15) ecc. – ricevette gli epiteti di Gandhavatī
e Yojanagandhā (16); nonché di Kastūrīgandhī, per sottolineare
l’assunzione da parte della giovane d’un dolce profumo di muschio (kastūrī). In seguito ella era andata sposa
legittimamente a Śāntanu, il
“gran re” della dinastia kuruide, sotto il quale tutte le genti (lett. caste) e
l’intero mondo animale erano vissuti armonicamente in illo tempore. Da lui la
donna aveva avuto due figli, che dopo la morte di Śāntanu erano scomparsi prematuramente. Allora Bhīṣma,
pur essendo l’unico frutto generato da Śāntanu nell’unione con Gaṅgā – prima di quella con Satyavatī
– e avendo per giunta egli già fatto voto in passato di rinunciare
in veste di fratellastro al trono dei Kuru
nonché di vivere in castità (al fine di favorire i figli della sua futura
matrigna e onorare cosí il padre, assecondando il desiderio che il suo genitore
provava per lei), aveva ancora piamente lasciato libera Satyā di richiamare al proprio cospetto Vyāsa (terzo figlio, illegittimo); in modo che questi potesse
generare nuova progenie alle amate vedove, Ambikā
e Ambalikā, dei suoi due fratellastri defunti.
Ora si noterà come codesta Satyā, non essendo altri che Kālī cioè la Śakti, sia in effetti la stessa cosa
della madre di Parāśaramuni ossia Adṛśyantī; la quale è necessariamente
un’ipostasi di Śaktidevī,
giacché il nome del padre demonico di tale muni
risulta esser appunto Śaktideva. Costui incarna difatti Śiva, siccome figlio del Ṛṣi
Vaśiṣṭa
(17),
un’ipostasi di Brahmā. Ciò in altre parole è come affermare
indirettamente che il Muni Parāśara
abbia commesso incesto con la propria madre nel suo amplesso magico sulla Yamunā, parimenti a quanto è d’altronde
esplicitamente dichiarato dall’Ānandabhairava
di Premadāsa; dove peraltro il muni in questione va a sostituire Viṣṇu nell’insolita trimūrti formata da Brahmā,
Parāśara e Mahārudra (18). L’incesto, d’altra parte, è alla base del
mito vedico di Prajāpati, quindi non
è una novità nel mondo numinoso ed eroico indiano. Specifica insomma che per una stessa linea
dinastica s’è sviluppata una data discendenza, la quale conferma sostanzialmente
l’elemento piú antico; ma in una forma rinnovata, capace di produrre nuove
ramificazioni.
c) Parāśaramuni e Uparicaravasu
La figura di Parāśaramuni – come abbiamo rilevato antecedentemente in nota –
compare già nella Ṛgveda Samhitā, ove
in un inno dedicato ad Indra quegli è
considerato un devoto del dio ed annientatore di rākśasa. Ciò, tuttavia, non
ci aiuta granché nella caratterizzazione del personaggio. Piú evidente appare invece il ruolo giocato
da parte di Parāśara (muni o ṛṣi che dir si voglia) nel V.P.
– i. 1, 4-5 e 3, 9-20, testo in cui costui compare in posizione di
redattore del medesimo; non meno di quant’avvenga altrimenti (19) per il figlio Vyāsa, omologabile – secondo quel che vedremo piú oltre –
nientemeno che all’omonimo Kṛṣṇa di
stirpe yādava, nono avatāra visnuita. Anche su Parāśara
al pari di Vasu si narra sia
disceso in linea dinastica dal dio Viṣṇu,
al quale l’abbiamo addirittura identificato in prima istanza; ne è, dunque, una
terrena e parziale figurazione (20). Le circostanze appena riferite, e il fatto,
soprattutto che Parāśara risulti il
padre di Vyāsa, testimoniano a favore della nostra ipotesi.
Vediamo adesso di comprendere
bene il senso spirituale della leggenda raccontata poco fa. Chi altri è mai quel Vasu che si colloca all’origine di essa? Devoto di Viṣṇu
– da cui egli proviene dinasticamente – e amico di Indra, che gli permette di condividere il proprio
trono e il proprio letto (ekaśayyāsanaṁ) (21), parrebbe in realtà identificarsi piú al secondo che al primo,
essendo il ruolo di costui già indubitabilmente svolto nella nostra storia da Parāśara. Nella
Ṛ.S.- iii. 49, 4 i Vasu fungono
da traino per il cocchio del ‘Re degli Dei’, alternativamente ai Marut (iii. 51, 7). Vasu è in ogni caso un epiteto di Indra, oltreché di Agni – decantato nel i. 94, 13 come «Vasu dei Vasu» (Vasurvasūnāmasi) – e di altri dèi. L’appellativo testé nominato si addice
benissimo quindi, per il ruolo regale, anche ad Indra.
Varrà cosí la pena di tracciare
un breve quadro della figura epica di Vasu,
al di là di quel che concerne la nascita miracolosa e provvidenziale di Matsya e Satyā da lui prodotta; onde dimostrare la perfetta identità del
personaggio con Indra, di cui è
probabilmente un’ipostasi nei panni di terreno cakravarti.
d) Le
pratiche sātvata e lo Śvetadvīpa
Si racconta (Mhbh., Śāntip.-
cccxxxv. 17-24) che Re Uparicara,
antico seguace della sātvatam vidhi (le
pratiche sātvata) insegnata da Sūrya medesimo nei giorni del buon tempo
antico, fosse diventato per concessione di Nārāyaṇa
(Viṣṇu) sovrano dell’intero
mondo. Devoto nei confronti della
verità, si asteneva dall’offendere qualsivoglia creatura. È interessante a
questo punto sottolineare che le pratiche sātvata
in un altro passo dello stesso parva (cccxlviii,
29-34) son dette essersi diffuse per tutta la terra all’inizio del Krtayuga, scomparendo al principio del Tretā.
Nel capitolo prima citato
(cccxxxv. 7-12) si parla inoltre del cd. Śvetadvīpa (‘Continente Bianco’), un dvīpa (continente) avente
il proprio centro di diffusione all’Estremo Nord – nell’Oceano di Latte (Oceano Artico) presso il Meru (Polo Nord) – e abitato da una magnifica popolazione con la pelle del candore
dei raggi lunari. Queste genti di pelle
bianca, collocate per finzione letteraria in un immoto presente, sono descritte
come prive di ogni male. Solari
nell’aspetto e potenti nel corpo come il fulmine, son dotate d’ogni buona
disposizione della mente e hanno voce profonda come quella delle nuvole. Praticano la conoscenza e la realizzazione
spirituale, tanto da parere di origini celesti.
Possiedono in aggiunta altri attributi magici quali la policefalia, che
potrebbero farle apparire mostruose, non umane; ma che vanno di certo
interpretati sul piano simbolico quali eccezionali potenzialità individuali
atrofizzatesi nel corso dello svolgimento temporale al livello dell’umanità
ordinaria. O, se si vuole diversamente
intenderli, come emblemi di universalità.
I medesimi concetti vengono ribaditi piú oltre (cccxxxvi sgg), sottolineando che presso tali
popolazioni iperboree non vigeva alcuna gerarchia di tipo castale, dato che fra
di esse non vi erano né superiori né inferiori sul piano semplicemente umano.
Si tramanda però che al
sopraggiungere del Tretāyuga una
grande calamità sia sopravvenuta sulla terra.
È chiaro perciò che, quantunque nel testo non ci pare compaia una
testimonianza diretta in proposito, il mito dello Śvetadvīpa – vale a dire dell’Isola Bianca – costituisce la versione
in chiave cosmografica di quel che il mito del Kṛtayuga – ossia dell’Età della Giustizia – rappresenta in campo
cronologico (22).
Ed è altrettanto evidente che Uparicara presenti i tratti tipici, con
le sue qualità sovraumane, delle genti auree nel loro complesso. Nonostante certi altri fattori, quali il
sacrificio agli antenati, parrebbero suggerire diversamente. C’informa infatti un ulteriore loka (cccxxxviii sgg) che nel Kṛtayuga,
epoca da identificare mitologicamente a quella dei Ṛṣi, non si praticava ancora il sacrificio (yajña) nei confronti degli animali.
Si offrono poi (cccxliii. 59)
connotazioni geografiche piú precise riguardo lo Śvetadvīpa, descritto quale reame dove «il sole non è caldo e la
luna non risplende»; con Mādhava, consueto
epiteto di Kṛṣṇa, praticante
austerità su un «sol piede» (ekapādasthito). Probabilmente per allusione alla costante
fissità dell’asse polare nella volta celeste e, nel contempo, all’unicità della
via primordialmente seguita. Ciò implica
allora che la veste venatoria di Vasu
vada pigliata cum grano salis, come a
dire... per retro-trasposizione d’una tematica non kritayughica. Del resto, non si deve credere che la caccia
ed il relativo sacrificio animale siano cominciati di colpo all’inizio della
fase tretayughica, ma assai prima; cioè, crediamo, nell’ambito del secondo
ciclo avatarico. Però nel Tretā essi debbono esser divenuti una
consuetudine per la specie umana, secondo quanto ci tramandano le scritture di
varie tradizioni. Il Kṛtayuga ha visto trascorrere 4 periodi
avatarici della durata di 6.480 anni ciascuno ed è quindi logico supporre, cosa
peraltro confermata dalla dottrina stessa degli Avatāra (23), che sia
avvenuto dall’una all’altra epoca una graduale trasformazione del comportamento
umano; oseremmo dire una lenta involuzione spirituale, parallelamente ad una
progressiva evoluzione culturale, i due fattori andando di pari passo ma in
senso tuttavia inverso.
e) La discendenza di Vasu e quella di Śāntanu
Rammenteremo in ultimo i ‘Cinque
Figli’ di Re Vasu, fondatori di regni
e paesi nonché creatori di dinastie separate, le quali regneranno a lungo sulla
terra (Ādip.- lxiii. 29 ss.).
Identificando i Cinque Figli di tal personaggio leggendario colle
‘Cinque Genti’ (Pañcajana) di vedica
memoria oppure alle ‘Quattro Caste’ (Caturvarṇya)
piú la Sovracasta (Ādivarṇa)
degli Haṁsa, le origini delle quali
sono connesse colla distribuzione cosmografica dei mitici ‘Cinque Continenti’ (Pañcadvīpa)(24), il nostro quadro risulta alfine completo.
Appare cosí chiaro che
l’affidamento a Uparicara di Matsya richiede una spiegazione in linea
con quanto abbiamo appena rilevato.
Insomma, essendo Matsyarāja nientemeno
che il Matsyāvatāra ovvero il
Rivelatore dell’inizio del VII Ciclo Manvantarico – cioè, per usare una diversa
espressione, il Trasmettitore dell’Ādiśruti (Rivelazione Primeva) – ed, avendo compiuto il proprio
mandato nel Kṛtayuga già trascorso,
ecco motivate in forma palese le ragioni latenti del suo affidamento al sovrano
universale. In quanto a Re Vasu, trattandosi invero di un’ipostasi
aurea di Indra, il regno di costui rappresenta in realtà il dominio
celeste del Devarāja (‘Re degli
Dei’); dominio che potremmo in una differente accezione attribuire a Vasudeva, cioè a Viṣṇu, dato che nel contesto i due deva ricoprono mansioni convergenti. È in tale ‘Regno’ insomma che il ‘Seme
Divino’ caduto nelle ‘Acque Inferiori’ viene alfine riassorbito. Satyā
d’altro canto, raffigurando la Rivelazione Primordiale – cfr. il nome della
fanciulla-sirena con la voce satya (‘verità,
sapienza’) – discesa a noi dal Satyayuga (25), ha parte attiva nella vicenda
divenendo sia la consorte di Śāntanu
(figura in certo modo appaiabile a quella dello Śiva aureo, ma non supremo, di cui preciseremo fra breve l’esatta
fisionomia)(26); sia l’amante di Parāśara (vale
a dire di Viṣṇu, ivi in un ruolo
assimilabile a quello di Gaṇeśa),
padre naturale di Vyāsa (27).
Nell’epico confronto del Kurukṣetra, il fatidico agone che narra
il Mahābhārata sia stato combattuto
tra la piana della Gaṅgā e quella della Yamunā (in altre parole, tra le due
correnti simboleggianti la bipolarità del Divenire Cosmico), i potenti ed
aristocratici kuruidi – capeggiati da Bhīṣma
Gaṅgeya, ‘figlio’ di Śāntanu – fanno le veci dinanzi agli
eroici ma deboli cugini panduidi rispettivamente dei Daitya (i Demoni) nei confronti dei Deva (gli Dei). Il che
giustifica pienamente la nostra precedente supposizione, dato che Mahādeva – quivi sostituito nella
propria normale funzione dissolutrice da un alter-ego di Skanda – allorché è inteso in senso argenteo, ossia non supremo,
incarna il daitya per antonomasia (28).
Il sovrano dei Bharatidi
costituisce dunque l’antenato lontano non soltanto dei Kuru, ma sia pur indirettamente anche dei Pāṇḍava.
La parentela diretta di questi due gruppi familiari è relazionata però a
Vyāsa ed Ambikā, i genitori di Dhṛtarāṣṭra e Pāṇḍu;
dei due
fratelli il primo nasce cieco, il secondo pallido. Dhṛtarāṣṭra attraverso la velata Gāndhārī, che vuol in tal modo
condividere la sorte di cecità dello sfortunato marito, dà alla luce 100 figli,
fra i quali spicca Duryodhana; Pāṇḍu
genera
invece 5 figli, 3 da Pṛthā (Yudhiṣṭhira, Bhīma ed Arjuna e 2 da Mādrī
(i gemelli Nakula e Sahadeva). Sebbene altri passi del poema epico facciano
discendere i due fratelli da un antenato intermedio fra Śāntanu e Vyāsa, chiamato dapprima Puru (ibid., lxxxxiiv-v), figlio
di Yayāti e Śarmiṣṭhā (29); poi Kuru (clxxiii), figlio di Saṁvarana e Tapatī (30). L’attrito per il potere fra le due fazioni in
armi deve essere interpretato come una questione di eredità spirituale, prima
ancora che materiale. Non era solo il
trono dei Kuru ad esser in gioco, ma
l’intero dominio sulle regioni settentrionali dell’India.
In sostanza, potremmo arguire, la
discendenza di Uparicara (praticante
la Sātvatam vidhi) ha a che fare coll’espressione della
superiore ed aurea natura profetica; donde proviene la linea avatarica in
quanto manifestazione plenaria di Viṣṇu,
ovverosia la trasmissione diretta della Rivelazione. La trasmissione indiretta, iniziatica
oseremmo dire, è invece lasciata al Dāśarāja
(31). Mentre la discendenza di Śāntanu ha a che fare colla polarizazione
spirituale susseguente all’epoca paradisiaca, sia d’ordine ciclico che
gerarchico (le due cose stando in stretta connessione), fra la corrente śaiva e quella vaiṣṇava. Pur d’intenderle
qui per estrapolazione dei dati quali dottrine ed espressioni rituali d’epoche
e stirpi umane diverse, non come semplici sette dell’induismo storico. Si tratta insomma del solito dualismo fra
culture aristocratiche e culture eroiche riscontrabile in tutte le grandi
civiltà del mondo. Ecco perché Satyā diventa la matrigna di Bhīṣma, come a dire della forma umana
argentea di Skanda; ma solamente una vaga amante nei
confronti di Parāśara, incarnazione
parziale di Viṣṇu. I due figli deceduti di Satyā potrebbero alludere, forse, ai due precedenti yuga già passati al momento dello
scoppio del bellum fatidicum; che,
come il testo precisa in un passo inequivocabile, sarebbe scoppiato al termine
del Dvāpara. In termini archeologici, se vogliamo, alla
fine pressappoco del Mesolitico (5.000-4.500 a.C. c.)(32).
f) Riflessioni sul Mahābhārata,
l’Ilāvṛta e la
mitica patria degli Ᾱrya
Storicamente la redazione ultima
del Mahābhārata, giunta sino a noi in
2 principali versioni (la Settentrionale e la Meridionale)(33) è stata attribuita al periodo fra l’inizio del III sec. a.C. e
la fine del I d.C (34). Accettando codesta attribuzione ciò non
implica che si sia costretti per forza ad avallare l’idea da parte della
ricerca storica accademica dell’arrivo sul suolo indiano in varie ondate
attorno al 1.500-1.400 a.C. delle stirpi arie, mossesi circa mezzo secolo prima
da un nucleo di popolazioni dimoranti nell’Asia Minore (35) che l’antropologia fisica ha definito caucasoidi (36), colla conseguente lotta nei
secoli successivi fra tribú arie e anarie o fra le stesse tribú arie (37).
In questo scritto non si vuole né negare aprioristicamente tale teoria,
poiché di teoria si tratta e non di un dato di fatto (non essendovi dati
archeologici probanti l’avvenuto arrivo nella data testé indicata,
probabilmente per via dell’abitudine aria di ardere i morti sulla pira funebre)(38), né proporre un’alternativa per
partito preso. Crediamo viceversa che
vadano tenuti in maggior conto gli studi di scrittori non accademicamente
allineati, come Tilak (39) ed altri,
quantunque ad uno sguardo superficiale essi appaiano datati e non rispondenti a
canoni di scientificità. Ma nel contempo
siamo convinti che tali studi andrebbero rivisti a fondo, onde non pigliar per
oro colato tutto quanto asseriscono, alla luce delle nuove acquisizioni ottenute
in vari campi del sapere. Proprio quanto
aveva fatto Tilak a suo tempo, seppur siano passati troppi anni da allora per
poterlo accogliere integralmente. Quel
che si può accettare in generale ancor oggi delle ricerche del N. è la
provenienza, fra l’8.000 ed il 5.000 a.C. (40),
delle genti arie (41) da una terra
nordica (forse persino circumpolare)(42)
devastata qualche millennio prima da fattori climatici e diluviali; com’è
confermato del resto dalla cosmografia indiana, indirettamente attestante
l’esistenza d’un continente chiamato Uttarākuru,
che lo scrittore marathi però menziona maldestramente (43) – come d’altronde tutti gli scrittori dell’Ottocento e del
Novecento – confondendolo colla Terra Iperborea (44) e non citando invece il dvīpa
ad essa realmente affine dell’Ilāvṛta
(45). Tali truppe si sarebbero stanziate nei
millenni successivi nelle regioni centrali dell’Europa e dell’Asia, in cerca di
nuove terre ove stabilire la loro meta ultima.
Sui tempi della loro discesa
verso l’Asia Meridionale Tilak non s’è mai pronunciato, limitandosi a
teorizzare 3 periodi astronomici (46)
delimitanti invero piú la letteratura vedica che non l’invasione aria. Secondo la ricerca storica gli Ari ovvero
gl’Indoeuropei – com’essa ha preferito definirli su base linguistica, in
ragione della cattiva propaganda sul termine da parte della demagogia nazista –
nel III millennio av. l’E.V. si sarebbero invece stanziati pressappoco in Asia
Minore (47), per spingersi poi in
parte verso le regioni settentrionali dell’Europa (il ramo celto-germanico e
quello balto-slavo)(48) ed in parte
verso le regioni meridionali (i rami italo-latino, illiro-ellenico e
daco-tracio); altri sarebbero rimasti piú o meno in loco (il ramo ittito-mitannico e quello frigio-armeno), altri
ancora si sarebbero diretti verso l’Asia Centrale (il ramo tocario-scitico) o
l’Asia Meridionale (il ramo indo-iranico)(49). Viceversa per noi, piú vicini alla posizione
tilakiana anche se non la condividiamo appieno, la sede aria privilegiata di
stanziamento dopo l’abbandono della patria originaria assai settentrionale deve
esser stata l’area baltica (50); non
intesa però quale punto di partenza per scorrerie verso il meridione
eurasiatico, ma piuttosto d’arrivo provenendo da sudest. Per ridiscendere alfine verso il
Mediterraneo, dopo i nuovi mutamenti climatici dovuti ad un minore diluvio,
forse quello di Ogigia (51) o forse
un’altra inondazione, attraverso le commerciali Vie dell’Ambra (52).
La prima terra di provenienza non
deve però necessariamente esser reputata eurasiatica (da parte nostra
preferiamo pensare ad una regione nordatlantica stando alla leggenda biblica
sugli Eroi), né lo spostamento di quelle popolazioni può esser messo sic et simpliciter in relazione alla
fine della glaciazione, come faceva Tilak; ma semmai al dislocamento della
litosfera rispetto ai poli geografici o piú probabilmente ad un fenomeno
equivalente quale lo spostamento dell’inclinazione dell’asse terrestre, sia pur
di pochi gradi (53). Quando le genti arie abbiano abbandonato
esattamente le due sedi, l’una oltreatlantica e l’altra mediterraneo-orientale,
non è dato con certezza di sapere.
L’unica cosa che sappiamo senza tema di smentite è che da allora in poi
esse si sono suddivise in vari tronconi, quelli che oggi chiamiamo a ragione o
a torto – parafrasando i loro idiomi – ‘indoeuropei’. Può darsi che la datazione attualmente
accettata del raggiungimento delle zone meridionali dell’Eurasia sia veridica,
ma ulteriori ricerche andrebbero affrontate per confermarlo (54) .
Giustamente infatti si sono chiesti di recente gli archeologi indiani,
come A.K. Biswas (55), dove si
trovino i paralleli in ceramica grigia dipinta – associata solitamente al primo
utilizzo del ferro (56) ed alla
venuta degli Ari nel Deccan – sull’altipiano iranico o sulla strada che si
suppone essi abbiano percorso. Non sono
stati trovati da nessuna parte, ci risulta, sinora. In caso di mancato reperimento, anche dopo
ulteriori ricerche, occorrerebbe allora eventualmente cambiare rotta.
Lasciamo per ora il campo aperto
ad ogni teoria, ripromettendoci comunque di riprendere il discorso ed
approfondirlo in una futura indagine, che già abbiamo in mente (57).
Ivi c’interessa solamente illustrare la situazione storico-culturale
nella quale ha potuto innestarsi la mitologia ittica, che è il reale oggetto
del nostro studio. Questa sí d’origine
veramente paradisiaca secondo i miti, a differenza della saga eroica testé
menzionata, che ne è come l’immagine riflessa in uno specchio deformato di
tempi posteriori. Dove realmente
dimorasse il Paradiso Terrestre (58),
neanche questo è oggetto della nostra ricerca per ora; sebbene la cosmografia
hindu sia chiara in proposito, visto che l’associa al Monte Meru (59). La leggenda epica dello Śvetadvīpa (60), lo abbiamo già esaminato, descrive il Paradiso Terrestre come
la presenza di un’umanità idillica in un indecifrato e per certi versi
indecifrabile “Continente Bianco” (61);
numerosi sono del resto i miti, anche al di fuori dell’ambito
indiano, che trattano d’una perduta ‘Isola Bianca’ (62) abitata da gente di chiara carnagione. Oppure, raffigurano il Centro del Paradiso
Terrestre come una Bianca Montagna (63). Ci basti qui sapere soltanto che esso ha a
che fare coll’Ilāvṛta, distinto dall’Uttarākuru (64) non meno di quanto
il Satyayuga si distingua dal Kaliyuga.
g) Ulteriori
considerazioni
riguardo i
due contendenti del poema: il senso del
conflitto
Lo scontro bellico verificatosi
nel Kurukṣetra (65) fra le due tribú rivali dei Kaurava e dei Pāṇḍava precede il Kaliyuga (66), dunque
per forza di cose non può aver a che fare colle invasioni arie della seconda
metà del II millennio a.C., o presunte tali.
A differenza di quanto in genere si ritiene. Alleanze a parte (67), i due principali contendenti della Guerra di Bhārata (68) come abbiamo su delineato rispecchiano tendenze generali
arcaiche della società indiana, indipendentemente dalle precise origini etniche
di ciascuno di essi (69). Alle due fazioni in discordia per motivi
culturali ed etici, essendo gli uni ancestralmente ancorati alle nobili
tradizioni dell’onore e gli altri maggiormente attratti dai successivi modelli
morali di tipo eroico, si allearono via via le varie tribú estendendo il
conflitto ad una guerra devastante e pericolosa mai osservata prima d’allora (70).
L’agone mahabharatiano – toni romanzeschi e personaggi letterari a parte
– rimanda comunque ad un tempo in cui l’India ancora non esisteva in quanto
tale, seppur il Paese di Bhārata ne
costituisse di certo una prefigurazione; ma per Bhāratavarṣa o ‘Terra dei Bhārata’
doveva intendersi in passato cosmograficamente l’intera ecumene a quel
tempo nota dell’Asia Centromeridionale, quando non addirittura la situazione
geografica globale dell’epoca (71).
Non si può perciò far
dell’etnografia né della sociologia sul poema, ma tutt’al piú della mitografia
o della storia culturale, perché i tempi di riferimento degli episodi epici (72) – almeno nella loro forma supposta
originale (73) – sono relativamente
lontani e vi è il rischio trattando di ari ed anari d’immettervi i propri
pregiudizi. È il caso ad es. degli studi
del Dumézil, seppur mutuati da quelli dell’amico Wikander (74), i quali hanno rinvenuto nello schieramento panduide la tipica
ideologia tripartita indoeuropea; cosa che anche noi in certo senso accettiamo,
ma il nostro punto di vista differisce da quello dello scrittore francese. Potremmo definirlo storico-mitografico,
piuttosto che storico-giuridico.
Insomma, chi ci conferma che i Pāṇḍava fossero degli ari? Nell’accezione etnologica duméziliana ed
accademica in genere, s’intende, non nella nostra. Se Kṛṣṇa
per definizione appartiene avataricamente al precedente yuga (eone), quando gli ari in base ai dati attuali della ricerca
storica non erano ancora giunti sul territorio indiano, essendo stato l’auriga secondo il Mahābhārata compagno di lotta dei Pāṇḍava nell’agone contro i Kaurava, come
si può affermare che Kṛṣṇa e gli
altri combattenti fossero ari?
Evidentemente i calcoli non tornerebbero, a meno d’intendere gli ārya come li intendiamo noi, cioè non in
senso etnico ma generazionale. In tal
caso essi sarebbero da considerare semplicemente degli eroi, quali in effetti
paiono essere letterariamente, e tutto andrebbe a posto per incanto. A quel punto non importerebbe sapere quando
il ceppo caucasico, che da parte nostra preferiamo chiamare iaphetico alla maniera biblica, sia giunto in India.
Altrimenti occorrerebbe
immaginare che gl’Indoeuropei, o Iapheti che dir si voglia, siano arrivati colà
assai prima. Assieme ai Camiti (75), cosa ovviamente difficile da
dimostrare. In questo caso bisognerebbe
arguire che l’attraversamento dell’Atlantico da parte di tutto il ceppo noaico
non sia stato troppo diverso da come ci narra la leggenda biblica, simbolismo a
parte. Ossia che tutte e tre le stirpi d’origine noaica
abbiano affrontato un periglioso viaggio via mare verso un’unica direzione
(casuale od intenzionale che fosse), il Mediterraneo Orientale, per poi essersi
spostate chi qua chi là nelle loro sedi storiche d’appartenenza. Allora la tappa baltica (76) sarebbe da intendere in altro modo rispetto a quanto in
precedenza supposto. Le tradizioni norreniche parrebbero avvalorare questa tesi
(77). Mentre la Grecia, dove ai camitici Pelasgi (78) sono subentrati gli Elleni – iaphetici per definizione (79) – parrebbe avvalorare la tesi
della provenienza nordica, a meno che anche gli Elleni come tutte le altre
genti di lingua indoeuropea venissero anch’essi realmente dall’Asia
Minore. I dati archeologici non provano
e non negano nessuna delle due ipotesi contrapposte, per la comune abitudine di
utilizzarli da parte di ognuno come meglio piace.
h)
Personaggi simbolici e classi
sociali a confronto
nel quadro epico mahabharatiano
È impossibile comunque non
osservare nell’insieme della leggenda epica un personaggio simbolico che non
partecipa al conflitto, anzi ne pare oltremodo estraneo; la figura del Dāśarāja (da dāśa, var. dāsa =
‘pescatore, traghettatore, marinaio’), col
suo immaginabile seguito iniziatico tenuto in disparte ed anzi occultato nella
trama del poema. Quest’oscura figura
incarna l’autorità sovracastale al di là d’ogni potere (haṁsitā), cioè la maestria originaria insita nell’uomo che è
spontaneamente congiunto a Dio. Ed è
l’incarnazione di Brahmā, che non per
niente ha per veicolo lo Haṁsa (‘Oca
Reale’), indipendentemente dal nome reale e dalla conseguente mitologia che
possa mai aver avuto il nume primevo in India in tempi proto- o pre-vedici (80).
Per questo i seguaci d’un dio hanno conservato nell’India storica il
suff.-dāsa (lett.‘servo’), applicato al loro nome, onde
formalizzare il loro servaggio devozionale ad un dato aspetto della
Divinità.
Un secondo personaggio anch’egli
precedente al conflitto è rappresentato da Śāntanu, la cui figura singola d’altra parte è sicuramente una
metafora di tutta la casta sacerdotale, una casta di tipo druidico-dravidico
evidentemente; in apparenza non brahmanico quindi, dato che il varṇa brahmanico ha scarso rilievo nel poema, almeno nella trama principale. Segno che si aveva a che fare con tempi
pre-brahmanici, ovvero pre-kaliyughici, e che soltanto in tempi storici la
narrazione è stata induisticizzata creando un pantheon in cui è estremamente
difficile districare gli elementi ari da quelli anari. Vi è comunque chi sostiene la sicura
non-arianicità di Brahmā, Śiva, Viṣṇu (Kṛṣṇa compreso) e Kālī; (81).
Riguardo Brahmā si potrebbe
dubitare, per il fatto che risulta poco importante nell’estremo meridione
dell’India (82); ma la cosa si
potrebbe spiegare non tanto coll’assenza del nume nel paleo-dravidismo, quanto
semmai col prevalere in quei paraggi
dell’austronesianismo. Che il Ṛgveda sia stato composto, nel suo
nucleo primario trasmesso oralmente, al di fuori del mondo indiano sarebbe
provato secondo alcuni dal fatto che in esso siano scarsamente menzionati i
grandi fiumi solcanti le fertili piane del nord (83); secondo altri, viceversa, la citazione della Sarasvatī attesterebbe il contrario.
I sacerdoti indici paleo-dravidici sono le figure con manto trifogliato (84) ritratte nell’arte tribale dei
pescatori e dei commercianti dell’antica Valle dell’Indo, dei quali
Coomaraswamy (85) antecedentemente a
Parpola (86) aveva indicato
l’affinità coi sacerdoti sumeri, nell’Antichità noti come ‘Caldei’ (87).
Benché in tempi posteriori si sia
cercato di tracciare un quadro di affinità linguistiche originarie fra lingue
dravidiche ed ugro-finniche, ma gli Ugro-finni sono maggiormente prossimi agli
Uralo-altaici, appartengono anzi alla linea di demarcazione fra questi ultimi
ed i Paleo-asiatici. I Paleo-asiatici
sono, in sostanza, dei nord-siberiani e gli altri due gruppi dei
sud-siberiani. Piuttosto, l’affinità fra
Paleo-dravidi e Paleo-sumeri parrebbe indicare qualcos’altro, ossia che il dio
primevo paleo-dravidico fosse il corrispettivo indico del dio paleo-sumero An.
Dunque Brahmā, se non è
paleo-dravidico e neppure indoario, da dove proviene? Vide
infra.
Una terza parte di personaggi,
viceversa, scatena belluinamente il disordine colla scusa di voler difendere
gli antichi valori tribali ormai in decadenza dell’aristocrazia guerriera;
tuttavia, malgrado la propria rozzezza, mantiene intatta una sua palese
genuinità. Ad essa si contrappone una
quarta parte sociale piú smaliziata e borghese, che non bada individualmente ad
ignobili vigliaccherie, nonostante i propri decantati valori morali pur
d’annientare gli avversari e vincere il conflitto. Vedi a questo proposito il duello decisivo
fra il prode Duryodhana ed il
vigoroso Bhīma, anche se il fatto
aveva avuto incredibilmente per anteprima (Ᾱdip., cxxviii) una storia
d’avvelenamento del cugino da parte del kuruide, che l’aveva alfine gettato nel Gange. Dal letto del fiume il panduide era
sprofondato agl’Inferi, dove i Nāga
avevano tentato d’ucciderlo; sennonché quegli, disponendo nel proprio sangue d’un veleno vegetale
funzionante da contravveleno, era riuscito a scamparsela ottenendo per di piú
dalle serpi un prezioso liquore, che gli aveva conferito una forza
spropositata.
Anche qui è scontato
intravvedere nella compagna del pesce l’amata moglie del monaco prima di
prendere i voti monacali e nel pesce il marito divenuto buddhista, nonché il
Maestro nel cappellano. I pescatori, in
tal quadro, sembrano incarnare le forze dissolutrici che dominano il Saṁsāra
e che soltanto il saggio sacerdote od il monaco attivo nell’ascesi
interiore possono rendere innocue. Il
pesce è, per contro, il monaco ripreso dalla nostalgia della vita coniugale e
perso nei ricordi mondani. Unicamente il
Maestro è in grado di
condurlo alla liberazione da questi vincoli mortiferi.
La linea avatarica nella persona
di Kṛṣṇa – ecco il punto decisivo del
racconto a garanzia che i fatti si siano svolti durante il IX Ciclo Avatarico e
non nel X – pur essendo di per sé al di sopra delle parti, ancor piú di quella
del Re Pescatore, si schiera però immancabilmente a favore dei principi
panduidi a causa della propria propensione vishnuita. Ciò per il fatto che, a ben vedere, è l’avatāra medesimo a guidare il declino
del mondo verso rinnovati valori spirituali.
Si rammentino in tale ottica le parole di Kṛṣṇa ad Arjuna onde
spronarlo ad uccidere senza pietà il fratellastro Karṇa (88), piú valente
di lui per via della propria nascita solare.
Arjuna è invece
un’incarnazione di Indra, un dio meno
arcaico e dunque inferiore in potenza a Sūrya, benché funga fra tutti gli Dei
da Devarāja (al modo di Zeus rispetto
ad Elio); ma a differenza di Karṇa sa
utilizzare al meglio la formula concernente l’arma pāśupata, che viceversa il fratellastro dimentica nel momento
fatidico. Che è quest’arma, se non quel
che i Greci definivano ὁ καιρός (‘il tempo
opportuno, il momento propizio’)?
Insomma, se è il dāśarāja a
mantenere passivamente intatto nell’ombra il contatto rivelativo dei primordi (89),
concedendo la possibilità agli uomini decaduti di trasformarsi in Haṁsa o Paramāṁsa (utlizziamo qui la terminologia induista, come fa del
resto il poema, ma è chiaro che i concetti debbano esser trasposti in un mondo
non vedico); è l’avatāra a favorire
visibilmente ed attivamente il mutamento per adattamento ai tempi, pur senza
dispersione dell’essenziale. Notiamo per
inciso che il simbolismo avatarico era noto ai Sumeri, quindi non vi è ragione
per negarlo ai Paleo-dravidi; se le tradizioni letterarie dei Dravidi di epoca
storica l’hanno sempre celebrato, non è lecito attribuirne l’origine ad
un’influenza del ceppo ario. Il fatto
che compaia pure nel Veda non
significa che sia di matrice vedica, il Veda
come lo conosciamo oggi essendo un insieme di testi già induizzati; è arduo
d’altronde distinguere, all’interno dell’induismo, gli elementi ari da quelli
anari. È molto piú facile anzi che
sia successo il contrario, ossia che gl’Indodravidi abbiano trasmesso questa
denaria simbologia e molte altre cose agli Indoari. I rapporti fra Paleo-dravidi (90) ed Indoari (91) non debbono esser stati troppo dissimili rispetto a quelli fra
Iranari e Proto-elamiti, viste le affinità di lingua e di cultura da un lato fra
Iranari ed Indoari e dall’altro fra Proto-elamiti e Paleo-dravidi. In Grecia si è verificata una situazione
consimile, in cui gli Elleni sono subentrati ai Pelasgi. Per questo troviamo la simbologia avatarica
anche in Grecia, oltreché in India e in Iran.
Per motivi analoghi la ritroviamo fra gl’Italici, presso i Cumani ed i Latini,
nonché fra i Celti; mentre non è presente fra i Germani, che sono stati da
molti considerati il ceppo piú rappresentativo degl’Indoeuropei. Secondo
noi a torto, a causa della solita confusione fra la Razza Bianca originaria e
gl’Indoeuropei babelicamente decaduti (Iapheti), il culto orionico di tilakiana
memoria loro attribuito equivalendo in tutto e per tutto a quello del mitico
cacciatore biblico Nimrod; figlio di Kašu, voce cassita equivalete all’ittita
Kešši/Kessi. Non a caso il nome di Kṛṣṇa nella Gītā è Keśava, un appellativo conferito all’omonimo avatara precedente per
aver annientato il demone equino Keśin (92).
i)
Ari e Anari
Intendendo i Kuru – come qualcuno ha realmente fatto – quali genti non-vediche
ed anarie e viceversa i Pāṇḍava quali genti vediche ed arie,
saremmo ben presto smentiti. Poiché si
rinvengono dati al riguardo che conducono chiaramente verso altre soluzioni del
problema. Ad es. Kuruśravana, nome che dovrebbe logicamente collegarsi alla stirpe
dei Kuru, è rintracciabile invero nel
Ṛ.V.- iv. 42, 8-9 coll’appellativo di
Trādasyava (‘discendente di Trādasyu’), epiteto del sovrano puruide (93).
Questo perché i Kuru, come
abbiamo visto sopra (94), erano
precedentemente chiamati Puru (95), cosí come i Pāṇḍava eran detti Pāñcāla (96). Da tutto ciò sembrerebbe potersi dedurre in
apparenza che i Kuru fossero ari,
visto che Trādasyu significa
‘flagello dei Dasyu’. Ed i Dasyu,
sappiamo, sono ritenuti nemici
degli Ari nel Ṛgveda. Non stiamo per ora ad identificare siffatti
nemici, lo faremo piú avanti (97). Per il momento ci basti almeno capire una
cosa, che tanto i Kuru quanto i Pāṇḍava parrebbero esser degli ārya (98). Ciò non è in
contraddizione con quel che è attestato nell’epica, giacché le due famiglie
discendono entrambe da Vyāsa (99) alias Kṛṣṇa Dvaipāyana,
alter-ego di Kṛṣṇa (100), l’eroe epico per eccellenza nella saga mahabharatiana (101).
Usando il termine ārya non
occorre necessariamente riferirsi all’interpretazione secondo noi falsata che
di esso è stata data nell’Ottocento e nel Novecento nella linguistica
indoeuropea. Gli ari infatti, lo abbiamo
piú volte rilevato, corrispondono anche sul piano filologico agli eroi greci (102).
Quindi né Kuru né Paṇḍava sono di vera origine
aristocratica, ciclicamente parlando, pur essendo di fatto dei principi; per
quanto si debba fare fra l’un e l’altro gruppo tribale la distinzione
surriferita, relativamente al culto.
Appartengono per maggior precisione alla stirpe umana antecedente a
quella dei semplici uomini, della quale parlano i testi indiani ed anche Esiodo
e Platone, facendone la scaturigine dei deva
o semidei (103). È allo scopo che i testi iranici
tramandano la loro provenienza originaria da regioni nordiche non ben
identificate – diverse ad ogni modo da quelle iperboree, confusione fra i due
territori a parte – ma definite airyanəm vaēǰah, cioè letteralmente la
“regione degli ari” (104). Coincidevano, in tutta evidenza, cogli
abitanti di quella terra che i tradizionalisti europei della prima metà del
Novecento definivano ‘Atlantide Iperborea’ (105).
Mutatis mutandis, gli Ari intesi in accezione
ampia equivalgono ai Gibborīm
biblici, riportati in Gen.- vi. 4;
vale a dire l’assieme dei discendenti noaici ossia Camiti, Semiti e
Iapheti. Si rammenti in proposito che
Cam, Sem e Iaphet nella ‘Bibbia’ nascono prima del Diluvio (ibid., 9-12) da un uomo retto in tempi
di violenza e di corruzione. E siccome
era tradizione ecclesiastica medievale che il diluvio noaico andasse
identificato a quello atlantideo tramandato da Platone, non ci si può esser
dato torto se ipotizziamo l’esistenza in tempi tardo-paleolitici di 3 Atlantidi
(106), piú o meno assimilabili alle
3 Americhe odierne. Colla correzione
geografica dovuta, ovviamente, alla diversa presenza di terre emerse fra le due
epoche. Ciò implica necessariamente che
le Americhe siano state popolate, seppur in diversa percentuale, da 3 Razze: la
Bianca, la Nera e la Rossa (quest’ultima mista), probabilmente nell’ordine
elencato (107). In senso ristretto invece, l’accezione
crediamo adottata nel Ṛgveda e nell’Avesta, gli Ari vanno considerati uno
dei tre ceppi noaici, verosimilmente quello iaphetico. Infatti nell’apocrifo Libro dei Giubilei- viii. 30 si afferma che la terra donata in
sorte da Noè al figlio Iaphet “…era fredda, mentre quella di Cam era
torrida. La terra di Sem, invece, non
era né torrida né fredda, perché era temperata col freddo ed il caldo.” Le speculazioni indoeuropeistiche però – è
bene rammentarlo – non hanno alcun valore tradizionalmente parlando, poiché
gl’Indoeuropei non sono mai esistiti se non nei secoli recenziori nei quali per
unanime convenzione gli orientalisti europei li hanno inventati. Sono in realtà una popolazione mista, in gran
parte di tipo iaphetico (108), e
iaphetica è di pari passo la loro lingua.
In tal caso la corrispondenza è stretta, sebbene vada da sé che la loro
origine sia atlantica, non eurasiatica.
l)
Guerra di Bhārata e Guerra di Troia
Crediamo, pertanto, che il
conflitto indiano fra Kuruidi e Panduidi faccia il paio con quello egeo fra
Troiani ed Achei. Gli Achei vincitori
svolgono il ruolo nell’Iliade dei
Panduidi, i Troiani dei Kuruidi. Vi è
stata una tendenza da parte della critica letteraria, perciò, ad assimilare
doppiamente gli uni agli altri. Questo
non significa però che si tratti della stessa guerra, delle stesse stirpi o
degli stessi tempi. Benché vi siano
delle analogie effettive fra alcuni personaggi dei due poemi (109), che noi medesimi abbiamo
sottolineato nella stesura del libro e che per forza di cose rimandano ad un
sostrato letterario comune piú arcaico, difficile da delineare con precisione (110).
Grosso modo, potremmo aggiungere, la Guerra di Troia si è svolta nella
seconda metà del II millennio a.C. La
Guerra di Bhārata è stata allestita,
per contro, oltre 3 millenni prima. Nel Kurukṣetra gli eroi krishnaiti
sbaragliano gli avversari a loro apparentati.
Nell’agone troiano, al contrario, sono i nuovi arrivati ellenici a
prevalere sugli abitanti ionici dell’Asia Minore.
L’errore commesso a livello
accademico e non nei secoli scorsi è stato quello su base coloniale ed
eurocentrica di pensare che la presunta “razza ariana”, invero mai esistita
nonostante s’intraveda un’indubbia confusione fra l’Uttarā Kuru (la Plaga Settentrionale) e lo Śvetadvīpa (il Continente Bianco
originario secondo il mito) persino in certi sacri testi (111), abbia invaso per ragioni climatiche il sud dell’Eurasia
ovunque imponendo la sua cultura tramite una superiorità strategico-militare
dovuta all’impiego massiccio del cavallo ed all’utilizzo del ferro nelle armi.
Nel Kurukṣetra il cavallo non ha un’importanza decisiva come animale da
guerra e nonostante i duelli epici dei guerrieri sui cocchi ne ha quasi di piú
l’elefante, anche perché nessuno in quell’ambito poteva violare le regole del
nobile combattimento e doveva pugnare in regolar tenzone, cioè da pari a
pari. Le regole, è vero, vengono infine
vigliaccamente violate onde determinare la sorte ultima della guerra; ma ciò
non comporta una superiorità culturale dei vincitori sui vinti, anzi il
contrario. Non succede la stessa cosa
pure ai Troiani? O forse il pio Enea è inferiore ad Agamennone, che non bada di
sacrificare ai numi la giovane figlia Ifigenia pur d’ottenere la vittoria
finale in favore del fratello Menelao?
Benché vindici del ratto di Elena da parte di Paride, non si può certo
affermare che i due fratelli facciano una gran bella figura nell’Iliade!
Quale sia la ragione vera per cui i Panduidi prevalgono sui Kuruidi o
gli Achei sui Troiani è presto detta: in entrambi i casi la maggior scaltrezza,
accompagnata oltretutto da un minor attaccamento alle leggi dell’onore. Sul litorale anatolico ove sorgeva Troia il cavallo
fece vincere la guerra ma, particolare non del tutto insignificante, era di
legno... D’altra parte l’espressione
“Teucri domatori-di-cavalli’ – riferito ai Troiani – è un leit-motif dell’Iliade,
cosa che spiega l’ingenuo ritiro entro le mura della loro città dello speciale
dono fatto agli Dei da parte degli Argivi, il cavallo votivo apparentemente
abbandonato ma invero costruito collo scopo segreto di distruggere Troia; e si
sa che i Troiani appartenevano ad una stirpe anellenica, quella ionica, non
meno degli Ateniesi. Di codesta stirpe,
in origine ricollegabile ai Pelasgi (Her., Hist.-
i. 56, 2), lo storico greco asserisce che non s’era mai allontanata dalle sue
sedi naturali; a differenza di quella dorica, la quale “aveva molto vagato”
prima di giungere a destinazione. Era a tale seconda stirpe che appartenevano
gli Elleni veri e propri e fra costoro eccedevano i Lacedemoni. Ciò significa che furono i Pelasgi (affini ai
Cretesi ed ai Sumeri), cioè il ceppo camitico, ad addomesticare gli equini prima
degli Elleni. Dato che come vedremo piú
innanzi fra Pelasgi e Paleo-dravidi c’è una possibile diretta discendenza, ecco
dunque che la storia della “superiorità indoeuropea” su base equina non
regge. Rispetto alla Piana di Troia
parallelamente nel Kurukṣetra detiene
un ruolo decisivo nel volgere finale degli eventi lo stratagemma dell’elefante,
mediante cui si fa credere ai Kaurava
sopravvissuti con voci subdole che l’Aśvatthāmam
da poco annientato è il figlio del loro nuovo comandante-in capo Droṇa, dopo la morte al decimo giorno di battaglia
dell’invincibile Bhīṣma; anziché,
come accade in realtà, l’innocente pachiderma omonimo massacrato da Bhīma e preso a pretesto al fine di
demoralizzare il grande maestro d’armi onde poi poterlo piú facilmente decapitare.
Se gli equini eran già presenti
nella Guerra di Bhārata (112), tanto che già era stato
allestito alla fine della guerra da parte panduide l’Ᾱśvamedhika (il ‘Sacrificio-del-cavallo’),
vuol dire evidentemente che essi non hanno avuto un ruolo decisivo
nell’avanzata aria in India contro gli anari durante il II millennio a.C;
oppure, ed è questa la nostra convinzione segreta, la suddetta invasione ha
rivestito minor importanza di quanto oggi si teorizzi (113).
m) Necessità d’una rivalutazione
della vecchia partizione biblica in Camiti,
Semiti e Iapheti
Vi è un’apparente contraddizione,
ad ogni modo, nel nostro assunto; dato che in India attribuiamo la vittoria per
scaltrezza a genti camitiche (i Pāṇḍava krishnaiti), affini a quelle
sumeriche, in Grecia a genti iaphetiche (gli Achei). E proprio cosí,
probabilmente, deve essere andata.
Perché non si tratta della medesima ondata migratoria, né degli stessi
ceppi etnici; sebbene in entrambi i casi a scatenare il conflitto sia stato un
elemento imponderabile, le grazie d’una donna: l’avvenente Draupadī da un lato e la bella ʿΕλένη
dall’altro. Non si può perciò escludere che vi sia stata
in qualche modo una trasmissione di dati preistorici dall’India alla Grecia,
riadattati in tempi protostorici all’uso.
La prima ondata migratoria di cui
si abbia traccia culturalmente parlando dal Mesolitico in poi (114) riguarda il passaggio in Asia dal
Mediterraneo di genti pelasgiche, nelle quali si potrebbero riconoscere i
Paleo-dravidi, piú avanzati civilmente degli autoctoni. Essi elessero quale sede privilegiata,
secondo quel che si deduce dal Mahābhārata,
un arcipelago d’isole attorniate ad una principale (115). Probabilmente perché,
essendo pescatori e commercianti marittimi, la cosa comportava maggiori vantaggi. Codesti proto-indici erano in sostanza tribú
camitiche (116) le quali finirono
per dominare sui gruppi austronesiani piú primitivi (117), di tipo mundarico o veddoide, in un Deccan sicuramente diverso da quello storico;
fra costoro e i proto-indici vi era probabilmente incuneato un terzo ceppo
d’imprecisata origine, che la mitologia hindu descrive come guerrieri ramaiti
di tendenze brahmaniche primitive. Pur
nella fusione etnica che deve esser avvenuta in parte durante il Mesolitico fra
i 3 gruppi, certamente i 2 gruppi autoctoni (austronesiani di bassa o media
statura e ramaiti longilinei, questi particolarmente affini ai Kuruidi) ed i
loro discendenti già camiticizzati sono stati dapprima sopravanzati
tecnologicamente – si considerino in quest’ottica i miraggi del meraviglioso
palazzo costruito in Hastināpura per
i principi panduidi da Māyāsura, ai
quali sono sottoposti onde deriderli ed umiliarli il povero Duryodhana e i vanagloriosi fratelli alla vigilia dello
scatenamento del conflitto – ed alfine sconfitti in guerra.
Nella Guerra di Troia gli ultimi
arrivati, Agamennone e soci ovvero la coalizione di guerrieri ellenici arrivati
colle navi dall’Egeo, erano invece
iapheti provenienti da lontano; dotati, oltreché di maggior destrezza bellica, d’un
numero superiore di belligeranti. Non
dimentichiamo però che la Troia morente è rinata di poi nella potente macchina
da guerra romana, essendosi l’etnia ionio-troiana dispersa coniugata a poco a
poco con quella latina, d’altra provenienza.
A dimostrazione se non altro della superiorità camitica nei
combattimenti, una superiorità a livello di coraggio e di forza bruta
appartenuta in passato alla Razza Nera nei 2 cicli avatarici da essa dominati
(il V ed il VI, cioè il Ciclo dei Nani e quello dei Titani), donde sono stati
forgiati i veri Rājanya (118); e che è stata ereditata in
seguito dall’Atlantide Meridionale (creata sul piano culturale secondo la
leggenda ebraica dai Cainiti e dai Sethiti, congiuntamente, in una area
geografica corrispondente a quella che è oggi pressappoco l’America del Sud),
per poi esser trasmessa nella fase finale del Dvāparayuga e nella prima fase del Kaliyuga tramite i Camiti – loro eredi diretti – alle proprie
spurie filiazioni indomediteranee (Protoiberi, Protocelti, Pelasgi, Cretesi,
Mini, Protosumeri, Protoegizi, Protolibici, Paleo-nilotici, Paleo-etiopici,
Proto-elamiti e Paleo-dravidi) siccome piú dinamiche e vigorose di altri
ibridi. L’Egitto docet in proposito. In
seguito nel Vicino Oriente e nel Nordafrica ha prevalso l’etnia semitica
(Accadi, Assiri e Babilonesi, Hyksos, Ebrei ed Arabi, Fenici e Cartaginesi)(119), pastoralmente nomadica ed
avvezza ai commerci carovanieri; indi nelle lande europee ed asiatiche quella
iaphetica (Italici, Illiri, Elleni, Daci, Traci, Frigi, Ittiti, Germani, Celti,
Teutoni, Cimbri, Ambroni, Baltici, Proto-slavi, Sciti, Cimmeri, Tocari ed
Indo-iranici)(120), piú portata ad
espandersi demograficamente (Gen.-
ix. 27), dotata di maggior senso pratico e meglio capace di sfruttare le
risorse naturali del territorio.
Nel XIX sec e XX sec. i popoli
iaphetici sono diventati agli occhi dell’orientalistica ufficiale
gl’Indoeuropei, quantunque taluno avesse ammonito già nell’Ottocento a non
trasformare le lingue indoeuropee in altrettanti popoli (121). I semiti, fortuna
loro, sono rimasti tali; mentre i camiti, poveretti, sono stati declassati
dapprima ad asianici e poi riciclati quali indomediterranei. Forse il ricordo delle invasioni barbariche
durante l’Antichità ed il Medioevo, un prolungamento storico ovviamente delle
altre dei millenni precedenti, ha giocato un brutto scherzo agli studiosi
europei contemporanei e ne ha falsato il giudizio.
L’inizio del Kaliyuga, ce l’insegna la storia della civiltà secondo quanto
abbiamo appena visto, è stato dominato dagli ardenti regni camitici sorti
presso i grandi fiumi (Nilo, Tigri-Eufrate, Indo) e non dalle terrifiche e
barbare popolazioni iaphetiche; o dalle fluidiche genti degl’imperi semitici,
che hanno invece fatto da tramite cronologicamente e non fra i due opposti
ceppi noaici. Come avrebbero potuto
dominare all’inizio del Kaliyuga i
Paleo-dravidi se fossero stati sopraffatti nel Kurukṣetra, dal momento che il Mahābhārata
– lo abbiamo precedentemente segnalato a chiare lettere – attribuisce inequivocabilmente lo scontro fra Kuruidi e Panduidi
nonché fra i loro alleati alla fine del Dvāpara? Dobbiamo spostare la data dell’avvenimento di
4.000 anni, come fanno generalmente gli storici indiani odierni che pure hanno
il coraggio oggi di parlare di guerra civile e non di guerra etnica (come si è
sempre fatto in passato), per far quadrare le cose? Risulta inoltre patetico, seppur
giustificatissimo in quanto frutto del loro rispetto devozionale, il tentativo
di trasformare i soggetti dei miti avatarici in semplici personaggi storici
dell’India post-vedica. Non ve n’è uno
in realtà, probabilmente neppure Kṛṣṇa,
che possa essere ascritto assennatamente all’India protostorica. Tant’è che si tratta d’una mitologia diffusa,
per certi versi, in tutto il globo e che potremmo quindi definire
‘universale’. Gli orientalisti in
precedenza in tempi di colonialismo britannico avevano finito pressoché per
identificare la vicenda mahabharatiana all’agone rigvedico fra Ari e Anari,
elementi fantastico-letterari a parte, quasi volessero inconsapevolmente
giustificare l’azione coloniale come un atto dovuto alla manifesta superiorità
culturale degli uni sugli altri; fatto che, in tal modo, rievocava
inevitabilmente ciò che era già avvenuto nell’Antichità. Dal nostro particolare punto di vista,
poggiante sull’etimo parzialmente riconosciuto in sede accademica della voce
‘Ari’ (vide supra, sebbene da parte
nostra crediamo di poterla estendere a piú significati quantunque convergenti,
che vanno da ‘aratori’ ad ‘artigiani’ ad ‘eroi’), riteniamo che sarebbe meglio interpretare il
termine ed il suo opposto in senso eroico ed antieroico (annettendo gli
ulteriori significati indicati, i quali si riferiscono nell’insieme agli
attributi fondamentali d’una determinata generazione umana, che per Esiodo era
la quarta in ordine temporale rispetto a quella aurea), anziché in senso
etnico. A meno di sconvolgere l’intera
nostra rappresentazione attuale del mondo indiano, intendendo gli Ari in senso
limitativo ossia iaphetico (il che è accettabile) e ponendo costoro stanziati
sul suolo indiano fin dai tempi della Sarasvatī,
parallelamente all’avanzata dravido-camitica nel Deccan dai lidi nord- o
sud-occidentali. Tornando al Kurukṣetra,
perché un poema antico fungente da testo sacro dovrebbe mentire? I recenti reperti archeologici rinvenuti a
livello oceanico nell’India Nordoccidentale testimoniano, non a caso,
un’affinità notevole fra di essi e quelli dell’antica Civiltà dell’Indo. Avendo quella zona costiera tradizionalmente
a che fare coi luoghi mitici del krishnaismo, ed essendo per giunta stato
dimostrato dal Parpola (122) ormai
quasi definitivamente che gli antichi vallindi erano dei paleo-dravidi misti ad
un altro ceppo dominante da lui definito “ario-primitivo” (cosa sulla quale non
siamo peraltro d’accordo), è chiaro che si debba credere in una continuità di
cultura nel mondo indiano fra la civiltà mesolitica e quella neolitica od
eneolitica. Evidentemente erano stati
proprio loro, i Paleo-dravidi, a vincere nella grande sfida bellica
dvaparayughica; e a riassorbire cosí la
controparte tribale nel proprio alveo culturale, pur nei limiti imposti
dall’ordine castale indiano. Non gli
avversari a loro direttamente legati, chiunque fossero: altri gruppi camitici,
oppure iaphetici, alleati ai gruppi autoctoni.
Coll’avvicinarsi dei tempi storici, tuttavia, qualcosa deve esser
cambiato; i figli dei vincitori d’un tempo debbono aver ceduto il passo ai
discendenti collaterali degli sconfitti, grazie all’apporto magari di nuovi
venuti sul territorio e a nuove alleanze militari. Come sempre è successo in tutte le invasioni,
gl’invasori hanno alfine mutato la fisionomia dell’India intera, donde i
Dravidi sono stati spinti a sud lasciando le postazioni nordiche agl’Indoari; meno
civilizzati, ma piú potenti dal punto di vista bellico. Non per via del cavallo in sé, ma semmai
dell’utilizzo che di questo animale è stato fatto da allora in poi, sellandolo
opportunamente e trasformando i combattenti dai cocchi in veri e propri cavalieri
senza le precedenti regole militari e quindi piú efficaci in battaglia. I popoli barbarici, colle loro pugne
selvagge, insegnano al riguardo.
Volendo, si può anche concedere all’indoeuropeistica ufficiale che ai
nuovi invasori un ulteriore vantaggio in combattimento sia stato offerto
dall’impiego del ferro negli armamenti; dato che gl’indo-iranici paiono
provenire dall’area ittito-mitannica, i cui abitanti avevano parallelamente
surclassato la potenza egizia con tali mezzi.
Questo metallo deve sicuramente aver rivoluzionato pure l’economia in
seguito. Sarebbe interessante fare
ulteriori indagini in codesto settore (123). Non si può esser certi, comunque, che i
mutamenti che hanno condotto alla formazione dell’induismo storico siano dovuti
a fattori esclusivamente etnici o militari.
Piú spesso è il fattore religioso a risultare determinante nella storia,
anziché l’etnia o la forza militare, com’è avvenuto d’altronde durante l’epoca
medievale e moderna (124).
n) Carattere
e natura dell’inidentificato Dāśarāja,
il
cd. ‘Re Pescatore’ del Mahābhārata
Dobbiamo ora cercar di chiarire
la vera natura del ‘Re Pe- scatore’, sin qua tralasciata, la quale presenta
altresí un aspetto di ‘Capo Traghettatore’.
Forse un traghettatore di anime al modo di Yama, funzionalmente analogo a Kāla
e Mṛtyu, od al Caronte greco-etrusco. Figure del tutto similari sono presenti,
peraltro, nella tradizione mesopotamica ed in quella egizia (125).
Ebbene, mettendo a confronto tale
oscura figura con l’omologo ‘Re Pescatore’ della saga celto-cristiana del Santo
Graal, personaggio che Coomaraswamy (126) giustamente riteneva
equiparabile a Varuṇa (avente
talora per veicolo il Matsya anziché
il Makara)(127), ci pare di
poter dedurre che il Dāśarāja della
leggenda in esame non possa essere altri che un’incarnazione di Manu (128); inteso nella
doppia funzione, ad un tempo divina ed umana, di Prajāpati – il Signore della Progenie – quale traghettatore di
anime verso il mondo terreno mediante la generazione degli esseri (129) e di Yamarāja – il Primo Uomo – quale progenitore dell’intera
umanità. Il senso opposto, sopra
considerato, di Yama nel ruolo di
nume mortifero è senza dubbio complementare a questo. E vale anch’esso in doppia valenza, mondana
ed oltremondana. Donde capiamo perché
mai nella Guerra di Bhārata il Dāśarāja si tenga in disparte rispetto
alle due fazioni, l’una titanica e l’altra eroica, discese entrambe dalla sua
figliastra Satyā – immagine della Rivelazione – e
contendentisi il duplice dominio spirituale e temporale nel mondo alle soglie
del Kaliyuga.
La supposta identità tra Manu e il Dāśarāja è ovvio che debba esser ulteriormente dimostrata (130), data l’importanza del
soggetto. Non può esser data per
scontata attraverso una sem- plice deduzione.
Questo sarà anzi il punto focale del libro, benché tale dimostrazione
sia stata posta volutamente nell’ultimo paragrafo del penultimo capitolo; donde
si ricaverà conferma indiretta degli altri decisivi sviluppi, quivi trattati
nell’assunzione che quella identificazione sia vera, illustrando in profondità
la simbologia ittica. Intanto,
cominciamo a notare che tale simbologia non sembra limitata esclusivamente a Manu quale supposto Re Pescatore e
doppione uranico di Varuṇa (a sua volta
alter-ego di Brahmā), il nume che in origine presiedeva alle
‘Acque Superiori’; sebbene siffatta prerogativa sia stata ereditata in seguito
da Indra, come attesta il Mahābhārata. Né tantomeno a Viṣṇu, nella forma del succitato Matsyāvatāra. Anche il terzo
termine della Trimūrti hindu (Śiva-Mahādeva), vedremo, ne risulta
immancabilmente coinvolto.
D’altra parte Manu nel Veda non è distinguibile da Brahmā,
detentore non meno di lui d’una mitica Coppa (131), poiché l’archetipo divino dell’uomo equivale alla divinità
in senso personale. Seppur sia
assolutamente accettabile il paragone coomaraswamyano sopra menzionato (132) fra il Dāśarāja e Varuṇa, in realtà
abbiamo già stabilito per una miglior precisione che è Śāntanu la vera incarnazione del dio
delle acque (133). La distinzione ovviamente concerne il modo
d’intendere la spiritualità in tempi diversi, vale a dire nelle due diverse
metà del Satyayuga (I e II Mahāyuga).
o) Matsyendranātha e Matsyāvatāra,
corrispettivi vicendevolmente shivaita e vishnuita
di Manu
in veste di signori delle acque celesti
In certe regioni dell’India, e
particolarmente in Nepāl, è rimasta
traccia invece d’un certo Matsyendranātha
(var. Mīnanātha); che i locali
hanno assimilato a Pāśupatinātha, il
cd. ‘Signore del Nepāl’, insomma la forma meno arcaica di Śiva (134). Il primo è stato
omologato dai buddhisti anche ad Avalokiteśvara
(il ‘Signore Misericordioso’, avente per vāhana
il Leone), di color bianco o rosso ed altrimenti noto come ‘Signore della
Montagna’. Difatti secondo Liebert sono
state assegnate a quest’ultimo delle mūrti
di tipo shivaita, con 3 o 11 teste,
anche se l’autore commette l’errore di attribuire tali corrispondenze a Viṣṇu.
Matsyendra (Mīna) viene considerato nell’ambito dello shivaismo l’Ādiguru, vale a dire il Primo Maestro umano, avendo ricevuto l’Ajña (‘Gnosi’)
in veste ittiomorfica da Śiva medesimo
nell’aspetto supremo di Ādinātha (‘Signore
Primordiale’). È perciò evidente che Mīnanātha (135) rappresenti l’equivalente shivaita del Matsyāvatāra. Pure la forma
ittica di Brahmā-Prajāpati tuttavia
sostituisce, o meglio precede, da un punto di vista funzionale gli avatāra vishnuiti piú arcaici nei testi
meno recenti; vedi Ś.B.- i. 8, 1, 1-6
e Mhbh., Vanap.- clxxxxvii. 1-55. Di norma, però, il Matsyāvatāra viene presentato nei Purāṇa
(136) come una manifestazione
pescina di Viṣṇu-Nārāyaṇa. Tali narrazioni, in genere di carattere
vishnuita, illustrano – estrapolando dalle varie versioni succitate in nota –
la discesa terrena della Divinità in sembiante di ‘Carpa Miracolosa’; sorta di
‘Pesce Parlante’, che appare nel contempo talora in veste di ‘Pesce Aureo’ o di
‘Pesce Unicorne’.
Essa capita un giorno improvvisamente
di fronte a Manu, mentre costui
attinge acqua dall’oceano per lavare od a scopo sacrificale secondo altre
versioni, ma è evidente che a quel tempo il Sacrificio (Yajña) ancora non esisteva e che si possa quindi parlare di
semplici abluzioni rituali in onore
della Divinità. La scena si svolge di
mattino ed è per forza di cose del tutto simbolica, pure nei particolari,
siffatta figura di Re Sacro o di Re Pescatore essendo in realtà un
travestimento allegorico dell’umanità primeva venerante Sé medesima (137).
Nella leggenda in questione Satyavrata
tenta via via, dietro richiesta susseguente di protezione e conforto da parte
del piccolo essere implorante, di procurargli un habitat sempre piú sicuro e
spazioso (vaso, vasca, pozzo, lago); ma invano, poiché il ‘Pesce Miracoloso’
cresce rapidamente e a dismisura fino a non poter piú essere contenuto in altro
luogo se non nell’«Oceano», donde era venuto...
In nota ad un diverso nostro scritto (La Lingua Celeste, P.I), peraltro rimasto incompiuto per motivi di
difficoltà editoriali alla pubblicazione, avevamo motivato tale crescita come
un’allusione al carattere espansivo dell’Amore, che non può esser contenuto da
alcunché. Dante docet… Dopo aver dunque
rivelato a Manu la sua vera natura, il Mahāmatsya
gli annuncia prossimo un Diluvio; segno che si tratta della fine d’un ciclo, il
quale non può essere che la fine del I Ciclo Avatarico del VII Manvantara, sebbene talvolta per sovrapposizione
sia stato identificato alla inondazione concludente il VI Manvantara. Cosa che ha
portato taluno, ignaro della corretta suddivisione dei cicli avatarici, a
parificare erroneamente anche per quanto concerne il passaggio ultimo dal VII
all’VIII Manvantara, avvenuto di
recente (nel Duemila), il Kalkyavatāra (X
Avatāra) al Matsyāvatāra (I Avatāra). Tornando al mito, il Pesce impartisce
all’Uomo istruzioni riguardo la costruzione dell’Arca e la possibile salvezza
futura dello stesso e dei Sette Ṛṣi.
A salvezza raggiunta Manu,
considerato nel contesto ad un tempo il Ṛṣi per eccellenza – cioè l’uomo
archetipico della sua epoca, con doti di veggenza – nonché il Signore della
Creazione, essendo desideroso di progenie alla maniera dell’Adamo biblico –
anche questi munito d’un doppio ruolo nella tradizione ebraica – presiede alla
nascita dell’intera umanità (ibid.,
vs. 53/a). Vale a dire in termini generazionali dei Daitya, dei Deva e dei Manuṣya; insomma, le Generazioni
Umane (o Divine) post-adamiche. Da
intendere rispettivamente come Dèmoni, Dei e Uomini, in riferimento al Triyuga (la Triplice Età del
Sacrificio); dato che la divinità e l’umanità del Satyayuga (Età dell’Oro), cioè i Ṛṣi (o meglio gli Haṁsa),
è nella leggenda già personificata da Manu
(138) medesimo in funzione di
dio supremo e uomo archetipico ad un tempo.
Non a caso il termine ‘Adamo’, derivato dall’ebraico, significa
anch’esso ‘Uomo’; ma, quando possiede cabalisticamente 4 Teste per guardare in
ogni dove, svolge la funzione di Brahmā
nel contesto hindu. Insomma di Yahweh nell’ebraismo, o di Iānus Quadrigeminus in ambito latino.
Non importa che codeste raffigurazioni siano di origine protostorica,
immaginando che una loro rappresentazione in legno od altro materiale
deperibile abbia preceduto quelle in pietra,
e non preistorica; è il concetto di geminus
(‘gemello, duplice’) in sé a contare, Re Giano equivalendo ai primordiali Yima/Yama (id.) della tradizione
indo-iranica. Altrimenti si fa dello
storicismo a vanvera. Nel suddetto testo
indiano viene specificato d’altronde che il Primo Uomo, nonché Creatore (i due
aspetti compaiono sempre congiunti nella tradizione hindu, non meno che in
quella iranica o giudaico-cristiana), ha presieduto pure alla nascita degli
altri esseri; ovviamente in senso gerarchico, non evolutivo, animali e piante
apparendo nel passo indicato a coronamento della Manifestazione universale.
A differenza della ‘Bibbia’ nelle
scritture induiste non si fa affatto mistero che l’Arca, contenente i ‘Sette
Principi’ della Manifestazione (in altre parole i ‘Sette Semi’ della
Creazione), abbia una sede celeste.
Quando il Diluvio scende sulla Terra Manu
– che la tradizione zingara identifica espressamente ad ’Ādām, entrambi i
nomi designando come abbiamo già visto l’uomo per antonomasia in senso
primordiale – è costretto a legare quest’arca al <corno> salvifico del
pesce, usufruendo del serpente Ananta
quale <corda> ed assicurando quest’ultima ad un <albero> cresciuto
sul <picco> dell’Uttarā Pārvata (la
‘Montagna Boreale’, ivi nel valore d’Iperborea, insomma il Monte Meru ).
Siffatto mitologhema può essere
inteso ontologicamente, interpretando la Montagna Polare come il Cielo quale
Principio della Manifestazione ed in quanto tale opposto agl’Inferi; mentre
l’Albero del Mondo, in senso assiale, è una raffigurazione dell’Assoluto. In questo modo il Serpente (An-anta significa ‘Infinito’) viene a
raffigurare il Non Essere (A-sat) che
lo caratterizza, mentre l’Aureo Corno del Pesce ci rimanda al ‘Raggio Solare’ o
‘Settimo Raggio’, unificante il macrocosmo ed il microcosmo. Il Pesce possiede di per sé (corno a parte)
un ruolo viceversa demiurgico-solare, di contro a quello ricettivo-lunare
dell’Arca; per essere piú chiari, il Pesce simbolizza la Śruti (‘Rivelazione’) e l’Arca in tutta
evidenza la Smṛti (‘Tradizione’). Le Piogge diluviali alludono, invece, alla
Manifestazione. Se viceversa
analizzassimo la summenzionata simbologia in senso limitatamente cosmologico
sarebbe allora opportuno considerare la Montagna Boreale – puranicamente
identificata alla catena himalayana – nel senso semplicemente di Terra
Iperborea, intendendo poi l’Albero ed il Serpente vicendevolmente come l’Essere
(Sat) e il Divenire (Kāla); giacché l’Essere costituisce il
Principio della Manifestazione (Vyakti)
e in quanto tale equivale all’Albero Cosmico (Kalpavṛkṣa), preposto all’insieme dei 14 Manvantara (il Kalpa). Nel qual caso la
menzione del Corno, non potendo ricalcare quella dell’Albero, dovrebbe
necessariamente far riferimento ad un’assialità di tipo astrale; in relazione
evidente sia ad un Punto Cardinale (il Centro, articamente inteso oppure in
senso galattico), sia ad una corrispondente posizione dei poli celesti (l’asse
Vega-Sirio, dominante durante I Ciclo Avatarico), a propria volta sideralmente
correlata ad un dato Punto Vernale (ossia una primeva congiunzione dei Sette
Pianeti nel Segno del Toro, posto a quell’epoca al Solstizio Invernale, mentre
al Punto Gamma trovavasi il Leone).
Sebbene le suddette speculazioni
siano frutto delle nostre personali elucubrazioni mentali, ci risulta siano
involontariamente in linea colla tradizione indiana; dato che anche i Brahmani
indiani odierni interpretano cosí le cose, in base a quel che ci aveva riferito
tempo fa un nostro collega di studi (139),
assegnando al solstizio invernale un ruolo primevo in tal senso. Del resto, la tradizione orientale e quella
occidentale attribuiscono entrambe unanimemente alle settemplici congiunzioni
planetarie (140) la causa dei
periodici e perenni rivolgimenti del cosmo.
Il significato del Pesce, dell’Arca e delle Piogge secondo codesta
accezione, senza dubbio piú ristretta di quella precedente, sarebbe allora da
indicare in prospettiva astrologica rispettivamente nel Sole, nello Zodiaco
Solare e nei Diluvi ciclici. Cfr.
Coll’Arca dei Viventi (gr.xἀ-w/ xό-w = ‘vivere’), ed il relativo Diluvio Universale, del leggendario
Noè biblico. Pur se lo Zodiaco rimaneva
al tempo di Manu (cioè di Adamo)
sconosciuto, ma la cosa potrebbe valere allora pure per le settemplici
congiunzioni e per molto altro. È chiaro che si tratta d’una interpretazione a
posteriori, pur essendo ciononostante valida, l’intera gamma del simbolismo
essendo d’origine post-paradisiaca.
Ad ogni modo, detto en passant, l’unica interpretazione
cosmologicamente sensata dell’arca diluviale della leggenda noaica nel testo
biblico non può che essere un’interpretazione di tal genere. Ferme restando le allusioni di tipo etico-allegorico
o storico-antropologiche, che debbono esser aggiunte alle altre sopra
formulate, non contrapposte (141).
p) Mīn,
prototipo paleo-dravidico del dio-pesce
Padre Enrique Heras, un gesuita
ispanico naturalizzato in ambiente indiano col nome britannico di Rev. Henry
Heras secondo l’uso protestante e divenuto direttore dell’Indian Historical Research Institute presso il St. Xavier’s College di Bombay, ha analizzato alcune delle
principali varianti del mito in questione in un celebre saggio (142); il cui valore non ci risulta sia
stato debitamente riconosciuto, come spesso è successo per varie opere che
hanno aperto nuove vie interpretative, pur avendo esse il solo torto
d’includere nel materiale presentato della zavorra. Intelligentemente lo scrittore anglofono,
trattando il motivo leggendario dell’Arca e del Diluvio (143), richiamava l’attenzione della critica verso un possibile
prototipo paleo-dravidico del dio-pesce: Mīn,
un aspetto del dio Āṇ, secondo lui
descritto con ‘occhi-di pesce’ nelle iscrizioni dei sigilli dell’antica Valle
dell’Indo rinvenuti nella zona di Mohenjo
Dāro (144).
Dato che Āṇ (cfr. con l’An/-u sumerico) risulterebbe in tal modo
a nostro giudizio il corrispondente pre-vedico del vedico Varuṇa (145), l’ipotesi
proposta da Padre Heras s’accorda perfettamente con la teoria di Coomaraswamy (146) riguardo l’antica natura del nume
delle acque – celesti ed infere –
come l’originario Re Pescatore di cui il Pesce è veicolo. Egualmente si potrebbe intendere Brahmā, al cui proposito vide supra, come un ‘ipostasi
in ambito hindu di Varuṇa (147).
La dualità apparente tra le
immagini del Re Pescatore e del Pesce, ciascuna delle quali è applicabile a
qualsivoglia membro della Trimūrti,
si riferisce sul piano cosmologico alla contrapposizione tra il ruolo
uranico-solare (polare-diurno) del primo e la funzione uranico-lunare (ossia
polare-notturna) del secondo. Tale
distinzione ci permette indirettamente di comparare il Re Pescatore alla figura
solare di Agni (il Divoratore) ed il Pesce a quella lunare di Soma (l’Alimento); ma bisogna fare
attenzione al contesto, visto che l’identità può essere concepita anche in
termini rovesciati. In altre parole, si
può intendere Agni (il Re Pescatore,
munito di Canna) in senso
lunar-polare, ovvero notturno-assiale; e viceversa Soma (il Pesce, munito di Dente) in senso solar-polare, ossia
diurno-assiale. Nel caso di Varuṇa, peraltro, l’identità con le due
opposte figure è doppia; giacché il nume oceanico è primordiale e ambivalente
(kritayughico) rispetto ai complementari sebbene distinti (tretayughici) Agni (Fuoco, Sole) e Soma (Acqua, Luna).
q) Il mito di
Varuṇa,
altra
versione della leggenda del Re Pescatore
Osserveremo ancora che per quel
che riguarda Varuṇa la possibile
identificazione di cotale deità dotata di cappio in qualità di Maya a Prajāpati, o
come Yama a Pāśupati (notare la quasi precisa inversione sillabica dei nomi: ma-ya/ya-ma), rispecchia il duplice
volto del Re Pescatore quale traghettatore di anime verso <Questo> o
l’<Altro Mondo>. La Manifestazione
è infatti concepita nel pensiero indiano come il magico frutto d’una sacra unio (mithuna) tra la Verga/Fallo di un Māyin (‘Illusionista, Mago’), rappresentato alternativamente in
vesti demonico-asuriche col nome di Maya
(l’Architetto dell’Universo), e la Ruota/Vulva della dea Māyā, incarnante l’illusione cosmica. Prajāpati
(cfr. col biblico Iaphet, trascritto
talora Iafet) e Pāśupati non sono che i loro
equivalenti kaliyughici.
Iconograficamente Re Varuṇa deve di sicuro aver perduto la Canna-lenza (ossia il Kāladaṇḍa, emblema dell’Asse) di cui egli in
principio era di necessità dotato, secondo quanto tradisce il suo veicolo
pescino antecedente al Makara, che si
può supporre non meno di codesto composito animale originariamente dotato di
rostro; la stessa arma (ayudha) in
forma astrattizzata ha infatti continuato a caratterizzare Yama, doppione del medesimo, in
qualità di Dharmarāja (148).
Anche la ’Verga’ di Iānus (149) fra i Latini è da intendere
simultaneamente in accezione fallico-assiale, in entrambi i casi comunque in
rapporto col Rostro del Delfino; vedi asterismo omonimo, presso il Capricorno,
coincidente col dominio annuale del dio degli inizi (150). Varuṇa ha mantenuto comunque il Cappio (Pāśa), chiaramente un’effigie dal punto
di vista cosmologico della Ruota Celeste (Kālacakra),
con allusione ontologica allo Zero Metafisico (151). Non si tratta ad ogni
modo della ruota planetaria sic et
simpliciter, bensí d’una ruota in senso uranico; connessa plasticamente
alla diretta percezione ottica primeva del movimento delle stelle in quanto
lumi celesti e delle nuvole siccome fonti di acque (le mitiche ‘vacche’),
dunque ancora senza distinzioni temporali in dettaglio, a parte i 2 solstizi.
Ciononostante, se uniamo
fianco a fianco graficamente il supposto doppio emblema del nume, vale a dire
la Verga (Fallo/Asse/Uno) ed il Laccio (Vulva/Ruota/Zero), otteniamo nientemeno
che la cifra 10, il numero dei periodi avatarici d’un Manvantara. Non a caso
questa cifra, oltre ad esser tenuta in grande considerazione per motivazioni
analoghe da varie tradizioni (cinese, indiana, iranica,
sumerica, celtica) era posta alla base della Tavola Pitagorica presso i Greci e
costituiva fonte di profezia all’interno della romanità nelle speculazioni
della Sibilla Cumana (152).
Etimologicamente il nome Varuṇa è da rapportare, oltreché al gr. Ouranós, al scr. Uraṇa (‘Ariete’); dalla qual cosa si ricava, palesemente, una
doppia conferma dello smarrimento del prisco attributo uranico. Visto che da un lato il nume ellenico del
firmamento stellato conserva nel suo bagaglio mitico, nonostante l’evirazione
cui è stato sottoposto dal figlio Crono, quel ‘Fallo’ donde s’è ingenerata –
dopo la caduta dell’organo divino nelle ‘Acque’ – la bella ed amorosa Ouranía (Afrodite)(153), talvolta non per niente effigiata col Becco (154). E che dall’altro pure
l’Ariete, equivalente pastorale del Cervo in campo venatorio, incorpora in sé
una valenza cherato-fallico-assiale di matrice preistorica; probabilmente
modellata su un’ancestrale icona antropomorfica paleo-siberiana dell’Axis Mundi sotto forma di Signore delle Renne, in possesso d’un connotato
itifallico o d’un singolo corno o qualcosa d’equivalente che certe dee-madri
preistoriche (vedi la Venere di Laussel, in Francia) paiono impugnare a mo’ di Cornucopia (155). L’itifallismo del
primigenio Signore degli Animali è d’altronde strettamente legato sul piano
simbolico, come vedremo piú avanti, alla Zanna del Pesce Monodono ovvero al
Corno della Renna/Cervo/Antilope Unicorne.
Il duplice volto del ‘Traghettatore
di Anime’, sia costui Varuṇa o Yama, corrisponde nella tradizione
ebraica alla doppia facies
cabalistica di Metatron. Nella tradizione hindu, in ogni caso,
troviamo un ennesimo allotipo in Kāla. Cosí come accade in Grecia, dove il figlio Crono
costituisce una variante funzionale del padre Urano; parimenti la figura di Kāla o del suo alter-ego Śiva,
detentore della signoria sui cicli astrali, corrisponde in India ad una
specificazione posteriore della figura divina primeva rispetto al primaziale Varuṇa.
Kāla infatti costituisce il
mediatore fra le due metà opposte e complementari del Cakra (‘Ruota’), individuanti gli aspetti essenziali del Divenire;
figurativamente rappresentate dalle <corna> numinose, scomparse invero o
non presenti nelle figure di Varuṇa e
di Kāla, ma ben evidenti nel caso di Yama e Śiva. Non per nulla
l’equivalente greco di Kāla, Crono,
risulta essere sul piano dell’etimo il ‘Cornuto’ per eccellenza; benché colla
civilizzazione abbia perso al pari dell’omologo indiano il selvaggio costume
delle corna e pertanto ne manchi dal punto di vista figurativo (156).
Il duplice arco temporale, delineato dalle 2 Corna opposte, simboleggia
in senso lato la Manifestazione e la Dissoluzione del cosmo.
Estrapolando dai dati delle varie
icone divine si può affermare generalizzando che l’Asse della Ruota, nonché
quello del Triśūla (‘Tridente’) ovvero il Bastone
impugnato dal nume alludono viceversa al Principio di Divina Unità al di là
d’ogni dualità fenomenica. Il che è
espresso sul piano iconografico dal Kāladaṇḍa (‘Asse
Celeste/ Temporale’), l’arma appartenente invisibilmente al signore delle acque
celesti ed infere accanto al piú consueto Kālapāśa
(‘Laccio Celeste/ Temporale’); sebbene esso appartenga di preferenza a Yama, omologo del Giano latino (157).
Insomma, oltre ogni dualità sta Svayambhu
(‘Esistente-in-sé’, epiteto di Brahmā);
la sua duplicazione nella bivalente fase del Divenire – meno accentuata in Varuṇa o nel corrispettivo greco Urano,
piú in Kala o Crono – mostra alternativamente una faccia benefica ed una
malefica, che dan conto in maniera efficace seppur drammatica del rapporto fra
l’Essere e la sua Essenza. In altre
parole la simbologia celeste ed argentea di Kāla-Κρόνος, a differenza di quella uranica
ed aurea di Varuṇa-Οὐρaνός, sottolinea il passaggio
spirituale negativo avvenuto irrimediabilmente nel mondo fra il Satyayuga ed il Tretāyuga; col conseguente trasferimento a contrassegni di per sé
unitari d’un latente contrasto di carattere temporale (Luce/Tenebre), abbinato
inevitabilmente ad una simultanea dicotomia di genere spaziale (Cielo/Terra).
Parimenti al Pāśa il Makara, con cui spesso Varuṇa s’accompagna costituendo una variante veicolare del Matsya, racchiude intrinsecamente la
stessa triplice simbologia di quest’ultimo attraverso la ripartizione
schematica della propria Proboscide Elefantina (assimilabile ad un Corno
Pescino), della Testa e della Coda. Nel
caso volessimo però intendere il Pāśa
di Varuṇa testé menzionato non già come Kālapāśa, alla maniera shivaita, bensí piú semplicemente quale
simbolo generico del Saṁsāra ovvero
della Māyā – senza dunque alcuna distinzione duale tra Creazione e
Distruzione, cioè tra Prajāpati e Pāśupati – è ad un’interpretazione
brahmanica del soggetto che dobbiamo rifarci.
Varuṇa in tal senso ossia
concepito nei panni di un dio primigenio, e non secondo una prospettiva
shivaica ed infera, va inteso senza dubbio quale allonimo di Brahmā o di Yama. Quantunque, ad onor
del vero, egli sia piú prossimo al Kūrmāvatāra;
mentre Yama e Brahmā lo sono,
ovviamente, al Matsya
(158).
Egualmente Māyādevī, di cui il Pāśa
abbiamo ora suggerito essere un contrassegno, è da intendere come l’avvolgente
ed in realtà indistinta <figlia-consorte> del nume uranico; non altri che
Vāruṇī, alias Varuṇānī. Checché ne pensasse Eliade, il quale
insensatamente negava ogni relazione linguistica diretta fra Vāruṇa ed OὐρανόV (159), costei va filologicamente rapportata alla Venus latina, strettamente apparentata
all’Oὐρανία ellenica. Tant’è che
entrambe le dee greco-romane, nella comune posa figurativa di Anadiomene, sono
effigiate col Pesce. In realtà un Kētos, cioè un Mostro del Mare, sotto
parvenza di delfino ma con denti di squalo analogamente al Makara della sposa-consorte del dio delle acque indiano. Si rammenti pure per un’ulteriore
comparazione col mondo latino il personaggio di Venīlia, la sposa di Giano; poiché quest’ultimo, diversamente da
quanto sosteneva il poeta Ovidio, fungeva da versione romana del dio greco
Urano. Per quanto occorra al fine d’una
maggior precisione tener conto del rapporto vicendevole sia del nume latino che
di quello ellenico colle figure distinte, quantunque apparentate, di Yama e di Varuṇa. L’uno in realtà piú
primordiale dell’altro.
Siccome abbiamo visto sopra che
anche Brahmā rientra nella categoria
dei numi aurei, occorrerà estendere la comparazione degli attributi simbolici
di Vāruṇī e di Māyā oltreché a quelli greco-romani di Ouranía e Venus, pure ad ogni altro attributo
delle varie paredre del dio indiano quadricipite: Sarasvatī, Vāc, Uṣas. Un’esplicazione delle equivalenze di siffatte
tipologie iconografiche non rientra tuttavia nel tema di questo scritto. Ci limiteremo solamente a segnalare che le
dee sunnominate sono state in un secondo tempo assimilate in chiave śaiva a Rohiṇī (lett. la ‘Rossa’) e pertanto identificate cosmicamente alla
‘Cerbiatta’ inseguita da Prajāpati e
difesa da Rudra/Pāśupati nel mito
dell’incesto cosmogonico. Tale mito, per
quanto riadattato all’inizio del Kaliyuga,
adombrava primieramente l’allestimento dello Yajñacakra ovverosia la Ruota Annuale del Sacrificio. Essendo Prajāpati
una figura tarda, kaliyughica, questo ruolo creativo doveva una volta
appartenere ad altri; forse a Varuṇa,
o al doppione Kāma. Esso, pertanto, si colloca nel suo nucleo
fondamentale al principio del Tretā. D’altronde vi è una indubbia relazione, come
avremo modo di chiarire in seguito, tra gli emblemi ittici e quelli
cervini.
r) L’apparente bipolarità tra il Re Pescatore e
il Pesce
Vorremmo ora far notare che nel
caso di Brahmā e di Śiva la bipolarità tra il Re Pescatore e
il Pesce si rivela meno accentuata rispetto ad analoghe rappresentazioni vaiṣṇava,
ove i due aspetti appaiono in genere piú antitetici. Per cui nell’iconografia del Matsyāvatāra la figura umana avatarica,
simboleggiante il Jīvātmā, è vista
emergere dalla Bocca Pescina – equiparabile al
Makaramukha od al Kālamukha,
ossia alla Porta comunicante coll’Assoluto – come emanazione del Pesce (Ātmā); quasi si trattasse di due principi
in qualche modo distinti, seppure destinati a regolare armonicamente le vicende
del cosmo secondo lo spirito della bhakti vishnuita.
L’atteggiamento shivaita,
consapevolmente ispirato piú alla Conoscenza che alla Devozione, concepisce
invece il rapporto tra la dimorfia piscatoria in modo assai meno
antitetico. Cfr. il ruolo del Matsyendranātha (160), che subisce la metamorfosi in <pesce>, vale a dire il
riassorbimento nell’Ādinātha (il
‘Signore Supremo’). Nella sua versione
tibetana Mīnanātha, col nome locale
di Lu-i-pā, addrittura divora gli
intestini – ovvero la dottrina esoterica – del Pesce; i quali, evidentemente,
simboleggiano il segreto nutrimento della Gnosi. A parziale smentita di quanto appena rilevato
e quasi a prefigurare l’esistenza d’una piú sommersa bhakti shivaita, Padre Heras (161)
ha però giustamente accostato l’ittiomorfismo del Mīn paleo-dravidico a quello della dea Mīnākṣī (lett.
‘Occhi-di Pesce’), matrona di Madurā;
una forma di Śakti la cui
analogia strutturale colla figura di
Matsyagandhī/ā (Minagandhī/ā) è purtroppo sfuggita all’autore, che peraltro
non si è avveduto neppure dell’identità tra l’antico dio Mīn ed il piú tardo Mīnanātha
(162). Ciò malgrado, ci ha fornito nell’ambito
dell’India brahmanica una delle rare immagini di Manu col Matsya per vāhana, tratta da Forte Raichur
(Naurangi Darwaza)(163), ravvisando
non a torto una stretta parentela tra questi, il cretese Mίνως, l’egizio Mīn ed il pre-vedico Mīn.
La posizione del nume seduto a
dorso di pesce è il carattere iconologico specifico della rappresentazione
brahmanica di Manu, mentre il tardo Mīnanātha nell’iconografia buddhista (164) fuoriesce dal ventre d’un
grosso pesce (mahāmatsya) similmente
a Giona (165), oppure lo tiene in
mano; è questo il caso ad es. della raffigurazione situata nel tempio della Devī Jagadambā (‘Dea Madre Universale’) a Khajurāho,
nel Madhya Pradeś (166). Mīna in versione buddhista è un <pescatore>, con in mano
<un pesce> oppure <molti pesci>, di uno dei quali mangia le
interiora. Ma altre volte ne cavalca uno
grande (167). Del tutto diverso è invece il Matsyāvatāra, che ha generalmente
pescina solo la metà inferiore del proprio corpo quasi fosse un sireno, oppure
è concepito fuoriuscire dalla bocca del pesce in forma semiumana; talora
differentemente codesto avatāra ha
l’intero corpo in forma di matsya, ad
esclusione del capo, ovviamente. Inoltre
vi sono immagini, per quanto rare, che dipingono il I Avatāra vishnuita in modo alquanto inusitato come una sorta di
<Pesce Grosso tra i piccoli> (168);
chiara immagine d’un perfetto tra esseri imperfetti, o meglio che dispongono
della sola perfezione naturale, non di quella assoluta. Secondo un’ulteriore variante, ci si può
imbattere in una figura umana (Manu)
che acchiappa per la coda il Pesce (evidentemente l’Avatāra) a mo’ di Pescatore (169). In ogni caso, nei testi vishnuiti non vi è
mai completa identificazione fra Manu
e il Matsya.
Il Primo Uomo d’altro canto compare raramente, a parte le due eccezioni
segnalate e probabilmente poche altre, nell’icona del I Avatāra; a meno che lo si voglia identificare brahmanicamente –
cosa sempre possibile, ma quivi un po’ forzata – alla figura avatarica stessa
emanata dall’Assoluto, di per sé in veste pescina. Dal momento che tra l’Uomo e il Divino il
Vishnuismo concepisce sempre una certa distanza, almeno latente, quando non
anche apertamente dichiarata. La fede bhāgavata, vale a dire nel Bhagavat (il Beato, cioè Viṣṇu, particolarmente nella sua
discesa krishnaita), non s’esaspera nel sacrificio; è gioviale, aperta alla
liturgia ed alla celebrazione poetica o musicale.
Proprio come avviene, sebbene in
modo piú distinto, nella dottrina dello Dvaitādvaitavāda
Vedānta (‘V. della Dualità nella Non-dualità’) del sanscritista telugu Nimbārka (XI-XIV sec.?) ed in quelle
maggiormente popolareggianti dei suoi due grandi discepoli. Ovvero nell’Acintya-bhedābhedavāda (‘Via dell’Inconcepibile Differenza nella
Non-differenza’) del revivalista bengalese Caitanya
(XV-XVI sec.), nonché nel preteso Śuddādvaitavāda
Vedānta (lett. ‘V. della Pura
Non-dualità’) di Vallabhācārya (XV-XVI
sec.), benché le cose stiano in realtà un po’ diversamente da quanto suggerito
da quest’ultima definizione. Infatti,
nonostante che in questo terzo tipo di devozione si faccia a meno della Māyā, si ha a che fare nell’insieme con
3 punti di vista vedantici sottintendenti pur sempre fra i due principî opposti
e complementari di Rādhā e Krsna (adombranti l’Anima e la Divinità)
una certa dualità, anche se compensata da un caldo trasporto amoroso. Le autoattribuzioni degli appellativi di Caitanya (‘Consapevolezza’) e di Vallabha (‘Innamorato’), evidenziano
chiaramente un atteggiamento sentimentaleggiante nei confronti della divinità
adorata, attraverso il quale il maestro spirituale di turno s’identifica ora a Kṛṣṇa ora prevalentemente a Rādhā.
In tale concezione,
caratterizzata intrinsecamente da un senso giocoso (si esamini in proposito il
concetto di Līlā) e dinamico della
realtà universale, l’Essere non appare mai statico, bensí in perenne
trasformazione verso il Divenire. È in
questa linea di pensiero che s’inserisce, d’altra parte, l’interesse salvifico
della dottrina avatarica; la quale implica che nei momenti di gravi crisi
cosmiche l’Essere Divino misericordiosamente discenda nel mondo in forma
plenaria (Pūrṇāvatāra) al fine di sorreggere
gli uomini dalle miserie della vita mondana, indirizzandoli verso la giusta
meta interiore. Infatti la Creazione
rappresenta appunto un Gioco Divino, ma solo per Hari; non per i jīva,
ossia le anime immerse alternativamente nelle gioie e nelle sofferenze
dell’esistenza. La Līlā – di cui la dea Lalitā (lett.‘Colei
che gioca’) rappresenta un’incarnazione in forma umana dell’Universo – non
costituisce inoltre una serie di accadimenti immotivati, essendo essa legata
imperscrutabilmente alla Giustizia Eterna (Sanātana
Dharma), inscindibilmente connessa a sua volta alle azioni individuali (Karma).
Sono queste ultime in definitiva, specialmente quando consistono in atti
egoistici, che impediscono agli esseri l’affrancamento dalla vita terrena e
determinano la loro rinascita; mentre gli atti altruistici, costituendo un
tentativo di superamento delle limitazioni individuali (specialmente se sono
consapevolmente scevri dal frutto dell’azione, come indica lucidamente la Gītā), li svincolano dalle contingenze
mondane.
Nel caso tuttavia del conciliante
Viśiṣṭādvaita
Vedānta (il ‘V. della distinta Non-dualità’) del maestro tamil Rāmānuja (XI sec.) – rifacentesi per
bocca propria ad un punto di vista Śrī-vaiṣṇava,
riconducibile in precedenza da un lato ai pañcarātrin
e dall’altro a Nammālvār (170) – ed ancor piú nello Dvaitavāda (‘Via della Distinta
Dualità’) del bhāgavata canarese Madhvācārya (XII-XIII sec.) il rapporto
fra gli opposti, in tale scuola indicati preferenzialmente coi nomi divini di Nārāyaṇa e
Lakṣmī, è inteso con atteggiamento maggiormente riverente e freddamente
devozionale, accentuando quindi la maestà e la gloria dell’Assoluto di fronte
all’umano. L’Assoluto costituisce la
vera intimità d’ogni essere, ma simultaneamente lo trascende.
Al contrario il succitato punto
di vista śaiva, concernente Mīnanātha, è caratterizzato da una
non-dualità nei confronti del Divino piú accentuata rispetto a quella vaiṣṇava ed un’ascesi, comprendente
immancabilmente la mortificazione della carne, maggiormente severa ma
efficace. Onde l’atteggiamento umano
risulta, di conseguenza, assai meno aperto di quello vishnuita; insomma, si
escludono la Grazia ed il concetto salvifico, appartenenti esclusivamente alla
Via di Mezzo. Esiste però una bhakti anche in campo shivaita, meno
raffinata ed importante di quella vishnuita; in questo caso si segue la Via di
Sinistra, non di Destra. In altre
parole, non si pratica l’ascesi ma un libertinaggio di tipo tantrico, sebbene
evidentemente a scopo purificatorio. Il Matsyendranātha nepalese di cui sopra,
vagamente identificabile a Pāśupatinātha, può esser ricordato
in tal senso. È chiaro che né Matsyendranātha è il Matsyendra concepito quale Ādiguru, né Pāśupatinātha è l’Ādinatha; sono invece, rispettivamente, i
corrispondenti kaliyughici di quel maestro apritore della via e della
corrispondente divinità che nei loro ancestrali aspetti venivano ossequiate nel
Tretā. Colle differenze di pratica spirituale appena
indicate, le quali saranno meglio precisate piú innanzi.
Resta infine da dire qualcosa
sulla bhakti di tipo śākta, concernente in parallelo la
suddetta devī di Madurā (Madurai, Maturai). Mīnākṣī viene venerata in questo importante centro
del Tamil Nadu e può esser
considerata un residuo iconologico a livello di deità tribale di Mīnā, l’antica signora shamanica dei
pesci; nonché dei coccodrilli e degli animali marini, fluviali o lacustri in
genere (171). Ciò sebbene figurativamente non compaiano nel
sembiante moderno della dea tratti pescini evidenti, a parte naturalmente gli
occhi, anche se limitatamente al nome che porta. Ella è ritenuta la figlia deificata d’un re
di dinastia pāṇḍya, ma indipendentemente da tale
storicizzazione di tipo evemeristico, è chiaro che si ha a che fare in ogni
caso con una divinità ittica ed un simbolismo di valore shaktico; sia che il
nume costuisca la classica evemerizzazione nel senso sopraddetto, oppure che
rappresenti lo sviluppo tardivo (in senso evemeristico o meno non importa) d’un
culto vetusto. D’altro canto certi
caratteri propri alla dea, quali il trimorfismo del petto che talvolta compare
nella sua icona, ci rivelano l’originaria natura tripartita del nume; cosa la
quale, possiamo notare en passant,
traspare persino dal copricapo divino oggi in parte andato disperso della Mīnākṣī
del Tempo di Minakshiamman a
Madurai. Fatto che ci riporta neppure
troppo sorprendentemente al capo triradiato d’una dea, sorta di Proto-Durga,
dell’antica Valle dell’Indo (172).
A questo proposito occorre
aggiungere che Coomaraswamy (173),
forse facendo inconsapevolmente un gioco di parole fra yaksī (naiade) e akṣī (occhio), la reputa siccome figlia
di Kubera un’antica yakṣiṇī, vale a dire una forma di Durgā venerata da tribú selvagge. Esiste in effetti un daitya equivalente, citato nella lessicografia (174), di nome Mīnākṣa. Ora, bisogna sapere che a livello
etnoantropologico si può risalire a dei culti facenti in certo senso da tramite
fra le deità di villaggio (grāmadevatā)
attuali e quelle note attraverso i reperti archeologici. Questo per il fatto che il folclore, in
effetti, rappresenta un mondo decaduto di superstizioni piú o meno ancora in
vita. E, per ciò stesso, è facile che
accolga i residui figurativi di tematiche sacrali in estinzione. Non è possibile al momento offrire quindi una
spiegazione esaustiva della simbologia dell’immagine testé descritta e del
valore semantico reale della triplicità indicata. Lo faremo in un prossimo paragrafo, trattando
della cd.‘Triplice Corrente’.
Secondo quanto avevamo sopra
ipotizzato vi sono, inoltre, dei riferimenti possibili – ancor precedenti sul
piano cosmologico – a Mīnagandhā; ma
anche in tal senso, onde poterci bene districare nei meandri del simbolismo
tradizionale che è oltremodo complesso, è necessario prima affrontare altre
tematiche. Dopodiché arriveremo alla
constatazione dell’esistenza d’uno shaktismo ittico, il cui punto di vista sul
piano gnoseologico potrebbe situarsi in un punto intermedio fra il brahmanismo
(ci venga scusato il neologismo) e lo shivaismo, almeno lo shivaismo d’origine
meridionale. Oggi la parola
‘brahmanesimo’ è sinonimo volgarmente d’induismo. Non esistono però se non minimamente templi
dedicati a Brahmā e, di conseguenza,
scuole di brahmanismo puro; i brahmani odierni sono invero dei sacerdoti
decaduti, solitamente dediti a culti di tipo shivaitico, vishnuitico o
shaktico. Benché propriamente codesti
culti dovrebbero appartenere, secondo la logica induistica, ad altre
caste. Cioè rispettivamente agli kṣatriya,
ai vaiśya ed agli śūdra.
Pur non esistendo scuole
brahmaniche in senso letterale, ecco il motivo per cui non vi abbiamo sopra
fatto cenno, è sopravvissuto ad ogni modo un punto di vista per cosí dire
brahmanico o per meglio dire brahmanizzante.
In altre parole, solo in relazione alla coppia primaria Manu-Brahmā (175) ovverosia da
un punto di vista prettamente brahmanico, vi è una perfetta omologazione fra il
Jīvātmā e l’Ātmā; parimenti a quel che accade nel Viśuddhādvaitavāda
Vedānta (il ‘V. della Via della Completa Non-dualità’), chiamato anche Kevalādvaitavāda (’Via della Liberazione
Non-duale’). Insomma nella dottrina
completamente monistica quantunque in realtà tendenzialmente shivaitica di Śaṅkarācārya, l’insigne maestro tamil dell’VIII-IX sec. d.C.(176).
Peraltro l’icona di Manu su Matsya cui abbiamo sopra fatto cenno,
interpretabile mitologicamente come Brahmā
sul proprio arcaico vāhana
(alternativamente allo Haṁsa, l’unico piú
tardi in uso), ci spinge del pari alla medesima conclusione; dato che in ambito
hindu ciascun veicolo zoomorfico costituisce di per sé un allotipo del suo
sormontatore divino, pur se nella coppia summenzionata di numi sarebbe invero
piú corretto affermare l’opposto (177). Giacché è Manu
in qualità di prototipo divino dell’Uomo che individua un’ipostasi di Brahmā,
non viceversa.
s)
Ruolo di Matsyendranātha nel Tantrismo
Riguardo invece Matsyendranātha dobbiamo in ultimo
specificare che molti, assurdamente, confondono questa figura di divino mahāsiddha ed avatāra shivaita di Bhairava
con l’omonimo maestro di Gorakṣa (X sec. a.C.)(178).
Sarebbe come scambiare Śaṅkara, cioè Śiva, per Śaṅkarācārya; benché, effettivamente, in entrambi i casi il
personaggio umano corrispondente possa essere scelto ad immagine di quello
divino, al fine d’indicare la fonte d’una data linea dottrinale trasmessa
tradizionalmente. Donde si spiega
l’appellativo alternativo di Matsyendrapāda,
nel tantrismo induista; o di Rohitapāda/
Lūhipāda, tib. Lu-i-pā, nel tantrismo buddhista.
Sotto codesto aspetto, occorre precisare che a siffatti nomi risalgono
due tipi principali di sentieri spirituali (mārga)
dal punto di vista tantrico, l’Akulācāra
e il Kulācāra: il primo, basato
testualmente sull’Akulavīra Tantra, è
una via śaiva (Akula = Śiva); mentre il secondo, richiamantesi soprattutto al Kulajñana Nirṇaya, è una via śākta (Kula = Śakti).
Purtroppo non ci è dato di sapere
quale sia precisamente il ruolo <ittico> svolto dalla Devī in senso stretto. Si può immaginare, a mero titolo di discussione saggistica, che
esso possa concernere quella spiritualità riflessa ed indiretta di cui Matsyendra è dichiarato essere portatore
nel mondo umano in una leggenda puranica summenzionata. In questo caso però, trattandosi di
tantrismo, è facile immaginare un adattamento al Kaliyuga di entrambe le scuole.
Lo shivaismo kaliyughico (testualmente definito settentrionale) non può
che risultare maggiormente duale di quello tretayughico (meridionale), a
dispetto di certi pregiudizi nostrani tesi a confondere razzismo e
cosmologia. Esattamente come si potrebbe
parlare per contro d’uno shivaismo primordiale, satyayughico (se preferiamo,
orientale ), facente il paio collo shaktismo primevo già citato. In ogni caso, ci si riferisca ad un epoca
antecedente o a tempi recenti, va precisato a scanso d’equivoci che lo
shaktismo è sempre necessariamente piú duale dello shivaismo coevo, seppur
complementare ad esso. Visto che, in
sostanza, il culto della Śakti
riguarda la Potenza del Principio espressa nella Manifestazione e quello di Śiva il Principio Immanifesto. Il discorso cambia, ovviamente, se ci
riferiamo ad epoche diverse.
Orbene la storia di Matsyendra (Kaul.N.- xvi. 11-37), che diviene prima <pescatore> e poi
<signore> (nātha) dopo aver
squartato il Mahāmatsya (ivi nella
funzione sottintesa, a nostro parere, di Brahmā),
è suscettibile d’essere interpretata alla stregua di un’ennesima variante del
mito del Re Pescatore. Siamo convinti
altresí che la distinzione che a volte si fa nella tradizione tantrica tra i
nomi di Matsyendra e di Mīna come di ‘Padre e Figlio’ o di
‘Fratello Maggiore e Minore’ (179),
fosse in principio correlata all’analoga distinzione propria della tradizione
vedica – almeno nelle piú antiche versioni della leggenda – fra Brahmā (il Pesce) e Manu (il Re
Pescatore). Sull’equivalenza tra Manu e Mīna, od il piú arcaico Mīn,
vedasi quanto dichiarato piú addietro citando Padre Heras. Del resto tanto Matsyendra quanto Mīna svolgono
nei miti alternativamente la parte di Pesce, o di Re dei Pesci, e di Re
Pescatore (180).
t) Il
significato delle quattro figure femminili
nella
succitata storia di Vasu
Rimane adesso da delineare, con
maggiori dettagli, il significato delle quattro fondamentali presenze femminili
della storia di Uparicara, narrata
nel Mahābhārata; storia che abbiamo
raccontato all’inizio di codesto capitolo e che intendiamo qui riprendere, per
meglio comprenderla, a conclusione del discorso. Rammentiamo d’aver menzionato
per l’occasione le seguenti figure: 1) Girikā,
2) Gaṅgā, 3) Adrikā, 4) Satyā. Tali personaggi femminili sono palesemente in
relazione colle molteplici valenze della Śakti.
Girikā, la bella figlia della dea
fluviale Śuktimatī e del dio
montano Kolāhala, equivale
funzionalmente a nostro avviso ad Indrāṇī; costei ha un
doppione in Aindrī o Śacī (corrispettivo femminile di Śakra, ‘Potente’, epiteto per eccellenza
del Devarāja), egualmente dotata di particolare avvenenza. Incarna dunque la Śakti in tutta la propria
potenzialità. Altrove, invece, Girikā subentra ad Adrikā nel ruolo di madre di Matsyakālī
e del Matsyarāja. La cosa però è comprensibile solo se si
conosce la vicenda di Śuktimatī,
parallela anch’essa a quella dell’apsaras. Orbene, secondo quanto narrato dal Mahābhārata (Ādip., lxiii) quale
anticipazione – da noi in precedenza volutamente omessa – della storia dei
gemelli ittici, il nume del Monte Kolāhala
si era innamorato della dea fluviale Śuktimatī e l’aveva
sottomessa ai suoi desideri. Il mattino
seguente gli abitanti del Regno dei Cedi (Cedirājya,
uno dei regni preminenti dell’antico Bhāratavarṣa), ove si praticava una
spiritualità di tipo primordiale onorando pace e giustizia (181), informarono il re che il fiume corrispondente non c’era
piú. I miti non sono basati sulla logica
razionale… Sta di fatto che il re diede
un gran calcio alla montagna e la spezzò in due, ripristinando lo scorrere del
fiume. Di conseguenza la dea generò due
gemelli, un maschio ed una femmina. Per
riconoscenza Śuktimatī li affidò al re, il quale fece del maschio il
generale del proprio esercito e della femmina (la suddetta Girikā), la propria futura sposa.
Le altre tre dee è probabile
siano correlate alle paredre dei membri della Trimūrti,
vale a dire Sarasvatī, Lakṣmī
e Pārvatī, ma in una maniera che non è semplice
riconoscere. Adrikā, la ninfa che solo dopo aver
partorito i Gemelli ottiene di rompere l’incantesimo che la vede relegata in
forma pescina e tornare al Cielo, sembra ricoprire lo stesso ruolo di Lakṣmī.
Mentre Satyā, dapprima
affidata in adozione al Re Pescatore, diviene in seguito amante di Parāśara
ed alfine seconda sposa di Śāntanu
(in altre parole amante di Viṣṇu
e sposa di Śiva); per cui pare
svolgere la parte di Sarasvatī, in
senso kaliyughico. Insomma, si può dire
incarni la Rivelazione Primeva ed i suoi susseguenti riadattamenti
epocali. In quanto a Gaṅgā, la prima consorte di Śāntanu, è facile considerarla a sua volta un allonimo di Pārvatī (D.Bh.P.- ix. 6, 16-21);
cfr., per analogia, il rapporto numinoso della fluviale Śuktimatī con la montana Girikā.
Se i summenzionati ruoli appaiono un po’ confusi, rispetto alla norma, è
per il fatto che nel testo epico di riferimento la suggerita distribuzione
delle Generazioni Divine nelle epoche mitiche non è quella solita. In tale riadattamento dei nomi sono Indra e consorte che fungono chiaramente
da dèi supremi e primaziali, A seguire,
nell’ordine, andrebbero allora considerati Śiva e Pārvatī; poi Viṣṇu e Lakṣmī, indi Brahmā e Sarasvatī oppure Prajāpati e Rohiṇī. Cioè la Trimūrti (182), sia pure a rovescio rispetto all’ordine
normale.
Intendendo il tutto
esotericamente, ne deduciamo indirettamente l’idea d’una inesorabile
trasformazione della Rivelazione Primordiale attraverso il trascorrere ciclico
degli Yuga; o meglio, d’una
frammentazione della medesima nelle varie vie tradizionali di realizzazione
spirituale. Queste si sono viepiú
aggravate d’orpelli, tanto da risultare a poco a poco inefficaci, perché
incomprese ed inesplorate nei meandri della loro profonda ed oscura simbologia. Dopo il Satyayuga,
l’epoca di Vasu e della pratiche sātvata da parte dei Ṛṣi
(183), è sopraggiunto il Tretā con il culto dei Daitya ovvero degli Antenati. Le pratiche gnostico-ermetiche a questo
associate, ed escogitate a parziale rimedio della nuova situazione venutasi a
creare in tempi post-paradisiaci, sembrerebbero esser simboleggiate nel
contesto mahabharatiano dai ‘Sette Figli’ (Vasu) che Gaṅgā genera a Śāntanu – ossia Pārvatī a Śiva – e
presto sopprime (184).
Si allude con ciò ovviamente all’Ebdomade, in riferimento ai 3 piani del
Trimundio (185). Un ottavo figlio, Bhīṣma, sopravvive uale ipostasi del dio unico del Satyayuga. Indi il culto dei Pitṛ
subentra quello dei Deva, le offerte
rituali di animali sono sostituite da quelle vegetali. Vale a dire, al versamento del sangue –
fattore correlato all’Elem.Fuoco e principalmente associato al Tretāyuga – è sostituito il versamento
della linfa o di altri umori vegetali; correlati all’Elem.Acqua, il cui dominio
ricorre viceversa nel Dvāparayuga. L’Arca del Re Pescatore della quale si parla
nella storia di Matsyakālī è ancor
una volta ovviamente quella zodiacale, tramite cui gli esseri giungono a questo
mondo e se ne dipartono. Le acque
fluviali sono infatti connesse alle piogge, dunque alle influenze celesti, nel
doppio senso discendente ed ascendente.
Vedi influssi ed efflussi astrali.
Ecco la ragione onde il mito del Re Pescatore ha a che fare, tanto in
Oriente quanto in Occidente, col ciclo di vita e di morte; che si traduce dal
punto di vista agrario oppure pastorale rispettivamente in umidità o siccità,
fecondità o sterilità. In ultimo
sopravviene il Kaliyuga,
preannunziato dalla fine di Kṛṣṇa,
ucciso dal cacciatore Jarā
(‘Vecchiaia’) con una freccia al calcagno; unica parte vulnerabile di cotale avatāra, non meno di quanto accade per
Achille nella Guerra di Troia. Col che
tutti gli eroi superstiti del poema mahabharatiano se ne tornano alle loro sedi
superne, avendo ormai adempiuto al mandato celeste ad essi affidato. I Deva,
con tutto il rituale che li riguarda, per cause cicliche finiscono pure loro
col diventare inattuali. Come in
precedenza era accaduto agli Asura. Dopo la Guerra di Bhārata, ai Deva subentra
alfine nel culto la Devī
misericordiosa, il Kaliyuga essendo
l’Epoca degli Uomini per antonomasia.
u) Mīnākṣī,
signora della Triveṇi
Bisogna aggiungere ora, in
conclusione, qualcosa sulla simbologia delle tre dee che rappresentano la Triveṇī (‘Triplice Corrente’) in senso
macrocosmico (186). Il Moor ci offre una loro unitaria icona
tricefala (187), appartenente alla
collez.priv. del col. Stuart ed avente per vāhana il Grande
Pesce, di natura composita. La pittura
ritrae le dee in un unico sembiante a 6 braccia, disposto a ginocchioni sul
dorso del fantasioso animale. Le vesti
divine appaiono auree ed altrettanto il corpo del pesce, magicamente dotato
tuttavia di orecchie in una testa da mammifero (sic!). Evidente concessione
artistica alla percezione primeva della Śruti (188), nonché ad
una nota tecnica di meditazione upanishadica.
Giustamente l’autore interpreta la dea dal volto bianco come Gaṅgā,
da lui ritenuta non meno di chi scrive associata a Pārvatī
(lett. la ‘Montanara’); la dea dal volto blu (189) come Yamunā, identificabile
a Lakṣmī, e quella invece dal volto rosso come Sarasvatī. Se Yamunā tiene in mano
l’Ampolla dell’Amṛta (‘Ambrosia’), Gaṅgā
è riconoscibile dal marchio in fronte; viceversa Sarasvatī è caratterizzata dal
libro in mano, presumibilmente il Ṛgveda.
C’informa sempre il Moor (190)
d’essersi una volta imbattuto di persona, nella città di Poona, in un complesso
in terracotta in cui le ciocche tripartite dei capelli di Radhā
(191) venivano foggiate a forma di triveṇī dall’amante, il quale mirava rapito
l’opera in fieri nelle proprie mani.
Ordunque, siccome
tradizionalmente – non solo in India – il color blu corrisponde spesso al nero
(un aggettivo sanscrito li designa entrambi), si potrebbero intendere i 3
colori delle dee sunnominate in senso microcosmico; ovvero, quali contrassegni
femminili delle 3 correnti sottili dell’organismo umano (Trināḍī),
producenti interiormente mutamenti alchemici.
Visto che il loro veicolo, l’Aureo Pesce, costituisce per via delle
ampie orecchie un chiaro rimando microcosmicamente all’Auṁ
(Verbo) e macrocosmicamente all’Ādiśruti
(‘Rivelazione Primordiale’).
L’Aureo Pesce potrebbe essere
identificato per intero al vāhana ipotetico
di Mīnākṣī
od alla dea stessa, in virtú della consueta equiparabilità iconologica fra un veicolo ed il
proprio nume, di cui le dee fluviali sunnominate non sono che aspetti secondari
coincidenti coi 3 petti di costei (192);
in parte al supposto veicolo pescino di Gaṅgā, Yamunā e Sarasvatī
(od alle medesime), le 3 dee alludenti da un lato alle equivalenti forme
shaktiche della Trimūrti e
dall’altro ai 3 fiumi (Trinadī) che
un tempo scorrevano nell’India Settentrionale (193). Sebbene la Sarasvatī si sia prosciugata, la
simbologia realmente fenomenica d’un tempo svanito è rimasta intatta col
passaggio di codesta corrente fluviale dal visibile all’invisibile (194).
Cominciando da Gaṅgā, è lecito
sospettare che il Bianco Pesce fosse l’originario veicolo della dea dal volto
bianco anziché il solito Makara (195), dato che ritta su di esso
compare ancora realmente in una rara immagine pittorica (196). Altrettanto non si
può affermare invece di Yamunā e Sarasvatī, che mai a differenza della
prima sono associate ad elementi ittici, se non nell’icona tricipite in
questione. La dea dal volto blu sormonta
sempre il Kūrma (‘Tartaruga’)(197) e quella dal volto rosso, rispettivamente, lo Haṁsa (‘Oca Reale’) od il Mayūra (‘Pavone’)(198).
La Gaṅgā nel suo
aspetto primario corrisponde al divino umore contenuto nel Vaso (Kamaṇḍalu) di Brahmā
(199), il quale fa pendant col Vaso di Manu, attribuito a questi nella leggenda del Matsyāvatāra. Le sante Acque alludono, è naturale,
all’Immanifesto (Avyakta) ossia al
Regno di Aditi (lett. l’Illimitata’).
Oltreché, per la loro trasparenza, alla Suprema Visione (Vidyā) dell’Anima (Ātmā) Universale da
parte dell’Anima Individuale (Jīvātmā)(200); cioè all’estrema <visione di
Sé>, la quale non può che realizzarsi nel Cuore del Mondo (201).
Il Pesce Monodono racchiuso da Manu
nel proprio Vaso, che come l’amore insito nel cuore umano (202) tende viepiú a dilatarsi, suggerisce invece per la sua
unipartizione l’immagine dell’Essere Unico (Svayambhū è l’epiteto
per eccellenza di Brahmā) quale
Principio della Manifestazione (Vyakta).
Nel contempo, è l’incarnazione della Verità (Satya). Per quanto appena
delineato, vale a dire la sua affinità con Kāma (cfr. con
Eros Protogonio), Brahmā viene
considerato l’ispiratore del rito vedico.
Non per niente in un’icona il dio versa il suddetto umore ai piedi di Viṣṇu.
O meglio, di Trivi-krama (tam.
Ulagalanda-Perumā), cioè Vāmana
(il Nano) in funzione di V Avatāra vishnuita (203). L’atto funge appunto da
modello, in divinis, del rituale
vedico. Versare acqua ai piedi di
qualcuno, in ambito hindu, è un segno di riconoscimento e di benvenuto. Le Acque versate dal Kamaṇḍalu
brahmaico raggiungono infine le chiome arruffate (jāta)
di Śiva, che le riceve sul
Monte Meru, dove ha avuto inizio
l’ultima Manifestazione Manvantarica.
Ecco perché la Gaṅgā è detta Viṣṇupadī, per Viṣṇupada intendendosi viceversa il Firmamento, a causa
dei ‘Tre Passi’ di Viṣṇu
in forma di Trivikrama. Orbene, circa la
dea del Gange, vi è chi (204) piglia
spunto da codesto mitologhema per tracciare un confronto fra un’interpretazione
vishnuita del soggetto ed una shivaita.
L’apparato simbolico che attornia le due versioni, in effetti, è un po’
differente. A dire il vero, però, Vāmana è una forma di Viṣṇu
relativa all’inizio del Tretāyuga, l’epoca
in cui è cominciato lo Yajña
(Sacrificio Annuale) (205); onde è
facile capire che trattasi, in realtà, d’un mito śaiva riciclato in chiave vaiṣṇava. Vedi la figura parallela di Vāmadeva (206). Stessa cosa potrebbe dirsi del VI e del VII Avatāra, ma quivi non possiamo dilungarci
oltre sulla questione. Per farla breve,
la distinzione fra l’interpretazione vishnuita (piú vetusta) e quella shivaita
(meno arcaica) equivale ad una differenziazione fra un’accezione destrorsa ed
una sinistrorsa del mito nel medesimo ambito śaiva.
Per spiegarci meglio, Von
Stietencron assegna alla versione vishnuita il seguente sviluppo, utilizzando
una fonte mitica alternativa (Pd.P.-
i. 30, 161-202)(207) a quella riportata da Sivaramamurti (208).
Ossia, fa discendere la Gaṇgā dall’Uovo
Cosmico (Brahmāṇḍa), che potremmo equiparare
nelle sue due metà ai 2 Vasi opposti e complementari di Brahmā
e Manu. Vi sarebbe in altre parole una Fontana
Celeste da cui sgorgherebbe la Celestiale Corrente, apportatrice di madhu (‘nettare’ = luce) ed amṛta (‘ambrosia’ =immortalità). Tale Fontana equivarrebbe al Viṣṇupāda (209),
poiché secondo il testo puranico è Viṣṇu
che col piede sinistro (Viṣṇupāda) buca il
Firmamento costringendolo a liberare le Acque (210). I ‘Tre Passi’, che
fanno sprofondare il re dei demoni (nel Padma
P. è chiamato Bhāṣkali anziché Bali) agl’Inferi, hanno evidentemente
carattere solare.
Il Von Stietencron collega invece
piú propriamente la versione shivaita al mitologhema della Discesa del Gange (Gangāvataraṇa)(211). L’interpretazione śaiva in linea col punto di vista che le
è congeniale, essendo Śiva il
nume della dissoluzione e del mutamento, attribuisce a siffatta discesa il
compito di purificare i morti. Non a
caso Gaṅgā intesa come dea è una delle 2 consorti di Mahādeva, al pari della sorella Pārvatī,
che come lei è figlia di Re Parvata
(‘Montagna’). Si potrebbe aggiungere che
in tal ruolo – Triplice Corrente a parte – l’una è omologa di Mīnākṣī,
ritenuta sorella di Viṣṇu
nel Tamilnadu; e l’altra non è che un doppione di Umā,
venerata a Madurai come prima sposa di Sundareśvara (lett. ‘il Bel Signore’ = Śiva).
A questo punto Von Stietencron fa un po’ di confusione e non è il caso
di seguirlo. Personalmente spieghiamo
con termini diversi l’atteggiamento śaiva
al riguardo, anche se in apparenza la sostanza non varia poi di molto (212).
Non c’entrano gli antenati bevitori di soma, dato che i Pitṛ (‘Padri’)
bevono sangue, com’è noto; a differenza degli Dei, che soli si nutrono di soma.
Né c’entra la reincarnazione, che tra l’altro è un concetto moderno
d’origine occidentale; semmai dovremmo parlare di πάλιν-γένεσις (‘rinascita’)(213), scr.punar-janm (id.). Di certo
però, e qui l’autore tedesco ha ragione, vi è un rapporto nella mitologia hindu
tra la Luna in quanto Regno del Soma
o Paradiso Lunare e l’affluenza delle Acque nel mondo. Con tutte le connotazioni simboliche che esse detengono, ovviamente. Il moto ascendente e discendente del Soma regola del resto, unitamente al
principio opposto (Agni), l’intera
vita vegetale ed animale (214). Il problema è che l’autore nel quadro esplicativo da lui tracciato
introduce delle concezioni di tipo storicistico, le quali nulla hanno a che
fare colla vera mitologia induista. Non
vi è un trasferimento del Mondo dei Morti (non è specificato bene da dove,
parrebbe dal Cielo) alla Luna, come se il fatto fosse una convenzione culturale
d’una data epoca; ma semplicemente la necessaria distinzione fra il Pitṛloka in senso infero-celeste e l’equivalente Pitṛloka in senso infero-sotterraneo, con chiaro riferimento al
Caturyuga (215). La versione śaiva del mito accentua, inevitabilmente,
il passaggio lunare delle Acque e la loro caduta sul Meru; ove, recuperate da Śiva, si dividono in varie correnti, fra le quali il Gange nel Bhāratavarṣa. Nel mondo indiano la Luna è madre delle forme
e Ianua Inferi, per cui come nel
mondo greco presiede alla nascite, alla morte e al destino delle anime dei
trapassati. Sempre che gli antenati
riescano a raggiungere quel tenue mondo paradisiaco, altrimenti la loro sorte è
confinata nell’oscuro mondo sotterraneo (216).
L’icona di Śiva reggente la dea Gaṅgā nella posa
detta Gaṅgāvataraṇa
è sostituita a volte da quella denominata Gaṅgādhāra, ove Mahādeva è accompagnato da Pārvatī anziché
da Umā (217); e
Gaṅgā è effigiata
sul fianco destro della testa del nume, non sopra di essa (218). Vi è poi il Gangāpariṇaya, l’immagine
della devī mentre si presenta a Śiva in veste di sposa (219).
Un ulteriore motivo iconologico è dato dal Triveṇī-saṅgama, il
‘Confluire-delle 3 correnti’. Anche se a
livello iconografico (cfr. il bassorilievo gupta del IV sec. d.C. in una grotta
di Udayagiri, M.Pr.) compaiono sulla
scena esclusivamente due di esse, personificate come tutto il resto della
scultura e confluenti in Samudra,
var. di Sāgara con in mano un Ratnakalaśa (‘Vaso dei Gioielli’) a mo’ di
Ratnākara (‘Fonte di Gioielli’). Attorno si vede gente festante, osservata
dall’alto da una figura immortale (220).
Nel caso dell’altorilievo di Ellora dell’VIII sec., in stile Rāṣṭrakuṭa,
le 3 dee sono raffigurate separatamente, ciascuna in una propria nicchia
(221). Altre varianti tematiche sono reperibili
altrove (222).
Benché la dea della Yamunā non presenti alcun aspetto pescino, è
lecito comunque tracciare un rapporto d’identità-alterità tra il Grande Pesce
della Triveṇī e la forma ittica di Adrikā, l’apsaras
condannata a vagare per un maleficio nelle acque infere di questa particolare
corrente fluviale. Tal fiume infatti,
fungente da principale affluente del Gange, nella sua controparte naturale è
caratterizzato da acque piuttosto torbide e scure; tanto da esser chiamato
anche Kālindī, voce apparentata a kāla = ‘nero, scuro, blu’.
Siffatta torbidezza ha cosí
suggerito da tempo immemorabile una connessione d’immagine colle acque infere
della mitologia di Yama, ovverosia
colla fase discendente dello Yajña; in
palese opposizione alla relativa limpidezza della Gaṅgā, elevata
viceversa ad espressione tangibile della facies
luminosa della Yamunā e ricollegata
perciò alla fase ascendente del ciclo annuale.
Sulla base di quanto appena rilevato, non è difficile allora comprendere
le ragioni onde la dea Yamunā – ritenuta
mitologicamente un doppione di Yamī
(la ‘Prima Donna’, sorella-consorte di Yama),
nonché di Kālindī (sorella di Kāla, alter-ego
di Yama in funzione mortifera) e
quindi equivalente alla stessa Kālī (223)
– sia stata rappresentata nel Mahābhārata attraverso
la sua controfigura Adrikā; da intendere,
possibilmente, quale variante dvaparayughica del vāhana
della Triveṇī.
Yamunā, ossia Yamī, è dipinta come ‘nera’ per via delle conseguenze interiori della
‘caduta paradisiaca’; tuttavia, essendo interpretabile come la Prima Donna (vide supra), la figura di cotale devī al di fuori del contesto
mahabharatiano ci rimanderebbe di per sé simbolicamente al Kṛtayuga
(Età dell’Oro). Infatti la reale natura
di Yamunā-Adrikā è aurea, fatto testimoniato dal Kūrma, richiamantesi al Kūrmāvatāra. A riprova di quanto ora specificato, si narra
che fosse stata in principio un’apsaras
(ninfa kritayughica), maledetta un giorno alla metamorfosi pescina da un muni (monaco, nel senso priemevo di
silenzioso asceta praticante la via dei gandharva
e delle apsaras)(224). Proprio nel mentre in
cui i due uccelli (nella versione del Devī
Bhāgavatam sono dei falchi)(225) della storia già narrata di Satyā litigavano fra di loro per
l’accaparrramento del seme di Uparicaravasu,
l’apsaras si era recata sulla riva della Yamunā,
ove il muni stava allestendo il suo Sandhyā Bandanam. Colà la bella fanciulla si era buttata in
acqua per fare un bagno, ben presto tuffandosi giocosamente onde cercare
d’acchiappare i piedi del brahmano.
Costui, accortosi delle intenzioni erotiche della celestiale femmina,
essendo stato costretto ad interrompere la propria meditazione ed i connessi
esercizi di prāṇāyāma, l’aveva maledetta a tramutarsi in
pesce. Il testo citato a differenza del Mahābhārata,
specifica trattarsi d’una carpa dorata (scr. Śaphara/-i), la stessa specie quindi di quella del piccolo ma poi
sempre piú grande Pesce Parlante apparso a Manu. .
Se le 3 dee fluviali non sono che
semplici aspetti di Mīnāksī (226), iconograficamente concepita con
3 Petti (227), costei presenta
talvolta in maniera piú ristretta i tratti della sola Satyā;
coll’inconfondibile ‘odore di pesce’, che si trasforma in ‘profumo di muschio’
dopo l’incontro d’amore da lei avuto con Sundareśvara, un aspetto di Śiva (228)
come si è visto sopra. Il riferimento
evidente, l’abbiamo già constatato per Matsyakālī, è alla
trasformazione operativa subentrante interiormente al sādhaka
allorché la Śruti viene
direttamente assimilata. Si noti che
anche altre dee (ad es. Ganga) possono essere assolutizzate, vestendo i panni
della ‘Signora della Triplice Corrente’.
Tornando a Satyā, si consideri
che costei non compare soltanto quale
madre naturale di Vyāsa (Mhbh., Ādip.-
liii. 60 ss) , bensí pure come una delle consorti di Kṛṣṇa, il figlio di Vasudeva (Bh.P.- x.58, 32-5). Per concedere la mano della figlia Satyā, detta Nila, il padre ossia il pio re Nagnajit
aveva disposto che il pretendente riuscisse prima a domare ‘Sette Tori’ furiosi
ed indomiti. Il rampollo del clan degli Yadu riuscí
nell’impresa di porli sotto controllo dividendosi dapprima in sette e legandoli
poi ad uno ad uno. Ecco una chiara
allusione alla settemplice potenza dei numi planetari nel macrocosmo, riflessa
nel microcosmo dai corrispondenti ‘Sette Loti’ dell’organismo sottile. Potremmo allora tracciare un parallelo tra Parāśara, amante
di Satyā, e l’omonimo capo della tribú yadava.
Se è vera quindi la nostra supposizione sul doppio ruolo giocato da Satyā di madre e di amante, sempre che si
identifichi Parāśara a Kṛṣṇa-Vāsudeva, né risulta che il Vasudevide commette incesto
colla madre; non meno di quanto avevamo sopra ipotizzato per Parāśara, ciò
confermando l’ipotesi in precedenza formulata.
Riassumendo, i due veggenti mahabharatiani nonché redattori tradizionali
rappresentano una doppia e parziale manifestazione di Viṣṇu, il compositore ideale del Viṣṇu Purāṇa (229)
equivalendo all’Ottavo Avatāra e quello del
Mahābhārata al Nono (230). La medesima donna divina, con alcune delle
sue molteplici denominazioni (Satyavatī,
Matsyodari) e sotto mentite spoglie,
figura ancora d’altronde nelle vicende di due altri avatara: il sesto (Paraśurāma) ed il
settimo (Rāmacandra)(231). Vicende che sono
dunque da interpretare alla stessa stregua degli episodi nei quali è coinvolto
il Kṛṣṇāvatāra.
v)
Bran e Manannan,
corrispettivi
celtici di Brahmā e Manu
Nell’introdurre la sua analisi
del divino pantheon celtico un valido studioso (232) ha premesso queste significative parole: “…il politeismo e
l’antropomorfismo dei princìpi divini costituiscono delle deformazioni del
pensiero religioso greco-romano. Bisogna
quindi evitare assolutamente di considerare gli dèi dei Celti in base ad un incasellamento
rigido delle funzioni… Così, infatti, si
sfocierebbe in una religione naturista, zoolatra o totemica che è molto poco
probabile sia mai esistita altrove che nella mente dei suoi inventori moderni.” La premessa è ottima, compresa la stoccata al
dumézilismo, o se preferiamo al dumézilismo di maniera. Anche quando lo stesso autore (233) prende in considerazione le 5 età
mitiche (234) della tradizione
celtica in Irlanda – vale a dire l’Età di Partholon
(lett. ‘Venuto-dal mare’), L’Età di Nemed
(‘Sacro’), l’Età dei Fir Bolg
(‘Uomini del Fulmine), l’Età dei Tuātha Dē Danann (‘Figli
della dea Dana’) e quella dei Gaeli
ovvero dei Milesi (Figli di Mile,
venuti dalla Spagna ed antenati degli attuali irandesi) – e misconoscendo in
parte quanto in precedenza da lui stesso asserito fa del locale ‘Libro delle
Invasioni’, il Labor Gàbala (XI-XII
sec.), un’opera di pura mitologia non è lontano dal vero. Poiché, in realtà, interpreta le invasioni
come fasi dell’umanità equivalenti alle quattro mitiche età greco-romane. Si dispiace soltanto che tale mitologia sia
stata inserita nel quadro biblico, trasformandola in eventi
pseudo-storici. Eppure, se tanto gl’Irlandesi
quanto i Norreni hanno incorporato le proprie leggende tradizionali in un
simile quadro, non può esser considerato una questione di mero opportunismo
politico-sociale; è evidente che essi riconoscevano alla cosmografia della Genesi un valore universale, con i cui
presupposti bisognava in qualche modo mediare.
Occorre dunque far tesoro di simili informazioni, mediazioni d’Isidoro
di Siviglia a parte. Certo, che anche i
Celti non meno d’altri popoli di lingua indoeuropea immaginassero un’età
dell’oro e conseguenti altre epoche di decadenza da uno stato di primordiale
perfezione è risaputo, altri studiosi lo hanno postulato (235).
Se vi è altresí una divinità nel pantheon celtico
rassomigliante incredibilmente al Brahmā hindu (236), nome compreso, quella è Bran.
L’appellativo, guardacaso, presenta quale variante la voce Vran.
E a tal proposito ricordiamo che Brahmā funge in
ambito hindu, come abbiamo già visto (237),
da dio aureo; non meno del suo alter-ego
Varuṇa, corrispondente difatti – e non solo
dal punto di vista dell’etimo, ma persino nel ruolo talora malefico – alla var.
Vran (238). Iconologicamente il
primo equivale all’altrettanto primevo dio latino Iānus,
poiché è tetracefalo (239); il
secondo è il corrispettivo indiano del gr. Οὐρaνός, checché ne pensasse il piú illustre storico delle religioni
(240). Si tratta comunque, sia riguardo i due nomi
divini druido-brahmanici sia riguardo quelli degli omologhi numi greco-latini,
di deità auree. Gli attributi degli uni
s’appaiano difatti agli attributi degli altri, con qualche differenza nel
versante greco-latino rispetto al versante indo-celtico. Non è detto che per spiegare tali differenze
si debba ricorrere, per forza di cose, alla teoria antropologica delle aree
laterali. Potrebbero esservi altre
ragioni, che non stiamo ad analizzare (241).
Il piú importante senza dubbio di
codesti sunnominati attributi è la Coppa dell’Abbondanza in dotazione a Bran il Benedetto (chiamato cosí, poiché gli si attribuiva la trasmissione del
cristianesimo in Britannia durante il suo leggendario regno), visibilmente
richiamantesi al Vaso di Brahmā di cui sopra (242).
Sul Paiolo della Rinascita assegnato dalla letteratura celto-gallese (Mabin.- ii) e dal folclore rispettivo a Bran, che lo dona a Re Mathowlch per riparazione della grave
offesa inferta al re d’Irlanda dal fratellastro Evnissyen durante il banchetto di nozze della sorella Branwen, s’è modellato ovviamente il
Sacro Calice del Graal della letteratura celto-cristiana (243). Un secondo attributo,
seppur meno pregnante, del gigante druidico è il Pesce; per l’occasione, il
Salmone della Conoscenza (od il Luccio), in certo senso correlato alla Carpa
Monodona brahmanica associata a Manu. Benché Brahmā non abbia mai
avuto per vāhana il Pesce (ma nei testi è ritratto
talvolta come il Pesce Monodono del Diluvio), nondimeno ce l’aveva in dotazione
un tempo l’equipollente Varuṇa (244); e lo possiede ancor oggi Kāma, allotropo di entrambi.
Kāma viene presentato nel Ṛgveda
come il ‘Primo Nato’ dalla ‘Mente’ di Brahmā (245).
In x. 129. 4 è per l’appunto attestata la seguente frase: “In principio
vi fu il Desiderio”, non per niente nella nostra lingua chiamato in alternativa
‘Brama’… Non esistono raffigurazioni
particolari di questo mitologhema, ci pare, ma è viceversa nota l’iconografia
pescina del nume invisibile (246),
talora associato alla Montagna Bianca (247). Altre divinità celtiche hanno a che fare col
Grosso Salmone, od il Grosso Luccio; o persino col Pesce d’Oro Cornuto, meglio
noto quale Serpente Cornuto. Ossia Nuadu, Dagda e Finn (248).
Dagda ha pure per connotato il
Calderone dell’Abbondanza, o della Rinascita, capace di saziare chiunque (249).
Riguardo i succitati omologhi
greco-latini Urano e Giano le cose vanno un po’ chiarite, poiché è evidente che
nel passaggio fra due diverse culture, sia pur appartenenti allo stesso ceppo
linguistico, non si dovrà giammai pretendere di rinvenire una perfetta
equivalenza fra i corrispettivi numi (250). Basta un’approssimazione al fine che ivi ci
proponiamo, il quale non è di delineare a scopo didattico la religione induista
o quella di altri popoli, ma semplicemente di allaragare la sfera delle
comparazioni per comprendere meglio il soggetto che dà titolo alla nostra
ricerca. La storia e l’iconologia delle
religioni possono pure speculare sul tali differenze, per il momento non
c’interessano. Dunque non le prendiamo
in considerazione, a meno che contribuiscano ad ampliare il quadro che andiamo
tracciando. Nel caso di Urano, va
rimarcato che sebbene codesta divinità non detenga apparentemente nessuno degli
attributi in dotazione al Dāśarāja
hindu od ai doppioni brahmanici di costui, ciononostante è possibile ritrovarli
in quelli degli allotipi del nume: cosí
la tetracefalia di Brahmā, emblema
dell’onniveggenza, è reperibile in ῎Αργος (251) dai cento-occhi (custode di Io, la bianca vacca)
il cui candore – in base al gr. ἀργός= ‘scintillante, bianco’ – pare
rimandare ai brumosi cieli nordici e circumpolari; mentre la <Testa
Tagliata> di Prajāpati, il Brahmaśiras
ossia la ‘Quinta Testa’ di Brahmā staccata
al dio supremo hindu da Kālabahairava (252), ha un preciso equivalente in
Grecia nella ‘Testa di Orione’ trafitta da Apollo (253). Per rinvenire la
Coppa dobbiamo invece rivolgerci a Ganimede e per il Pesce ad Eros,
direttamente connesso ad Afrodite Anadiomene, o ad Apollo Delfinio (254).
Abbiamo altrove dimostrato (255)
che il dio-coppiere era stato in principio un nume a sé stante, indipendente
dalla costellazione zodiacale dell’Aquario, pur avendo anche allora signoria
sulla Bevanda d’Immortalità; insomma,
un doppione di Urano. Ovvero un dio
degli inizi, se vogliamo, non meno di Giano e Gaṇeśa. Egualmente si potrebbe dire di ῎Ερως il primo dio secondo gli Orfici,
che nell’elenco delle Generazioni Divine lo antepongono ad Urano; mentre
Platone (256), diversamente, colloca
Urano in prima posizione ed in seconda Όκέανος. Circa ῎Αφροδίτη
῎Αναδιομένη (lett. ‘Afrodite Emergente’’, dal vr. ἀναδύομαι = ’emergere’)(257),
occorre precisare che l’icona altro non rappresenta se non un aspetto di ῎Αφροδίτη Οὐρaνία (Afrodite Urania), la figlia di
Urano. Nel caso di Re Giano, non avendo
il dio latino alcun alter-ego riconoscibile a prima vista (258), è necessario ragionare in profondo sugli attributi che lo
contraddistinguono. Il Bastone che porta
talora in mano (259) equivale senza
dubbio alla Verga di Varuṇa, oltreché al Daṇḍa di Re Yama,
alludendo da un lato alla regalità sacrale primigenia e dall’altro all’inizio
dell’Anno Sacro nonché ai Solstizi (260).
La primaziale signoria sul Lazio tradisce del resto una simbologia
occulta, relativa al lat. lateo
(‘nascondere’): come non pensare quindi all’Ilāvarta,
la ‘Terra Nascosta’ d’induistica memoria (261)?
Rimane infine da analizzare l’Arca, passata poi alla Chiesa Cattolica quale
emblema del Pontificato (262). Vi è chi (263)
l’ha assimilata al Pesce, ma in tal modo intesa andrebbe comunque parificata
alla Balena di Giona (solamente nel suo aspetto femminile, poiché ve n’è un
altro opposto e complementare) oppure alla Vēsīca Piscis (264), cioè alla Coppa Eucaristica (265); non allo ἸχΘούς, che è già rappresentato dal Bastone-scettro (266). I due contrassegni,
unitamente, sono tutto ciò che perdura dalla scomposizione del Matsya Ekaśṛṅga originario,
trainatore dell’Arca di Manu sulle
acque diluviali.
Continuando la disamina prima
intrapresa delle deità celtiche affini alle divinità ittiche hindu, si constata
come l’abbinamento Pesce-coppa faccia risaltare già nel celtismo pre-cristiano
il personaggio del Re Pescatore, diventato in seguito un tópos del cristianesimo
tardo-medievale. Le raffigurazioni di Bran, trattandosi d’un nume molto
arcaico, sono scarse. Sfortunatamente
nessun mitologhema lo riallaccia in modo evidente all’Età di Partholon (267), ma il fatto d’esser fratello di Manannan/ Manawyddan, il
quale non fa parte dei Tuatha De Danann
(268) e non ha perciò alcun ruolo
nell’epica <battaglia> di Mag Tured (269),
è un indizio ineludibile della sua vetustà.
Chi è d’altronde questo Manannan,
che fa da fratello a Bran, se non il
corrispettivo druidico del Manu
brahmanico? Non per niente quegli era
signore del Tir Tairn-gire, la ‘Terra
dei Beati (Le Roux traduce con ‘Terra di Promessa’); gli appartenevano due
mucche sempre pronte a dar latte e, non meno che a Bran, un calderone costantemente ripieno (270). Dal che ne deduciamo
in base alle precedenti considerazioni che la Coppa era un attributo tanto di Brahmā-Bran, quanto di Manu-Manannan
(271). Di codesto Manannan scrive il De Vries (272)
che era considerato, non meno di Bran,
il figlio di Lir ed era chiamato
perciò mac Lir. Da intendere però, semplicemente, come
‘figlio del Mare’. Il che concorda a
grandi linee colla storia della prima mitica invasione, poiché in verità il dio
Lir/Ler (gall.Llӯr) – sorta di
Poseidone locale, prototipo dello shakespeariano Re Lear – è il maggior
rappresentante dei Tuātha Dē Danann (273).
Trattasi dunque d’una filiazione posteriore, similmente a quanto
accaduto in Grecia od in India ad alcuni vetusti numi riciclati posteriormente
quali <figli> dei maggiori dèi piú recenti. In Irlanda o nelle altre isole britanniche,
ad es. a Mann, i Celti denotano contatti col mare assai piú ampi di quelli
dell’Europa Continentale (274). Significativa a questo riguardo è però in certi
luoghi della Gallia la presenza d’un dio marino che ha assunto i connotati
greco-romani tipici di Poseidone e Nettuno, col Delfino, ma è venerato col nome
di Hesperius (275); ciò che tradirebbe
suggestivamente la sua origine occidentale, se tentassimo una spiegazione
improvvisata del sacro appellativo. C’è
bisogno di ricordare che di là dall’Atlantico, nelle ragioni del tramonto o
meglio nella leggendaria isola di Atlantide, Platone poneva la signoria di un
nume del tutto similare?
Il vero e proprio omologo del
Nettuno latino, almeno da un punto di vista etimologico, lo si rinviene ad ogni
modo in Irlanda, dove piglia il nome di Necht
o Nuadu (cimr.Nudd/Lludd)(276). Gli scavi di Lidney Park, nella cittadina di
Lidney presso il villaggio di Aylburton sul Severn (Gloucestershire, Regno
Unito), hanno portato a loro volta alla luce un tempio rettangolare
celto-romano del V sec. d.C.; il quale ci rivela la presenza d’un inusitato
dio-pescatore: Nodens, Nudens o Nodons, parificato a Marte (Silvano) ma
identificabile alla deità irlandese testé citata. Che si tratti in ultima analisi d’una
divinità tripartita (277) è provato
dal fatto che, guardacaso proprio sul lato nordoccidentale (evidentemente è un
segno della provenienza mitica), vi sono 3 stanze tra loro connesse. In un monumento il dio è raffigurato
nell’atto di sacrificare un grosso salmone, mentre in un fregio circostante si
osservano dei mostri marini circondati da pesci attorno a dei tritoni. Il fiume Severn era venerato fin dai tempi
del Mabinogion per una leggendaria
pozza in esso contenuta, denominata Llyn Llyw (donde deriverebbe il nome
di Lidney), ove viveva
un vecchio salmone. Tutt’attorno si narra vi fosse un bosco di nocciole. Il culto gallese del Salmone della Conoscenza
non differisce di molto, del resto, rispetto a quello irlandese. Secondo la leggenda della prima battaglia di
Mag Tured a Nuadu fu mozzata una
mano, ciò che lo rese inadatto a regnare sui Tuatha Dé Danann. A Nuadu subentrò Bress, figlio di Eriu
(Madre Irlanda). Ogni re di Tara, la
capitale dell’irlanda di quei tempi, si sposava con Eriu; la quale era chiamata anche Eire (ancor oggi il nome alternativo dell’Irlanda) e faceva parte
d’una trimorfia (Folla, Banba, Eire),
che De Vries (278) classifica come
una variante delle 3 Macha. Vale a dire, la Macha sacerdotale (sposa di Nemed,
l’emblema celtico del II Grande Anno), la Macha bellica e la Macha
feconda (soprannominata Mongruad
ossia “dalla rossa chioma”). Il mito,
della Mano Mozza è chiaro, allude al passaggio di ruolo della deità in
questione da una posizione suprema ad una subordinata (279). J. Vendryes ha
giustamente collegato il nome del dio al got. nuta (‘pescatore’), lat. nauta
(‘navigatore, marinaio’) ed ha inoltre trovato linee di raccordo – ci confida
De Vries – con il Roi Pêscheur della leggenda graaliana,
facendo ricorso al notonier (280) nonché all’uomo con l’eschace d’arjant presenti in Chretien de
Troyes onde dimostrare la propria ipotesi.
Certamente la cosa ha l’aria d’una teoria valida, ma è pur necessario
tener conto che in questo modo non si esauriscono le valenze della figura del Roi Méhaignet. Poiché Nuadu
non ha ricevuto la ferita d’una lancia, gli è stata invece mozzata una
mano.
Vi è una leggenda che, al contrario,
spiega bene la trasfigurazione cristiana successiva del tema. Alludiamo ovviamente al contenuto del X
racconto gallese del Mabinogion, il Peredur Son of Evrawg (281).
Ivi Peredur, abbandonata la selvaggia
foresta ove era stato allevato dalla madre, approda alla corte di Artú e poi viene istruito nell’arte della
cavalleria da un gentiluomo. Nelle sue
avventure giunge in seguito al castello d’un cavaliere zoppo, di cui è nipote
in linea materna, e colà durante il banchetto assiste ad un inverosimile
corteo. Nel salone entrano dapprima due
giovani, recanti una lancia dalla cui punta grondano 3 rivoli di sangue; indi
sfilano due fanciulle, con in mezzo un vassoio contenente una testa mozzata
immersa nel sangue. Peredur viene a sapere in seguito che
essa apparteneva ad un cugino ucciso dalle 9 Streghe di Caer Lloyw (282), sull’Usk. Queste sono le stesse che hanno storpiato lo
zio, il proprietario del castello. Alla
fine esse vengono annientate coll’aiuto di Re Artú.
Se, come generalmente si
ammette (283), la testa descritta è
quella di Bran (circa la quale cfr. Mabin.- ii), allora tutto si spiega in
maniera lampante. Poiché Bran è il ‘Grande Antenato’ non solo di Peredur, ma dell’intera nostra
umanità. La testa divina ha un parallelo
nel Mṛgaśiras
hindu, vale a dire nella ‘Quinta Testa’ di Brahmā tagliata da Śiva sul Meru (284). Se questo è vero, ciò implica di necessità
che la ‘Testa Mozza’ di Bran (285) funge da richiamo dell’Età Aurea,
o di Partholon che dir si voglia. Non
per niente l’Incantatore che rivela alla fine della narrazione i propri
incantesimi a Peredur è un tipo coi
capelli biondi (= aurei), mentre il Cavaliere
Zoppo li ha neri (= ferrei), connotati simbolici entrambi sicuramente di valore
alchemico. A conferma del nostro
assunto, Bran è difatti l’avo di Pryderi (Mabin.- iii), una chiara prefigurazione di Peredur. Le benedizioni
connesse al culto di Bran (banchetto
celeste ecc.) verranno trasferite da parte di Chretien a Cristo, attraverso
tutta una serie di progressivi riadattamenti della tematica pre-cristiana, che
analizzeremo fra breve. Benchè i
racconti del Mabinogion appartengano
da un punto di vista compositivo al XIV-XV sec., di certo la materia da essi
trattata risale nel contenuto ad un’epoca precedente a tutte le altre opere del
ciclo bretone.
Il primo romanziere a scrivere
sul soggetto (286) è Chrétien de
Troyes (XII sec.), che affronta l’argomento della processione del Graal nel
Cap.V di Perceval le Gallois ou le
Conte du Graal (287).
All’arrivo
al Castello del Graal Perceval (ex-Peredur, a sua volta ex-Pryderi) incontra due uomini su una
bara: uno rema e l’altro pesca coll’amo (288). Questi, essendo stato ferito da un
giavellotto ai fianchi, non è piú in grado di muovere le gambe e quindi di
montare a cavallo; per cui non gli rimane che dedicarsi alla pesca in barca,
dato che è assai benestante. Di qui la
denominazione che gli è propria, di ‘Ricco Re Pescatore’ (289). Dopo esser stato
accolto da quest’ultimo, il ‘Figlio della Vedova’ (prima era il ‘figlio della
Vergine)(290) assiste alla consueta
bizzarra processione (Cap.V). In tal
caso vi è un valletto ad aprire la scena colla lancia insanguinata. Solo una vermiglia goccia, anziché 3 rivoli
di sangue scorrono da essa, ma piú avanti (Cap.VIII) il protagonista ha la
visione del volo di alcune anatre selvagge; da una delle quali – ferita da un
falcone – cadono 3 gocce di sangue (291)
sulla neve, che rammentano al cavaliere innamorato Biancofiore (292), la bella castellana assediata da
Anguingueron e da lui liberata. Al primo
valletto ne seguono dapprima altri due con dei candelabri d’oro e poi appare
una damigella con un graal (vassoio) pure d’oro, da cui s’irradia luminosità
per tutta la sala. Dopodichè spunta una
seconda damigella, con un piatto d’argento, a chiudere il corteo. La sfilata si ripete ogni volta che
all’ospite viene servita una nuova portata, ma il gallese rimane silenzioso per
non apparire importuno. Solo in seguito,
quando si sarà confidato colla cugina, costei gli farà sapere d’aver sbagliato
atteggiamento omettendo di chiedere a cosa servisse il Graal. Poiché unicamente in quel modo il re invalido
avrebbe potuto riprendere l’uso delle gambe e sarebbe ridivenuto abile a
governare la sua terra. L’indomani, dopo
che Perceval si era alzato, trovando
il Castello tutto vuoto e colle porte sbarrate se n’era andato senza saluti di
commiato nonostante avesse urlato per farsi sentire. L’ingrato non aveva
ricevuto nessuna risposta, ma in compenso aveva trovato il cavallo sellato ed
il ponte levatoio abbassato da mani ignote.
Non appena l’aveva passato a cavallo, il cavaliere aveva sollecitato
ancora una risposta, ma la risposta non era venuta.
Nel passaggio dall’ambiente druidico a
quello cristiano, senza dubbio il testo si fa piú rarefatto, acquista
misticismo. Ma è questo vero indizio
d’una spiritualità maggiormente elevata?
Di certo il druidismo sul finire del I mill. a.C. era scaduto a livello
magico-sacrale, rispetto a tempo addietro, e si trovava in condizioni tali che
soltanto una rigenerazione spirituale sarebbe stata in grado di rimetterlo in
sesto. Questa non poteva conferirgliela,
in tutta sincerità, altro che la religione allora dominante ed essendo il
paganesimo romano già in declino era impossibile che facesse da leva per una
rinascita del druidismo celtico.
Esclusivamente il cristianesimo aveva la possibilità di risollevarlo
dall’inedia in cui era caduto. Tuttavia
si ha l’impressione, leggendo fra le righe nel Mabinogion e nel Perceval le
Gallois, che il valore iniziatico dei due testi sia differente e quasi
opposto. Nel senso che, pur trattandosi
in entrambi i casi d’una iniziazione di tipo eroico-regale, nel caso del Peredur parrebbe prevalere una forma
apollinea di simbolismo; mentre il Perceval,
se non andiamo errrati, sembrerebbe indirizzato verso una forma dionisiaca
dello stesso. Ci spieghiamo meglio. Analizzando gli elementi comuni alla duplice
storia, della quale abbiamo fornito due brevi sunti, scorgiamo che la sfilata
nel rispettivo contesto piú o meno si equivale.
A parte il piatto d’argento, ove Gesù e gli Apostoli avevano mangiato
l’Agnello Pasquale nell’Ultima Cena. In
altre parole, avevano sacrificato l’ego divenendo virtualmente il Principio Divino. Infatti, oggetto del corteo osservato da Peredur è la Testa Mozza di Bran; quantunque in incognito, visto che
il testo non fa alcun nome in proposito.
Invece nel Perceval avviene
per cosí dire uno sdoppiamento fra
l’oggetto rituale – il Graal non contiene alcunché eppur risplende, per
allusione evidente alla Coppa dell’Ultima Cena – ed il Re Magagnato, cioè il Re
Pescatore. Successivamente, si avrà
addirittura una triplicazione del motivo, distinguendo fra di loro le due
figure testé citate e il Sacro Calice, il quale perderà l’aspetto del vassoio
per divenire un vero e proprio vaso. Il
fattore esplicante tale sdoppiamento è il medesimo per cui in India si trova
nelle formulazioni testuali maggiormente antiche (ad es. nel Mhbh, Vanap.- clxxxxvii. 1-55) un’indistinzione sostanziale fra Brahmā e Manu,
il quale viene menzionato in veste di Creatore; ma in seguito vi è distinzione
fra Manu e il Matsya ovvero fra Matsyendra
e Mīna (cfr. §§ r-s) e poi addirittura una triplicazione fra Manu, Viṣṇu
e l’Avatāra (293).
Facciamo notare altresí che Manw (294) è il nome gallese dell’I.a di Man, a metà strada fra la
Britannia e l’Irlanda. Orbene, colui che
il Galles denominava Manawyddan (il
nume venerato a Man) l’Irlanda chiamava Manannan (295). Codesto nume era
fratello di Bran e di Branwen, una delle varie vesti della dea
bianca al dire del Graves (296). Come tale costei costituiva un doppione di Rhiannon, madre di Pryderi e sposa di Pwill
(protagonista del I ramo del Mabinogion),
successivamente maritata dal figlio secondo la saga (Mabin.- iii) ad un altro. Pryderi, principe del Dyvet (regione
gallese) e prima prefigurazione di Parsifal, l’aveva infatti concessa in isposa
a Manawyddan. Essendo questi il fratello di Bran, è da supporre che in Mabin.- x lo <Zio Zoppo> presso il
cui Castello si reca Peredur, seconda
prefigurazione di Parsifal, non sia altro che Bran in celata forma. Quale
prova sta il simbolismo della testa nel vassoio, che diverrà in Chrétien un graal di lucente aspetto. La testa mozzata depositata sul vassoio del
paganesimo celtico, particolare troppo cruento per la sensibilità
cristiano-medievale, la ritroveremo perciò in braccio alla cugina di Perceval
ormai desacralizzata. Alle sacre
reliquie si aggiungerà, però, il piatto pasquale. Spariranno inoltre le 9 Streghe, altro
dettaglio indigesto nel computo temporale del Cristianesimo (facente perno
sull’Incarnazione di Nostro signore), nel racconto gallese annientate da Artú. Dal
fatto che avessero storpiato lo zio e tagliato la testa al cugino germano (il
fratello dello zio) abbiamo già dedotto, in precedenza (297), trattarsi di una simbologia cosmologica analoga a quella
delle 9 Madri di norrenica memoria. “La
piú bella pulzella e di maggior rango” fra le fanciulle del Castello assediato
si trasformerà a sua volta in Biancofiore.
A nostro parere le suddette leggende nascondono un riferimento astrale,
in relazione all’Età di Mile, concernente Orione (la Testa Oracolare) e
Aldebaràn (la Bianca Dea)(298). Anche la faccenda dello zio (o sovrano)
claudicante, similmente alla storia di Edipo – in quel caso è l’intera dinastia
ad esserlo, come ha notato qualcuno – pare richiamarsi allo stesso asterismo,
sia pur da un altro punto di vista; che non è cosmologico, ma ontologico, dato
che era costume anticamente legare mani e piedi agl’iniziati nel loro percorso
emblematico. Come c’insegna l’arcaica
storia ittita di Kessi il Cacciatore (299).
Nel proseguire l’analisi del tema
graaliano dopo Chrétien è d’uopo seguire il seguente percorso: la Continuazione
di Manessier, il Romans de l’estoire dou
Graal (o Joseph d’Arimathie) di
Robert de Boron nella prima metà del sec.XIII; indi, subito a seguire, il Didot Perceval (dal nome del libraio
parigino che deteneva il manoscritto), continuatore di De Boron. Poi, sempre nello stesso periodo, il Perlesvaux; secondo l’autore, la traduzione francese d’un libro in latino
posseduto dall’Abbazia di Glastonbury.
Ed ancora, il Parzifal di Von
Eschenbach, ispirato a Chrétien; ma pure ad un poeta provenzale (Kyot), che
avrebbe trovato la storia elaborata dal narratore tedesco a Toledo, scritta in
arabo. Nonché il Lancelot-Graal (o ciclo vulgato), anonimo, comprendente 5 rami; ed
infine La Morte Darthur di T.Malory,
del XV sec, poggiantesi sul Lancelot (300).
Un esame del genere esula tuttavia dal compito che qui ci prefiggiamo,
la semplice comparazione del tema piscatorio celto-cristiano coll’analogo
motivo del mondo indiano, onde lo tralasciamo (301).
Rimane ora esclusivamente da
considerare il motivo del Pesce, che in ambiente celtico si traduce come
abbiamo visto in quello del Salmone (o del Luccio) della Conoscenza. Il Pesce lo si vede persino raffigurato nel Calderone
di Günderstrup, ove si osserva una figura giovanile cavalcare un luccio (302).
Non è facile desumere quale sia la divinità incisa nel metallo. Proviamo egualmente a farlo, andando per
esclusione. In base ai dati reperiti,
abbiamo visto che solamente Nuadu, Dagda e Finn dispongono dell’emblema ittico, ma nessuno di essi lo ha per
cavalcatura. Oltretutto, il fatto che
pesce e figura umana divinizzata siano a cosí
stretto contatto potrebbe farci propendere per una diversa soluzione
dell’enigma, dato che in India tale mūrti appartiene
unicamente a Manu ed al suo doppione
aureo Kāma.
E se fossero Manannan e Bran in forma pescina le figure ritratte
una a groppa dell’altra, o meglio dei loro equivalenti gallici (303), visto che qualcuno non a caso
identifica i due numi (304)? Non sono costoro, entrambi, possessori d’un
magico caldaio? Per quanto suggestiva,
questa tesi – saremo sinceri – non ci convince.
L’unica soluzione credibile non può che essere quella proposta in nota (305), che si tratti cioè del Pesce
d’Oro (anche se ivi non è Cornuto), dato che innanzi vi è l’Ariete. Nel riquadro precedente, d’altronde,
campeggia il Serpente Cornuto. Se, come
sembra, ogni riquadro rappresenta lo sviluppo scenico dell’altro, si può
immaginare che il dio col pesce ne sia una trasformazione annuale. La minuscola figura umana della precedente
scena individuava il dio colla ruota, in altre parole un doppione di Dagda, per cui è possibile che anche
l’altra in groppa al pesce nel riquadro successivo stia in diretta continuità
con essa. L’Ariete lo prova. Allora, modificando di poco la congettura che
si tratti d’un nume primevo tipo l’Eros greco od indiano, è lecito ipotizzare
che la minuscola figura costituisca di nuovo una forma di Dagda ossia del Giove celtico (306). Codesto dio supremo potrebbe aver assunto, al
modo dell’Indra vedico ed epico
hindu, accanto al carattere di supremazia quello di primazialità sostituendo in
tal modo per mezzo della nuova coppia Pesce-Ariete la vetusta coppia Bran-Manannan.
Tirando le somme, ricaviamo che
presso i Celti il ruolo del Pesce (la Somma Divinità) è secondario rispetto al
ruolo del Re Pescatore (la controparte umana).
Rispetto all’India prevale nel mondo celtico la contrapposizione fra il
prototipo divino dell’uomo (Manannan)
e la sua controparte esclusivamente divina (Bran),
seppur ciascuno dei due abbia assunto un aspetto evemerizzato. È probabile che in origine i due fossero una
cosa sola, come Manu e Brahmā, la cui distinzione è puramente
formale. In seguito essi si sono
separati, ad indicare uno il fine terreno e l’altro quello ultraterreno,
insomma il ‘Banchetto Celeste’ del folclore che caratterizza il
personaggio. Colla cristianizzazione
deve esser avvenuta una triplicazione del tema, col Cristo-pesce (307) fungente per cosí dire da Matsyāvatāra. E Perceval,
piú tardi Galahad, nei panni di
<Cavaliere dello Spirito Santo>.
Oppure entrambi, con doppio fine operativo terreno e celeste. La veste del Padre Divino in questo contesto
è stata assunta dalle incarnazioni di Bran
quali Uther Pendragon o Re Ban di Benoic; il compito del Padre
Umano ovvero del Progenitore, prima svolto da Manannan/ Manawyddan, è
passato al Re Pescatore.
z) Il Mahāmatsya indiano
al di fuori dell’ambito hindu
Il Mahāmatsya
non è tema esclusivo dell’induismo, esso compare anche nel buddhismo, nel
jainismo e nel sikhismo. Oltreché nel
cristianesimo. Per cominciare
analizzeremo la sua presenza in campo buddhista, ove è rintracciabile
iconologicamente quale grosso pesce emergente colla testa dalle acque e
circondato da loti, anatroccoli nonché da una figura umana difficilmente
identificabile (308). Probabilmente ha il ruolo che nel mito hindu
ha il Dāśarāja (309).
Il riferimento ovvio della scena, in cui il Bodhisattva (310) ha
assunto la forma pescina per per salvare gli altri pesci e le tartarughe, è al Matsya-jātaka (pa.Maccha-j.). Bisogna sapere
che i Jātaka (‘Nascite’), come c’insegna un grande storico austriaco della letteratura
indiana (311), costituiscono uno dei
9 lembi (aṅga)(312)
del canone buddhista o Tipiṭaka (‘Tre
Canestri’). Appartengono, piú precisamente, al Sutta-piṭaka (‘Canestro
delle prediche’); o meglio alla quinta Collezione (Nikāya)
di questo raggruppamento (313), il Khuddaka-nikāya (‘Collezione dei capitoli minori’)(314), miscellanea di ben 15 raccolte (315). Sono stati redatti in lingua pāli, probabilmente attorno al V sec. a.C. (316), per magnificare le vite
anteriori del Buddha prima di
raggiungere la Grande Illuminazione; in termini buddhisti exoterici, nelle sue
incarnazioni in veste di bodhisatta (bodhisattva)(317) durante il suo innumerevole peregrinare nel saṁsara.
Il Maccha è il 75° jātaka dell’Ekanipāta (‘I Libro’)(318).
La premessa alla narrazione è la circostanza d’una notevole siccità
capitata a Jetavana, fatto che fece
prosciugare tutti gli specchi d’acqua,
compresa la vasca del luogo. I raccolti
appassivano. Mentre i pesci e le
tartarughe, onde resistere al calore esasperante, si rifugiavano nel fango; ma
corvi e falchi presto giunsero colà, facendo strage dei poveri animali. Preso da compassione, il Maestro coi poteri
concessi ad un buddha fece piovere
sul Kosala per ristorare l’intera
natura avvizzita. Non era la prima volta
che questo accadeva, perciò il Benedetto raccontò una storia del passato. Narrò di quando nei giorni che furono era
stato Re dei Pesci.
Una volta a Jetavana, nel Regno del Kosala, c’era uno stagno ove poi era
stata posta la suddetta vasca. Lo stagno
era un groviglio di piante rampicanti.
Là dimorava il Bodhisatta,
venuto a vita come pesce in quei giorni.
Anche allora vi era stata una tremenda siccità, con appassimento dei
raccolti. L’acqua veniva meno nelle
pozze, la terra asciugava, pesci e tartarughe si seppellivano vivi nella
fanghiglia. Corvi ed altri uccelli,
affollando il luogo, beccavano qua e là e li divoravano. Accorgendosi che nessuno al suo posto avrebbe
potuto salvarli, il Bodhisattva
decise di fare una solenne Professione di Bontà al fine di ottenere con tal
efficace mezzo di far cadere della pioggia, salvando in tal modo i malcapitati
da morte sicura. Pertanto, messo a lato
il nero fango, venne fuori da esso tutto annerito. Coi suoi occhi di rubino invocò la pioggia da
parte di Pajjunna, il re degi dèi,
ricordandogli che egli nella sua vita pur essendo un pesce di grandi dimensioni
non aveva mai rubato la vita a nessun pesce, neanche minuscolo. Lo invocò come un signore si appella ad un
servo, ottenendo la pioggia desiderata e salvando parecchie creature.
Se il
Maestro aveva assunto la parte di Re dei Pesci in quei giorni, gli altri pesci
erano i discepoli del Buddha e il
discepolo favorito (Ānanda) altri non era che Pajjunna (319). Non è difficile
scorgere in questo apologo riferito ad un passato leggendario un’allusione, non
diversamente da quanto avviene nei Vangeli
Sinottici (320), alle influenze
spirituali esercitate sui discepoli da parte del Maestro attraverso il suo
intermediario. La parte del Rivelatore è
ivi svolta dal Maestro in forma di Bodhisatta,
cosí come nell’induismo dal Matsya (Brahmā), da Mīna (Śiva) o dal Matsyāvatāra (Viṣṇu-Nārāyaṇa); quella del
Trasmettitore tradizionale della Rivelazione ivi da Ānanda, nel ruolo di Pajjunna (321). Induisticamente da Manu, Mīnanātha
e Nara (322). Non bisogna
dimenticare, infatti, che il ‘Re degli Dei’ – sia questi Indra o una sua ipostasi – funge tardivamente da dio supremo. Rispetto al Bodhisatta, che detiene nel buddhismo una funzione di tipo
avatarico, manca ad Ānanda l’aspetto caritatevole e
direttamente salvifico. Il ‘discepolo
favorito’ a mo’ di dāśarāja invia le <piogge> in forma di
benedizioni, insomma d’influenze spirituali, salvando i pesci dagli uccelli; fungenti
da demoni della siccità, vale a dire da procacciatori di stati spirituali
inferiori. Però è dal comando del
Maestro che parte l’invito a farlo, per via della propria purezza, la quale lo
fa essere compassionevole nei confronti sia dei discepoli svegli (pesci) che di
quelli un po’ meno (tartarughe).
Vi sono altri riferimenti ittici
nei seguenti jātaka
dell’Ekanipāta:
31, 34, 38, 114, 139. E poi ancora nel Dukanipāta
(‘II Libro’): 205, 216, 233, 236, 239.
Analizziamoli per ordine. Nel Kulāvaka-j. (n°31) si parte da una situazione di disagio fra due discepoli, uno dei quali è provvisto
d’un setaccio onde filtrare l’acqua, l’altro no; ma quello che ne è provvisto
non glielo presta, sicché il Maestro racconta d’un antico re del Magadha.
Śakka (Śakra), cioè Indra, nacque in un paesetto di quella regione; anche il Bodhisatta era nato là, nello stesso
paesino del Regno del Magadha. Non entriamo in tal caso nel contesto della
narrazione, ci preme esclusivamente d’indicare che nella casa del Bodhisatta erano nate 4 fanciulle:
Bontà, Ponderanza, Gioia e Altanascita.
Dopo la morte, il Bodhisatta
era rinato nei panni di Śakka. A questo punto s’inserisce una strana storia,
di valore probabilmente cosmografico, non facilmente esplicabile di primo acchito.
In illo tempore gli Asura avevano invaso il Reame dei Deva, sicché il Re degli Dei – appunto Śakka – era stato costretto dopo averli ubriacati di Soma (Bevanda, ma anche Luce) a
lanciarli per i piedi lungo i picchi del Monte Sineru. Essi erano rotolati
giú fino al
Reame degli Asura, eguale in
estensione a quello dei Deva. Ivi sorgeva un albero similare all’Albero di
Corallo dei Deva, l’Albero di
Gelsomino variopinto, il quale non meno del primo durava un intero eone (6.480
anni). Ma costoro avevano tentato di
risalire verso il Sineru, a mo’ di
formiche risalenti per un pilastro, onde il Devarāja era stato
costretto a montare sul suo ‘Carro di Vittoria’ e a scendere verso le
profondità per combatterli. Sennonché,
giunto alla Foresta degli Alberi di Seta e di Cotone, era successo che lo
stridore del suo carro aveva gettato nello scompiglio la vegetazione al di
sotto del suo passaggio e con essa anche i giovani garuḷa
(garuḍa) dimoranti nei loro nidi. Nell’udire i loro strilli, Śakka non era rimasto indifferente e
aveva chiesto al suo auriga Mātali di tornare
indietro per un’altra via.
Ciononostante, gli Asura
avendo visto la scena e temendo la venuta di Śakka d’altri mondi, se ne tornarono spaventati al loro reame. Allorché il divino re se ne era andato a
godere la gloria del paradiso, le suddette fanciulle che nel frattempo erano
morte rinacquero quali serve di Śakka. Tranne Altanascita che, non avendo
beneficiato d’alcun suo atto meritorio, rinacque sotto forma di gru. A questo punto, essendo Śakka curioso di vedere se costei era
divenuta capace di rispettare i 5 Precetti (323),
si trasformò in pesce e s’offerse da cibo all’uccello; che l’afferrò per la
testa, pensandolo morto, ma all’improvviso il pesce agitò la coda. La gru, comprendendo che era vivo, lasciò la
presa. Śakka si rallegrò del gesto, accorgendosi che Altanascita aveva
raggiunto la consapevolezza dei valore dei precetti. Dopodiché Altanascita ottenne una nuova
nascita in una famiglia di vasai di Benares e poi ancora in una donna di grande
bellezza, figlia d’un re asurico.
Nella morale
finale, inutile aggiungere, il Maestro identificasi a Śakka.
L’incarnazione pescina di Indra,
crediamo assolutamente unica, fa il paio con quella di Viṣṇu quale Matsyāvatāra.
Un altro Maccha-j. (n°34) s’inserisce sulla vicenda d’un discepolo sedotto
da una moglie alla vita mondana, prima d’unirsi alla Fratellanza (B.). Questa volta il Bodhisatta è rintracciabile nel sacerdote di famiglia d’un re di
Benares.
Alcuni
pescatori in quei giorni avevano gettato le reti nel fiume. E un grande pesce avanzava giocando
amorosamente colla sua compagna. Costei,
avvertendo la presenza della rete siccome nuotava davanti al compagno, fece una
giravolta e si allontanò: Mentre
l’amoroso compagno, accecato dalla passione, finí diritto nelle maglie della
rete. Non appena i pescatori lo
sentirono dentro, strinsero la rete e lo tirarono fuor d’acqua. Non lo uccisero subito, ma lo gettarono ancor
vivo sulla sabbia. Volendo cuocerlo per
il loro pasto, preparono un fuoco ed uno spiedo per arrostirlo. Il pesce allora si lamentò: –Non è la tortura
delle braci o la tortura dello spiedo, o qualsivoglia altra pena, che
m’affligge. Solamente il pensiero
insopportabile da parte della mia compagna che io possa essere andato con
un’altra.– Proprio in quel mentre il
sacerdote venne al bagno coi suoi servi e, conoscendo la lingua degli animali,
udí il lamento del pesce per la passione amorosa rimasta insoddisfatta. Pensò che se il pesce fosse morto in quel
deplorevole stato mentale, avrebbe acquisito l’inferno e decise quindi
d’aiutarlo. Andò allora dai pescatori e
con uno stratagemma riuscí a sottrarlo ai pescatori. Sicché, seduto sulla riva dinanzi al pesce, disse: –Amico
pesce, non T’avessi visto oggi, avresti incontrato la morte. Smetti in futuro d’esser schiavo della
passione!– E con tale esortazione gettò
l’animale in acqua (324).
Naturalmente
il pesce-femmina è la donna che spingeva l’uomo alla lussuria, il pesce-maschio
il Fratello preso dalla passione in ricordo di lei ed il sacerdote che lo salva
il Bodhisatta. In questo caso e in altri che vedremo non
paiono esserci significati simbolici che vanno oltre il contesto, di natura
esclusivamente allegorica. Si può
tuttavia aggiungere che in codesta parabola i termini del confronto fra l’Uomo
ed il Pesce risultano rovesciati.
Nel Baka-j. (n°38) ritroviamo le figure della Gru e dei Pesci, seppur
in nuovi panni. In questo caso si ha una
pozza che per la calura estiva stava seccando, con dentro dei pesci (fra i
quali uno grosso ma cieco d’un occhio) ed un granchio; gli uni beffati da una
gru che propone loro di trasbordarli dalla pozza in secca ad una fresca e piena
di loti e l’altro a sua volta che si beffa della gru medesima facendosi
trasportare colà, salvo poi stecchirla colle chele dopo esser arrivato a
destinazione. Non stiamo ad approfondire
l’apologo, poiché il tutto non rientra negli interessi della nostra discussione
e pertanto lo tralasciamo. Altrettanto
non possiamo fare invece col Mitacinti-j.
(n°114), il quale prende le mosse dalla presenza a Jetavana di due vecchi fra gli Anziani. Vi era stata una stagione piovosa in una
foresta del paese, da dove costoro provenivano.
I due avevano fatto provviste per il viaggio in cerca del Maestro. Ciononostante, essi rimandavano di continuo
la partenza, fino a che un mese era volato via.
Allora provvidero ad un supplemento di provviste, ma tale procrastinare
portò loro via un secondo mese. E poi un
terzo. Trascorsi tre mesi in questo
stato d’indolenza, finalmente partirono giungendo a Jetavana. Lasciate le
proprie provviste nell’apposita sala, ove erano messe in comune con quelle
degli altri, vennero innanzi al Maestro.
L’Ordine dei Confratelli, sottolineando l’avvenuto ritardo, ne domandò ai
due la ragione; al che il Maestro cominciò a raccontare un apologo nella Sala
della Verità, a loro beneficio.
Una volta
nel fiume di Benares (il Gange, è ovvio) vivevano 3 pesci, denominati
‘Sovra-pensiero’, ‘Pensieroso’ e Senza-pensiero’. Un giorno vennero giú, per la corrente, dal selvaggio
paese dove dimoravano. Di conseguenza
Pensieroso avvisò gli altri che si trovavano in un punto pericoloso, in cui i
pescatori erano soliti gettare reti e trappole varie. Sennonché i suoi compagni erano talmente
pigri e ingordi, che evitarono di rimandare di giorno in giorno il cambio di
condotta, fino al trascorrere di tre mesi.
Sicché quando i pescatori gettarono le reti nel fiume immancabilmente
Sovra-pensiero e Senza-pensiero, nuotando in testa impavidi nella loro follia,
cercando cibo vi finirono dentro.
Pensieroso, stando dietro guardingo, si era però accorto della rete e di
quanto avevano fatto i compagni di viaggio.
Onde si propose di salvarli da morte sicura e, schivando la rete, si
mise a diguazzare presso questa, quasi che fosse riuscito a strapparla e a
uscirne illeso riprendo la corrente. Nel
vedere ciò i pescatori ritennero che il pesce aveva rotto la rete e se n’era
andato, per cui la misero da parte e i due compagni ebbero la possibilità di
fuggire in acque libere (325).
Va da sé,
naturalmente, che i pesci poco avveduti siano da paragonare ai due Anziani e
l’altro al Maestro. C’è di piú, la rete dei pescatori è quella
della Māyā – o, se vogliamo, del Re Pescatore in veste di Māyin – e la corrente è il Saṁsāra.
Il Gangeyya-j. (n°205) è stato narrato dal Maestro in occasione della
presenza a Jetavana di due giovani
Fratelli, d’ottima famiglia, che avevano da non molto abbracciato la fede
buddhista. Non rendendosi conto delle
impurità del corpo, andavano vantandosi della loro giovanile bellezza. Un giorno caddero in una disputa su chi era
piú bello fra i
due e domandarono ad un Anziano, piuttosto attempato, di esprimere un giudizio
al riguardo. Questi tagliando corto
rispose, sarcastico, d’essere piú bello d’entrambi. Lo
rimproverarono allora di rispondere a cose non richieste, senza rispondere a quelle
realmente richieste. La Fratellanza fu
informata dell’evento e ne discusse un po’.
Al che il Maestro intervenne, non lasciandosi sfuggire l’occasione per
narrare una storia simile dei tempi andati.
Una volta il
Bodhisatta era divenuto il folletto
d’un albero sulla riva del Gange. Due
pesci s’erano incontrati alla congiunzione di tal fiume colla Jumna (Yamunā). Essendosi trovati l’un l’altro belli, era
sorta una disputa su chi fosse il maggiormente bello dei due. Non lontano dal Gange, videro una tartaruga
accovacciata sulla riva. Decisero allora
di ricorrere ad essa per risolvere il dilemma.
L’anfibio riconobbe che i pesci erano entrambi belli, ma fece loro
sapere che lei era ancor piú
bella di loro. Delusi, i due la
rimproverarono di non rispondere a tono.
Ovvio che i
due pesci rispecchino i Fratelli e la tartaruga l’Anziano, col Maestro che fa
da spirito dell’albero contemplante la scena.
In apparenza verrebbe da pensare di non poter andar oltre l’allegoria,
ma non si deve dimenticare che il punto d’affluenza dei due fiumi sacri della
tradizione indiana ha ricevuto una peculiare venerazione da parte hindu (326) e che essi alludono nientemeno
che alle due correnti microcosmiche producenti l’Illuminazione (327).
Per cui i Pesci divengono in questo modo suscettibili d’una
interpretazione richiamantesi alla bipolarità cosmica, cosí come la Tartaruga può essere assunta ad
immagine della loro unità. Il Bodhisatta nel suo passivo contemplare
rappresenta, a sua volta, ciò che va oltre la sfera ontologica.
In un terzo Maccha-j. (n°216) il contenuto è offerto di fronte ad uno che
desiderava ardententemente la precedente moglie. Il Maestro gli chiese se era vero che si
sentiva malato d’amore. E avendo quegli
annuito, gli spiegò che era stata lei il suo danno. A causa di quella donna infatti, molto tempo
prima, era giunto sul punto quasi d’essere spiedato ed arrostito, ma per
fortuna sua dei saggi lo avevano salvato.
Un tempo il Bodhisatta aveva funto da cappellano del
re di Benares. Dei pescatori un giorno
tirarono fuori dalla rete un pesce che avevano catturato e lo gettarono sulla
sabbia asai calda coll’intento di cuocerlo e di mangiarlo. A tal scopo prepararono uno spiedo, mentre il
pesce cominciò a lamentarsi della sua compagna, che avrebbe male inteso il
mancato ritorno. E chiese ai pescatori,
perciò, di lasciarlo andare. Il Bodhisatta, avvicinatosi alla riva del
fiume, udendo i lamenti del poveretto ordnò ai pescatori di liberarlo.
Il Vikaṇṇaka-j.
è legato all’apostasia d’un Fratello.
Condotto nella Sala della Verità, il Maestro gli chiese se fosse
realmente un apostata e questi disse di sí,
attribuendone la causa alla qualità del desiderio. A ciò il Maestro replicò che il desiderio è
come una freccia a doppia punta che trafigge il cuore. Le due punte lo uccidono, come fecero nei
tempi che furono col coccodrillo.
Una volta il
Bodhisatta era stato re di Benares,
un buon re. Entrato un giorno nel parco
reale col suo séguito, camminava ai bordi d’un laghetto. Chi era capace di danzare e cantare cantava e
danzava. Pesci e tartarughe, lieti
d’ascoltare quel canto, si radunarono tutti assieme accompagnando fianco a
fianco il cammino del sovrano. Il re,
osservando che i pesci lo seguivano formando una scia che pareva un tronco di
palma specchiantesi nell’acqua del laghetto, ne domandò il perché ai propri
cortigiani. Costoro risposero che venivano
ad offrire servigi al loro signore. Il
re, allietato di questo onore resogli dalle creature dell’acqua, decise di
concedere loro del riso con regolarità.
Quando l’alimento fu gettato per la prima volta nel laghetto, alcuni
pesci vennero a mangiarlo, altri no ed il riso andò sprecato. Dello strano fatto fu riferito al re, il
quale dispose dunque di far battere il tamburo ogni volta che venisse offerto
del cibo. Cosí avvenne, ma mentre i pesci erano riuniti asieme sopraggiunse un
coccodrillo, che ne mangiò alcuni. Di
nuovo fu data notizia al re dell’accaduto.
E il re provvedette affinché il coccodrillo fosse arpionato e catturato
nell’atto d’ingoiare i pesci. Il coccodrillo
allora venne arpionato nell’atto d’ingoiare i pesci. L’animale, sofferente per la ferita,
s’allontanò però coll’arpione conficcato nella carne e poi morí.
Alla fine di
tale jātaka, particolarmente edificante, non
rincorrono le consuete identificazioni.
Ivi non necessitano, poiché è evidente che il Coccodrillo (Makara) rappresenti il desiderio
ingordo. Non per nulla nell’induismo è
veicolo di Kāma, alternativamente al Pesce; che è
viceversa il simbolo dell’amore vero, o se vogliamo del desiderio quale forza
vitale del cosmo intero.
In un secondo Baka-j. (n°236) la consueta situazione
negativa introducente il solito apologo teriomorfico del Maestro è determinata
dall’ipocrisia d’un Fratello, di cui la narrazione ripercorre metaforicamente
la prefigurazione ideale.
Questa volta
il Bodhisatta aveva assunto la forma
ittica in uno stagno della regione himalayana.
Un grande banco di pesci andò con lui.
Vi era, d’altra parte, una gru che voleva divorare del pesce. L’uccellò perciò venne ad accovacciarsi preso
lo stagno e stendendo le sue ali guardava assente il pesce muoversi nell’acqua,
attendendo il momento giusto per intervenire.
Proprio in quell’istante arrivò sul posto il Bodhisatta, col suo banco di pesci, in cerca di cibo. Scorte le male intenzioni dell’uccello, tosto
inzaccherarono lo stagno, costringendo la gru ad allontanarsene.
L’ipocrita
ovviamente nel racconto è la gru, il banco di pesci la Fratellanza.
Per ultimo, al fine di completare
il nostro discorso sul buddhismo, esaminiamo lo Harita-māta-j.,
composto allorché il Maestro trovavasi in un bosco di bambú non lontano da Ajāsattu (Ajāśatru). Avendo costui assassinato suo padre Bimbisāra, la regina morì di dolore. Ma il re del Kosala gli fece guerra.
Essendo alfine risultato vincitore del conflitto Ajāsattu,
questi alzò la sua bandiera marciando in trionfo verso la capitale, ma poi fu
sconfitto e tutto crollò (328). Una volta i Fratelli ne parlarono nella Sala
della Verità. Entrato il Maestro, volle
sapere di che discutevano ed, informato al riguardo, volle esporre la seguente
storia.
Una volta il
Bodhisatta divenne un rospo
verde. Al tempo la gente poneva gabbie
di vimini in ogni cavità o buca dei corsi d’acqua onde acchiappare pesci per
mezzo di esse. In ogni gabbia si
prendevano parecchi pesci. Un serpente
d’acqua, attratto dai pesci, s’infilò dentro ad una gabbia. Una gran quantità di pesci presto s’accumulò
attorno ad esso, fino a ricoprirlo di sangue, tanto da costringerlo a scivolare
fuori dalla gabbia. E pieno di pena
rimase a fior d’acqua. Nello stesso
tempo il rospo verde spiccò un salto e capitò dentro la trappola. Non sapendo a chi rivolgersi, il Serpente si
lamentò col rospo del comportamento violento dei pesci. Il rospo replicò: –Chi la fa,
l’aspetti!– Dopodiché, vedendo la
debolezza della serpe, i pesci uscirono dalla trappola e si gettarono assieme
su di essa annientandola.
Ajāsattu era come il serpente, altro non si può
dire. In generale comunque, potremmo
aggiungere, gli apporti buddhisti alla tematica presa in considerazione sono
abbastanza scarsi; ci servono però le considerazioni elaborate su Pesci e
Tartarughe quali categorie dottrinali per comprendere certi aspetti ittici del
cristianesimo, come vedremo al Cap.VIII.
Non molto di piú, almeno sul
piano semplicemente iconografico, è rintracciabile nel jainismo; la dottrina
relativa ai Jīna, i ‘Vittoriosi’,
s’intende sui sensi e le passioni umane.
Anche se la condotta non violenta (ahiṁsā) ed il rispetto
ossessionante per ogni forma di vita, piú ancora di buddhisti ed induisti, di
questi asceti e dei loro discepoli ci rimanda indirettamente al comportamento
umano in generale degli uomini dell’Età dell’Oro.
Nell’iconografia jaina troviamo alcune icone legate, in
un modo o nell’altro, al tema ivi trattato.
Due tīrthaṅkara in particolare hanno il Matsya per vāhana,
ovvero Puṣpadaṇṭa (Suvidhinātha) e Aranātha (329). I Tīrthaṅkara sono
coloro fra i jaina che sono riusciti a svincolarsi dal
Desiderio, ciò ponendoli al vertice della gerarchia spirituale. Dopo di loro vengono gli Dei che, non essendo
liberi dal Desiderio, dimorano in Paradisi di godimento. Ed infine gli yakṣa e le yakṣiṇī,
desunti dalle deità dell’induismo ridotte a ranghi minori e fungenti da
attendenti dei Tīrthaṅkara; questi
ultimi non compaiono nei testi tradizionali della setta, essendo stati
incorporati nel pantheon soltanto a partire dal Periodo Gupta. Suvidhinātha
è bianco, ha come albero – cui regolarmente le figure della serie si
accompagnano – il Nāga od il Malla e per emblema il Delfino od il
Granchio; come attendenti Ajita su
Tartaruga e Sutāri, o Mahākālī, su Toro (330).
Mentre Aranātha è aureo, ha come albero il
Mango, per emblema il Pesce; come yakṣa
Mahendra colla Conchiglia od il
Pavone e come yakṣiṇī Vijayadevī con il Loto o l’Oca (331).
Neminātha, il XXII Tīrthaṅkara
è nero e ha come emblema la Conchiglia; oltre ad avere per albero il Vakula, possiede come attendenti Gomedha o Sarvahana su Cavallo o Uomo e Ambikā o Kūṣmāṇḍinī su Leone (332).
Anche il Patala Yakṣa (333), questa volta rappresentato a sé
stante, ha per veicolo il Delfino od il Makara;
è rosso, possiede 6 braccia, è tricipite e con ogni testa sorregge un cobra. Inoltre è uno spirito presiedente ai Nāga e tiene in mano varie armi (Loto, Spada, Laccio,
Mangusta, Rosario e Frutto) per la sottosetta dei ‘Biancovestiti’, ma altre per
la sottosetta asceticamente piú rigida (i ‘Vestiti-di cielo’, cioè nudi). Il Kinnara
Yakṣa (334) è egualmente rosso,
ha egual numero di braccia, posiede armi varie a seconda della sottosetta; nel
caso degli Śvetāmbara ha per
veicolo la Tartaruga, il Pesce nel caso dei Digambara
(335). Fra le yakṣiṇī ve ne è una che
viene veicolata dal Pesce o dal Cavallo da parte śvetāmbara, ma dalla Tigre da parte digambara; essa è chiamata
rispettivamente Kandarpa o Manasi, ha 4 o 6 braccia e varie armi,
che come al solito dipendono dal tipo di asceti che la venerano (336).
Vi è infine un dikpāla ad aver il
Delfino od il Pesce per vāhana, è Varuṇa, domina l’Ovest e ha il Laccio per
attributo (337). In ultimo, sarà bene segnalare che pure i
Sikh conoscono il loro Mahāmatsya. In un’immagine di Patiala (capoluogo del
distretto omonimo, in Pañjāb), appartenente
alla coll.priv. del prof. P.Singh, si sgorgono Gurū Nānak Dev – il
fondatore della religione sikh – e due suoi compagni di vita conversare col
Gran Pesce nel ventre dell’Oceano, circondati da numerosi pesci piccoli (338).
La qual cosa ci fa rammentare il simbolismo induista e buddhista
omologo, nonché quello cristiano, come vedremo al Cap.VIII.
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